“Risposte o abbandono delle trattative” ecco la sfida di Emma Marcegaglia

“Siamo chiamati a cambiare passo e ad esprimere uno sforzo comune in grado di far sì che l’Italia continui ad essere uno tra i primi Paesi manifatturieri del mondo, salvare l’Italia non è uno slogan retorico”.

Questo in sintesi il contenuto del Manifesto che le imprese presenteranno al governo sottolineando le priorità: spesa pubblica e pensioni con riforma fiscale su tutte.

” Non intendiamo minimamente sostituirci ai compiti che spettano al Governo, avvertiamo però l’esigenza di non limitarci alle critiche, ma di indicare all’attenzione di tutti. Chiediamo quindi di agire senza indugi. Oggi il tempo si è fatto brevissimo. Tutte le imprese sono pronte a fare la loro parte. E’ in gioco più della credibilità del Governo e della politica. Sono a rischio anni e anni di sacrifici. E’ a rischio la possibilità di garantire ai nostri figli un Paese con diritti, benessere e possibilità pari a quelli che abbiamo avuto fino ad oggi”. E’ quanto si legge nel “Manifesto” presentato dalle imprese.

Emma Marcegaglia avverte: “la Giunta di Confindustria mi ha dato il mandato di portare avanti proposte forti e coraggiose. Se non andranno avanti ho anche il mandato di valutare se restare ai tavoli con il governo”.

Il manifesto delle imprese con le proposte al governo nasce “con uno spirito serio, severo nei contenuti, preoccupato, ma costruttivo”, dice il presidente dell’Abi Giuseppe Mussari. La leader degli industriali Emma Marcegaglia aggiunge: “non c’é più tempo, quello che ci interessa è che il governo abbia la forza di varare queste riforme”.

Marco Poggi

Calderone: i consulenti del lavoro garanti del bene pubblico

La Presidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro e del Cup, Marina Calderone, si lancia all’attacco delle proposte di ‘salvataggio’ dell’Italia di Confindustria, a conclusione i lavori dell’assemblea dei consigli provinciali di categoria.

La Calderone muove anche critiche precise alle manovre introdotte dalla nuova finanziaria: ‘eravamo e siamo certamente contro uno stile di manovra che prevedeva la liberalizzazione totale degli ordini. Siamo convinti che non sia questa la strada, che è bensì quella di potenziare ulteriormente, attraverso un sistema di regole trasparenti, un comparto che dà lavoro a 2 milioni e 100mila professionisti di cui la metà è sotto i 45 anni e che produce oltre il 15% del Pil‘.

La presidente del Cup sostiene infatti che i Consulenti del Lavoro, al contrario di altri, non perseguono interessi economici propri ma sono garanti del bene pubblico. La semplificazione dovrebbe quindi tendere al risparmio nella gestione della spesa pubblica: ‘il nostro compito è anche quello di suggerire al legislatore delle norme che possano essere rispondenti agli interessi della collettività e non solo esclusivamente al bene di alcune parti del paese‘.

L’impegno della Presidente e degli organi da lei presieduti andranno quindi nella direzione ‘di adottare le norme della manovra con sensibilità, e metterci ancor di più al servizio dei cittadini italiani, di chi ha bisogno del nostro apporto professionale qualificato. I 27 ordini professionali presidiano tutte le branche del sapere. I consulenti del lavoro si occupano di tematiche lavoristiche e le altre professioni, ognuna nella propria specificità, hanno una funzione importante e preminente: quella di presidiare la fede pubblica e di garantire e tutelare la collettività’.

E per quanto riguarda la riforma delle professioni la Calderone ha sottolineato la necessità di un cambiamento profondo: ‘recepire i principi contenuti nella manovra sarà anche una dimostrazione della nostra volontà di portare avanti una riforma delle professioni che già ci aveva visti impegnati nella predisposizione di un progetto che abbiamo definito e presentato unitariamente l’anno scorso al ministro Alfano‘.

E’ una grande sfida, importante – ha sottolineato in chiusura – perché si tratta di temi che vanno a toccare i punti nevralgici del sistema. Parleremo di polizze di responsabilità civile, di tariffe, di praticantato, di potestà disciplinare all’interno dei giudizi promossi dagli iscritti agli ordini, di pubblicità. Tutti temi che vanno sulla strada della modernizzazione del nostro comparto‘.

A.C.

Bloccati 33 miliardi di euro di pagamenti dai Comuni

I Comuni bloccano 33 miliardi di euro di pagamenti, e “La causa di questo mancato pagamento  va ricercata nelle disposizioni previste dal Patto di stabilità interno, che per ragioni di contenimento della spesa pubblica, non consentono il pagamento di lavori o di forniture ricevute. Il paradosso è che in questa condizione di insolvenza si trovano molte realtà comunali che, pur avendo i soldi, non possono saldare le spettanze, altrimenti non rispetterebbero più i vincoli previsti dal Patto. Un danno economico non di poco conto, che penalizza soprattutto le piccole imprese e le aziende artigiane che devono attendere tempi biblici per ricevere le loro spettanze”, commenta il segretario della CGIA di Mestre, Giuseppe Bortolussi.

Il Comune di Roma presenta la quota di spesa non onorata più alta di tutti: l’importo, al 31 dicembre 2009 (ultimo dato disponibile), è pari a 6,26 mld di euro. Seguono Milano, con 3,85 mld di euro e Napoli, con 3,39 mld di euro. Rispetto alla fine del 2008, l’incremento percentuale medio nazionale dei residui passivi è stato del + 5,4%.

In termini pro capite,  il Comune meno virtuoso è quello di Avellino, con un ammontare complessivo di pagamenti non effettuati pari a 3.754 €.

Segue Carbonia con 3.622 €, Salerno con 3.608 € e, al quarto posto Napoli con 3.529 €.

In una fase di grave crisi economica mettere in pagamento oltre 33 miliardi di euro sarebbe una boccata di ossigeno non indifferente per migliaia e migliaia di piccole imprese. Se in questa elaborazione abbiamo analizzato solo la situazione dei Comuni capoluogo di Provincia, in capo ai Comuni non capoluogo stimiamo vi siano altri 7 mld di pagamenti non erogati. Infine, non dimentichiamo che ci sono altri 35/40 mld di euro di crediti che le imprese avanzano dalle Regioni in materia di sanità, per questo è urgente che il Governo intervenga subito per il bene delle piccole imprese e dei loro occupati”. conclude il segretario.

Marco Poggi

Vade retro, patrimoniale! Ecco perché è una proposta che non ha capo né coda

di Gianni GAMBAROTTA

Non è piaciuta questa storia della patrimoniale praticamente a nessuno. L’idea, come si sa, è stata lanciata una prima volta da Giuliano Amato, lo stesso che quando era al governo fece il prelievo blitz sui conti correnti di tutti gli italiani; poi, la settimana scorsa, è stata ripresa da Walter Veltroni che ne farà (si immagina) uno dei punti di forza della sua prossima campagna elettorale; infine, nei giorni scorsi, ne ha parlato in un’intervista al Corriere della Sera, Pellegrino Capaldo.

La sua proposta è articolata, studiata, approfondita: non per niente il professor Capaldo è una delle più (giustamente) stimate menti giuridiche italiane. Lui parla di tassare gli immobili, visto che circa l’80 per cento degli italiani abita in casa di proprietà. Questi beni, questi mattoni – è il punto di vista di Capaldo – hanno avuto nel corso degli anni una rivalutazione impressionante; talvolta il loro valore è decuplicato. Andiamo allora a colpire questa ricchezza, per certi versi immeritata, caduta dal cielo, così lo stato potrà incassare una cifra vicina agli 800-900 miliardi di euro. Il debito pubblico, ora al 120 per cento del pil, scenderà a quota 80 per cento, permettendo così di reimpostare una politica economica espansiva.

Sono molte le obiezioni che si possono muovere (e sono state mosse) a questo progetto. A parte quelle già dette nella rubrica della settimana scorsa, ce ne sono due che mi pare interessante riprendere e sottolineare. Anzitutto l’impianto che ha in mente Capaldo appare molto complesso per la macchina burocratica italiana. Abbiamo un catasto che non è un modello internazionale di efficienza e veridicità; i valori degli immobili sono spesso casuali, irrealistici. Questa imposta straordinaria rischia di colpire alla cieca, tassando chi già paga e risparmiando (o colpendo marginalmente) furbi e/o fortunati. Non possono essere questi i criteri cui si ricorre per una misura che dovrebbe reimpostare la vita economica di una nazione.

L’altra osservazione è contenuta in un commento di Francesco Giavazzi, editorialista del Corriere della Sera, interpellato sull’argomento dal Foglio di venerdì scorso. Una patrimoniale – non importa se mirata a colpire la ricchezza immobiliare o quella finanziaria – avrebbe comunque un effetto recessivo. “Se la famiglie hanno un certo target di ricchezza e si toglie una parte di questa ricchezza, che cosa faranno? – si chiede GiavazziRicominceranno a risparmiare per raggiungere di nuovo quell’obiettivo di ricchezza che si erano poste. E non bisogna essere keynesiani per sapere che un aumento del tasso di risparmio, determinando un’ulteriore caduta dei consumi, spingerebbe l’economia a scendere a picco“. Risultato: il rapporto debito pubblico rispetto al pil non cambierebbe perché diminuirebbe sì il numeratore (debito) ma anche il denominatore (pil). Dunque tutta l’operazione si rivelerebbe inutile.

Eh no, Veltroni, non ci siamo: la tua patrimoniale è un’idea insana

di Gianni GAMBAROTTA

Non so chi sia, secondo le ultime statistiche del mensile americano Forbes sui Paperoni del mondo, l’uomo più ricco d’Italia. Forse è ancora Leonardo Del Vecchio, padrone di Luxottica, o uno dei fratelli Benetton, o l’immancabile Silvio Bersluconi, o qualcun altro, una new entry finora sconosciuta al grande pubblico.

Non importa. Chiunque sia, desidero affermare un concetto che ritengo fondamentale nella situazione politica italiana di oggi: sono contrario a qualsiasi proposta, da qualunque parte venga, che punti ad aumentare anche solo di un euro all’anno le tasse sul primo nababbo nazionale. E a scendere su tutti gli altri, compresi i detentori di risparmi per poche decine di migliaia di euro.

Dico questo dopo aver letto le cronache dell’intervento di Walter Veltroni al convegno del Lingotto nel weekend scorso. Il leader di Modem, l’unica minoranza organizzata all’interno del Pd, ha detto che fra le tante cose che farebbe se un giorno dovesse andare al governo, ce n’è una che gli sta particolarmente a cuore: una patrimoniale, sul tipo dell’eurotassa varata dal governo di Romano Prodi nel 1997, che colpisca i grandi patrimoni. “Il debito pubblico italiano – ha detto – ha raggiunto livelli insostenibili. Bisogna per tre anni tassare chi ha di più per portare quel debito a grandezze ragionevoli, attorno all’80 per cento del prodotto interno lordo contro l’attuale 120 per cento“.

Un’idea insana. Oggi una cifra vicina al 50 per cento di tutta la ricchezza prodotta dal Paese va allo Stato e al parastato sotto forma di tasse dirette e indirette e prelievi di vario tipo. Questo succede perché da decenni politici come Veltroni hanno chiesto e spinto sull’aumento delle spese pubbliche per conquistare consensi elettorali. L’Italia si basa su un gigantesco voto di scambio, che è una delle ragioni della sua arretratezza e dell’esplosione del debito pubblico.

Che questo (del debito) sia uno dei più gravi problemi italiani è fuori discussione. Ma lo si deve aggredire tagliando senza andare per il sottile la spesa pubblica, togliendo favori, elargizioni, prebende alle clientele elettorali che invece ogni politico culla amorevolmente. Aumentare le tasse, anche solo introducendo un’imposta straordinaria sulla ricchezza, non farebbe altro che fornire altro ossigeno finanziario ai partiti che lo userebbero come hanno sempre fatto, dilatando la spesa per catturare consensi al momento delle urne.

La stessa eurotassa citata da Veltroni lo prova: è servita sì a darci un salvacondotto momentaneo per entrare nell’euro, ma non ha prodotto alcun effetto sullo stock del debito che ha continuato, imperturbato, a crescere. E’ dal lato della spesa che deve essere affrontata la questione. Anche della spesa che riguarda la politica e il suo costo. Perché Veltroni non mette nel suo programma la netta riduzione degli emolumenti dei nostri parlamentari e ministri che guadagnano più dei loro colleghi tedeschi? Perché deve essere normale che una consigliera della Regione Lombardia, Nicole Minetti, divenuta famosa per le sue capacità di organizzatrice di festini con prostitute, riceva dalla Regione stessa uno stipendio da oltre 10mila euro al mese?

Spesa pubblica: i paesi federali sono più efficienti di quelli centralisti

E’ quanto risulta dalla ricerca condotta dal CGA di Mestre dopo aver messo a confronto l’efficienza delle prestazioni offerte dalle pubbliche amministrazioni con il livello della spesa pubblica di 10 Paesi europei (cinque federali e cinque non federali) e conseguentemente all’esame del recentissimo studio del World Economic Forum (WEF).

Il CGA di Mestre ha appurato che la comparazione di prima analisi non lascia alcun dubbio: i paesi dove è più accentuato il decentramento fiscale hanno un rapporto più basso.

Ma c’è anche una seconda analisi che riguarda i risultati della classifica stilata dal WEF (un organismo che è internazionale), il quale ha analizzato su base mondiale le qualità delle prestazioni offerte dalle istituzioni pubbliche.

La soluzione del compendio non è del tutto incoraggiante per il nostro Paese, che ha assegnato all’Italia la maglia nera per livelli di efficienza e qualità della pubblica amministrazione.

Il nostro Paese è fanalino di coda in Europa per il livello di efficienza offerto dalla Pubblica amministrazione e per la qualità del rapporto tra prestazioni erogate e spesa pubblica sostenuta. Nel mondo siamo addirittura al 97° posto.” –

ha denunciato Giuseppe Bortolussi, segretario della CGIA di Mestre che ha aggiunto:

“Nei paesi federali europei, rispetto a quelli centralisti, il livello della qualità e dell’efficienza sia della spesa pubblica sia dei servizi offerti ai cittadini è decisamente migliore”.

I paesi federali, infatti, presentano un rapporto pari all’8,3; quelli centralisti del 10,5.

In aggiunta, i paesi federali registrano una spesa pubblica più contenuta: 43,9% sul Pil rispetto al 48,3% sul Pil riferito ai paesi centralisti.

Infine, il livello delle prestazioni offerte dalle istituzioni federali è decisamente migliore: 5,3 contro il 4,6 di quelli non federali.

In entrambe le graduatorie, sia in quella delle prestazioni offerte dalle istituzioni pubbliche sia in quella riferita al rapporto tra efficienza e spesa pubblica sostenuta, l’Italia è fanalino di coda mentre in testa, neanche a dirlo, Svizzera, Germania e Paesi Bassi.

Al comando dell’ Indice di competitività globale 2009-2010 – Qualità delle prestazioni delle Istituzioni pubbliche, Singapore è in testa con 6.15 di valore su una scala da 1 a 7, seguita sul podio dalla Svezia (a 6.10 di punteggio) e Danimarca (6.08). L’Italia, al 97mo posto, si trova con 3.44 di punteggio tra Turchia (3.49) e Messico (3.40).

“Il risultato di questa classifica elaborata dal WEF – sottolinea Giuseppe Bortolussi – è stato ottenuto mettendo a confronto una serie di sottoindicatori tra cui il livello di spreco della spesa pubblica, il peso della burocrazia, il grado di trasparenza delle decisioni politico-istituzionali, il livello di indipendenza del potere giudiziario, il grado di fiducia nella classe dirigente, etc. etc. Ebbene, il nostro Paese si piazza al 97° posto. Tra i paesi economicamente più avanzati del mondo solo la Federazione Russa sta peggio di noi.”

E poi, “A fronte di questi risultati – conclude Bortolussi – non ci resta che accelerare sul fronte della riforma federalista. Probabilmente è l’unica strada che ci può consentire di invertire la tendenza in atto”.

Fonte: World Economic Forum (The Global Competitiveness Report, 2009)

Paola Perfetti

Libertà d’impresa, l’Italia è ultima in Europa.

“L’Italia e’ il paese meno libero d’Europa, dal punto di vista economico”. Questo è quanto emerge da una ricerca condotta dall’Istituto Bruno Leoni per conto del Centro studi Confindustria. Il documento fa parte di un’analisi più ampia che sarà presentata al Forum di Parma “Libertà e benessere: l’Italia al futuro”, convegno biennale del CSC che si terrà venerdì e sabato. “Le nostre imprese – si legge nello studio – in una scala da zero a cento godono di una libertà pari a 35, ben sotto la media europea (57) e a distanza siderale dal paese più libero, l’Irlanda (74)”. Le motivazioni vanno dai vincoli legati alla pressione fiscale fino alla spesa pubblica. “In particolare, – continua lo studio – il 35 di libertà d’intrapresa rispecchia una pessima performance complessiva: nella libertà dal fisco l’Italia si posiziona all’ultimo posto con 31; nella libertà dallo Stato raggiunge 42 e solo quattro paesi fanno peggio (Francia, Grecia, Ungheria e Portogallo); nella libertà d’impresa (37), il Paese è penultimo, prima della Grecia; nella libertà dalla regolazione è ultimo sfiorando 18”.