Debiti PA, il ballo dei numeri

La questione dei debiti PA nei confronti delle imprese è ben lungi dall’essere risolta, anche se qualche timido miglioramento comincia a intravedersi. Stando all’ultimo aggiornamento del ministero dell’Economia al 20 luglio, dalle amministrazioni pubbliche alle imprese sono arrivati finora 38,685 miliardi di euro sui 56,3 miliardi complessivamente stanziati a questo scopo, anche se la quota di risorse messa a disposizione degli enti debitori per saldare i debiti PA è di 44,675 miliardi.

Si tratta comunque solo di un inizio, ma se vogliamo guardare il bicchiere mezzo pieno per quanto riguarda i debiti PA, consoliamoci con il fatto che, secondo i dati comunicati dal Mef, le imprese sono rientrate di quasi 10 miliardi di euro (9,594 per la precisione).

Il bicchiere è invece mezzo vuoto se si confronta il totale dei pagamenti finora effettuati da province e comuni con i 16,1 miliardi stanziati a loro favore per saldare i debiti PA: in questo caso si nota come rimangano ancora 6,5 miliardi da utilizzare, di cui circa 2,2 disponibili agli enti stessi.

In termini percentuali, comuni e province hanno utilizzato circa l’81% delle risorse a loro disposizione per saldare i debiti PA e dovrebbero avere disponibili altri 4,312 miliardi. L’Ance però (l’associazione dei costruttori edili, quelli maggiormente esposti nei confronti della PA) ha fatto dei conti diversi. Il suo centro studi ha infatti sempre indicato in 19 miliardi la quota totale di mancati pagamenti alle imprese per appalti su lavori svolti: in questo caso resterebbe ancora da liquidare più o meno la stessa cifra di quella finora girata alle imprese.

Italiani tartassati, i conti della Cgia

Mentre dal governo, nella persona del premier Matteo Renzi, arrivano annunci di tagli e abolizioni di tasse e imposte a partire dal 2016, c’è qualcuno che i conti su quante tasse pagano gli italiani li ha fatti in maniera seria, la Cgia. E, come spesso accade quanto la confederazione degli artigiani snocciola le sue cifre, le notizie non sono delle più rassicuranti.

Secondo la Cgia, infatti, gli italiani pagano in media ogni anno oltre 900 euro in più rispetto agli altri europei, 904 per la precisione. Siamo tra i più tartassati. L’Ufficio studi della Cgia ha confrontato la pressione fiscale dei principali Paesi Ue registrata nel 2014 e ha poi definito il differenziale di tassazione degli italiani rispetto ai contribuenti degli altri Paesi.

I dati elaborati dall’Ufficio studi della Cgia dicono che tra i principali Paesi dell’Unione presi in esame, la pressione fiscale più elevata è quella della Francia, dove il peso complessivo di imposte, tasse, tributi e contributi assomma al 47,8% del Pil. Dopo i cugini vengono i belgi con il 47,1%, gli svedesi (44,5%), gli austriaci (43,7%) e poi noi. Lo scorso anno la pressione fiscale in Italia è arrivata al 43,4% del Pil, quasi 3,5 punti in più rispetto alla media della Ue a 28 Paesi, dove era al 40%.

Nella propria comparazione, l’Ufficio studi della Cgia ha calcolato anche i maggiori o minori versamenti che ogni italiano sconta rispetto agli altri europei. Proprio da questo ha dedotto che, se la tassazione in Italia fosse nella media europea, ogni contribuente nel 2014 avrebbe risparmiato in media i 904 euro di cui sopra. Si tratta appunto di una media: in Italia, infatti, paghiamo mediamente 1.037 euro in più rispetto ai tedeschi, 1.409 euro rispetto agli olandesi, 1.701 euro in più rispetto ai portoghesi, 2.313 euro in più degli inglesi, 2.499 euro in più rispetto agli spagnoli e 3.323 euro in più rispetto agli irlandesi.

Un calcolo sulla pressione fiscale, quello elaborato dalla Cgia, che non tiene conto dell’effetto portato del cosiddetto “Bonus Renzi”. Se nel 2014 gli 80 euro destinati ai redditi medio-bassi dei lavoratori dipendenti sono costati alle casse dello Stato 6,6 miliardi, l’importo è stato contabilizzato come spesa aggiuntiva. Ragion per cui, se si ricalcola la pressione fiscale considerando anche questi 6,6 miliardi, la pressione fiscale cala al 43%. Un dato ancora del tutto “fuori mercato”.

Per i contribuenti 16 miliardi di nuove tasse

È un periodo questo in cui, per il governo, non tira una buona aria. Da una parte, la grana del rimborso della rivalutazione delle pensioni, con quei 500 euro a pensionato che hanno suscitato più polemiche che soddisfazione e che costeranno allo Stato oltre 2 miliardi. Dall’altra il rischio di bocciatura da parte dell’Ue dei nuovi regimi di fatturazione come lo split payment e l’estensione del reverse charge alla grande distribuzione e una spada di Damocle sulla testa dei contribuenti.

Due misure che, per le casse dell’Erario significano maggiori spese o comunque meno entrate e che, automaticamente, per i cittadini contribuenti significano nuove tasse. Secondo una stima elaborata dalla Cgia, infatti, il governo dovrà reperire almeno 16 miliardi di euro per evitare che dal 2016 scatti la clausola di salvaguardia che farà innalzerà le aliquote Iva riducendo le agevolazioni per i contribuenti. Senza dimenticare che nel 2017 la clausola di salvaguardia sarà di circa 25,5 miliardi, che diventeranno 28,2 nel 2018.

Qualora non riuscissimo a sterilizzare queste clausole di salvaguardia, dall’1 gennaio 2016 l’aliquota Iva del 10% aumenterebbe al 12% e dall’1 gennaio 2017 al 13%. L’aliquota ordinaria si alzerebbe di 2 punti (24%) dal 2016, dall’1 gennaio 2017 di un altro punto e dall’1 gennaio 2018 di un altro mezzo punto, arrivando così al 25,5%.

Non sarebbe la prima volta che i contribuenti italiani si trovano a fronteggiare una situazione simile. Nell’ottobre 2013, la mancata “sterilizzazione” delle clausole di salvaguardia fece salire l’aliquota ordinaria dell’Iva dal 21 al 22%, con un aumento del carico fiscale per i contribuenti di 4 miliardi di euro.

Lo ha detto a chiare lettere il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi: “Il Governo ipotizza una ripresa economica superiore a quella prevista nel Def con un conseguente incremento delle entrate fiscali, una contrazione dei tassi di interesse che dovrebbe ridurre il costo del debito pubblico e un rilevante apporto di gettito dal rientro dei capitali illecitamente esportati all’estero. Tuttavia, se queste ipotesi non si dovessero verificare, vi sarebbero effetti negativi su famiglie e imprese”.

Con l’Ue – ha proseguito Bortolussi – abbiamo preso degli impegni per rispettare i vincoli di bilancio che non sarà facile onorare senza mettere mano nelle tasche dei contribuenti. Il meccanismo che giustifica l’impiego delle clausole di salvaguardia è a dir poco diabolico. Se il governo non sarà grado di chiudere gli enti inutili, di risparmiare sugli acquisti, di tagliare gli sprechi e gli sperperi che si annidano nella nostra Pubblica amministrazione, a pagare il conto ci penseranno i contribuenti italiani che già oggi subiscono un carico fiscale tra i più elevati d’Europa”.

Split payment, una circolare per fare chiarezza

Ennesima puntata nella telenovela dello split payment. Adesso una circolare dell’Agenzia delle Entrate prova a chiarire quali sono le operazioni realmente soggette alla normativa e quali invece no.

Nello specifico, tocca alla circolare 1/E/2015 sullo split payment chiarire che il meccanismo di scissione dei pagamenti Iva è relativo solo alle operazioni documentate, con fattura emessa dai fornitori. Una limitazione che esclude dal meccanismo dello split payment le operazioni che il fornitore certifica semplicemente rilasciando ricevuta fiscale o scontrino.

Escluse dallo split payment anche le operazioni che avvengono tramite il rilascio di scontrini non fiscali, qualora siano riferiti a soggetti che si utilizzano la trasmissione telematica dei corrispettivi o altre modalità di certificazione.

La buona notizia è che, per una volta, l’Agenzia delle Entrate si è accorta di non brillare per eccessiva chiarezza e quindi non irrogherà sanzioni per le violazioni alle modalità di versamento Iva tramite split payment che siano state commesse prima dell’emanazione della circolare. Almeno quello.

Split payment, ennesima fregatura

Si chiama split payment ed è il meccanismo, introdotto con la legge di stabilità, secondo il quale la Pubblica Amministrazione dall’1 gennaio pagherà al cedente o al prestatore il corrispettivo della fattura al netto dell’IVA. In sostanza, i fornitori della Pa che dall’1 gennaio avranno emesso regolare fattura con addebito di Iva, in base allo split payment incasseranno solo l’imponibile. Lo split payment si applicherà non solo alle fatture emesse dal 1 gennaio 2015 ma anche alle fatture che risultano sospese al 31 dicembre 2014.

Sarà la Pubblica Amministrazione a versare l’Iva all’Erario anziché al fornitore, il quale si troverà sempre a credito di Iva: a fronte dell’Iva non incassata addebitata sulle proprie fatture emesse, il fornitore dovrà regolarmente pagare l’Iva ai propri fornitori. A parziale compensazione, il meccanismo dello split payment consente al fornitore della pubblica amministrazione di chiedere il rimborso Iva trimestrale.

Se, da una parte, la Pa indica nello split payment uno strumento di lotta all’evasione fiscale, dall’altra parte i piccoli fornitori (la maggior parte) che sono a loro volta vessati dalle tasse, oltre che dai tempi biblici di pagamento della Pa, avranno da questa norma solo un ulteriore aggravio di difficoltà.

Sono però esentati dallo split payment i fornitori che sulle proprie prestazioni sono soggetti a ritenuta alla fonte (esempio tipico, i professionisti) e i fornitori che sulle proprie forniture applicano il reverse charge, (esempio tipico, le imprese di pulizia).

Padoan: il governo ha alleggerito la pressione fiscale

Il ministro dell’Economia Padoan ha fatto quella che i latini chiamavano “excusatio non petita”, ossia una giustificazione non richiesta che era anche una “accusatio manifesta”, ossia un’evidente accusa. Dopo aver letto su Panorama le interviste del presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, e dell’imprenditore Fabrizio Castoldi, il quale lamentava il peso eccessivo di tasse sulla sua azienda, il ministro Padoan ha scritto al settimanale per dire che, invece, il governo ha alleggerito la pressione fiscale.

In Italia le imprese che pagano tutte le tasse ne pagano troppe – si legge nella lettera di Padoan -. La pressione fiscale sui contribuenti che si comportano lealmente con il fisco (e quindi con la comunità nazionale) è troppo alta e compromette tanto la competitività quanto la motivazione a continuare a fare impresa, creare ricchezza e occupazione“.

E, sull’Irap una delle imposte “più avversate dalle imprese”, Padoan rincara la dose dicendo che è “invisa anche ai lavoratori perché rischia di penalizzare l’occupazione. Ebbene, il governo ha cancellato (non rivisto, rimodulato, ridotto: ha cancellato) la componente dell’Irap calcolata sul costo del lavoro a tempo indeterminato a decorrere dall’1 gennaio 2015. Si tratta di un beneficio importante soprattutto per le imprese, come mi sembra che sia il caso illustrato da Castoldi, che impiegano una manodopera consistente. Secondo le stime dei nostri uffici questa misura, chiesta da tempo dal mondo imprenditoriale, consentirà un alleggerimento complessivo dell’Irap di ben il 30 per cento“.

È proprio vero che ognuno vede le cose dalla prospettiva che più gli conviene…

Pressione fiscale di record in record

Noi italiani non siamo mai contenti. Abbiamo il record mondiale della pressione fiscale e, nei prossimi anni, siamo destinati a superarlo. Lo dice l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, secondo le cui previsioni la pressione fiscale salirà dal 43,3% attuale, confermato anche per il 2014, al 43,6% previsto sia nel 2016 sia nel 2017.

Una rilevazione che ha dato modo alla Cgia di ricordare come per il 2016 il Governo Renzi dovrà operare una razionalizzazione della spesa per 16,8 miliardi di euro, che salirà a 26,2 nel 2017 per toccare i 28,9 miliardi nel 2018. Se questi risultati non saranno raggiunti, è previsto un nuovo ritocco al rialzo dell’aliquota Iva del 2% a partire dal 1° gennaio del 2016, aumento che varrà sia per quella attualmente al 10%, sia per quella al 22%, con ulteriore aggravio della pressione fiscale.

Dal 1° gennaio 2017 la pressione fiscale si impennerà ancora perché entrambe le aliquote subiranno un altro ritocco dell’1%, mentre dal 1° gennaio 2018 aumenterà di un altro 0,5% solo l’aliquota più elevata. Alla fine del triennio 2016-2018, l’aliquota inferiore potrebbe arrivare al 13 per cento, mentre l’altra al 25,5 per cento.

Di bene in meglio, se non saranno raggiunti gli obiettivi di riduzione della spesa, dal 1° gennaio 2018 scatterà un ulteriore aumento dell’accisa sui carburanti, in modo da assicurare per quell’anno maggiori entrate nette per almeno 700 milioni.

Secco il commento del segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi sull’aumento della pressione fiscale: “Un incremento riconducibile al progressivo aumento delle aliquote Iva che avrà inizio a partire dal 2016. Tuttavia, questo aumento di tassazione potrebbe essere evitato se il Governo riuscirà a tagliare la spesa pubblica di quasi 29 miliardi di euro. Il nostro Esecutivo si è impegnato a rispettare i vincoli richiesti da Bruxelles attraverso il taglio della spesa pubblica. Diversamente, scatteranno automaticamente gli aumenti di imposta che garantiranno comunque i saldi di bilancio. In altre parole, se il Governo non riuscirà a tagliare gli sprechi e gli sperperi, a pagare il conto saranno ancora una volta gli italiani che subiranno l’aumento dell’Iva e delle accise sui carburanti”.

Incertezza fiscale, una tassa occulta

Le imprese italiane sono preda delle tasse ma, soprattutto, della incertezza fiscale. Anche questa una vera tassa occulta il cui peso e costo sono stati quantificati dall’Ordine dei Dottori commercialisti e degli esperti contabili di Milano, che hanno realizzato una ricerca ad hoc per capire quanto incide in negativo sull’andamento delle aziende il peso della incertezza fiscale.

Il conto è presto fatto: servono almeno 137 ore di lavoro in media all’anno, pari a circa 17 giorni, per chiudere gli adempimenti tributari di carattere ordinario. Entrando nel dettaglio dell’incertezza fiscale, secondo i commercialisti milanesi servono oltre 37 ore per l’Iva, più di 46 per Ires/Irap e oltre 56 per Iuc/Tasi/Imu.

La ricerca dei commercialisti milanesi è stata presentata nei giorni scorsi all’Università Bocconi e, durante la presentazione, è stata messa in luce in maniera impietosa tutta la serie di carte, controlli e burocrazia messi in moto dal sistema fiscale che, per un’azienda, rendono l’idea della incertezza fiscale un incubo. Secondo il prof. Massimo Cremona, che ha curato la ricerca, “per lo spesometro, per esempio, servono oltre 27 ore e si ritiene che il risultato ottenuto, anche in termini di benefici per l’Agenzia delle Entrate, sia probabilmente sproporzionato rispetto ai costi sopportati dal contribuente e dalla stessa Agenzia per la fase di controllo dell’adempimento medesimo”.

Appare quindi chiaro come il rapporto tra imprese e fisco sia gravato dal fattore incertezza fiscale, generato soprattutto dalle continue variazioni della normativa, dalla nebulosità della norma e dalla aleatorietà delle decisioni giurisprudenziali. Tutto questo non fa altro che creare costi aggiuntivi: secondo la ricerca, infatti, il 20% delle società interessate dall’indagine è stata contattata dall’Agenzia delle entrate per richiedere verifiche, ispezioni o documentali e, di queste, oltre il 50% è incorsa in rilievi causati proprio dalla incertezza fiscale.

Non resta che provare a riderci su… amaramente.

Pagare tasse è un lavoro

Pagare tasse è un lavoro. Sembra un paradosso, ma se guardiamo al tempo che, mediamente, un italiano butta via per pagare tasse al fisco, scopriamo che è davvero così. I conti in tal senso li ha fatti ancora una volta la Cgia, la quale ha scoperto che lo scorso anno i contribuenti italiani hanno lavorato letteralmente per il fisco fino al 7 giugno, ossia per 158 giorni: 9 giorni in più rispetto alla media dei Paesi dell’area dell’euro e 13 rispetto alla media dei 28 Paesi che compongono l’Ue. E poi pagare tasse non è un impiego a tempo pieno?

L’Ufficio studi della Cgia è arrivato a questo dato esaminando il Pil nazionale di ciascun Paese registrato nel 2013, utilizzando la nuova metodologia di calcolo adottata dall’Eurostat, e lo ha suddiviso per 365 giorni dell’anno. Poi, ha considerato il gettito di imposte, tasse e contributi che i contribuenti europei hanno pagato al Paese di appartenenza e lo ha diviso per il Pil giornaliero. Il risultato ha poi consentito di calcolare il cosiddetto “giorno di liberazione fiscale”, ossia quello in cui di fatto si smette di lavorare solo per pagare tasse al proprio Paese dell’area dell’euro.

Guardando al di fuori dei nostri confini, solo la Francia fa rilevare un dato peggiore del nostro, pari a 174 giorni. In Germania si smette di lavorare per pagare tasse dopo 144 giorni, in Olanda dopo 136 e in Spagna dopo 123.

Interessante è poi il dato ottenuto dall’ufficio studi della Cgia relativamente alla serie storica del “freedom tax day” in Italia dal 1995 al 2013. Dalla metà degli Anni ’90 (147 giorni) al 2005 (143 giorni), i giorni di lavoro necessari per onorare il fisco e pagare tasse hanno subito una riduzione, ma poi sono cresciuti sino a toccare il record di 158 giorni nel 2012, confermato nel 2013.

Secondo il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi, “ad esclusione del Belgio tutti i Paesi federali presentano una pressione fiscale molto inferiore alla nostra, con una macchina statale più snella ed efficiente ed un livello dei servizi offerti di alta qualità. Pertanto, è necessario riprendere in mano il federalismo fiscale, definire e applicare i costi standard per abbassare gli sprechi e gli sperperi e, nel contempo, ridurre le tasse di pari importo”.

Nautica italiana, un settore da riportare a galla

Il caso della nautica italiana è uno dei più emblematici suicidi industriali. Uno dei settori che per decenni è stato fiore all’occhiello per l’artigianalità e la capacità tecnologica dei nostri cantieri, negli ultimi anni ha subito un progressivo indebolimento, che solo in minima parte si può imputare alla crisi economica mondiale.

I maggiori mercati per la nautica italiana sono infatti al di fuori dell’Europa, tra Stati Uniti, Sud Est Asiatico, Cina, Russia e Medio Oriente, tutte zone in cui i tassi di crescita dell’economia sono sempre stati alti, a dispetto della crisi. Quello che, invece, ha ucciso la nautica italiana, è stato un accanimento politico che, specialmente con i governi tecnici, ha penalizzato il settore punendo i suoi fruitori, con misure folli dal punto di vista fiscale prese contro i possessori di imbarcazioni da diporto.

Un debito, quello della politica nei confronti della nautica italiana, sottolineato nei giorni scorsi dal ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Maurizio Lupi all’apertura del Salone Nautico Internazionale di Genova: “Questo è un settore di cui dobbiamo andare orgogliosi – ha detto Lupi –, il mare è una risorsa, non può essere una negatività. Chi possiede una barca deve essere guardato con orgoglio, non può essere considerato un evasore“, riferendosi ai controlli fiscali compiuti sui possessori di barche negli anni passati.

La nautica italiana ha sofferto al di là della crisi anche per i nostri errori – ha aggiunto – ma è inutile andare a cercare chi ha sbagliato, dobbiamo ripartire tutti insieme“. Fatto sta che le tasse imposte allo stazionamento delle barche nelle marine, la caccia all’evasore e l’equazione armatore = evasore scatenata dagli ultimi governi hanno fatto fuggire dai porti italiani migliaia di barche, facendo la fortuna delle marine, spesso migliori e più attrezzate, di Paesi vicini come Spagna, Croazia e Francia.

In effetti dal Salone di Genova, una certa voglia di rilancio per la nautica italiana è venuta. L’industria del settore, che ha visto il proprio fatturato crollare di oltre il 60% negli ultimi sei anni, ha risposto alla crisi con 180mila metri quadrati di esposizione, 760 marchi, 1000 barche, 100 novità e una previsione di crescita del fatturato per il 2014 del 5,5%, dopo anni di flessione che hanno portato il fatturato del settore della nautica italiana dai 6,4 miliardi nel 2008 (all’inizio della crisi), ai 2,4 nel 2013.

Parole confortanti sono venute anche dal vice ministro allo sviluppo economico Carlo Calenda: “Alla nautica italiana, tra supporto al Salone e fiere, abbiamo portato quest’anno 1,7-1,8 milioni. Il prossimo anno pensiamo si possa arrivare a 5 milioni, 2 dei quali dedicati al Salone di Genova. Ma ci vuole un progetto fatto dall’industria e per l’industria“. Altro punto dolente della nautica italiana, che sconta il difetto tipico del nostro Paese, ovvero l’incapacità di fare sistema, anche se i misura minore rispetto ad altri settori produttivi.

Tutti ci stanno aiutando a 360 gradi“, ha confermato il presidente di Confindustria Nautica Massimo Perotti, ricordando fra i provvedimenti varati dal governo la legge sui Marina Resort, che riduce l’Iva applicata a chi sosta nei porti turistici, e il registro telematico che ha permesso la riduzione dei controlli in mare. Proprio su sollecitazione di Perotti, dal vicecapogruppo del Pd alla Camera Paola De Micheli è arrivato l’impegno a rendere stabile il provvedimento sui Marina Resort che termina a fine 2014.

Perotti ha anche ricordato che c’è ancora da lavorare sull’avvio del nuovo codice della nautica italiana e sull’acquisto in leasing delle imbarcazioni “con una interpretazione allargata del disegno di legge che consenta alle banche di chiedere agli acquirenti garanzie accessorie“.

Insomma, se la nautica italiana era colata a picco, oggi più che mai industria e politica la devono portare a galla. Perché torni a navigare come una volta, serve ancora tempo.