Cosa fare per contrastare il tax gap?

La Commissione per la redazione della “Relazione annuale sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva”, tramite il presidente Enrico Giovannini in audizione alla Commissione Bicamerale, ha diffuso i dati relativi al tax gap.

Tralasciando l’inclinazione all’evasione che purtroppo è un vizio particolarmente diffuso, il fenomeno sta diventando quasi fuori controllo, in particolare per settori come il commercio e il turismo, dove gli abusivi creano un giro di affari di 21,4 miliardi di euro all’anno.

Per quanto riguarda il solo commercio ambulante, ad esempio, confrontando i dati camerali, quelli dell’Agenzia delle Entrate e quelli dell’Inps, emergono quasi 100mila irregolari, ai quali vanno aggiunte altre migliaia di attività abusive nella ristorazione e nelle strutture ricettive.
In questo caso, la crescita degli abusivi è stata permessa dalle poche regole esistenti e vigenti, per non parlare dei controlli sulle nuove piattaforme digitali di sharing economy.

Ciò che andrebbe cambiato, e in maniera drastica e istantanea, è l’atteggiamento, oltre alla voglia più ferma di mettere fine a questa insana pratica, mentre invece c’è immobilità totale, anche e soprattutto nei confronti del fenomeno su strada, assai lontano dall’essere fermato.

Servirebbe, al contrario, un piano organico e ben strutturato, che porterebbe i suoi primi frutti proprio allo Stato, poiché se le attività abusive fossero azzerate l’Erario recupererebbe 11,1 miliardi di euro, che rappresenterebbero risorse sufficienti non solo per finanziare la manovra correttiva richiesta dall’Unione Europa, ma anche per raddoppiare la platea di beneficiari del Bonus da 80 euro.
E ovviamente ci guadagnerebbe anche l’occupazione, poiché la regolarizzazione farebbe emergere 32mila posti di lavoro aggiuntivi.

Vera MORETTI

Stipendi degli italiani sempre più leggeri a causa delle tasse

Gli stipendi degli italiani sono sempre più leggeri, a causa delle tasse e dei contributi che vengono mensilmente sottratti in busta paga.
A confermarlo è l’Ufficio Studi Cgia, dopo aver esaminato la composizione delle buste paga di 2 lavoratori dipendenti entrambi occupati nel settore metalmeccanico dell’industria.

Il primo caso riguarda un operaio con uno stipendio mensile netto di poco superiore ai 1.350 euro: al suo titolare costa, invece, un po’ meno del doppio: 2.357 euro. Questo importo è dato dalla somma della retribuzione lorda (1.791 euro) e dal prelievo contributivo a carico dell’imprenditore (566 euro). Il cuneo fiscale (dato dalla differenza tra il costo per l’azienda e la retribuzione netta) è pari a 979 euro che incide sul costo del lavoro per il 41,5 per cento.

Il secondo caso, invece, si riferisce a un impiegato con una busta paga netta di poco superiore a 1.700 euro. In questa ipotesi, il datore di lavoro deve farsi carico di un costo di oltre 3.200 euro; importo, quest’ultimo, quasi doppio rispetto allo stipendio erogato. Questa cifra è composta dalla retribuzione mensile lorda (2.483 euro) a cui si aggiungono i contributi mensili versati dal titolare dell’azienda (729 euro). Il cuneo fiscale (dato dalla differenza tra il costo per l’azienda e la retribuzione netta) è di 1.503 euro che incide sul costo del lavoro per il 46,8 per cento.

Sembra che negli ultimi anni la situazione sia lievemente migliorata grazie all’introduzione del bonus Renzi e il taglio dell’Irap avvenuto nel 2015 sul costo del lavoro ai dipendenti assunti con un contratto a tempo indeterminato, che hanno portato ad una riduzione del carico fiscale di circa 14 miliardi di euro.
Inoltre, sebbene la metà dei 9 miliardi di euro annui che servono per coprire la spesa del bonus Renzi sia finita nelle tasche di dipendenti che vivono in famiglie con redditi medio-alti, è altrettanto vero che secondo un’indagine realizzata dalla Banca d’Italia il 90% delle famiglie percettrici di questa agevolazione hanno dichiarato di averla spesa e di aver destinato il restante 10% al risparmio e al rimborso di debiti.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia, ha dichiarato: “Oltre a tagliare l’Irpef è necessario intervenire anche sulla riduzione del prelievo in capo al datore di lavoro che in Italia è tra i più elevati d’Europa. Secondo l’Ocse, infatti, tra gli oltre 30 paesi più industrializzati del mondo solo Francia, Repubblica Ceca ed Estonia hanno un carico contributivo per dipendente superiore al nostro. Una situazione che ci impone non tanto di tagliare l’aliquota previdenziale che, in un sistema ormai contributivo, danneggerebbe i lavoratori, ma di proseguire con maggiore determinazione nella riduzione delle tasse sulle imprese”.

Ha aggiunto Renato Mason, segretario Cgia: “Per far ripartire con forza la domanda interna è necessario, tra le altre cose, aumentare il numero degli occupati e lasciare a questi ultimi più soldi in tasca. Vista la scarsa disponibilità di liquidità delle imprese, nel prossimo futuro sarà sempre più difficile erogare importanti aumenti di stipendio attraverso i rinnovi contrattuali. Per tale ragione, quindi, è indispensabile incentivare la diffusione del welfare aziendale come forma di beneficio economico”.

Vera MORETTI

Toh, nel 2017 caleranno le tasse…

L’1 di gennaio è spesso portatore di aumenti e mazzate, ma il 2017 potrebbe essere, sotto il profilo delle tasse, un anno di svolta.

Secondo i calcoli della Cgia, grazie alle novità che scatteranno da Capodanno, a seguito delle decisioni prese con la legge di Bilancio 2017 e con le leggi di Stabilità degli anni precedenti, le famiglie dovrebbero risparmiare circa 2,9 miliardi di tasse e le imprese 4,5.

L’analisi, sottolineano però gli artigiani mestrini, è al netto di un’eventuale manovra correttiva e la quasi totalità delle misure sulle tasse previste nel 2017 non interesseranno allo stesso modo tutti i contribuenti italiani.

Grazie a queste novità – sottolinea il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeola pressione fiscale ufficiale dovrebbe scendere nel 2017 al 42,3%: 0,3 punti in meno di quella registrata nel 2016. Sebbene in calo, siamo comunque ancora lontani dal 41,5% registrato prima della crisi, quando il rapporto debito/Pil, ad esempio, era al 100%: un dato inferiore di oltre 30 punti a quello attuale”.

Per quanto riguarda tasse e famiglie, queste ultime saranno interessate da circa 15 provvedimenti. La più significativa sarà la proroga delle detrazioni per le ristrutturazioni edilizie e il risparmio energetico (607,7 milioni di euro), seguita dal bonus bebè (392 milioni), dai premi di produttività dei lavoratori dipendenti del settore privato (382,3 milioni), dal bonus cultura per i 18enni (290 milioni), dalla mancata proroga del contributo di solidarietà del 3% dovuto dai contribuenti con un reddito sopra i 300mila euro (275,4 milioni), dall’estensione della “no tax area” per i pensionati over 75 (246 milioni).

Sono circa una dozzina, invece, le principali novità fiscali che interesseranno le imprese riducendo le tasse. Le società di capitali, ad esempio, beneficeranno della riduzione dell’aliquota Ires, che passerà dal 27,5 al 24% (con una riduzione del peso fiscale di 2,9 miliardi). Gli imprenditori individuali e le società di persone che opteranno su base volontaria per l’Iri (Imposta reddito impresa) saranno sottoposti a un’aliquota fissa al 24% sugli utili non prelevati in luogo della tassazione Irpef (1,2 miliardi di sgravi). La proroga del maxi ammortamento al 140 per cento e l’iper ammortamento al 150 per cento dell’acquisto di macchinari ad alto contenuto tecnologico consentiranno un risparmio fiscale di 973 milioni di euro.

Inoltre, la proroga fino al 2020 del credito di imposta per la ricerca e lo sviluppo consentirà un risparmio fiscale di 727 milioni di euro. L’alleggerimento fiscale per gli agricoltori, tra cui la cancellazione dell’Irpef sui redditi nel triennio 2017-2019, garantirà invece uno sgravio annuo di 157,6 milioni. Grazie alla riduzione dell’aliquota contributiva al 25%, il popolo delle partite Iva risparmierà 108 milioni di euro di contributi previdenziali.

Dall’altro lato, non sarà più possibile accedere alle agevolazioni dell’Ace (Agevolazione per la crescita economica) per quasi 1,5 miliardi e gli artigiani e i commercianti vedranno aumentare i propri contributi Inps di circa 400 milioni di euro. In totale, la Cgia stima comunque 4,5 miliardi di tasse in meno.

Entrate su, ma come vengono spesi i soldi dallo Stato?

C’è un’azienda che, in quanto a entrate, non conosce crisi. È lo Stato, che continua a macinare incassi, salvo poi spendere le proprie risorse in maniera scellerata.

Lo conferma il ministero dell’Economia, che ha reso noto come le entrate tributarie e contributive nel primo semestre del siano cresciute di quasi 5 miliardi (4.980 milioni, +1,6%) rispetto all’analogo periodo del 2015.

Si tratta di un combinato disposto tra crescita delle entrate tributarie (+2.624 milioni, +1,2%) e delle entrate contributive in termini di cassa (+2.356 milioni, +2,3%).

Nello specifico, nei primi sei mesi del 2016, le entrate tributarie erariali accertate in base al criterio della competenza giuridica sono state pari a 203.477 milioni, con un incremento di +8.374 milioni rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, +4,3%.

Le imposte dirette sono state pari a 111.708 milioni (+4.894 milioni, +4,6%) e quelle indirette a 91.769 milioni (+3.480 milioni, +3,9%). La variazione di gettito riscontrata sulle imposte dirette è da imputare all’andamento dell’Irpef, cresciuta di 4.229 milioni di euro (+5,1%) rispetto al 2015.

Tra le imposte indirette, le entrate Iva sono state pari a 53.707 milioni (+4.202 milioni, +8,5%). L’andamento dell’imposta sul valore aggiunto ha registrato una variazione positiva nella componente degli scambi interni di 4.919 milioni (+11,4%), di cui 5.175 milioni di crescita derivano dai versamenti da split payment.

Le entrate tributarie del bilancio dello Stato incassate nei primi sei mesi del 2016 sono state di 197.414 milioni, +10.284 milioni rispetto allo stesso periodo del 2015 (+5,5%). In aumento le imposte dirette, che ammontano a 109.914 milioni (+6.186 milioni, +6%). In crescita le imposte indirette, pari a 87.500 milioni (+4.098 milioni, +4,9%).

Tanti bei soldoni, quindi, nelle tasche dello Stato. E la qualità dei servizi che ritornano ai cittadini?

Le imprese muoiono di tasse

Come a voler confermare quanto più o meno tutti sanno, arriva puntuale un’analisi della Cgia dalla quale emerge che la tassazione sulle imprese italiane è la più alta d’Europa. Un dato ricavato calcolando la percentuale delle tasse pagate dalle imprese sul gettito fiscale totale: l’Italia è prima (14%), seguita da Olanda (13,1%) e Belgio (12,2%), contro una media Ue dell’11,4%.

Più staccati altri Paesi come Germania (11,8%), la Spagna (10,8%), la Francia e il Regno Unito (10,6%).

Sempre la Cgia rileva che, al netto dei contributi previdenziali, le imprese italiane pagano 98 miliardi di tasse all’anno. Tra i principali Paesi Ue solo le imprese tedesche e francesi pagano di più, 131 e 103,6 miliardi. La Cgia ricorda però come la Germania conti una popolazione di 80 milioni di abitanti, la Francia di 66 e l’Italia di 60.

Per il suo studio su tasse e imprese, la Cgia ha utilizzato dati Eurostat e ha considerato l’Irap, l’Ires, la quota dell’Irpef in capo ai lavoratori autonomi, le ritenute sui dividendi e sugli interessi e le imposte da capital gain. Ricordando però che vi sono voci incomparabili con le situazioni di altri stati UE – contributi previdenziali, Imu/Tasi, tributo sulla pubblicità, tasse sulle auto pagate dalle imprese, accise, diritti camerali – i quali fanno ipotizzare che, sostengono gli artigiani, “in questa elaborazione l’ammontare complessivo del carico fiscale sulle imprese italiane è certamente sottostimato”.

Inoltre, l’Ufficio studi della Cgia ricorda che in Italia il totale delle imposte e delle tasse pagate in percentuale sui profitti commerciali di un’impresa media è pari al 64,8%, ancora una volta il peggior dato d’Europa. Dopo di noi la Francia (62,7%) e il Belgio (58,4%), a fronte di una media dell’area dell’euro del 43,6%.

Alle imprese italiane – è l’amaro commento del coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeoviene richiesto lo sforzo fiscale più pesante d’Europa. Sebbene la giustizia civile sia lenta e in molte aree del Paese anche poco efficiente, l’eccesso di burocrazia abbia raggiunto livelli difficilmente riscontrabili altrove, la Pubblica amministrazione sia la peggiore pagatrice d’Europa e il deficit logistico-infrastrutturale sia pesantissimo, la fedeltà fiscale delle nostre imprese è molto elevata. In altre parole, gli imprenditori italiani pagano molto di più dei concorrenti europei, ma, per contro, continuano a ricevere servizi di basso livello qualitativo. Pur riconoscendo l’impegno profuso dal Governo Renzi, le imprese italiane continuano ad avere un total tax rate che non ha eguali nel resto d’Europa”.

Auto, una manna per il fisco

Qual è il settore, in Italia, più tartassato dal fisco? Con tutta probabilità quello dell’automotive, che comprende sia gli autoveicoli, sia le moto, sia i veicoli commerciali. Secondo i calcoli della Cgia, il settore auto è zavorrato da un peso fiscale complessivo di 71,6 miliardi di euro.

Un totale che, come ricorda la Cgia, soffoca il settore auto perché è più che doppia rispetto al gettito versato dalle imprese attraverso l’Irap (pari a 30,4 miliardi) e 20 volte superiore a quanto hanno pagato fino nel 2015 i proprietari di prima casa con la Tasi (3,5 miliardi).

Si tratta di un bacino sterminato a cui il fisco attinge: oltre 37 milioni di auto e 6,8 milioni di moto. Secondo la Cgia, la situazione è al limite del collasso, anche perché dal 2009 il prelievo fiscale sul settore auto è cresciuto di 5,3 miliardi (+8%), nonostante si sia registrato un crollo delle vendite.

Per la propria elaborazione, l’Ufficio studi della Cgia si è basato su dati Anfia (l’Associazione nazionale filiera industria automobilistica) e ha calcolato che quasi l’82% dei 71,6 miliardi di euro di tasse sull’automotive viene dall’utilizzo del parco circolante, il 9,5% dall’acquisto e l’8,5% dalla tassa di possesso (il bollo auto).

Spese del pedagogista? Non detraibili

Detraibili sì, detraibili no? La domanda è sorta a molti al momento della compilazione della dichiarazione dei redditi, per quanto riguarda le spese sostenute per ricorrere alle prestazioni di un pedagogista.

Un dubbio che ha spinto l’Agenzia delle Entrate a emanare una circolare per fare chiarezza sulle spese per il pedagogista, circolare nella quale sottolinea una volta per tutte come queste spese non siano detraibili.

Il dubbio è venuto perché non era chiaro se le prestazioni erogate dal pedagogista potessero essere comparabili a quelle delle figure professionali elencate nel decreto del ministero della Salute del 29 marzo 2001 e soggette a detraibilità. Infatti, tra le professioni sanitarie riabilitative presenti nel decreto vi è anche quella di educatore professionale.

Il ministero si è così affrettato a sottolineare il duplice canale formativo del profilo di educatore, con questa distinzione:

  • nella facoltà di Scienze della formazione si consegue la laurea in scienze dell’educazione;
  • nella facoltà di Medicina e chirurgia in collegamento con le facoltà di Psicologia, Sociologia e Scienze dell’educazione, si consegue la laurea di educatore professionale.

Poiché, secondo il ministero, il pedagogista ha conseguito il primo profilo, in quanto ha una laurea quadriennale in Pedagogia o in Scienze dell’Educazione o una laurea specialistica/magistrale, opera in ambito sociale e svolge la sua attività nei settori formativo, educativo, sociale e socio-sanitario, esclusivamente per quanto riguarda le prestazioni sociali e non sanitarie, la sua non può essere considerata una professione sanitaria. Come tale, le spese sostenute per assicurarsi le sue prestazioni non sono detraibili.

Tutti pronti per il tax freedom day

Domani sarà un gran giorno per imprese e contribuenti italiani. Il 3 giugno si celebra infatti il cosiddetto tax freedom day, il giorno di liberazione fiscale, ovvero il primo giorno, dall’inizio dell’anno, in cui lavoriamo non per pagare le tasse ma per guadagnare qualcosa.

In questo 2016 il tax freedom day arriva dopo 154 giorni di lavoro, 3 giorni prima rispetto al 2015. In sostanza, per oltre 5 mesi abbiamo lavorato solo per pagare le tasse.

I calcoli per determinare il giorno esatto del tax freedom day sono stati fatti ancora una volta, come accade da oltre 15 anni a questa parte, dall’Ufficio studi della Cgia, i cui esperti hanno esaminato il dato previsionale del Pil nazionale e lo ha diviso per i 365 giorni dell’anno, ottenendo così un dato medio giornaliero.

Poi, la Cgia ha rapportato il gettito di imposte, tasse e contributi versati dagli italiani al fisco con il Pil giornaliero, ottenendo la data corretta del tax freedom day che, per l’anno in corso, arriva appunto domani, 3 giugno.

Per ottenere un dato il più vicino alla realtà, la Cgia ha calcolato la pressione fiscale del 2015 e del 2016 al netto del “bonus Renzi”, che nel bilancio pubblico è conteggiato come un aumento di spesa e non come una diminuzione del carico fiscale per quasi 11 milioni di lavoratori dipendenti con retribuzioni medio-basse.

Se rispetto al 2015 la situazione di quest’anno presenta un leggero miglioramento, lo stesso cosa non si può dire se la comparazione viene eseguita con il 1996 o il 2006. Rispetto a 20 anni fa, la situazione è peggiorata di 5 giorni (il tax freedom day era il 29 maggio), di 7 giorni rispetto al 1996 (peraltro anno bisestile).

Il perché abbiamo guadagnato 3 giorni sulla data del tax freedom day rispetto allo scorso anno, è ben spiegato dal coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo: “Rispetto al 2015 il gettito complessivo del fisco è destinato a scendere di oltre 5 miliardi di euro. Quest’anno, infatti, le famiglie, ad eccezione di quelle proprietarie di ville, castelli e palazzi di pregio storico, non pagano la Tasi sulla prima casa, risparmiando circa 3,5 miliardi di euro. Le imprese, invece, non sono tenute al versamento dell’Imu sugli impianti imbullonati, da cui deriva una riduzione di gettito di 530 milioni di euro, mentre l’esenzione dell’Imu per i terreni agricoli vale 405 milioni. Le novità in materia di Irap, invece, prevedono l’abolizione dell’imposta per le imprese agricole e le cooperative di piccola pesca, con un risparmio di 167 milioni di euro. Il super ammortamento delle spese per investimenti al 140% e i nuovi crediti di imposta per le attività ubicate nelle aree svantaggiate del Paese garantiscono un minor gettito pari a 787 milioni di euro”.

Imu terreni incolti, le precisazioni

Lo scorso anno quella dell’ Imu sui terreni agricoli è stata una vera telenovela, con un tira e molla continua e un repentino cambiare idea su quali dovessero essere i terreni effettivamente assoggettati al pagamento dell’ Imu e quali no, per non parlare del continuo cambio dei parametri per determinare l’assoggettabilità degli stessi.

Per evitare che si generasse un increscioso loop anche quest’anno almeno per una parte di terrreni agricoli da assoggettare all’ Imu, il viceministro dell’Economia, Enrico Zanetti, nel corso di un question time in Commissione Finanze alla Camera, ha fatto una precisazione in merito ai terreni incolti e agli orti.

Zanetti ha spiegato che questi rientrano nel novero dei terreni agricoli e come tali seguono le stesse regole dell’esenzione contenute e riscritte di recente all’interno dell’ultima Legge di Stabilità.

In sostanza, quindi, sugli orti e sui i terreni incolti all’interno dei Comuni montani non si applica l’ Imu, mentre sugli orti e sui terreni incolti in pianura l’imposta va pagata se i proprietari non sono coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali (Iap).

Le tasse calano? Balle

E meno male che tutti i governi, di destra o di sinistra, che si sono alternati negli ultimi anni al governo dell’Italia hanno sostenuto di voler abbassare le tasse. Peccato che sia successo esattamente il contrario, almeno stando a quanto emerge dai conteggi effettuati dall’Ufficio studi della Cgia.

Ebbene, stando a questi calcoli, negli ultimi 6 anni le imposte nazionali e locali hanno continuato ad aumentare. Le prime, al netto del bonus Renzi, sono salite del 6,1%, le tasse locali dell’8%.

Aumento invertito in termini di valore assoluto: +21,6 miliardi per le tasse nazionali, +7,7 miliardi per quelle locali. In termini netti, dal 2010 a oggi, nonostante la pesante crisi economica, imprese e famiglie hanno sostenuto uno sforzo fiscale aggiuntivo in tasse di 29,3 miliardi di euro.

La Cgia ha anche rilevato che la composizione del gettito per livello di Governo è rimasta sostanzialmente identica. Su un totale di entrate tributarie di 483,2 miliardi nel 2015, al netto del bonus Renzi, il 21,6% del gettito ha finanziato le casse di Regioni e Comuni (104,4 miliardi), mentre il 78,4% è andato all’erario (378,8 miliardi). Nel 2010 la situazione era pressoché identica.

La Cgia ha anche analizzato nel dettaglio l’andamento delle principali tasse locali dal 2010 al 2015 e ha rilevato che solo l’Irap è calata in modo sensibile: -4,2 miliardi (-13%). Tutte le altre tasse sono cresciute in maniera piuttosto marcata: l’addizionale regionale Irpef è cresciuta di 3,1 miliardi (+39%) e l’addizionale comunale di 1,4 miliardi (+51%).

Sul fronte dell’imposta sugli immobili, il fisco locale ha dato il meglio di sé. Se nel 2010 l’Ici ha fatto incamerare ai comuni 9,6 miliardi, nel 2015 Imu e Tasi hanno portato nelle casse locali 21,3 miliardi, +120%. E meno male che le tasse calano…