Le tasse mascherate dello Stato

Che lo Stato sia spesso ladro, è convinzione che Infoiva ha da tempo. E, a dimostrazione del fatto che la nostra convinzione è anche una solida realtà, arriva un’analisi effettuata dall’Ufficio studi della Cgia dalla quale emerge che nel 96% dei casi le tasse pagate dalle famiglie dei lavoratori dipendenti sono prelevate alla fonte – dalla busta paga o incluse nei beni o nei servizi acquistati -, mentre solo il restante 4% è versato al fisco attraverso un’operazione di pagamento allo sportello, sia esso bancario o postale.

Nel dettaglio, la Cgia ha calcolato che nel 2016 la famiglia tipo presa a modello dell’analisi (marito e moglie lavoratori dipendenti con un figlio a carico) pagherà circa 17mila euro di tasse, un carico fiscale a dir poco vergognoso.

Nello specifico, il marito preso come modello è un operaio specializzato con reddito da lavoro dipendente pari a 22.627 euro (circa 1.513 euro/mese per 13 mensilità), mentre la moglie è impiegata in una piccola azienda artigiana, con reddito da lavoro dipendente pari a 17.913 euro (circa 1.235 euro/mese).

La famiglia in questione alle prese con le tasse abita in un appartamento di 94 mq calpestabili, la cui rendita catastale è di 522 euro, e possiede due auto, di cilindrata pari a 1.800cc e 1.200cc con le quali vengono percorsi rispettivamente 15.000 km e 5.000 km all’anno. Ecco il dettaglio delle tasse pagate, suddiviso in 3 voci.

prelievo “alla fonte”. Pesa il 65% carico fiscale annuo, 11.098 euro. Comprende i versamenti dei contributi previdenziali Inps, Irpef e le addizionali regionali e comunali Irpef;

tasse “nascoste”. Pesano il 31% del carico fiscale annuo, 5.230 euro. Iva, accise collegate alla benzina e alle bollette di luce e gas, tasse e imposte comprese nell’assicurazione auto, nei bolli dei conti correnti e dei dossier titoli, canone Rai;

tasse “consapevoli”. Pesano il 4% del carico fiscale annuo, 696 euro. Bollo auto e Tari.

Con questa analisi, la Cgia ha voluto sottolineare come lo Stato ladro sia bravo a farci pagare le tasse senza farci apparentemente soffrire, come se fosse un vampiro buono. Ricorda Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia: “Nel momento in cui ci rechiamo in banca o alle poste per pagare il bollo dell’auto, la Tari o l’Imu, psicologicamente percepiamo maggiormente il peso economico di questi versamenti rispetto a quando subiamo il prelievo dell’Irpef o dei contributi previdenziali direttamente dalla busta paga. Nel momento in cui mettiamo mano al portafoglio prendiamo atto dell’entità del pagamento e di riflesso scatta una forma di avversione nei confronti del fisco. All’opposto, quando i tributi vengono riscossi alla fonte, l’operazione è astrattamente meno indolore, perché avviene in maniera automatica”.

La Cgia: pressione fiscale reale al 50,2%

La pressione fiscale sulle imprese e sulle famiglie è uno dei fattori che, in Italia, ostacolano maggiormente una vera ripresa. Ciò che più dà fastidio è che la pressione fiscale reale è molto diversa da quella “ufficiale”, che emerge molto spesso dalle stime governative. Questo perché la pressione fiscale reale è influenzata dall’economia sommersa.

Quest’ultima tra il 2011 e il 2013 è cresciuta di 4,85 miliardi di euro, a quota 207,3 miliardi di euro, il 12,9% del Pil, mentre quella al netto dell’economia non osservata è calata di 36,8 miliardi, sotto quota 1.400 miliardi.

Partendo da questi dati, l’Ufficio studi della Cgia ha stimato, in via molto prudenziale, che l’incidenza percentuale dell’economia non osservata sul Pil è rimasta la stessa anche dal 2013 al 2015, ed è arrivato a calcolare in quasi 211 miliardi di euro il peso dell’economia sommersa sul Pil nazionale lo scorso anno 2015, con rilevanti ricadute dal punto di vista fiscale.

Come ha commentato il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, “nel 2015 al lordo dell’operazione bonus Renzi, la pressione fiscale ufficiale in Italia è stata pari al 43,7%. Tuttavia, il peso complessivo che il contribuente onesto sopporta è di fatto superiore ed è arrivato a toccare la quota record del 50,2%”.

Secondo gli artigiani mestrini, la progressione della pressione fiscale ufficiale e ufficiosa negli ultimi 4 anni è stata costante: nel 2011 erano pari al 41,6% e al 47,4%, nel 2012 al 43,6% e al 49,9%, nel 2013 al 43,5% e al 49,9%, nel 2014 al 43,6% e al 50,0%, nel 2015 al 43,7% e al 50,2% (per il 2014 e il 2015 si tratta di stime).

Per avere un quadro di riferimento chiaro, la Cgia ricorda che “la pressione fiscale è data dal rapporto tra l’ammontare complessivo del prelievo (imposte, tasse, tributi e contributi previdenziali) e il Prodotto interno lordo (Pil) che si riferisce non solo alla ricchezza prodotta in un anno dalle attività regolari, ma anche da quella “generata” dalle attività sommerse (cioè non in regola con il fisco) e da quelle illegali che consistono in uno scambio volontario tra soggetti economici (contrabbando, prostituzione, traffico di sostanze stupefacenti)”.

Lapidario il commento del segretario della Cgia, Renato Mason: “E’ evidente che con un peso fiscale simile sarà difficile trovare lo slancio per ridare fiato all’economia del Paese in una fase dove la crescita rimane ancora molto debole e incerta”.

Pressione fiscale, l’allarme di Confcommercio

Quando non ci pensa la Cgia a far i conti della pressione fiscale invereconda cui è sottoposto il nostro Paese, ecco venire in soccorso della verità la Confcommercio. E lo fa con una denuncia senza appello: secondo l’ultima ricerca Confcommercio-Cer su finanza pubblica e tasse locali, dal 1995 al 2015, la pressione fiscale in Italia è passata dal 40,3% al 43,7% e le tasse locali sono passate da 30 miliardi a 103 miliardi di euro, +248%, mentre le tasse centrali sono balzate da 228 miliardi a 393 miliardi, +72%. Roba da terzo mondo.

Il dettaglio della ricerca dice poi che le imposte sugli immobili sono aumentate del 143%, passando da 9,8 miliardi a 23,9 miliardi di euro, mentre dal 2011 al 2015 la tassa sui rifiuti è aumentata del 50%.

E non è finita qui, perché anche per quest’anno la pressione fiscale è destinata ad aumentare, poiché Confcommercio stima che nel 2016 le imposte sugli immobili e sui rifiuti faranno registrare un aumento complessivo dell’80% rispetto al 2011, da 15,4 a 27,8 miliardi.

Il commento a questi dati del presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, è impietoso: “Il 2016 sarà un anno difficile, di sfida, perché ci entriamo con un dato inaspettato e deludente sul Pil dell’ultimo trimestre 2015, ma l’Italia ha le carte in regola per crescere in modo soddisfacente, le condizioni sono: abbattimento della spesa pubblica improduttiva per ridurre le tasse a famiglie e imprese e che la legge di stabilità esplichi tutti i suoi effetti competitivi“.

E non è tutto. “Anche se la spesa pubblica corrente si è finalmente ridotta nel 2015 – ha poi aggiunto Sangalli -, gli sforzi fatti non sono sufficienti. La crescita della pressione fiscale indebolisce il nostro sistema produttivo, già stremato da una crisi durissima. Ridurre il carico fiscale su imprese e famiglie è prioritario. Le nostre imprese, quelle del commercio, del turismo, dei servizi e dei trasporti non vogliono e non possono più pagare il conto di enti pubblici inefficienti. E soprattutto non vogliono subire trattamenti discriminatori e penalizzanti nel pagamento delle tasse locali”.

Pronta al via Equitalia servizi di riscossione

Per chi ha qualche conto in sospeso con Equitalia, la notizia può anche non essere degli migliori, ma in un’ottica di razionalizzazione di spese e di strutture lo è di sicuro: dall’1 luglio 2016 i tre attuali agenti della riscossione divisi in Nord, Centro e Sud, saranno unificati in un’unica società, che si chiamerà Equitalia servizi di riscossione.

L’unificazione delle tre strutture è stata pensata proprio nell’ottica della riduzione dei costi di gestione, da unire a un miglioramento del servizio di riscossione, ed è stata costituita con atto notarile martedì 16 febbraio 2016.

Il risparmio dei costi e il miglioramento dei servizi di riscossione potranno essere perseguiti rendendo omogenei ed efficaci i sistemi e le procedure di riscossione stessa. Un obiettivo per il quale è già stata integrata l’intera filiera operativa attraverso l’incorporazione nella Holding della società Equitalia servizi, che serve come supporto alle procedure per la formazione dei ruoli.

Il gran banchetto delle addizionali

Se lo stato è ladro, le amministrazioni locali possono essere da meno? No di certo, specialmente se anche loro sono vittime dei tagli e delle ruberie dello stato centrale. Ecco allora che, per rifarsi, mettono le mani nelle tasche dei cittadini contribuenti sudditi con uno dei meccanismi per loro più redditizi: le addizionali.

Secondo calcoli effettuati dall’Ufficio studi della Cgia, dal 2010 ad oggi il gettito derivante dall’applicazione delle addizionali Irpef ha subito un aumento spropositato: quello relativo alle addizionali regionali ha fatto registrare un +34%, quello delle addizionali comunali un +54%. E per il 2016 il gettito totale per comuni e regioni è stimato in oltre 15 miliardi.

L’analisi della Cgia è stata effettuata sul prelievo di queste imposte locali sulle retribuzioni di alcune categorie di dipendenti, pensionati e sui redditi dei lavoro autonomo di residenti in circa 100 Comuni capoluogo di provincia.

Relativamente alle addizionali comunali Irpef, queste sono passate da 2,9 miliardi di euro del 2010 agli oltre 4,4 miliardi del 2014. Sono 63 i comuni capoluogo di provincia che, lo scorso anno, hanno applicato le aliquote al livello massimo consentito dello 0,8%, dopo che nel biennio 2009-2010 erano state bloccate. Una decina di comuni ha aumentato il prelievo nel 2015 rispetto al 2014.

Le addizionali regionali sono passate da un’aliquota base dello 0,5% nel 1998 e nel 1999 allo 0,9% del 2000 fino all’1,23% del 2011. Su fronte dell’autonomia tributaria delle regioni, fino al 2013 l’aliquota base poteva essere incrementata dello 0,5%, fino all’1,73%, mentre nel 2014 e nel 2015 le Regioni hanno potuto innalzarle rispettivamente dell’1,1% e del 2,1%.

Commenta il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo: “Per l’anno venturo con la legge di Stabilità 2016 il Governo ha deciso di bloccare gli eventuali aumenti delle imposte locali solo per le regioni che non si trovano in deficit sanitario. Considerato che sono otto quelle sottoposte ad un piano di rientro dal disavanzo per la spesa sanitaria, per molti contribuenti vi è comunque il pericolo di subire un ulteriore aumento del prelievo, visto che per il 2016 il fabbisogno sanitario nazionale è stato rideterminato con un risparmio di spesa di quasi 1,8 miliardi di euro”.

Imu e Tasi tra aliquote e caos

Fiscalmente, quella che stiamo vivendo è una delle settimane più calde dell’anno, soprattutto a causa della scadenza del 16 dicembre con il pagamento del saldo di Imu e Tasi per imprese e famiglie. Uno di quei bei momenti che il Fisco ci regala, grazie a un gioco di prestigio con il quale fa sparire dalle nostre tasche gran parte delle tredicesime prima ancora che ne possiamo godere. Grazie, appunto, a Imu e Tasi.

Il fatto che dal prossimo anno Imu e Tasi saranno abolite pare quasi irrilevante di fronte al fatto che il Fisco ci rende la cose complicate fino all’ultimo. Intanto perché, per il pagamento del saldo di Imu e Tasi, è necessario ricordare che, mentre per l’acconto di giugno il calcolo è stato fatto con le aliquote 2014, ora per il saldo si devono usare le aliquote deliberate nel 2015.

Peccato però che vi sia un 10% circa dei comuni (circa 800) che ha presentato le delibere sulle aliquote di Imu e Tasi fuori tempo massimo, oltre il 30 luglio, e per i quali dovrebbero essere applicate le delibere del 2014. Il che significa meno incassi per loro ma, con i sempre minori trasferimenti dallo Stato agli enti locali, gli amministratori di quei Comuni non rinunceranno agli aumenti.

Una pezza ha provato a mettercela il governo, approvando al Senato un emendamento alla Legge di Stabilità per rendere valide per il 2015 le delibere su aliquote, regolamenti e tariffe adottate dai comuni entro il 30 settembre, solo se pubblicate sul sito delle Finanze entro il 28 ottobre. Semplice? No, perché affinché siano valide, queste delibere devono essere state validate entro il termine di approvazione del bilancio di previsione del comune. Quindi queste delibere sono applicabili? Non si sa, perché sul sito delle Finanze non si fa cenno alla loro applicabilità o meno.

Tutto questo significa che non saranno pochi i contribuenti che non sapranno precisamente a quanto ammonterà il loro saldo di Imu e Tasi. Tanto che il governo, cancellando di fatto l’emendamento del Senato di cui sopra, ne ha annunciato uno nuovo alla Camera che impedirà ai Comuni che hanno presentato gli aumenti delle aliquote Imu e Tasi fuori tempo massimo, di incassare l’extra gettito.

Tutto bene, niente a posto quindi. Come al solito. Perché questo valzer delle aliquote, per quanto limitato a un numero ristretto di comuni, è il simbolo dell’ingordigia dello Stato ladro, per il quale i cittadini sono sudditi prima che contribuenti e per il quale l’importante è far pagare sempre e comunque: se poi ci sono pasticci nel metodo, si aggiustano a colpi di emendamenti.

La mappa delle tasse locali in Italia

Quando, in Italia, escono notizie riguardanti le tasse, le fonti sono normalmente due: il Governo, che le tasse prova a tagliarle ma quando c’è da inventarne di nuove mostra una fantasia più fervida di quella di Walt Disney; la Cgia, che sulle storture del nostro sistema fiscale e sulla ferocia delle tasse nei confronti di imprese e famiglie sforna analisi complete e meritorie a getto continuo.

L’ultima in ordine di tempo riguarda il peso delle tasse che le famiglie italiane devono pagare nei diversi capoluoghi. Ebbene, dai numeri snocciolati dalla Cgia emerge che le famiglie che pagano più tasse in Italia sono al Centro-Sud.

L’analisi della Cgia prende in esame il totale di Irpef, addizionali comunali e regionali Irpef, Tasi, Tari e bollo auto e scopre che a Reggio Calabria se la passano peggio che altrove: 7.684 euro di tasse in media nel 2015.

Seguono Napoli (7.658 euro), Salerno (7.648), Messina (7.590), Roma (7.588), Siracusa (7.555), Catania (7.547 euro) e Latina (7.540 euro). Il Nord-Est ha il primato per le città dove le famiglie pagano meno tasse, poiché delle ultime 6 posizioni della classifica della Cgia, 4 sono occupate da Comuni di quell’area: Verona (7.061 euro), Vicenza (6.986), Padova (6.929) e Udine (6.901).

L’analisi dell’Ufficio studi della Cgia ha preso in esame il carico fiscale su una famiglia composta da un lavoratore dipendente con coniuge e figlio a carico, reddito medio annuo di 31mila euro, casa di proprietà di 100 metri quadrati e auto di media cilindrata. Questa mappa delle tasse elaborata dalla Cgia ha riguardato 19 comuni capoluogo di regione e 31 di provincia con oltre 100mila abitanti.

Il 2016, da punto di vista delle tasse locali, sottolinea la Cgia, si presenta a due facce. Se, da una parte, l’abolizione della Tasi sulla prima casa porterà alle famiglie italiane un risparmio medio di 200-250 euro, dall’altro nelle regioni in disavanzo sanitario è facile che vi sarà un aumento delle tasse locali o dei ticket sanitari a causa dei mancati aumenti dei trasferimenti in materia di sanità dallo stato centrale.

Netta al conclusione del coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo: “Il differenziale tra le imposte pagate a Reggio Calabria e quelle versate a Udine è di ben 783 euro. Se consideriamo la qualità e la quantità dei servizi offerti, è evidente che questo gap non ha alcuna giustificazione e la gran parte delle famiglie del Sud che pagano le tasse subiscono una vera ingiustizia”.

Metodo previsionale e acconto imposte

Per quanti aspettano il 30 novembre per versare l’ acconto imposte c’è una cosa in più da sapere. È infatti possibile utilizzare il metodo previsionale al posto di quello storico per pagare una o più imposte (con riferimento a uno o a tutti gli acconti), purché venga correttamente determinato il reddito presunto.

Qualora, infatti, il versamento effettuato risultasse insufficiente nel suo complesso, si rischia di vedersi comminata la relativa sanzione per insufficiente versamento dell’ acconto imposte. Fortunatamente, per la determinazione anticipata e corretta del reddito presunto è possibile fruire di alcune norme fiscali di favore, nel caso in cui la normativa non preveda espressamente il contrario.

Sarebbe, quest’ultimo, il caso dell’ acconto imposte per la nuova deduzione Irap relativa sia a imprese, sia a esercenti arti e professioni. In questo caso, la differenza tra il costo complessivo per il personale dipendente assunto a tempo indeterminato e alcune deduzioni richiamate dalla norma costituisce una ulteriore deduzione dalla base imponibile.

D’altro canto, non è possibile tenere conto dell’incremento dal 4% al 4,5% della percentuale utile alla determinazione del rendimento nozionale ai fini del calcolo dell’Ace 2015, come recita un apposito comma della legge di stabilità 2014.

I commercialisti: in Italia corporate tax rate al 44%

Un altro studio meritorio sulle tasse che colpiscono le imprese italiane. Questa volta non c’entra la Cgia, poiché l’analisi è stata effettuata dall’Osservatorio bilanci del Consiglio nazionale dei commercialisti insieme al dipartimento di Economia dell’Università di Genova.

Ebbene, da questo studio emerge che il corporate tax rate mediano (non medio, per evitare che numeri estremi influenzino erroneamente le medie) che ricade sulle imprese italiane (riferito al 2013) è del 44%. Inoltre, i commercialisti rilevano che tra il 2009 e il 2013 questo tax rate mediano ha avuto delle notevoli oscillazioni, tanto che nel 2011 quello sulle grandi imprese è arrivato persino al 53%, mentre il valore più basso è stato registrato nel 2012 dalle piccole imprese, con il 38,7%.

Per capire meglio l’analisi in questione è bene ricordare che in essa non viene preso in esame il total tax rate (che secondo la Banca Mondiale è pari, per le imprese italiane, al 65,4%) ma il corporate tax rate, ossia il costo per imposte correnti e differite relativo a Ires e Irap.

L’analisi sul corporate tax rate mediano è stata condotta sulle Pmi e sulle grandi imprese dei settori commercio, industria e servizi. Per una maggiore omogeneità dei risultati, sono state escluse le imprese del settore finanziario e le micro imprese.

Inoltre, calcolo del tax rate in questione è stato effettuato considerando unicamente le imprese con un utile ante imposte, pari al 75% del campione analizzato. Nonostante questo, sottolineano i commercialisti, c’è un 11-14% di imprese che registrano una perdita ante imposte e un costo per imposte, ovverosia oneri fiscali per imposte comunque presenti.

Una, nessuna e… cento tasse

Che l’Italia sia un Paese di santi, poeti, navigatori e… tasse è cosa nota. Che ogni cittadino o impresa, tra imposte e tasse assortite, paghi ogni anno uno sproposito, altrettanto. Ma quante sono le tasse che paghiamo? Quali le più odiate? Quali le più strane? Quanto portano nelle tasche bucate dello Stato?

A tutte queste risposte ha provato a rispondere la Cgia, che ha sfruculiato tra tasse, tributi, ritenuti, accise, addizionali, imposte e chi più ne ha più ne metta, per arrivare alla sconcertante conclusione che gli italiani pagano in totale un centinaio di tasse diverse, tra imprese e privati cittadini.

Se, da un lato, il sistema tributario italiano non ha eguali nel mondo per quanto riguarda la fantasia delle cose da tassare, dall’altro è anche furbo nel tassare ciò che maggiormente porta gettito, dal momento che, come ha rilevato la Cgia, le prime 10 tasse della classifica valgono tutte insieme 417,7 miliardi di euro, pari all’86% del gettito tributario complessivo annuo.

Spacchettando il dato tra imprese e cittadini, per le prime le imposte maggiormente pesanti sono l’Ires (31 miliardi di euro nel 2014) e l’Irap (30,4 miliardi di gettito lo scorso anno). Per i secondi le imposte più gravose sono l’Irpef e l’Iva, che da sole costituiscono oltre la metà del gettito (53,1%). L’Irpef porta nelle casse dello Stato oltre 161 miliardi di euro (il 33,2% del gettito), l’Iva quasi 97 miliardi (19,9% del gettito).

Secondo il coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia, Paolo Zabeo, “nel 2015 ciascun italiano pagherà mediamente 8mila euro di imposte e tasse, importo che sale a quasi 12mila euro considerando anche i contributi previdenziali. E la serie storica indica che negli ultimi 20 anni le entrate tributarie pro-capite sono aumentate di 76 punti percentuali, molto di più rispetto all’inflazione che, invece, è salita del 47%”.

E per provare a non incazzarsi troppo per il modo in cui spesso lo Stato sperpera i soldi che imprese e cittadini gli elargiscono, direttamente dal sito della Cgia ecco la classifica delle 10 curiosità o stranezze delle tasse italiane.

  1. La tassa più elevata: l’Irpef;
  2. La tassa che paghiamo tutti i giorni: l’Iva;
  3. La tassa più pagata dalle società: l’Ires;
  4. La tassa odiata dalle imprese: l’Irap;
  5. La tassa più singolare: quella applicata dalle regioni sulle emissioni sonore degli aeromobili;
  6. La tassa più lunga (come dicitura): imposta sostitutiva imprenditori e lavoratori autonomi regime di vantaggio e regime forfetario agevolato;
  7. La tassa più corta (esclusi gli acronimi): bollo auto;
  8. L’ultima grande imposta introdotta: la Tasi;
  9. La tassa più odiata dalle famiglie (fino al 2015): l’Imu/Tasi;
  10. Le tasse più stravaganti: le imposte sugli spiriti (distillazione alcolici), sui gas incondensabili e sulle riserve matematiche di assicurazione (tasse su accantonamenti obbligatori delle assicurazioni), la tassa annuale sulla numerazione e bollatura di libri e registri contabili, le sovraimposte di confine applicate dalla dogana (sugli spiriti, sui fiammiferi, sui sacchetti di plastica non biodegradabili).