Unico, i commercialisti: bene la proroga al 6 luglio

Sono molte le categorie professionali rimaste soddisfatte solo a metà dal rinvio al 6 luglio per i versamenti di Unico per i contribuenti soggetti a studi di settore. Dopo la reazione dell’Int, attivissimo da tempo nella richiesta di una proroga, registriamo anche il commento dei commercialisti, per bocca del presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti, Gerardo Longobardi.

L’annuncio da parte del Mef dello slittamento al 6 luglio del versamento di Unico per i contribuenti soggetti agli studi di settore – commenta Longobardiè sicuramente una notizia positiva, che è anche il frutto della costante interlocuzione che il nostro Consiglio nazionale ha da tempo intavolato sia con lo stesso Mef che con l’Agenzia delle Entrate. D’altro canto, non possiamo non rilevare come si tratti di un provvedimento purtroppo giunto sul filo di lana”.

Con questa decisione – prosegue Longobardiil Mef dimostra sensibilità per le sollecitazioni che il nostro Consiglio nazionale ha avanzato in queste settimane, facendosi portatore delle difficoltà che la professione sta ancora una volta affrontando. Pur apprezzando e riconoscendo tale sensibilità, è però innegabile che un rinvio dato così a ridosso della scadenza lascerà l’amaro in bocca ai nostri colleghi”. Una posizione in linea con quella dell’Int.

Come Consiglio nazionale – spiega il presidente dei commercialistiabbiamo sempre lavorato per il rafforzamento di un rapporto di interlocuzione costruttiva e propositiva con le istituzioni. Un approccio che rivendichiamo con forza e che ha già dato e che siamo certi darà nelle prossime settimane e mesi frutti positivi, specie sul fronte delle semplificazioni fiscali. Proprio in questa prospettiva di collaborazione, ci permettiamo di sottolineare ancora una volta come l’intero sistema fiscale e i suoi protagonisti – istituzioni, professionisti e contribuenti – non possono più permettersi le fibrillazioni che anche quest’anno, come ogni anno, abbiamo vissuto con l’approssimarsi di una scadenza così importante. Il tema di una generale razionalizzazione del calendario delle scadenze fiscali è a questo punto indifferibile e ineludibile. Proprio gli intensi rapporti che si sono instaurati tra il Consiglio nazionale, il Ministero dell’Economia e l’Agenzia delle Entrate ci forniscono oggi la possibilità di confrontarci in maniera proficua anche su questo aspetto. Un’occasione da non sprecare”.

Fisco e giustizia, i numeri

Nel 2015 sono calati i contenziosi con il fisco. Non che l’amministrazione tributaria avida e rapace sia diventata improvvisamente buona: semplicemente, si tratta di una tendenza già avviata negli scorsi anni che, anche per il 2015 ha visto un -7,2% di liti tributarie pendenti con il fisco. Il numero rimane ancora mostruoso, oltre mezzo milione (530.844, per l’esattezza), ma i dati diffusi dal ministero dell’Economia hanno comunque un certo peso.

Il calo del 2015 è stato generato anche dalla crescita dei ricorsi pervenuti alle Commissioni tributarie (14.233) e dalla definizione di quasi 300mila controversie (298.313). In sostanza, il numero dei ricorsi definiti nel 2015 con il fisco è stato superiore a quelli complessivamente pervenuti.

Entrando nel dettaglio delle cifre del ministero, i ricorsi contro il fisco sono cresciuti del 5,8%, con un +3,3% nel primo grado di giudizio e un +13,7% di appelli, mentre sono calate le controversie definite (-1,2%) rispetto al 2014. Il 62% delle controversie pendenti (329.110 unità) è in giacenza da meno di 2 anni, il 28,8% (152.799) da 2 a 5 anni, poco meno del 10% (9,2%, pari a 48.935 controversie) da più di 5 anni.

Impressionante il valore complessivo delle controversie presentate al fisco nel 2015: circa 33,5 miliardi di euro, con un valore medio della singola controversia pari a circa 130mila euro. Il totale delle controversie definite nel 2015 ammonta a circa 35 miliardi, con un valore medio della singola controversia definita di circa 117mila euro.

Infine, uno sguardo ai tempi della giustizia tributaria che, come per quella civile o penale, non brillano per dinamismo. Nel 2015, la durata media di un processo con il fisco, nel primo grado di giudizio, è stata di 857 giorni, comunque in miglioramento rispetto al 2014 (-104 giorni); nel secondo grado di giudizio la media cala a 750 giorni, comunque in crescita rispetto al 2014 (+20 giorni).

La Convention UCINA SATEC 2016

Sono venute notizie incoraggianti dalla Convention UCINA SATEC 2016, tenutasi la scorsa settimana a Venezia. Si è trattato dell’appuntamento annuale di UCINA Confindustria Nautica, che rappresenta un momento importante per approfondire i temi di maggior rilievo del comparto.

Il dibattito della convention ha affrontato i temi caldi del settore: il mercato, la semplificazione delle procedure, il leasing nautico, gli incentivi alle imprese, le misure per rilanciare l’intera filiera nautica

È emerso che il settore inizia a dare diversi segnali di ripresa, come si evince dai dati Assilea, presentati in anteprima dal Direttore Generale, Gianluca De Candia. I dati delineano una ripartenza anche del mercato interno e un positivo effetto del Salone Nautico con un +50% dei contratti stipulati dopo la manifestazione. Rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, nei primi cinque mesi del 2016 i contratti di leasing nautico italiano sono cresciuti del 44% in numero e del 26% in valore (+30% se si considerano i soli pleasure yacht, senza le unità adibite a noleggio), confermando la spinta propulsiva registrata a valle del Salone Nautico di Genova.

Dati positivi anche per la piccola nautica evidenziati dalla vendita di fuoribordo: nell’ultimo biennio si è assistito ad una crescita del 40%. Oggi, in questo segmento, l’Italia cresce più di Germania, Francia e Spagna.

Il trend positivo rilevato da Assilea e UCINA trova conferma nei dati riportati da Maria Pia Monteduro, dirigente generale del Dipartimento Finanze, che evidenziano come nel 2015 si è assistito a un forte aumento della produzione, registrato dal gettito Iva e dalle esportazioni nautiche verso gli Stati Uniti. Nel suo intervento, Monteduro ha ricordato le misure di incentivo e sostegno alle imprese messe a disposizione dal Governo. Come il superammortamento e il Patent box, l’agevolazione sui marchi e brevetti.

L’industria italiana – ha commentato il sottosegretario all’Economia e alle Finanze Pier Paolo Barettaha bisogno di essere sostenuta a monte, già nell’elaborazione e tutela delle idee. Il Made in Italy è qualità e bellezza e per questo abbiamo pensato appositi strumenti”.

La competitività è stata l’argomento principale dell’intervento di Marco Taisch, ordinario presso il Politecnico di Milano – Dipartimento di Ingegneria Gestionale, che ha spiegato come il futuro sarà delle aziende 4.0, realtà digitalizzate nel processo di produzione e nei prodotti, capaci di utilizzare le informazioni ricavate per fare nuovo business.

Sul fronte dell’export, è intervenuto Ernesto Carbone, responsabile dell’ufficio Regimi doganali e traffici di confine dell’Agenzia delle Dogane, che ha parlato del nuovo approccio dell’Agenzia con il mondo della nautica, nato anche su sollecitazione di UCINA. Tra i primi frutti, ha ricordato Carbone, l’adozione della recentissima circolare che fissa la nuova procedura per le unità in esportazione e che non richiede più il raggiungimento di un Paese extra Ue per accertare l’avvenuta uscita dalle acque comunitarie.

Di segno positivo la conclusione di Carla Demaria, presidente di UCINA: “Abbiamo lavorato molto, ma l’elenco di richieste al Governo è ancora importante: il registro telematico delle imbarcazioni – tecnicamente pronto da due anni, ma ancora in attesa del decreto attuativo – che potrebbe essere una fonte di reddito importante anche per l’Erario; la definizione del contenzioso che interessa le concessioni demaniali della portualità turistica; il rilancio dello strumento del leasing nautico, motore di crescita indispensabile per il comparto; l’export e le opportunità di internazionalizzazione e, in generale, la semplificazione e certezza delle procedure burocratiche”.

Credo che grazie al lavoro di UCINA questo importante settore industriale ha avuto alcune risposte significative dal Governo – ha concluso Baretta -, ma il risultato più importante credo sia stato quello di aver stabilito un clima di reciproca fiducia. Oggi si è parlato di futuro, questo è fondamentale nei settori che qualificano l’Italia nel mondo. Mi prendo l’impegno di lavorare alla risoluzione delle richieste del settore, continuando a collaborare continuativamente al fianco di UCINA come negli ultimi due anni. La capacità di aver fiducia e di guardare al futuro saranno le nostre armi”.

A Roma il congresso di Federnotai

Appuntamento importante per il mondo notarile giovedì 30 giugno 2016. A Roma, a partire dalle 9.30 al Nazionale Eventi di via Palermo 10 si terrà infatti il congresso nazionale di Federnotai, il sindacato dei notai italiani.

Il tema del congresso è significativo, Notariato e legalità: tra narrazione e partecipazione, e sarà sviscerato attraverso diversi momenti di riflessione:

  • Le regole tra avventura e passione: “Acto e Norma”, la prima collana di libri per ragazzi dedicata alla legalità;
  • Il valore delle regole: gli effetti dell’illegalità sull’economia nazionale;
  • Autoveicoli fantasma: la proposta di Federnotai per contrastare il fenomeno dell’intestazione fittizia delle auto;
  • I beni comuni, il recupero e la gestione: sussidiarietà e amministrazione condivisa.

Interverranno al congresso di Federnotai, tra gli altri: Franco Roberti, Procuratore Nazionale Antimafia; Raffaele Cantone, Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione; Ugo Mattei, Professore di Diritto Internazionale Comparato, Hastings College of the Law, California University; Rodolfo Lewanski, professore di Democrazia Partecipativa e Analisi delle Politiche Pubbliche, Università di Bologna; Gregorio Arena, presidente dell’associazione Labsus; Carmelo Di Marco, presidente di Federnotai.

La scorpacciata d’estate del fisco

Il 16 giugno scorso è stato l’ennesimo giorno di lacrime e sangue per i contribuenti italiani. Secondo alcune stime, quel giorno il fisco ha incassato quasi 52 miliardi da imprese e cittadini. Secondo i calcoli fatti dalla Cgia, si è trattato per la precisione di 51,6 miliardi, anche se resta da capire se, da questa cifra, è necessario togliere i circa 4 miliardi dovuti al fisco dai professionisti soggetti agli studi di settore, per i quali è stato fatto slittare al 6 luglio 2016 il termine per effettuare i versamenti relativi alla dichiarazione dei redditi, Irap e unificata. Peccato che molti di questi professionisti avessero già pagato…

Sia come sia, i calcoli della Cgia hanno rilevato che, tra ritenute Irpef, Tasi, Imu, Ires, Iva, Irpef, Irap, addizionali comunali/regionali Irpef e altre tasse e balzelli assortiti, il fisco ha fatto una scorpacciata. Dei 51,6 miliardi stimati, 34,8 sono finiti nelle casse dell’erario, 11 in quelle dei Comuni e 5,3 in quelle delle Regioni, senza contate i 500 milioni incassati dagli enti camerali dal diritto annuale a loro dovuto.

Spacchettando il dato tra i diversi tributi dovuti al fisco, risulta che il versamento più oneroso è stato quello delle ritenute Irpef dei dipendenti e dei collaboratori, che hanno permesso all’erario di incassare 11 miliardi.

Sul fronte delle tasse sulla casa, con l’abolizione della Tasi sulla prima abitazione, che per l’anno in corso consente agli italiani di risparmiare 3,5 miliardi di euro, l’impegno economico più importante del 2016 per le famiglie è venuto dal pagamento al fisco della prima rata dell’Imu-Tasi sulle seconde/terze case e sugli immobili ad uso strumentale. Dei 10,2 miliardi di euro di gettito previsti dal pagamento della prima rata da queste due imposte, quelli in capo alle famiglie sono circa 5.

Altrettanto oneroso è stato il pagamento del saldo 2015 e dell’acconto 2016 relativo all’Ires. Le imprese hanno versato al fisco poco più di 8,5 miliardi di euro, anche se le aziende con dipendenti hanno beneficiato di un minore peso fiscale Irap, grazie all’eliminazione dalla base imponibile del costo del lavoro introdotta con la legge di Stabilità 2015, pari a circa 5,6 miliardi di euro l’anno; 4,3 miliardi se si considerano gli effetti indiretti sulla base imponibile Ires/Irpef.

Invece, l’Irpef, in capo agli imprenditori individuali, soci di società di persone e percettori di redditi diversi da quelli da lavoro dipendente e pensione, ha assicurati al fisco 4 miliardi.

Da questo calcolo, la Cgia ha escluso i contributi previdenziali e ha ipotizzato che il fisco locale, in virtù delle scadenze del versamento della Tari abbia strutturato il pagamento in 4 rate, una delle quali con scadenza a giugno. Dall’analisi dei bilanci consolidati dei Comuni elaborati dall’Istat, si è stimato che il gettito complessivo della Tari per l’anno in corso sia di 8,2 miliardi di euro: dividendo l’importo per 4 rate, si arriva a stimare il gettito medio della Tari in circa 2 miliardi per ciascuna rata.

Amara la conclusione del segretario della Cgia, Renato Mason: “Con un fisco più semplice anche l’Amministrazione finanziaria potrebbe lavorare meglio ed essere più efficiente nel contrastare gli evasori/elusori fiscali. La selva di leggi, decreti e circolari esplicative presenti nel nostro ordinamento tributario, invece, complica la vita anche agli operatori del fisco che, comunque, continuano ad essere uno dei settori più virtuosi della nostra Pubblica amministrazione”.

Ripetizioni, i prezzi del mercato

Con la fine della scuola, per i genitori di bambini e ragazzi cominciano le spese. Nella migliore delle ipotesi, si tratta di spese per centri estivi e oratori feriali, nella peggiore parliamo delle spese per le ripetizioni scolastiche. E non sono spese da poco.

Da un’indagine sul mercato delle ripetizioni condotta da ProntoPro.it, portale che mette in contatto domanda e offerta di lavoro professionale e artigianale, risulta che la spesa più alta, in media, è quella legata alle materie scientifiche: 18 euro all’ora.

Le ripetizioni di inglese posso costare in media, a livello nazionale, 13,50 euro all’ora, una lezione di matematica per le medie e superiori raggiunge un prezzo medio di circa 12 euro, mentre le lezioni di materie umanistiche arrivano a poco meno di 10 euro all’ora.

L’indagine ha anche appurato che esiste un forte divario di prezzi tra Nord e Sud Italia in fatto di ripetizioni, sia per le materie scientifiche sia per quelle umanistiche. Milano è la città più cara dove prendere lezioni private: occorrono in media circa 23 euro per una lezione di carattere scientifico – contro una media nazionale, lo abbiamo visto di poco più di 18 euro -, mentre per una di ambito umanistico si arriva a 12,50 euro – contro la media italiana di circa 10 euro.

C’è anche una correlazione tra il livello di studio e i costi per le ripetizioni. Sempre a Milano, studiare privatamente matematica costa in media 24 euro se si è all’Università (media nazionale 19 euro), mentre per un liceale la cifra è poco sotto i 16 euro (media nazionale 12 euro). In città come Genova, Roma e Perugia, i costi per le ripetizioni si mantengono in linea sia per le lezioni di matematica per universitari, 23 euro, sia per quelle per liceali, 15 euro circa.

Al Centro-Sud, per colmare le proprie lacune nelle materie scientifiche uno studente di Napoli arriva a spendere circa 10,50 euro all’ora e 5,50 per le materie di ambito umanistico. Anche per le ripetizioni di matematica di livello universitario e scolastico, le città meridionali sono più convenienti: ancora Napoli guida la lista delle province più economiche (11 euro per un’ora di lezione di tipo universitario, 7 euro per una di ambito umanistico), seguita da Catanzaro, L’Aquila e Potenza.

Quali, invece, i capoluoghi più economici: per le ripetizioni di inglese, Bari, L’Aquila e Potenza (9 euro/ora), per le materie scientifiche e umanistiche Catanzaro (rispettivamente 11 e 6 euro), per le ripetizioni di matematica a studenti universitari Catanzaro e Napoli (11 euro), cosi come per le ripetizioni di matematica a studenti di medie e superiori (7 euro).

Piccoli imprenditori, grandi lavoratori

Nelle realtà imprenditoriali locali, i piccoli imprenditori sono quasi insostituibili. Lo confermano le risposte a un questionario inoltrato dalla Camera di commercio di Milano a maggio 2016 a circa 240 imprese del territorio.

Dalle risposte emerge che il 53% delle imprese condotte da piccoli imprenditori ritiene che un’eventuale assenza del titolare creerebbe notevoli problemi. Il 25% ritiene che la mancanza dall’azienda comporterebbe una decrescita del fatturato dal 10 al 50%, per il 13% l’assenza del titolare non è proprio possibile per mancanza di alternative.

Ancora più alta la percentuale, rispetto alla media del 53%, nel settore bar e ristoranti e nelle imprese più piccole, quelle con un numero di dipendenti da 1 al 3: oltre il 60% degli intervistati in entrambi i settori, teme ripercussioni negative dall’assenza del titolare. Inoltre, il 17% dei piccoli imprenditori confida nella potenzialità dei soci, mentre l’11% si appoggia a persone di fiducia e familiari.

A oltre la metà dei titolari, precisamente il 54%, non è mai capitato di essersi allontanati dalla propria azienda, mentre quasi il 20% degli intervistati almeno una volta si è assentato per malattia (19%) o per un viaggio (19%).

E, almeno nel tessuto produttivo nel quale è stato somministrato il questionario, i piccoli imprenditori e le piccole imprese sono numerosissimi. Secondo un’elaborazione della Camera di commercio di Milano sui dati del registro delle imprese al primo trimestre 2015 e 2016, in Lombardia il 94% delle imprese ha meno di 9 addetti, ben 763mila su 813mila.

Cresce la quota dei piccoli imprenditori a Pavia, Lodi (96%), Cremona e Sondrio (95%). In un anno ci sono circa 3mila imprese in più in Lombardia e il contributo maggiore è delle piccolissime imprese con 1 addetto, oltre 5mila in più. Si tratta di un dato legato soprattutto alle imprese straniere, circa 4mila in più in un anno, sia in totale che nella classe con 1 addetto.

Per quanto riguarda i settori produttivi con le imprese più piccole, il 98% di quelle dell’agricoltura e dei servizi alla persona ha meno di 9 addetti, così come il 97% di costruzioni e attività finanziarie.

Perché il promotore NON è un consulente indipendente

Vorrei fare un po’ di chiarezza riguardo a due figure professionali che spesso vengono confuse: il consulente finanziario indipendente e il promotore finanziario. Chiariamolo subito, il consulente veramente indipendente, cioè colui che lavora solo per il cliente, non ha mandato da nessun intermediario e non gli vende nessun prodotto, quindi cosa fa? Consiglia il cliente, senza vendergli mai nulla e senza avere nessun interesse di parte, perché non lavora per nessuna banca, intermediario, SGR o SIM.

Il consulente indipendente non guadagna una percentuale sul “prodotto finanziario” acquistato dal clienti, bensì ha una parcella per il suo lavoro di consulenza, che prescinde dal costo del prodotto finanziario che sarà acquistato direttamente dal cliente.

La legge dice espressamente, invece, che l’attività del promotore finanziario può essere svolta esclusivamente nell’interesse di un solo soggetto. Questo soggetto non è il cliente bensì l’istituto finanziario per il quale lavora: i promotori finanziari sono dunque, agenti monomandatari. Il loro onorario deriva dalle provvigioni sui prodotti finanziari venduti.

Ricordo che il 90% della ricchezza depositata presso le banche è gestita oggi direttamente dalle banche stesse. Il rimanente 10% è gestito dalle reti di promotori finanziari oppure direttamente dai clienti o con l’ausilio del consulente indipendente: non è dato sapere in quale percentuale è ripartito, si immagina una buona fetta ad appannaggio delle reti e quindi solo una minima parte svincolata dalle dinamiche bancarie in generale.

Come dicevo, e come dice anche la Mifid, cioè la Direttiva europea in materia di intermediari finanziari, la consulenza deve essere scissa dalla vendita, non ci devono essere conflitti di interesse. Il sistema bancario sta cercando, e sono sicuro che ci riuscirà, di mascherare l’assistenza alla vendita come consulenza, e di farsi anche pagare per questo.

Di già c’è un proliferare di pseudo-consulenti che in realtà sono promotori o consulenti globali, area consulenza, consulenza privati, family planner… Chi ne conosce altri, dica pure. Figuriamoci che confusione genererà la legge che li autorizzerà a definirsi consulenti a tutti gli effetti.

Cosa c’è di male, poi, a chiamare le professioni con il proprio nome? Se fai il venditore, perché devi definirti consulente? Perché fa più figo? Perché ti vergogni di essere un venditore? Perché vuoi confondere il tuo interlocutore? Ripeto che non c’è nulla di male a dire quello che si fa, nessuna professione o mestiere (onesto) è disonorevole, e che se tutto fosse più chiaro, ci sarebbe anche più consapevolezza.

Ti faccio un esempio: il commesso del negozio di abiti che ti aiuta a scegliere la taglia giusta per te, è un consulente? No, è un commesso che sta cercando di concludere una vendita. Paghereste una consulenza al commesso? Io no, perché sta facendo solo il suo lavoro di assistenza alle vendite.

Spesso, quando ti rivolgi ad un bancario o ad un promotore, gli fai capire solo quel lato della tua personalità, che è quello del giocatore, dello scommettitore. Anzi a volte sono proprio loro a stimolare questa venalità, questa ingordigia insita nell’uomo. A tutti piace vincere! Ti fanno vedere quanto potrebbe rendere se investissi in modo aggressivo, ti raccontano che le borse nel lungo periodo guadagnano sempre e così via.

La realtà è che quei soldi che stai così allegramente puntando al “tavolo da roulette” degli investimenti spericolati, probabilmente ti servirebbero per fare delle cose importanti per te o la tua famiglia, cose alle quali dovrai rinunciare se la vincita non si realizzerà.

Ti rimando al video nel quale parlo del life planning e di come gli investimenti dovrebbero seguire una logica strettamente collegata ai tuoi obiettivi di vita: se tu non li sai, come potrebbe tenerne conto un promotore finanziario il cui unico scopo è guadagnare sulla vendita dei suoi prodotti? Beh, spero di aver suscitato almeno qualche riflessione su questo argomento.

dott. Marco Degiorgis – Consulente patrimoniale e finanziario indipendente, Studio Degiorgis

Pa e fatturazione elettronica, la grande beffa

Una delle specialità nelle quali eccelle la nostra Pubblica amministrazione è quella di prendere in giro le imprese. Lo dimostra il caso dell’obbligo di fatturazione elettronica, che in larga parte ha disatteso gli obiettivi per i quali era stato introdotto, come ha sconsolatamente sottolineato la Cgia.

Com’è possibile – si chiede il coordinatore dell’Ufficio studi degli artigiani mestrini, Paolo Zabeo, – che a distanza di oltre un anno dall’introduzione della fatturazione elettronica la nostra Pubblica amministrazione non conosca l’ammontare complessivo dei debiti commerciali che ha accumulato nei confronti dei propri fornitori, visto che questo sistema dovrebbe permettere di controllare che tutti gli enti centrali e periferici paghino in 30 o massimo 60 giorni così come previsto dalla Direttiva Ue?”.

Zabeo non si limita a domandare, ma circostanzia la situazione: “Il dato di partenza è il seguente: oggi lo Stato non ha una mappatura certa dei debiti a cui deve far fronte, nonostante sia obbligatorio per legge comunicare attraverso la piattaforma elettronica lo stock maturato alla fine di ogni anno entro il 30 aprile successivo. Inoltre, con l’introduzione della fatturazione elettronica, resa obbligatoria a partire dal 31 marzo 2015 a tutte le aziende che hanno rapporti commerciali con la Pa, il Governo si era posto l’obbiettivo di rendere trasparente e immediato il rapporto tra le parti, ma, soprattutto, di fornire un riscontro immediato dell’impegno economico preso dallo Stato nei confronti dei propri creditori. Dopo più di un anno, invece, non c’è ancora un dato ufficiale; l’indagine campionaria eseguita dalla Banca d’Italia, indica che la Pa, al 31 dicembre 2015, sarebbe debitrice nei confronti dei propri fornitori per 65 miliardi di euro, 35 dei quali riconducibili a fatture emesse da moltissimo tempo. Una stima, tengono comunque a precisare i ricercatori di via Nazionale, caratterizzata da un grado di incertezza non trascurabile e, pertanto, poco attendibile”.

Ma non è tutto. Se, da una parte, lo strumento della fatturazione elettronica non riesce ad assolvere ai compiti cui è chiamato, dall’altro rimane ancora il nodo dei tempi di pagamento. Bankitalia ha infatti constatato che nel 2015 i tempi medi di pagamento della Pa sono stati pari a 115 giorni, a fronte di una Direttiva Ue che risale al 2013 e che impone tempi compresi tra 30 e 60 giorni.

Ritardi che costano allo Stato, dal momento che la procedura di infrazione dell’Ue scattata contro l’Italia a giugno 2014 per la violazione della direttiva europea sui ritardi di pagamento non è ancora stata chiusa.

Una situazione paradossale, forse più di quella della fatturazione elettronica, contro la quale tuona anche il segretario della Cgia, Renato Mason: “Oltre a non pagare entro i tempi stabiliti dalla direttiva Ue, Bruxelles ci ha comminato questa infrazione anche perché molti enti utilizzavano dei contratti dove venivano applicate delle cifre dovute agli interessi significativamente inferiori al limite imposto dalla direttiva, cioè il tasso di riferimento Bce aumentato dell’8%. In altri casi ancora, c’era il malcostume, spesso ricorrente ancora adesso, di posticipare i report d’avanzamento dei lavori e di conseguenza ritardare i pagamenti.

E sebbene gli ultimi 3 Esecutivi che si sono succeduti in questi ultimi anni abbiano messo a disposizione più di 56 miliardi di euro per abbassare lo stock, lo smaltimento dei debiti nel nostro Paese rimane ancora un problema irrisolto”.

Una situazione intollerabile che mette l’Italia in pessima luce in Europa. Nessun altro Paese Ue conta un ammontare complessivo del debito per acquisti di beni e servizi paragonabile a quello italiano. I dati Eurostat provvisori, relativi al 2015, indicano che in Italia i debiti commerciali della Pa riconducibili alla parte corrente, esclusa la quota in conto capitale, ammontano a 49 miliardi. Per dare un ordine di grandezza, in Germania sono 35,1, in Francia 26,4, in Spagna 14,6, in Olanda a 5,4.

Disabilità, Federnotai plaude alla legge “dopo di noi”

È passato definitivamente alla Camera nei giorni scorsi, il testo di legge per l’assistenza “dopo di noi”, il cui obiettivo è quello di disegnare un nuovo quadro normativo a tutela delle persone con disabilità grave, che non godono di sostegno familiare. Il testo era stato già approvato con modifiche al Senato a maggio.

Le persone affette da disabilità tutelate dalla nuova legge sono quelle cui mancano i genitori o che li hanno, ma non sono in grado di far fronte ai bisogni dei figli. La nuova legge aspira a funzionare già quando i genitori della persona affetta da disabilità sono ancora vivi, in modo che siano coinvolti in prima persona.

Carmelo Di Marco, presidente di Federnotai, il sindacato dei notai italiani, ha espresso l’apprezzamento della categoria notarile per la legge, con una nota: “L’approvazione della legge ‘dopo di noi’ apre nuove prospettive alle persone affette da disabilità e alle loro famiglie – ha sottolineato Di Marco -. I notai italiani, con la loro funzione di garanti della sicurezza nella pianificazione patrimoniale delle famiglie, saranno come sempre al loro fianco per individuare in ciascun caso concreto gli strumenti migliori per la tutela dei soggetti più deboli. Nella legge approvata in via definitiva meritano grande considerazione le agevolazioni fiscali sui trasferimenti successori, sulle donazioni e sui trust finalizzati al sostegno delle persone con disabilità, che potranno facilitare la loro sicurezza patrimoniale, consentendo di prevenire un costo che avrebbe potuto scoraggiare l’intestazione di beni a loro nome. Inoltre le norme dirette a favorire la permanenza delle persone con disabilità nelle loro case o a promuovere esperienze di co-housing tra loro, garantiranno la conservazione degli affetti e delle relazioni sociali e la fruizione in comune dei necessari servizi di assistenza“.

La nuova legge istituisce il Fondo per l’assistenza alle persone con disabilità grave e disabili prive del sostegno familiare, attivo presso il ministero del Lavoro e delle politiche sociali. La dotazione finanziaria del fondo, per l’anno in corso, è di 90 milioni di euro.

Attraverso il Fondo si punta a realizzare interventi a favore delle persone con disabilità o a creare e sostenere programmi di aiuto ai soggetti disabili, in modo che possano gestire le incombenze della loro vita quotidiana con maggiore autonomia rispetto a quanto riescono a fare oggi.