Salone del Mobile di Milano 2021: informazioni, biglietti e numeri dell’evento

Dal 5 al 10 settembre 2021 il Salone del Mobile di Milano accoglie i suoi visitatori, riparte da questo grande evento nazionale, dopo le lunghe soste dovute al Covid 19,  il settore delle fiere in Italia e i primi dati sembrano confermare l’ipotesi di un’Italia in forte ripresa.

Salone del Mobile di Milano 2021: banco di prova per la ripresa dell’economia

In Italia il settore del design è sempre stato essenziale per l’economia e il Salone del Mobile di Milano è un banco di prova per capire la probabile evoluzione economia del Bel Paese, proprio per questo la data del 5 settembre era molto attesa e il taglio del nastro da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stato un importante segno delle aspettative che si nutrono su questo evento. Proprio il Presidente Mattarella ha sottolineato che da qui riparte l’economia del Paese, una sorta di prova generale visto che si tratta da sempre di un evento simbolo per l’industria italiana perché in grado di attirare milioni di visitatori, tra giornalisti, lavoratori del settore e appassionati, provenienti non solo dall’Italia, ma da tutto il mondo.

Salone del Mobile di Milano 2021: i numeri di una grande esposizione

Quest’anno l’allestimento della Fiera è stato curato dall’architetto Stefano Boeri, accompagnato da Andrea Caputo, Maria Cristina Didero, Anniina Koivu, Lukas Wegwerth, Marco Ferrari, Elisa Pasqual e Giorgio Donà. A loro si affianca Annalisa Rosso che cura la piattaforma del Salone del Mobile: uno strumento innovativo il cui obiettivo è far dialogare gli spazi virtuali con quelli reali in modo da offrire un’esperienza totale. L’area di esposizione è di 210.000 metri quadrati ed è organizzata in modo da favorire la permanenza in sede nel pieno rispetto delle normative Anti-Covid. Ci sono spazi di esposizione, ma anche dedicati al conferenze, networking e incontri. Ci saranno oltre 423 brand, 50 designer indipendenti e oltre 170 progetti realizzati da 48 scuole di design internazionali.

Si tratta di un appuntamento sicuramente atteso, non solo perché nel 2020 non è stato possibile allestire il Salone del Mobile di Milano, ma anche perché trattasi del primo evento nazionale importante del dopo Covid e si celebra il sessantesimo dalla nascita della manifestazione.

Dal 5 al 10 settembre 2021 c’è la fiera eco-sostenibile

L’obiettivo di questa importante edizione 2021 è rendere l’evento una vera banca del design in cui immergersi nella creatività e nel saper fare dell’industria dell’arredo e del design rendendo il Salone del Mobile di Milano un appuntamento importante non solo per stakeholder e per aziende specializzate nel settore, ma anche per il grande pubblico cioè per chi semplicemente ama il mondo del design e dell’arredo. L’obiettivo sembra essere stato centrato, perché ad oggi, 7 settembre nel mezzo della Fiera del Mobile di Milano già si contano migliaia di visitatori e nella sola giornata di apertura dell’evento sono stati contati 30.000 visitatori.

Il Salone del Mobile di Milano 2021 si caratterizza anche per una filosofia eco-sostenibile, infatti gli allestimenti utilizzati sono tutti riutilizzabili e smontabili in questo modo non vi saranno sprechi e sarà ridotto l’impatto ambientale della fiera stessa. E’ stato calcolato che da questa piccola attenzione deriveranno immissioni di CO2 in meno di 1,2 milioni di chilogrammi. D’altronde la sostenibilità ambientale è il filo conduttore anche di molte aziende che hanno deciso di esporre presso l’evento fieristico. Per l’esposizione di arredi e oggetti di design particolarmente attenti all’ambiente e all’economia circolare.

Orari e come arrivare al Salone del Mobile Milano 2021

Per chi vuole visitare il Salone del Mobile di Milano è bene ricordare che l’evento si svolge a Rho Fiera, località raggiungibile utilizzando la linea della metropolitana M1, oppure per chi arriva in auto è possibile percorrere l’ A4 con uscita Fiera Milano. Infine, per chi vive fuori città è possibile raggiungere la Fiera attraverso l’Autostrada E 35. Chi arriva in aeroporto da Malpensa e Linate sono disponibili bus e navette per la Fiera. Gli spazi di Rho Fiera sono dotati inoltre di ampi parcheggi per visitatori ed espositori. L’ingresso al Salone del Mobile Milano è aperto dalle ore 10:00 alle ore 19:00 per i visitatori, mentre per gli espositori dalle ore 9:30 alle ore 19:30. Naturalmente c’è l’orario continuato. Attenzione al giorno di chiusura, cioè il 10 settembre perché gli orari saranno ridotti e la fiera chiuderà i battenti alle ore 16:00.

L’ingresso presso il Salone del Mobile di Milano costa 15 euro e i biglietti possono essere acquistati esclusivamente sul sito online del Salone. Al momento dell’acquisto è necessario indicare anche il giorno in cui si vuole visitare il Salone, inoltre si può effettuare un solo acquisto per ogni ordine, il biglietto è personale e non cedibile.  Scopri tutti gli eventi e le info sul sito https://www.salonemilano.it/it ed è possibile chiedere info all’indirizzo e-mail visitatori.saloni@fieramilano.it.

Infine, è bene ricordare che per poter visitare il Salone del Mobile di Milano 2021 è necessario esibire il Green Pass.

Caro governo, pensa alle imprese e ai professionisti…

 

Che cosa chiedono le associazioni di categoria al nuovo esecutivo? Dopo l’Ordine Nazionali dei Tributaristi, abbiamo rivolto le stesse quattro-topiche domande anche alla Presidente dei Consulenti del Lavoro, Marina Calderone.

Il quadro è chiaro: l’esclusività del sistema ordinistico italiano è il nostro fiore all’occhiello ma anche un gran tallone d’Achille.

Quali sono, a suo parere, le tre priorità che dovrà affrontare il nuovo governo per rilanciare domanda e consumi?
Riduzione del costo del lavoro, semplificazione amministrativa, abbattimento dei costi pubblici: sono le priorità su cui è indispensabile intervenire immediatamente per dare ossigeno al mercato.

Quali, invece, le politiche che dovrà mettere in campo per dare sostegno a imprese e professionisti, strozzati dalla crisi?
E’ indispensabile mettere al centro delle riforme di sistema le Pmi, vero motore del Paese. Senza rilanciare questo segmento non ci sarà futuro. Non bisogna mai dimenticare che il lavoro dipendente viene creato dal lavoro autonomo e che quindi, senza sviluppo di imprese e professioni, non ci sarà sollievo per la disoccupazione. In particolare, sarà necessario creare una rete di incentivi che possano permettere di uscire dalla crisi.

Per parte vostra, quali saranno le prime istanze che porterete al nuovo esecutivo?
Chiederemo di intervenire sui settori che, colpevolmente, non sono stati oggetto di riforme strutturali. Interventi sui servizi dell’energia e su quelli bancari (con particolare riferimento ai mutui) sono indispensabili; possono innescare un meccanismo virtuoso di sviluppo sprigionando energie che restano al momento circoscritte in un ambito ristretto.

Qual è l’errore più grave commesso dai precedenti governi che non volete venga più commesso dall’esecutivo che verrà?
Non c’è dubbio che gli interventi mirati a destabilizzare il sistema ordinistico siano stati gravi errori. Siamo in presenza di un valore aggiunto del nostro Paese che offre buona occupazione sia ai giovani professionisti che ai tantissimi dipendenti degli studi professionali. I professionisti ordinistici sono interlocutori stabili della Pubblica Amministrazione per la quale operano in sussidiarietà, svolgendo funzioni che ne sostengono l’azione e sopperendo in tantissimi casi alle lacune del sistema pubblico con grande vantaggio per i cittadini.

Paola PERFETTI 

Quanto vale in Borsa la tua città?

Spread, Bot, indici, Ftse… La crisi economica che attanaglia il mondo ci sta facendo familiarizzare, nostro malgrado, con un sacco di termini proprio del mondo borsistico. Pochi però, forse, si rendono conto del fatto che la Borsa è qualcosa che, nella realtà, è molto più vicino alle imprese e alle famiglie di quanto non sembri. Qualcuno si è mai posto il problema, per esempio, di quanto possa valere (o meglio, capitalizzare) in Borsa la propria città?

Lo ha fatto Simon-Kucher & Partners, società di consulenza aziendale, che ha studiato la capitalizzazione azionaria delle imprese nelle varie città italiane. Risultato: Roma, Milano, Torino e San Donato Milanese restano anche per il 2012 le città di maggior capitalizzazione.

La Capitale, nonostante il suo “vestito” da vecchia signora della burocrazia e di centro dei maneggi politici, con 8 aziende e 132 miliardi di euro è ancora in vetta alla classifica. Sebbene vi sia una sola azienda in più quotata rispetto a Milano (8 contro 9), il valore è ben superiore, più del doppio. Anche se si raggruppassero le altre città in provincia di Milano al top della classifica – San Donato Milanese (4°), Sesto San Giovanni (6°) e Basiglio (11°) – la capitalizzazione risulterebbe ancora inferiore rispetto a Roma, nonostante le 13 aziende in confronto alle 9 della Capitale.

Roma deve il suo successo a Eni ed Enel, che da sole superano i 90 miliardi di euro di capitalizzazione. Milano vanta Luxottica e Telecom Italia, Torino Intesa San Paolo, Fiat Auto e Fiat Industrial. San Donato deve la sua presenza in classifica a Saipem e Snam Rete Gas, mentre Trieste, anche quest’anno quinta, deve tutto a Generali.

Lo studio di Simon-Kucher & Partners rileva anche l’incidenza della crisi. Rispetto al 2011 la maggior parte delle città ha subito infatti una diminuzione della capitalizzazione azionaria. Uniche eccezioni Milano, che resta stabile, e Firenze che, grazie a Salvatore Ferragamo, guadagna 10 posizioni passando da una capitalizzazione di 0,71 a quasi 3 miliardi di euro. Brescia con A2A dimezza la propria capitalizzazione ed esce dalla Top 10, perdendo 10 posizioni. Genova, invece, continua a non classificarsi tra le prime 10 città, anzi risulta essere all’ultimo posto. New entry è Modena che raggiunge il 17° posto.

Nella classifica si ritrovano, oltre alle grandi metropoli, anche una serie di piccoli centri urbani: Sesto San Giovanni con Campari, Collecchio con Parmalat, Sant’Elpidio a Mare con il gruppo Tod’s. Tutte città che devono la loro comparsa nel ranking a una sola azienda e, spesso, dipendono fortemente da essa.

La struttura economica decentralizzata è una delle caratteristiche dell’Italia. Le aziende non sono completamente concentrate nella Capitale, come avviene a Parigi o Londra. Siamo più paragonabili alla Germania, dove vi è una maggiore decentralizzazione – spiega Danilo Zatta, Partner di Simon-Kucher -. Ciò rende più regioni partecipi alla vita economica e non solo poche metropoli“.

Ci sono disoccupati e disoccupati…

I numeri sono numeri e dovrebbero essere per loro stessa natura oggettivi. Ma, come tutte le cose, possono essere interpretati. Pensiamo ai dati Istat sulla disoccupazione in Italia a luglio pubblicati ieri. Si può essere più soddisfatti – la disoccupazione è rimasta stabile rispetto a giugno, 10,7% – o meno soddisfatti – è cresciuta del 2,5% rispetto a luglio 2011. Di certo si deve essere molto preoccupati e pensare a delle serie politiche di crescita quando si guarda al dato della disoccupazione giovanile (15-24 anni): 35,3%, in aumento del 1,3% su giugno e del 7,4% su base annua. Un tasso che cresce a un ritmo triplo rispetto a quello complessivo e che, in termini numerici, si traduce in 618mila persone a spasso.

Ragionando per numeri spacchettati, il tasso di disoccupazione dei 15-24enni nel secondo trimestre 2012 sale al 33,9%, dal 27,4% del secondo trimestre 2011 (+6,5%): il tasso più alto, in base a confronti tendenziali, dal secondo trimestre del 1993, inizio delle serie storiche. Anello debole, ancora una volta le donne e ancora una volta al Sud: nel secondo trimestre 2012 il tasso di disoccupazione giovanile tocca un picco del 48% per le ragazze del Mezzogiorno.

Vogliamo continuare a farci del male? Parliamo di precari. Per quanto la tipologia del contratto a termine possa infatti essere vantagggiosa per un’azienda, nel computo delle statistiche finisce per alimentare la magmatica massa dei precari. Ebbene, i contratti a termine sono quasi 2,5 milioni (2,455): il livello più alto dal secondo trimestre del 1993, sia in valore assoluto, sia per l’incidenza sul totale degli occupati. Sommando i collaboratori al numero dei contratti a termine si arriva, poi, alla cifra record, di 3 milioni di precari.

Non male come premesse per cominciare un autunno che definire caldo è dire poco. E non c’è molto da discutere, come spesso accade, sui metodi utilizzati dall’Istat per elaborare i propri studi. Da una parte il governo deve leggere questi numeri e rispondere con vere politiche per la crescita (defiscalizzazione, crediti d’imposta ecc…). Dall’altra i giovani e le imprese devono rimboccarsi le maniche: se non è più così vero come qualche anno fa che il “il lavoro c’è, basta cercarlo (e volerlo fare)“, il modo per far incontrare domanda e offerta (per quanto scarsa quest’ultima possa essere) c’è. Basta che Palazzo Chigi si ricordi che oltre alle tasse c’è di più.

Laura LESEVRE

Mutuo? Scordatelo se hai un solo reddito

La crisi del credito non colpisce solo le imprese: anche le famiglie devono fare i conti con una stretta creditizia che, specialmente per quello che riguarda i mutui. Se infatti per un’azienda è sempre più difficile ottenere un finanziamento, per i nuclei familiari che intendono acquistare una casa la possibilità di accedere a un mutuo è spesso una chimera. Specialmente per le famiglie monoreddito, sempre meno propense a chiedere questo tipo di finanziamento.

Una tendenza figlia della crisi economica generale e di quella dell’edilizia in particolare, messa in luce da Mutui.it, che ha rilevato come solo il 2% delle richieste di mutuo arriva da famiglie monoreddito. Un’indagine svolta su un campione di oltre 160mila richieste di mutuo presentate negli ultimi sei mesi da famiglie con un solo reddito e almeno un figlio.

Qual è, dunque, l’identikit di questa persona con tanta voglia di mutuo? E quale importo riesce a finanziare prima di rischiare il tracollo delle finanze personali? L’età media di chi fa domanda di mutuo è di 42 anni, si tratta per lo più di uomini (76%) con un nucleo familiare superiore alle 3 unità e uno stipendio mensile più elevato della media, circa 2.100 euro netti. Il che porta queste persone ad avanzare una richiesta media di finanziamento pari a 122mila euro, da restituire in un periodo di quasi 23 anni. La percentuale da finanziare attraverso il mutuo si ferma al 52% del valore dell’abitazione.

Un trend che commenta così Lorenzo Bacca, responsabile business unit di Mutui.it: “Affrontare l’iter della richiesta di un finanziamento per l’acquisto di una casa potendo far fede su un solo reddito dimostrabile è piuttosto complesso; i casi sono limitati e le richieste formali arrivano solo da soggetti che dispongono di stipendi elevati e possono accontentarsi di finanziare circa il 50% del valore dell’immobile“.

Il 66% delle domande di mutuo è rivolta all’acquisto della prima casa, mentre solo il 6% delle richieste è destinata all’acquisto di una seconda abitazione e il 10% dei casi punta a rifinanziare un mutuo già in essere. Sulla tipologia di tasso non c’è partita: preferito è indubbiamente quello variabile (48% del campione), mentre il tasso fisso è fermo al 36%.

Tutti fattori che, per queste famiglie monoreddito, mettono al centro della questione il cosiddetto concetto di “rata sostenibile“: il reddito mensile, infatti, tolta la rata del mutuo ed eventuali altri finanziamenti deve consentire la conduzione di un normale tenore di vita e per questo i nuclei con una sola entrata mensile ottengono più difficilmente un mutuo da rimborsare con rate elevate. In più, l’età media più elevata di chi chiede un mutuo già con una famiglia da mantenere riduce la possibilità di avvalersi dei genitori come garanti.

Un’analisi, quella di Mutui.it, la quale non fa che confermare non solo e non tanto le difficoltà delle famiglie nella gestione di un bene primario come è la casa ma la difficoltà di un settore intero quale è quello dell’edilizia. Scarsi investimenti pubblici e privati, un indotto che frena, imprese artigiane che chiudono da una parte. Surplus di offerta, prezzi di mercato superiori alle capacità di spesa delle persone, stretta sui mutui dall’altra. Un settore che è stato sempre in prima linea nella ripresa dopo periodi di difficoltà economica ora non sembra avere le forze necessarie per risollevarsi. Speriamo di no: l’Italia è una repubblica fondata sul mattone.

Tabaccai: imprenditori o poliziotti?

Il Governo Monti sta tornando ai fasti dei suoi esordi e lo si capisce da una cosa: sta di nuovo facendo incazzare tutti. Questa volta con il “decretone sanità” messo a punto dal ministro Balduzzi, tutti hanno qualcosa di cui lamentarsi, dai consumatori (“molto fumo e poco arrosto“, dice Federconsumatori) – che sono certi che l’introduzione di una tassazione sulle bibite gassate e sul cibo spazzatura si tradurrà solo in un aumento dei prezzi delle stesse – alle associazioni di categorie coinvolte a vario titolo in questo omnibus governativo. Un decreto che affianca aspetti positivi di lotta al malcostume (vedi la trasparenza nelle nomine dei vertici Asl) ad altre trovate che, nascoste sotto la faccia buona dello “stato etico“, mirano solo a una cosa: fare cassa.

Oltretutto marciando sopra i cadaveri dei commercianti, come troppo spesso accade. Ecco perché troviamo estremamente condivisibile la presa di posizione dei tabaccai. Una categoria tra le più bistrattate, che per aumentare i margini negli ultimi anni ha dovuto, come dice chi parla bene, “diversificare il business” senza però riuscire a marginare più e meglio di quanto facesse in passato. Con, oltre al danno, la beffa di trovarsi a vendere un articolo (i tabacchi) sul quale il grosso dei guadagni lo fa sempre e solo lo Stato. Ora, poi, arrivano anche le minacce delle maximulte per chi venderà sigarette ai minorenni. Ecco perché Assotabaccai-Confesercenti alza la voce.

Secondo l’associazione di categoria che riunisce i tabaccai, le nuove norme sui tabacchi e i videopoker “non risolvono i problemi di salute pubblica, ma puniscono ingiustamente imprese e consumatori. Mettendo in luce la contraddizione di fondo della politica dello Stato che da un lato si dà al proibizionismo, e dall’altro utilizza le imposte sui due comparti per aumentare le entrate fiscali“. Insomma, il solito gioco: da una parte faccio cassa fin che posso su fumo e gioco d’azzardo legale (per non parlare degli alcolici), dall’altra però ti dico che sono due cose brutte e cattive per cui ti stango se non stai alle regole che metto io.

Infatti, proseguono i tabaccai, “le nuove norme restrittive presenti nel decreto hanno un effetto negativo solo sugli imprenditori, trasformando i tabaccai in agenti di polizia che devono far rispettare un divieto facilmente aggirabile. E costringendo a spostarsi i concessionari che hanno legalmente acquisito la licenza dei videopoker, nella speranza che pochi metri di distanza in più da scuole e ospedali possano prevenire le ludopatie e il gioco compulsivo. Dal Governo aspettiamo, invece di un ritorno al semplice proibizionismo, un piano legislativo organico di lotta alla dipendenze e al gioco d’azzardo illegale […] Invece, con le norme previste dal decreto temiamo una crescita del contrabbando di sigarette – che solo nel 2010 ha arrecato un danno alla filiera di 650 milioni di euro, di cui 485 sottratti al gettito fiscale – e del gioco d’azzardo non autorizzato, a discapito degli imprenditori che hanno le carte in regola“.

Come dare torto? Non bastassero le molte rapine che, statisticamente, i tabaccai subiscono, ora arrivano anche la rapina e le minacce da parte dello Stato. Del resto, questo è il trattamento riservato dalla nostra amministrazione fiscale agli imprenditori e per chi tenta di reagire non si può nemmeno invocare la legittima difesa.

Il passaggio all’euro? Un affare per lo Stato

Non sembrerebbe certo una notizia in senso stretto, quella emersa dall’ennesimo studio della Cgia di Mestre: secondo i dati statistici elaborati dall’Ufficio Studi dell’associazione mestrina, con l’introduzione dell’euro, dal 2002, l’inflazione media italiana è aumentata del 24,9%, con gli incrementi maggiori in Calabria (+31,6%), Campania (+28,9%), Sicilia (+27,6%), Basilicata (+26,9%).

Insomma, che con l’arrivo della moneta unica il costo della vita fosse aumentato un po’ per tutti era cosa che ciascuno di noi aveva sotto gli occhi e sulla propria pelle. E questa è la non-notizia. La notizia vera che, invece, mette in luce la Cgia è in realtà duplice: gli aumenti si sono scaricati soprattutto al Sud, come si vede dalle percentuali di cui sopra e, questa la cosa più illuminante, gli “sciacalli” dell’euro non sono stati certo artigiani e, soprattutto, commercianti – come buona parte dei luoghi comuni vuole indurre a credere – ma lo Stato (guarda un po’, sempre lui…), le aziende energetiche e quelle dei trasporti pubblici. Ma andiamo con ordine.

Intanto, spiega Giuseppe Bortolussi, Segretario della Cgia di Mestre, “il maggior aumento dei prezzi registrato nel Sud non deve essere confuso con il caro vita. Vivere al Nord è molto più gravoso che nel Mezzogiorno. Altra cosa, invece, è analizzare, come abbiamo fatto noi, la dinamica inflattiva registrata in questi ultimi dieci anni. La maggior crescita dell’inflazione avvenuta nel Sud si spiega con il fatto che la base di partenza dei prezzi nel 2002 era molto più bassa rispetto a quella registrata nel resto d’Italia. Inoltre, a far schizzare i prezzi in questa parte del Paese hanno concorso anche il drammatico deficit infrastrutturale, la presenza delle organizzazioni criminali che condizionano molti settori economici, la poca concorrenza nel campo dei servizi e soprattutto un sistema distributivo delle merci molto arretrato e poco efficiente“.

L’aspetto sorprendente, però, riguarda ciò che è aumentato in questi anni. Altro che i commercianti hanno marciato sul cambio lira-euro. Dagli studi della Cgia mestrina emerge che l’euro ha fatto esplodere i prezzi delle bevande alcoliche e dei tabacchi (+63,7%) – ovvero i generi su cui lo Stato interviene più pesantemente con le proprie accise -, quello delle manutenzioni/ristrutturazioni edilizie, gli affitti, i combustibili e le bollette di luce, acqua e gas e asporto rifiuti (+45,8%); a seguire, salgono i prezzi dei trasporti (treni, bus, metro +40,9%) mentre rimangono in linea o al di sotto del dato medio nazionale, gli aumenti dei servizi alberghieri e della ristorazione (+27,4%), dei prodotti alimentari (+24,1%), del mobilio e degli articoli per la casa (+21,5%), dell’abbigliamento/calzature (+19,2%).

Caustico Bortolussi: “A differenza di quanto è stato denunciato sino ad ora, con l’avvento dell’euro non sono stati i commercianti a far esplodere i prezzi, bensì i proprietari di abitazioni, le attività legate alla manutenzione della casa, le aziende pubbliche dei trasporti, i gestori delle utenze domestiche ed, infine, lo Stato con gli aumenti apportati agli alcolici e alle sigarette“.

Insomma, è pur vero che a guadagnarci sono sempre i soliti noti. Sì, ma non i commercianti onesti e massacrati dal Fisco: chi è più “solito noto” dello Stato, quando si tratta di fare soldi a spese della collettività?

d.S.

Fare impresa in Italia? Lascia stare…

di Davide PASSONI

Noi di Infoiva lo sosteniamo da sempre: fare l’imprenditore, in Italia, è una missione oltre che una vera guerra. Gli imprenditori di casa nostra meriterebbero statue e medaglie e invece si trovano presi a pesci in faccia dallo Stato e dal fisco, che non ne riconoscono, se non a parole, il valore sociale sancito anche dalla nostra Costituzione.

Una conferma di come l’imprenditoria sia davvero una missione ci arriva anche da Mediobanca, che tramite il suo Ufficio Studi ci fa sapere che fare impresa, in Italia, non è remunerativo perché il guadagno non è sufficiente a ripagare il costo del capitale: lo dimostra il fatto che nelle attività industriali c’è stata una distruzione di ricchezza pari a 1,4 punti. Questo secondo l’indagine 2012 “Dati cumulativi di 2.032 imprese italiane“. redatta dall’istituto di via dei Filodrammatici.

Secondo Mediobanca, i grandi gruppi visti nella loro dimensione italiana hanno sofferto di più, mentre è stata più contenuta la sofferenza delle medio e grandi imprese. Le imprese a controllo estero si sono salvate dalla distruzione di valore, grazie alla elevata redditività del capitale.

Se vogliamo parlare di numeri nel 2011, le esportazioni si sono mosse a velocità più che tripla rispetto alle vendite domestiche (+18,3% contro +5,5%): è cresciuto il fatturato dei settori che hanno beneficiato degli aumenti dei prezzi delle commodities di riferimento (metallurgia +20,2%; energetico +17,6%) e di quelli che hanno agganciato la domanda estera (gomma e cavi +20,2%). Anno negativo per elettrodomestici (-3,4%), stampa editoria (-1,7%), farmaceutico e cosmetico (-0,7%). In sostanza, l’industria italiana ha segnato nel 2011 un’ulteriore ripresa del fatturato (+9,2% sul 2010) ma non è sufficiente a raggiungere, seppure di poco, il livello pre-crisi del 2008 a causa della forte flessione del 2009. Ovvero, fare impresa non conviene.

Che cosa deve pensare di fronte a questi dati chi, invece, l’impresa la fa? Per vocazione – tanti, forse la maggior parte -, o per necessità – molti, soprattutto a causa della crisi che li ha sbattuti fuori dal mercato del lavoro come dipendenti? Che sono dei visionari, degli illusi, gente destinata al fallimento personale o professionale? Noi crediamo invece che dovrebbero pensare di essere dei privilegiati, gente che ha un’opportunità unica: quella di dare una direzione diversa al proprio destino contando quasi solo sulle proprie forze e il proprio ingegno. Resta da capire se e quanto lo Stato darà loro la possibilità di imboccare questa direzione diversa. Per ora, ci sembra, c’è ancora molto da fare…

Incentivi alle auto ibride dal Decreto Sviluppo

Il 25 luglio scorso è stato approvato, alla Camera, un emendamento al Decreto Sviluppo, e in attesa dell’approvazione definitiva al Senato, che prevede uno stanziamento 210 milioni in tre anni di cui 150 come bonus fino a 5000 euro per l’acquisto di auto elettriche o ibride a basse e bassissime emissioni di c02.

Il 70% di questo importo è rivolto alle sole auto aziendali o destinate al servizio pubblico, previa la rottamazione della vecchia auto.
Ci saranno poi altri 20 milioni che annualmente saranno destinati ad un Piano Nazionale complessivo con l’obiettivo di diffondere i nuovi veicoli coinvolgendo le istituzioni locali per favorire la realizzazione delle infrastrutture necessarie, in primo luogo le colonnine per la ricarica, e la regolamentazione dei piani territoriali e di norme edilizie, oltre all’incarico all’ autorità per l’energia di prevedere tariffe agevolate dell’energia elettrica.

Questo emendamento, che vuole favorire la diffusione e lo sviluppo di auto ibride, tende alla “realizzazione di reti infrastrutturali per la ricarica dei veicoli alimentati ad energia elettrica e la sperimentazione e la diffusione di flotte pubbliche e private di veicoli a basse emissioni complessive, con particolare riguardo al contesto urbano, nonché l’acquisto di veicoli a trazione elettrica o ibrida.

Per arrivare a ciò, occorre muoversi in direzioni diverse:

  • previsione di disposizioni legislative regionali entro 6 mesi dalla data di entrata in vigore della legge, in regola con le disposizioni europee ed internazionali, ed adeguamento delle normative locali di pianificazione territoriale. Si affida inoltre l’incarico all’Autorità per l’energia per la definizione di criteri e tariffazione specifica per l’uso dell’energia elettrica nel settore della mobilità urbana.
  • istituzione del Piano nazionale infrastrutturale per la ricarica dei veicoli alimentati ad energia elettrica contenente “ le linee guida per garantire lo sviluppo unitario del servizio di ricarica dei veicoli alimentati ad energia elettrica sul territorio nazionale,” finanziato da un fondo di 70 milioni di euro per ciascuno degli anni 2013,2014,2015 istituito con questo emendamento presso il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti .
  • Stanziamenti per la ricerca, finalizzati alla progettazione dei dati e dei sistemi interconnessi necessari per supportare le reti locali delle stazioni di ricarica; alla valutazione delle problematiche esistenti e dei probabili sviluppi futuri relativi agli aspetti normativi e commerciali delle reti infrastrutturali; allo sviluppo di soluzioni per l’integrazione e l’interscambio tra dati e sistemi delle stazioni di ricarica e delle unità di bordo con piattaforme di infomobilità per la gestione del traffico in ambito urbano; alla ricerca sulle batterie ricaricabili.

Il fondo incentivi di 50 milioni per il 2013 è composto da 15 milioni di euro per acquisto di auto con emissioni fino a 95g/km suddivisi in: 9 milioni (70 % del fondo) destinati allo svecchiamento del parco auto per uso di terzi o auto aziendali e richiede la contestuale rottamazione di un veicolo di almeno 10 anni di vita; 6 milioni (30 %) per tutte le categorie senza necessità di rottamazione di un vecchia auto; 35 milioni esclusivamente per veicoli aziendali o destinati all’uso di terzi con emissioni di CO2 non superiori ai 120g/km ,con contestuale rottamazione di auto immatricolate da almeno 10 anni.

A coloro che approfitteranno di questi incentivi, verranno riconosciuti sconti del 20%, fino ad un massimo di 5.000 euro, per i veicoli a basse emissioni complessive che producono emissioni di CO2 non superiori a 50 g/km; 20% del prezzo di acquisto, fino ad un massimo di 4.000 euro, per i veicoli a basse emissioni complessive che producono emissioni di CO2 non superiori a 95 g/km; 20% del prezzo di acquisto, fino ad un massimo di 2.000 euro, per i veicoli a basse emissioni complessive che producono emissioni di CO2 non superiori a 120 g/km.

Il bonus è valido anche per gli anni 2014 e 2015, anche se la percentuale dovrebbe scendere al 15%.
Per quanto riguarda l’acquisto da parte delle imprese, le regole per la rottamazione sono piuttosto ferree.
A questo proposito, infatti, la macchina vecchia deve essere della medesima categoria del veicolo nuovo, essere intestate da almeno 12 mesi allo stesso soggetto o ad uno dei suoi famigliari .

Vera MORETTI

Gli operai diventano sempre più imprenditori

Da quando c’è la crisi, gli operai stanno diventando sempre più intraprendenti. Continua ad aumentare il numero dei lavoratori di imprese in crisi, o a rischio chiusura, che scelgono di rilevare l’azienda, formando una cooperativa tra loro. “Il fenomeno è in crescita in questi ultimi anni”, racconta a Labitalia Aldo Soldi, direttore generale di Coopfond, il fondo mutualistico di Legacoop, che sostiene lo sviluppo delle cooperative nel sistema economico. “Nella nostra attività -spiega- c’è stata una forte accelerazione dal 2009 ad oggi, e così abbiamo contribuito a mettere in piedi una trentina di realtà aziendali”.

Imprese in cui “i lavoratori, o perchè l’azienda è andata in crisi, o perchè non c’è ricambio generazionale alla guida, decidono di rilevare la proprietà formando una cooperativa tra loro”. “E’ una scelta – aggiunge Soldi – che i lavoratori fanno per diversi motivi. Innanzitutto, per non perdere il posto di lavoro. Ma in molti casi abbiamo riscontrato che c’è anche la volontà di difendere la propria professionalità, il proprio saper fare. I settori in cui operano le aziende che sono rilevate dai lavoratori sono i più vari: si va dalla fabbricazione delle piastrelle fino a quella delle cravatte”.

Cambiano i settori, ma la prerogativa principale, nella maggior parte dei casi, resta la stessa: “Piccolo è meglio”. “Nella maggior parte dei casi -spiega Soldi- si tratta di imprese di tipo industriale, che non sono però tanto grandi, arrivano ad avere tra i 10 e i 50 dipendenti. E’ molto più difficile che operai e impiegati si trasformino in imprenditori di aziende molto grandi”.

Comunque, centrale per la nuova avventura di operai e impiegati è il ruolo di Coopfond: “Siamo un fondo che finanzia la nascita e lo sviluppo delle cooperative -sottolinea Soldi- con la concessione di prestiti ai lavoratori che creano la cooperativa, ma anche con la nostra entrata nel capitale sociale dell’azienda stessa, che è una scelta che riesce a dare fiducia sia ai lavoratori che alle banche e agli istituti di credito”. Ma per la buona riuscita dell’iniziativa, “oltre al nostro apporto finanziario, è fondamentale quello della struttura associativa della Lega delle Cooperative, e poi naturalmente -aggiunge- serve il contributo delle banche”.

Le risorse da mettere in campo per il ‘salvataggio’ della propria azienda da parte dei lavoratori-imprenditori variano comunque in base ai casi. “Dipende -spiega Soldi- da tante cose: dal tipo di attività, dalla grandezza dell’azienda, dalla condizione in cui si trova quando viene rilevata, e altri fattori. Di solito, comunque, si parte da un contributo di 200-300 mila euro che noi rilasciamo e a cui se ne vanno ad aggiungere altrettanti da parte dei lavoratori che rinunciano al proprio Tfr. Nella fase iniziale di nascita della cooperativa è importante il ruolo del sindacato, perchè, ad esempio, magari all’inizio della nuova avventura non tutti i lavoratori dell’azienda possono essere subito reimpiegati”.

Il fenomeno delle cooperative nate sulle ‘ceneri’ delle aziende si sta ampliando sempre più: “Nelle zone a tradizione cooperativa come Emilia Romagna e Toscana. Ma anche in Veneto, Lombardia e Lazio. Mentre fatica ancora nelle regioni del Sud”.