Costruire casa senza permessi: come e quando è possibile

Quando è possibile e in che modo, costruire una casa senza dover richiedere permessi? Queste due domande troveranno risposta nella nostra rapida ed essenziale guida.

Costruire casa senza permessi è possibile?

Innanzitutto, prima di creare falsi miti e false illusioni, va specificato che l’installazione permanente di una casa, immobile o mobile senza concessione è un reato configurato come abusivismo edilizio.

Quindi, un vero e proprio veto per quanto riguarda la concessione edilizia. Tutto ciò, a meno che non si tratti di una struttura ricettiva all’aperto, che sia dotata di un allacciamento puramente temporaneo.

Occorre sapere che un permesso di costruire è richiesto pure per l’installazione di prefabbricati in legno, case mobili, camper, e roulotte, utilizzati come abitazioniambienti di lavoro o magazzini.

Ma, allora, come e quando è possibile costruire senza permessi?

Dunque, per quanto è evidente, costruire una casa prefabbricata destinata a esigenze non temporanee sprovvisti dei permessi documentati e dei titoli abilitativi è reato.

Vi è però una sola ipotesi tollerata dalla legge, ed è quella in cui sussistano contemporaneamente i seguenti parametri:

  • la collocazione del prefabbricato deve essere all’interno di una “struttura ricettiva all’aperto”;
  • l’ancoraggio al suolo deve essere temporaneo;
  • l’autorizzazione all’esercizio delle attività deve essere conforme alla legislazione regionale;
  • destinazione turistica, quindi occasionale e a tempo limitata.

Ad ogni modo, come sottolineato nel paragrafo precedente, l’aspetto relativo a permessi, progetti e concessioni, deve avere valutazione variabile, caso per caso e vi saranno delle differenze procedurali ed operative in base alla disciplina adottata dai diversi Comuni di appartenenza.

Case in legno: normativa sui permessi

Stando all’ Articolo 6 del Testo Unico dell’edilizia viene fatto chiarimento che salvo più restrittive disposizioni previste dalla disciplina regionale e dagli strumenti urbanistici, mantenendo il rispetto della altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e in particolare delle disposizioni contenute nel Decreto Legislativo n. 490, del 29 Ottobre 1999, alcuni interventi possono essere eseguiti senza la necessità di possedere il titolo abitativo. 

Di seguito vediamo quali sono questi casi specifici:

  • quegli interventi riguardanti la manutenzione ordinaria, ossia quegli interventi edilizi inerenti le opere di riparazione, sostituzione e rinnovamento delle finiture degli edifici e quegli interventi inerenti l’integrazione od il mantenimento in efficienza degli impianti tecnologici esistenti già;
  • quegli interventi finalizzati all’eliminazione delle barriere architettoniche, i quali non comportino la realizzazione di rampe o di ascensori esterni, cioè di manufatti che vadano ad alterare la sagoma dell’edificio;
  • inoltre, anche le opere a carattere temporaneo per attività di ricerca del sottosuolo, di carattere geo-gnostico ed eseguite in aree esterne al centro edificato.

Necessario, però porre l’attenzione sull’ultimo passaggio.

Tale tipo di opere dovranno essere rimosse al termine della loro temporanea necessità. E’ previsto per esse un termine e la legge consente dunque di costruire senza titoli abilitativi in caso l’opera sia destinata a soddisfare un’esigenza temporanea.

Inoltre, si può affermare che una casetta prefabbricata in legno di piccole dimensioni (ovvero dalle dimensioni dai 6 ai 20 metri quadri) rientrerebbe nella materia definita edilizia libera. Pertanto tali strutture necessiteranno solamente di una semplice comunicazione di installazione.

Edilizia libera: quali categorie

Quando si parla di Edilizia libera si fa riferimento a quell’insieme dei lavori in casa che si possono fare senza chiedere determinate autorizzazioni al Comune o senza necessità di depositare documenti e comunicazioni per l’avvio della attività, per cui non è necessario un permesso di costruire.

Si può ben dire, in linea di massima, che le varie regioni ed i comuni italiani hanno stabilito una regola più o meno comune per differenziare le strutture che necessitano di Denuncia di Inizio Attività (DIA) oppure di un Permesso di Costruire (PDC), rispetto a quelle che possono essere realizzate senza alcuna autorizzazione.

Nello specifico, vi rientrano i gazebo, gli stand fieristici, i servizi igienici mobili, tensostrutture, pressostrutture e assimilabili, elementi espositivi, aree di parcheggio provvisorio, che siano nel rispetto dell’orografia dei luoghi e della vegetazione ivi presente.

Questo dunque è quanto di più utile e necessario vi fosse da sapere in merito alla non possibilità di costruire casa senza permessi.

Permessi studio: chi può richiederli e come funzionano

Anche studiare e lavorare può essere un accostamento pratico per costruirsi il futuro, ma non sempre l’uno riesce a coesistere con l’altro. Talvolta, è necessario gestire bene i tempi e quindi ottenere dei permessi studio. Ma come funzionano e chi può usufruirne? Scopriamolo nella nostra guida.

Permessi studio: di cosa si tratta

permessi studio non sono altro che quello strumento che consente al lavoratore dipendente di potersi dedicare alla propria formazione senza crearsi problemi per lo stipendio. Entro un certo limite di ore, infatti, i permessi studio consentono di assentarsi dal lavoro a chi ne ha bisogno per sostenere un esame, od anche soltanto per prendere parte a un corso di formazione, senza perdere la retribuzione per la giornata di lavoro: difatti, i permessi studio, rientrano nell’insieme dei cosiddetti permessi retribuiti.

Il permesso studio è anche noto anche come le 150 ore di diritto allo studio, ovviamente in riferimento alle ore limite di permesso da non superare nell’arco dei tre anni.

Tuttavia, in alcuni casi quel limite può essere superato.

Permessi studio, come funzionano

La capacità di stabilire quante ore sono concesse col permesso di studio sono i singoli contratti collettivi nazionali (CCNL). Infatti, ogni contratto ha delle specifiche clausole che regolano questo punto.

Ad ogni modo, la normativa decreta che l’ammontare di ore massimo per il diritto allo studio è di 150 ore annue individuali, concesse solo al 3% dei lavoratori a tempo indeterminato in servizio. Solo nel caso in cui il lavoratore debba conseguire un titolo in una scuola dell’obbligo allora il permesso di studio può salire fino a 250 ore annuali.

Quindi se un corso professionale dovesse avere durata di 300 ore ripartite su due anni solari, allora si può provvedere a concedere 300 ore di permesso e si potranno richiedere i permessi per i due anni del percorso.

Permessi studio: cos’altro c’è da sapere

Dunque, l’utilizzo dei permessi studio è solo per la frequenza dei corsi svolti in contemporanea con l’orario di lavoro.

Per poter richiedere ed ottenere tali permessi di studio è necessario il rilascio di un attestato di frequenza che va a certificare la presenza al corso durante l’orario lavorativo.

Non è possibile chiedere permessi studio per:

  • corsi a frequenza serale, qualora l’orario di lavoro non coincida con l’orario di svolgimento del corso;
  • corsi telematici, siccome non hanno un orario di frequenza obbligatorio e non comportano uno spostamento.

Non è possibile, dunque, richiedere dei permessi di questo tipo per le ore di studio utili alla preparazione di un esame.

Inoltre, i lavoratori studenti possono usufruire di altri diritti, oltre ai permessi studio. In primis possono richiedere di essere inseriti in turni lavorativi che possano agevolare la frequenza dei corsi e la preparazione degli esami.

Non sono tenuti, inoltre, al lavoro straordinario, tanto meno a coprire turni nei giorni festivi e o nei giorni di riposo.

Possono essere richiesti anche dei permessi giornalieri per poter affrontare e sostenere gli esami e discutere la tesi. In questo caso non sono previsti limiti di tempo, il permesso può essere preso per l’intera giornata, purché venga presentato un attestato dell’effettiva presenza all’esame o alla discussione della tesi.

Questo, dunque è quanto di più utile e necessario da sapere in merito alle modalità e funzionalità di ottenere permessi studio.

Cedolare secca: come funziona al 10% con affitto a canone concordato

Cosa si intende quando si parla di cedolare secca e come funziona al 10% con affitto a canone concordato? A queste domande daremo risposta nella nostra rapida guida in merito alla questione.

Cedolare secca: di cosa si tratta e come funziona

Sostanzialmente, quando si parla di “cedolare secca” si intende un regime facoltativo, che si sostanzia nel pagamento di un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali (per la parte derivante dal reddito dell’immobile).

Quando si parla di cedolare al 10% si fa riferimento ad una tassazione del 10% per gli affitti a canone concordato consente al proprietario dell’immobile di risparmiare sulle imposte dovute e, in parallelo, questa tipologia di contratto presenta diversi vantaggi anche per l’inquilino.

Cedolare secca al 10% e canone concordato

Dunque, il canone concordato è quella formula che è ormai sempre più spesso utilizzata dai proprietari degli immobili. Il vantaggio di questa modalità consiste nella possibilità di accesso a numerose agevolazioni fiscali, tra cui la mini-cedolare secca.

La possibilità di scegliere la tassazione ridotta del 10 per cento è uno dei vantaggi maggiori degli affitti a canone concordato.
La cedolare secca sostituisce per l’appunto:

  • la tassazione Irpef
  • l’imposta di bollo
  • l’imposta di registro

Nello specifico la cedolare secca al 10% è il regime di tassazione agevolato che può essere utilizzato esclusivamente per affitti a canone concordato o equo canone determinato dalle associazioni di categoria, sindacati dei proprietari e degli inquilini.

Di base, l’aliquota prefissata è fissa nella misura del 21% del canone di locazione annuo ma si abbassa al 10% se proprietario e inquilino decidono di rispettare il canone concordato stabilendo i limiti minimi e massimi di affitto, imposti in maniera relativa alla località in cui è situata l’abitazione.

Cedolare secca, quando è possibile utilizzarla

Come abbiamo visto, la cedolare secca con aliquota al 10% è una tassazione fissa, agevolata e sostitutiva per gli affitti con contratto di locazione a canone concordato.

Ma cosa va a sostituire, questa aliquota?

Come accennato nel paragrafo precedente, sono le sole persone fisiche a poter fruire di questa tassazione agevolata che va a sostituire le seguenti imposte:

  • aliquote Irpef;
  • addizionali Irpef;
  • imposta bollo da 16 euro
  • imposta di registro del contratto di locazione;

Quindi, la suddetta cedolare al 10% è un’agevolazione fiscale importante ma non utilizzabile sempre e ovunque, come detto ci sono delle condizioni per l’utilizzo che di seguito andremo a vedere.

Sono diversi i casi in cui è possibile utilizzare la cedolare secca con tassazione agevolata al 10%.

Tale l’aliquota al 10 per cento è applicabile per i contratti a canone concordato 3+2 stipulati nei Comuni che presentano le seguenti problematiche:

  • carenza di soluzioni abitative;
  • alta densità abitativa;
  • colpiti da calamità naturali.

È, altresì possibile utilizzare la cedolare secca al 10% anche per la stipula di contratti transitori, che nello specifico sono contratti di locazione per un periodo non inferiore a un mese e per un massimo di 18 mesi.

Come pagare la cedolare

Vediamo in ultimo, ma non ultimo come pagare la cedolare al 10% con affitto a canone concordato.

Per coloro che si chiedono se conviene la cedolare secca, si ricorda che il confronto va sempre fatto con lo scaglione di reddito in cui rientriamo ossia il nostro livello di reddito annuo e anche il canone mensile d’affitto influisce nel reddito annuale.

Resta il fatto che l’aliquota Irpef minima è al 23%, contro il 10% della cedolare secca.

Possiamo dire che se l’inflazione dovesse continuare a crescere, l’adesione alla cedolare secca costringerebbe a rinunciare all’aggiornamento Istat del canone e potrebbe risultare conveniente tornare al regime di tassazione ordinaria Irpef.

Ci sono due modalità di pagamento della cedolare secca a seconda dei diversi casi:

  • lavoratori autonomi o delle imprese che presentano il Modello Unico per la dichiarazione dei redditi devono pagare la cedolare secca tramite il modello F24;
  • lavoratori dipendenti e i pensionati che dichiarano i redditi con il modello 730 devono versare l’imposta prevista dalla cedolare secca tramite la busta paga.

Va, inoltre, precisato che la cedolare secca si comincia a pagare dall’anno successivo al primo anno di affitto dell’abitazione, siccome il pagamento tiene conto delle entrate dell’anno precedente.

Le scadenze sono le stesse dell’Irpef, per quanto concerne le tempistiche.

La cedolare secca si paga nelle possibili modalità seguenti:

  • in un’unica soluzione entro il 30 novembre, se l’ importo dovuto fosse inferiore a 257,52 euro;
  • in due rate se l’importo dovesse essere superiore a 257,52 euro.
    • la prima rata entro il 30 giugno, pari al 40% dell’acconto dovuto (oppure entro il 30 luglio con la maggiorazione dello 0,40%);
    • la seconda rata entro il 30 novembre, per il restante 60%.

Questo, dunque è quanto di più utile e necessario vi fosse da sapere in merito alla cedolare secca al 10%.

Multa nei 5 giorni: si può pagare a rate?

Molti si chiedono se sia possibile pagare a rate una multa nel tempo limite dei 5 giorni. Scopriamo, in questa nostra rapida guida, se è possibile, ed in quali termini e condizioni.

Multa a rate: si può pagare?

La risposta a questa domanda è sì. E’ possibile pagare a rate una multa, usufruendo dello sconto del 30% per chi paga nei limiti dei 5 giorni. Tuttavia, anche oltre il tempo dei 5 giorni è possibile ottenere la rateizzazione del pagamento, ma senza più lo sconto previsto.

Ovviamente, in caso si voglia pagare oltre i 5 giorni previsti di default, la domanda di pagamento a rate deve essere presentata entro i 30 giorni dalla notifica della multa.

Come e chi può pagare la multa a rate?

Cosa c’è da sapere, dunque, in merito al pagamento di una multa a rate, vediamolo assieme in questo paragrafo.

C’è da sapere che tale rateizzazione della multa non è concessa a tutti gli automobilisti, bensì soltanto a coloro che hanno un Isee inferiore ad una certa soglia stabilita. Nello specifico, l’interessato deve avere un reddito imponibile ai fini Irpef, che nell’ultima dichiarazione non risulti superiore a 10.628,16 Euro. 

Va inoltre aggiunto che se chi deve pagare la multa convive con il coniuge o con altri familiari, i redditi in questione si sommano tra loro. In tal caso, tuttavia, il limite di 10.628,156 euro viene elevato di 1.032,91 euro per ogni familiare convivente.

Coloro che presentano una situazione di reddito superiore a quella sopra indicata dal Codice della strada non può chiedere la rateizzazione della multa all’amministrazione, pur potendo chiedere un prestito a una finanziaria o ad una banca e, in questo caso, usufruire dello sconto del 30% per poi restituire la somma all’istituto di credito a fronte di un tasso lievemente superiore rispetto a quello dovuto all’amministrazione.

Andiamo, dunque a vedere il come agire per pagare a rate.

Per quanto riguarda le multe effettuate dalla Polizia di Stato occorre presentare la domanda al Prefetto. Per quanto concerne le multe fatte da agenti delle Regioni, delle Province o dei Comuni, allora va presentata istanza al presidente della giunta regionale, a quello della giunta provinciale oppure al sindaco.

La domanda deve essere presentata entro 30 giorni dalla data di contestazione o di notificazione della violazione. 

Occorre presentare assieme alla domanda una dimostrazione della propria situazione reddituale.

Quante rate si devono pagare e cosa altro c’è da sapere

Andiamo a vedere cos’ altro c’è da sapere nel pagare una multa a rate, ma soprattutto in quante rate si può dilazionare il pagamento.

Stando alla base delle condizioni economiche del richiedente ed anche all’entità della somma da pagare, l’autorità dispone la ripartizione del pagamento fino ad un massimo di:

  • 12 rate se l’importo dovuto non supera euro 2.000; 
  • 24 rate se l’importo dovuto non supera euro 5.000;
  • 60 rate se l’importo dovuto supera euro 5.000.  

Ogni rata deve avere un importo minimo di 200 Euro.

Ma, ci sono svantaggi nel pagare una multa a rate?

Come detto in precedenza, il primo svantaggio nel pagare una multa a rate è quello di perdere lo sconto del 30% che si ottiene pagando nei 5 giorni di tempo dalla notifica.

Inoltre, se si paga la multa a rate si dovrà versare anche gli interessi secondo un saggio che è definito annualmente. E non può più fare ricorso al giudice o al prefetto, neanche se successivamente si accorge che il verbale è illegittimo. 

Quindi, sostanzialmente, può anche essere una scelta non del tutto ben ponderata, quella di non “levarsi il dente” entro i cinque giorni di tempo dalla multa ricevuta.

Questo, dunque è quanto di più utile e necessario da sapere in merito alle possibilità, modalità e condizioni del pagare una multa a rate.

Bonus TV: a chi spetta e come chiederlo

Nel mese di marzo 2022 ci saranno ancora cambiamenti per le nostre TV, ma come stare al passo di questo cambiamento? Il Bonus TV come può venire incontro al consumatore? A chi spetta e come richiederlo? Scopriamolo in questa rapida guida sulla questione.

TV, cosa cambia da Marzo 2022

Dal prossimo 8 Marzo 2022 tutte le TV dovranno essere risintonizzate, dopo un anno di transizione, lo switch off finale arriva entro tale data, per il passaggio definitivo al digitale terrestreDVB-T2.

Dopo tale data, infatti, tutte le emittenti nazionali e locali dovranno aver completato la migrazione dall’MPEG-2 all’MPEG-4, codec, il che consentirà una migliore visione grazie all’alta qualità della trasmissione.

Ma come stare al passo, per chi non ha un televisore che supporta tale cambiamento? Il Bonus TV può venire incontro in tal senso? E a chi spetta?

Scopriamolo nel prossimo paragrafo.

Bonus TV, a chi spetta e come richiederlo

Partiamo col dire che il bonus TV consiste in uno sconto del 20% sul prezzo d’acquisto di un nuovo televisore (o di un decoder), fino a un massimo di 100 euro, rottamando apparecchi acquistati prima del 22 dicembre 2018, i quali non risultano più idonei ai nuovi standard tecnologici di trasmissione televisiva del digitale terreste.

Chi è che può usufruire di questo appetibile sconto? 

Il bonus tv dal massimo di 100 euro spetta a quei cittadini residenti in Italia titolari di un contratto elettrico su cui è addebitato il canone tv o che pagano il tributo tramite modello F24 o che sono esenti dal pagamento dello stesso in quanto soggetti a basso reddito di età pari o superiore ai 75 anni. L’agevolazione è concessa una sola volta, fino alla scadenza del prossimo 31 dicembre 2022.

Per dirla più dettagliatamente, possono accedere al bonus TV e decoder tutte le famiglie con un Isee inferiore ai 20.000 euro e che abbiano cittadinanza italiana. Lo sconto deve essere applicato direttamente nel negozio che vende la tv o il decoder. Per ottenere il bonus servono un documento d’identità valido e il codice fiscale.

Andando a vedere nello specifico, possiamo dire che il bonus tv da 100 euro va a suddividersi in due tipologie:

  • Bonus TV decoder: per poterlo richiedere sarà necessario che il valore ISEE relativo al proprio nucleo familiare sia inferiore a 20.000 Euro. Allo stesso tempo bisogna evitare che altri componenti della propria famiglia abbiano già usufruito di questa agevolazione.
  • Bonus TV rottamazione: per poter mandare in pensione il proprio televisore è necessario che questo fosse acquistato prima del 22 dicembre 2018. La consegna del dispositivo deve avvenire o presso il rivenditore o in un centro comunale preposto alla raccolta di questo genere di materiali.

Come richiedere il Bonus TV

Per richiedere il bonus tv è necessario presentarsi dal rivenditore o presso un’isola ecologica autorizzata portando con sé la vecchia tv e l’apposito modulo di dichiarazione sostitutiva scaricabile dal sito del Mise. Nel primo caso il venditore si occuperà direttamente dello smaltimento dell’apparecchio, mentre nel secondo caso verrà rilasciata un’attestazione di avvenuta consegna dell’apparecchio, con la relativa documentazione, da consegnare poi al venditore.

Questo, dunque, è quanto di più necessario ed essenziale ci sia da sapere in merito alla possibilità di ottenere ed usufruire del Bonus TV, in un momento in cui si è in prossimità di un cambio definitivo di ricezione del segnale televisivo per tutto il nostro paese.

 

Pignoramento conto corrente all’estero: è possibile?

Può succedere di aver contratto un debito in Italia e vedere il proprio conto corrente all’estero essere pignorato? O viceversa? Scopriamolo in questa rapida guida.

Pignoramento conto corrente

Prima di occuparci del pignoramento sul conto estero, è utile ricordare in breve il funzionamento del pignoramento del conto corrente, in generale.

Innanzitutto, è necessario sottolineare che, per pignorare un conto corrente, è indispensabile che il creditore possa esibire un titolo esecutivo, ovvero un documento in grado di certificare l’entità del credito. Vanno considerati titoli esecutivi i decreti ingiuntivi, le sentenze di condanna, i contratti di muto, gli assegni, le cambiali nonché gli atti stipulanti mediante notaio.

Ovviamente, a seconda della casistica, vi sono poi limiti alle cifre pignorabili dal conto corrente.

Per attuare il pignoramento del conto corrente sarà obbligatorio partire con un atto di precetto, che va a costituire l’ultimo avviso per il debitore, il quale viene invitato ancora una volta a pagare il dovuto entro un tempo di dieci giorni.

Pignoramento conto corrente estero: cosa accade

Andiamo, adesso a vedere cosa accade quando si tratta di pignoramento di un conto corrente estero.

Che voi viviate in un paese o in un altro, va specificato che ogni debitore è tenuto a risarcire il proprio debito. Quindi che voi siate indebitati in Spagna e possedete un conto in Italia o viceversa, dovrete saldare il vostro debito, pena pignoramento del conto o di altri beni e proprietà.

Una volta appurato quanto sopra, va detto che dal punto di vista giuridico, non esistono sostanziali differenze.

Infatti, il pignoramento del conto estero è previsto e normato. Nonostante ciò, un creditore può comunque incontrare delle difficoltà, le quali possono essere superate soltanto grazie alla competenza di esperte agenzie specializzate nel recupero di crediti internazionali.

Per dare atto a procedere al pignoramento del conto all’estero sarà infatti necessario essere a conoscenza dell’effettiva esistenza del conto corrente in questione, quindi della sua esatta ubicazione: nessuno di questi due elementi può essere assolutamente dato per scontato.

Non capita di rado, infatti, di imbattersi in debitori che non hanno aggiornato il Fisco circa il proprio conto corrente oltre confine e questo può portare ad ulteriori perdite di tempo burocratiche.

Nel caso contrario, sarebbe sufficiente rivolgersi ad un ufficiale giudiziario per l’individuazione della somma depositata in una banca estera.

Va, inoltre aggiunto che difficilmente il debitore che non ha già effettuato la debita denuncia al Fisco sarà disposto a rivelare all’ufficiale giudiziario l’esistenza di un conto all’estero, rendendo così particolarmente difficile l’operazione al creditore. Questo potrebbe comportare che il creditore debba venire a conoscenza del conto estero del debitore per altre vie. Usualmente, si fa riferimento all’utilizzo per scambi commerciali del conto estero da parte del creditore, od anche si fa riferimento ad un’agenzia di investigazione. Il secondo ostacolo riguarda la procedura, una procedura che può rivelarsi complessa e piuttosto costosa.

Questo è quanto vi fosse, dunque di più utile e necessario da sapere in merito alla possibilità e funzionalità di vedere il proprio conto estero pignorato, in caso di debiti da risarcire ad eventuali creditori.

 

Prestiti per pensionati, una legge che non tutti conoscono

In un mondo che prigioniero è di una crisi economica sempre più tangibile, vediamo come si può attingere nel campo dei prestiti se si è pensionati. A tal proposito, la legge 180/50 rivolta inizialmente agli impiegati pubblici, può venire incontri ai pensionati. Scopriamo come e perché.

Legge 180/50 di cosa si tratta

Cosa ci dice questa legge decretata nel lontano 2005? Andiamo a vedere nello specifico, nel paragrafo che segue.

La legge 180/50 regola il contratto di cessione del quinto e di rinnovo cessione del quinto. Quindi, in sostanza, cosa regola questa legge? Stabilisce le condizioni, gli importi e le rate da rimborsare a chi stipuli un simile contratto.

La cessione del quinto dello stipendio o della pensione è una forma di finanziamento che consente di ottenere una linea di credito pari ad una rata mensile sostenibile fino a un quinto, o al 20%, del proprio stipendio o della propria pensione.

Cosa altro c’è da sapere sulla legge 180/50

La sopra citata legge 80 del 2005 sulla cessione del quinto ha dato modo di apportare alcuni correttivi e modifiche per rendere questo strumento ancora più funzionale e soprattutto per mettere al riparo da ogni genere di problema sia il richiedente che il datore di lavoro.

Nello specifico, questa rivoluzionaria legge ha:

  • abolito il concetto di minima anzianità di servizio per poter richiedere il quinto;
  • allargato la platea dei possibili beneficiari anche a pensionati e ai lavoratori privati con contratto a tempo indeterminato.

Nel caso specifico riguardante i pensionati sono stati inclusi sia quelli provenienti da enti pubblici che quelli privati. Naturalmente sono rimasti alcuni vincoli legati all’ importo massimo complessivo del prestito e soprattutto alla durata del piano di ammortamento rispetto alla data di scadenza.

Per fare un esempio, per quanto riguarda i lavoratori il piano di ammortamento deve terminare prima della fine del contratto di lavoro ossia dell’accesso al sistema previdenziale, mentre per i pensionati ci sono limiti anagrafici che variano da banca a banca.

Prestiti pensionati: altre cose da sapere

La domanda più frequente che il contribuente si chiede è quanto può chiedere di prestito un pensionato?

In maniera semplice ed esaustiva, possiamo dare risposta a tale domanda in termini seguenti:

La rata è fissa e costante: non va mai a superare il 20 per cento del valore netto dalle pensione mensile percepita. La durata massima della cessione del quinto è pari a 10 anni. Inoltre, il pensionato può dilazionare le rate da un minimo di 24 ad un massimo di 120 mesi.

Il prestito viene dunque elargito dalla banca o dall’istituto di credito al quale l’INPS verserà direttamente le rate trattenendole dalla pensione del richiedente. Anche in questo caso, quindi, non sarà il pensionato a doversi preoccupare di saldare la rata.

Chi può richiedere un prestito INPS?

In ultimo, ma non ultimo, andiamo a vedere quale sia la risposta a questa altra frequente domanda in merito ai prestiti per pensionati.

Possono richiedere prestiti INPS tutti coloro che sono iscritti alla Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali in qualità di dipendenti Pubblici e/o pensionati; gli iscritti d’ufficio alla Gestione Assistenza Magistrale; i dipendenti delle aziende del Gruppo Poste Italiane SpA.

Questo, dunque è quanto di più utile e necessario ci sia da sapere in merito alle possibilità di prestito per un pensionato.

Soldi contanti: quanti se ne possono tenere in casa?

Molti, si sa in tempi di magra non sono contrari a mantenere un gruzzoletto di denaro in casa, magari col vecchio sistema dei nonni, di tenere i soldi nella mattonella o sotto al letto. O, più spesso in una piccola cassaforte. Ma, quanti soldi contanti si possono tenere in casa, eludendo le banche o la posta?

Contanti in casa: c’è un limite?

Abbastanza insolitamente, verrebbe da pensare, si tengono grosse somme di denaro in casa, in banconote. Molto spesso i soldi di grosse somme vengono tenuti sul libretto postale o in banca, sul conto corrente o nelle apposite carte di credito. Ma c’è un limite nel tenere soldi in casa?

Partiamo col dare una risposta alla domanda di base della nostra guida chiarificatrice, ovvero non vi è nessun limite.

Come detto, quindi non esiste un limite ai contanti in casa: se riesci a dimostrare la provenienza dei soldi, nella remota ipotesi di un controllo fiscale. Per fare un semplice esempio, una persona che guadagna 1 milione di euro l’anno e li dichiara all’Agenzia delle Entrate potrebbe conservare a casa tutto il denaro guadagnato senza limiti. Va detto però che, nel caso in cui dovesse poi procedere a spendere tali soldi, dovrà tenere conto dei limiti previsti dalla legge inerenti ai pagamenti in contanti.

Per dirla in breve, volendo pagare mille euro ad un ingegnere per dei lavori di ristrutturazione a casa non potrà consegnargli il cash ma, al più, si dovrà depositare il denaro in banca e farsi rilasciare un assegno circolare che è una forma di pagamento tracciabile, così come la legge vuole tutte le volte in cui si supera il tetto per l’utilizzo dei contanti. 

Condizioni e limiti dei soldi contanti in casa, cosa c’è da sapere

Ma, cos’altro c’è da sapere in merito alla questione del tenere i propri soldi contanti in casa?

Andando, dunque a riepilogare quanto detto poco sopra, possiamo così concludere, dicendo che non esiste un limite di soldi che si possono tenere in casa, salvo tener conto quanto segue:

  • dimostrare la provenienza del denaro nella remota ipotesi in cui la Guardia di Finanza dovesse fare un accesso presso la dimora e scoprire i contanti in possesso. La prova non può essere una semplice testimonianza, ma dovrà essere certificata da un documento su cui sia stata apposta una data “certificata” dal pubblico ufficiale (cosiddetta data certa); il che può avvenire o con la registrazione della scrittura o attraverso un atto notarile o con una spedizione del documento per via raccomandata a.r.;
  • nel caso in cui si voglia spendere il denaro, si dovrà tenere comunque conto dei limiti all’impiego di contanti, evitando di concentrare la somma in un unico pagamento, ma frammentandola in operazioni con soggetti differenti. 

Conviene tenere i soldi in casa?

Questa è una domanda a cui non esiste una risposta definitiva e certa, anche perché tenere soldi in contanti in casa significherebbe avere un grosso bottino per eventuali ladri, senza alcuna assicurazione in merito.

La possibilità di fare transazioni di denaro, limitate rispetto a quelle che si possono effettuare attraverso i conti bancari, così come la possibilità di far fruttare eventuali interessi sul proprio deposito in denaro. Ma, tuttavia, tenere grosse somme di denaro in caso, senza dover passare da istituti di credito può essere un vantaggio per evitare possibili pignoramenti e per avere sempre a portata di mano il cash.

Anche evitare il rischio di prelievi forzosi, in seguito a crisi economiche, può essere da considerare, tenendo il proprio denaro custodito in casa.

Insomma, sia ben chiaro che la vecchia abitudine di tenere i soldi sotto al materasso, almeno in Italia, non è mai del tutto passata di moda. E, probabilmente, mai passerà. Sebbene in pochi hanno la possibilità di mettere somme molto cospicue.

 

I navigatori che indicano dove sono gli autovelox sono legali?

Ci sono navigatori con gps che rilevano dove sono gli autovelox, per tenere allertato il guidatore ed evitarsi le multe nelle zone sorvegliate. Ma sono legali questi stratagemmi che avvisano del controllo? Scopriamolo nella nostra guida.

Navigatori che avvisano degli autovelox, di cosa si tratta

Si sa che molti automobilisti prestano poca attenzione al tachimetro del contachilometri mentre sono al volante e quando eccedono col piede sul pedale possono essere pizzicati dal controllo dell’autovelox su determinate tratte stradali. Con relativa sorpresa di una bella multa salata recapitata a casa.

Ci sono però alcuni navigatori gps che rilevano le posizioni degli autovelox, avvisando così l’automobilista delle zone a rischio multa. In tal senso, si potrebbe creare un meccanismo di furberia da parte del pilota, preparandosi ad alleggerire il piede dal pedale solo nelle vicinanze della postazione di controllo, ma continuando a correre, fuori norma, nelle tratte adiacenti.

A tale proposito vi sono anche determinate app che, con l’uso del gps, aiutano a fare da rilevatori.

Ma, è quindi legale usufruire di tale mezzuccio?

La risposta a questa domanda è presto data, sebbene non è così netta come esito.

Sostanzialmente, a venire incontro alla spiegazione se siano legali o meno i navigatori che indicano gli autovelox sono state diverse sentenze della Cassazione ed anche un’importante circolare del ministero degli Interni del 2006 che richiama l’articolo 45 del Codice della strada.

In tal senso, Il Codice decreta vietata la produzione, la commercializzazione e l’uso di dispositivi che, in maniera diretta o indiretta, indicano la presenza e consentono la localizzazione delle apposite apparecchiature di rilevamento della velocità utilizzate dagli organi di polizia stradale per il controllo delle violazioni.

Ciononostante, vi sono numerosi navigatori satellitari, compresi quelli forniti da Google stesso che indicano dove sono piazzate le colonnine degli autovelox. E che sono legittimi.

Va detto però che quel che attuano questi sistemi legali, è andare ad indicare la mappatura delle postazioni, i cui controlli sono astrattamente possibili, sulla base delle indicazioni che la Prefettura e la stessa polizia offrono agli automobilisti. Quindi un servizio di localizzazione basato sulle ufficialità delle forze dell’ordine.

Cosa si rischia con navigatori illeciti per autovelox?

Nel caso si venisse sottoposti a controllo delle forze dell’ordine si può incorrere in una bella multa, se il controllo rileva l’uso di mezzi non leciti.

In pratica, la violazione è punita con una multa che va da 827 a 3.312 euro e con la confisca della cosa oggetto della violazione. Con il termine confisca si intende che l’oggetto non viene solo sequestrato ma diventa di proprietà dello Stato, non potendo perciò più essere restituito. 

Va comunque specificato che i territori stradali provvisti di autovelox vanno preventivamente segnalati con segnaletica stradale, con apposita indicazione «Controllo elettronico della velocità».

Per fare, dunque, un breve riepilogo:

  • è legale indicare dove la polizia potrebbe trovarsi (i luoghi infatti vengono di solito dichiarati dalle stesse forze dell’ordine o dal decreto del Prefetto che individua strade e chilometri ove sono leciti i controlli automatizzati, quelli cioè senza agenti e senza necessità di contestazione immediata); 
  • è illegale indicare dove, di fatto, la polizia si trova ossia in quale luogo l’autovelox è effettivamente in funzione. 

Precisa la Cassazione che è legale l’uso del dispositivo in grado di localizzare l’autovelox noto come Hermes Plus III esclusivamente nel caso in cui, come un normale navigatore satellitare, svolga la funzione di assistente alla guida andando a segnalare le postazioni in cui potrebbero essere in funzione i controlli, quindi non gli apparecchi specifici in funzione. 

Questo, dunque è quanto vi fosse di più utile e necessario da sapere in merito ai navigatori e alle app che rilevano la presenza di autovelox.

 

 

Riscaldamento: come risparmiare con i termosifoni spenti

In epoca di bollette salate e di surriscaldamento climatico, di traversie legate al controllo del gas, andiamo a vedere alcuni rapidi consigli per poter tenere un buon riscaldamento in casa, ma con i termosifoni spenti. Scopriamo come fare, nella nostra guida.

Riscaldamento con termosifoni, come funziona

Prima di andare a scoprire i necessari consigli per fare a meno del termosifone in casa, tenendolo spento, andiamo a vederne il funzionamento.

In pratica, l’ acqua riscaldata entra in un radiatore ad un’estremità e circola intorno ad un circuito chiuso prima di uscire dal radiatore all’estremità opposta. Poiché il calore dell’acqua emana dal termosifone, fa sì che l’acqua si raffreddi. Una volta tornata alla caldaia, l’acqua viene riscaldata nuovamente e il ciclo continua, in maniera perenne.

Tuttavia, questi sostanziosi sistemi di riscaldamento idraulico della nostra casa, pur efficaci non sono molto economici, infatti potremmo con un breve calcolo vedere il loro consumo.

Considerando che il costo medio domestico di 1 kWh per una caldaia a metano è di 0,11 euro, sarà sufficiente moltiplicare 0,11 x 5,23 kWh. Il risultato finale che avremo è 0,57 euro che indica il costo orario. Tenere acceso 1 ora un termosifone alimentato a metano costa in media 0,57 euro all’ora in un appartamento di 100 mq.

Quindi, se volessimo tenere acceso per 5 ore, nelle ore pomeridiane e serali (in pratica dalle 17 alle 22), spenderemmo mediamente 2,85 euro al giorno di riscaldamento con il nostro amato termosifone.

In dieci giorni spenderemmo 28,50 euro e quindi alla fine del mese, tenendo ogni giorno il termosifone acceso, quindi ben più di 85 euro alla fine del mese, in un appartamento di 100 mq. Costo che, naturalmente va ad aumentare per appartamenti più grandi e a diminuire per appartamenti più piccoli.

Riscaldamento centralizzato, come funziona

A differenza del riscaldamento autonomo, cioè quello che gestiamo autonomamente nella nostra casa, vi è quello centralizzato.

Va detto che il funzionamento del riscaldamento centralizzato è piuttosto simile a quello autonomo, ma a differenza di quest’ultimo la caldaia è unica per tutto l’edificio, posizionata spesso nel seminterrato all’interno di aree comuni del condominio. Se fino a qualche anno fa la gestione era automatizzata, quindi il tecnico effettuava delle impostazioni in linea con le direttive dell’assemblea condominiale, oggi è possibile godere comunque di una discreta autonomia.

Infatti, nelle ore di accensione del riscaldamento – orari decisi in maniera standard per tutti i condomini dell’edificio – si può intervenire in maniera autonoma sul riscaldamento, pagando in maniera separata i costi individuali.

Riscaldamento, consigli per il risparmio

Andiamo, dunque di seguito, a vedere alcuni rapidi consigli per non far lievitare i costi in bolletta, soprattutto in quei periodi intermedi come l’inizio primavera o la fine dell’autunno, in cui le giornate iniziano ad oscillare tra temperature miti e periodi freddi.

In assenza di termosifoni, tenendoli spenti, un buon rimedio per combattere il freddo primaverile, scaldando la casa e soprattutto risparmiando, è quello di optare per una stufetta elettrica, soprattutto per ambienti piccoli; è sconsigliato però usufruirne per troppe ore, rischio lievitazione della bolletta.

In tal senso, dunque la soluzione più comoda al risparmio è quella dei climatizzatori: in molte case ormai sono presenti i condizionatori, i quali oltre ad essere utili per rinfrescare durante l’estate possono venire in aiuto anche col freddo. E quindi avere una utile doppia funzione.

Riscaldamento economico: cos’altro da sapere

Per completare l’argomento, andiamo a vedere cos’ altro è bene sapere sul risparmio casalingo per un riscaldamento senza termosifoni.

Se i condizionatori sono dotati di pompa di calore possono, di fatto, riscaldare l’ambiente anche in breve tempo, soprattutto tenendo le finestre e le porte chiuse. In breve tempo, la stanza interessata può essere riscaldata, con un lieve consumo in termini energetici, ancor meno se si possiede un contratto adeguato a fasce orarie.

Sarà comunque necessario utilizzare delle attenzioni anche quando si usano i condizionatori; è bene non esagerare mai con le temperature onde evitare che l’apparecchio resti sempre in funzione, e soprattutto avere costante cura della manutenzione del condizionatore.

Questo, dunque, è quanto di più utile e necessario vi fosse da sapere in merito ai consigli per economizzare con un termosifone spento, mantenendo calda la propria casa.