Scarpe italiane in viaggio per il mondo

 

Si è conclusa da poco la sua edizione milanese, ma MICAM pensa già a volare verso Oriente: dal 9 all’11 aprile infatti si terrà theMICAMshanghai, prima tappa di un progetto più ampio che prevede di portare la fiera della calzatura più importante in Italia a spasso per il mondo. Del resto se il settore calzaturiero del made in Italy ha raggiunto nel 2012 i 3,8 miliardi, il merito è soprattutto dei Paesi extra europei e dei mercati emergenti, dove la domanda continua ad essere trainante.

Infoiva chiude la settimana dedicata alla filiera della calzatura italiana con un’intervista a Cleto Sagripanti, Presidente di ANCI, l’Associazione Nazionale dei Calzaturifici Italiani.

Il 2012 si chiude per il settore calzaturiero tra luci e ombre e il 2013 non si è aperto diversamente. Quali le sensazioni dall’osservatorio privilegiato di ANCI?
Il 2012 è stato un anno difficile per l’economia italiana e il 2013 si è aperto con la riconferma delle criticità sul fronte produttivo e occupazionale, con ovvie conseguenze sul reddito disponibile, sul clima di fiducia delle famiglie e sui consumi. L’auspicata ripresa appare, ancora una volta, rinviata a data da destinarsi. Il calzaturiero, dopo i recuperi del 2010 e 2011, ha dovuto fare i conti nel 2012 con una sensibile contrazione dei consumi nazionali e con il peggioramento della domanda estera, soprattutto sui mercati dell’Unione Europea, che assorbono ben il 70% dei flussi e sui quali viene realizzato il 54% delle vendite estere in valore. Nonostante il quadro negativo, il settore calzaturiero nel suo complesso dà un contributo importante al Paese: il saldo commerciale nei dati preconsuntivi raggiungerebbe i 3,8 miliardi di euro, con un aumento del 12,6% rispetto al 2011. Ciò è dovuto non solo alla tenuta delle esportazioni, soprattutto trainate dalle vendite nei paesi extra-UE, ma anche da una forte frenata delle importazioni. In ogni caso, i numeri che emergono dal preconsuntivo elaborato da ANCI non lasciano dubbi sul momento di difficoltà per il settore: nonostante i buoni risultati degli anni post crisi oggi dobbiamo commentare dati non soddisfacenti in relazione agli sforzi che hanno fatto e stanno facendo le aziende sui prodotti e sugli strumenti commerciali.

Quali sono, oggi, i punti di debolezza e quali quelli di forza della filiera italiana delle calzature?
Oltre alla forte contrazione sul mercato interno, che da anni ormai non è in grado non soltanto di crescere, ma nemmeno di confermare i dati dell’anno precedente, si aggiungono altre difficoltà: vi sono imprese che ormai si rifiutano di lavorare con l’Italia in cui i comportamenti scorretti come i pagamenti ritardati indefinitamente o addirittura gli insoluti sono diventati frequentissimi. Questo non è altro che l’esito di una pressione fiscale eccessiva che risale la filiera e che finisce per danneggiare le imprese due volte, quando pagano le tasse e quando fanno da banca impropria al proprio cliente. Senza contare che la giustizia civile così lenta e inefficiente finisce per allontanare non solo gli investitori stranieri, ma le stesse imprese italiane che trovano all’estero un rischio insoluto inferiore. Tra gli altri mali che affliggono il nostro tessuto produttivo ci sono inoltre la contraffazione e la mancanza di politiche efficaci per l’occupazione e per l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro.
Ma le aziende hanno saputo rimboccarsi le maniche rispondendo alle difficoltà con il cambiamento. Il vero punto di forza della nostra filiera in questi ultimi anni è stato infatti il processo di ripensamento strutturale delle imprese, di cui l’Associazione è promotrice e testimone. Le imprese hanno investito di più in creatività e proposte innovative, ma hanno anche saputo integrare all’antico sapere industriale e creativo quello commerciale e di servizio al cliente. Per questo, il settore ha bisogno di supporti maggiori sia sul fronte della defiscalizzazione delle spese di campionario sia sul fronte della promozione.

Il settore calzaturiero è in grado di fare sistema o ancora si procede in ordine sparso?
Tutti i temi e le battaglie di ANCI hanno senso proprio perché tutti insieme viaggiamo in un’unica direzione. La posta in gioco è troppo alta per permetterci di muoverci da soli, lasciando spazio ai particolarismi. ANCI è un’Associazione forte, che ha saputo confermarsi come strumento reale per fare sistema e permettere di far sentire la propria voce a tutte le aziende calzaturiere, anche a quelle piccole e medie imprese che sono il tessuto e la storia di questo Paese. Penso ad esempio ai tanti sforzi presso le istituzioni europee per ottenere l’etichettatura made in, una battaglia non ancora conclusa ma che si avvia verso una fase cruciale, fondamentale per tutelare la nostra tradizione manifatturiera e la nostra eccellenza produttiva. Una sfida che ANCI ha portato avanti unendo le voci, le istanze e gli sforzi delle aziende calzaturiere italiane.

Nuovi mercati emergenti: più una risorsa per l’export o una minaccia per la concorrenza a basso costo?
Le esportazioni italiane di calzature hanno registrato, secondo i dati Istat dei primi 11 mesi 2012, un incremento del +3,1% in valore, raggiungendo la cifra record di 7,1 miliardi di euro, pur con una flessione del -6,3% in quantità. I prezzi medi – nonostante la severità del contesto economico in molti dei nostri principali Paesi clienti – sono aumentati del 10%, a testimonianza dell’appeal invariato dei prodotti made in Italy.
Per diventare sempre più competitivi ANCI sta promuovendo importanti progetti come theMICAM nel mondo, la cui prima tappa sarà theMICAMshanghai dal 9 all’11 aprile. L’eccellenza italiana è il nostro biglietto da visita e non può essere certo minacciata dalla concorrenza a basso costo, ma non basta. Occorre imparare, conoscere ed esplorare e l’impegno di ANCI è proprio quello di aiutare il posizionamento delle aziende e la loro penetrazione sui nuovi mercati strategici.

Quali sono le prime istanze o richieste che, come ANCI, presenterete al nuovo Governo?
Il mercato non aspetta, eppure questa convinzione sembrano averla solo le imprese e i lavoratori: l’economia reale, quella che da anni attende risposte sul cuneo fiscale e sull’Irap, sembra essere utile solo quando è fonte di reddito fiscale oppure quando serve a coprire i buchi di bilancio. L’ingovernabilità pesa non soltanto sui mercati finanziari ma anche sulle imprese, e in particolare quelle calzaturiere che da anni attendono risposte efficaci. È sempre più urgente, in un momento così complicato del nostro Paese, tornare a parlare di economia reale: da qui nascono le nostre proposte come il recupero di uno strumento finanziario come era la legge 1083, la quale permetteva a soggetti istituzionali nazionali, come le Associazioni di categoria, di finanziare progetti di alto livello, come theMICAMshanghai. Se progetti simili hanno l’ambizione di indicare una via alle aziende e alle Istituzioni che le devono supportare, è altrettanto importante che queste ultime diano segnali di vicinanza reale al mondo delle imprese che sta vivendo un momento molto difficile. Il supporto all’internazionalizzazione, l’abbassamento del cuneo fiscale, le agevolazioni fiscali per le attività di ricerca e sviluppo e le misure per facilitare il credito sono ormai diventati una questione di sopravvivenza per tanti imprenditori.

Che cosa si sente di dire come incoraggiamento per questo 2013 alle migliaia di piccole imprese che operano nel settore calzaturiero?
In un momento così delicato, ma anche carico di possibilità e aperto a nuovi scenari, occorre dare speranza e fiducia alle imprese non con le parole e gli slogan, ma con impegni e fatti concreti. ANCI vuole proprio fare questo, ascoltando e unendo le voci delle aziende per dialogare con i partner istituzionali a vario livello con la forza della propria credibilità e coerenza e anche con durezza, se necessario, gettando così le basi concrete per il futuro per cogliere le opportunità che il mondo e i nuovi mercati ci offrono.

Davide PASSONI

Monza e Brianza, la culla del design

 

 

 

Quasi 3 mila imprese attive, un giro d’affari che supera i 2 miliardi di euro e una tradizione che si respira solo qui. E’ il distretto del Mobile di Monza e Brianza, dove arredo è sinonimo di tante piccole, medie e grandi imprese in grado di dare forma, in questo fazzoletto di terra, ai sogni in 3 dimensioni degli acquirenti di tutto il mondo.

Ma come si prepara il distretto del mobile per antonomasia all’appuntamento con il Salone del Mobile 2013? Quali sono le aspettative? Infoiva ha intervistato Carlo Edoardo Valli, Presidente della Camera di Commercio di Monza e Brianza.

A fronte di una difficoltà complessiva del sistema produttivo, come si posiziona il settore del design a Monza e Brianza?
Il settore di attività specializzate nel design contava, lo scorso settembre, nell’area fra Monza e Milano circa 4.000 imprese. In un anno sono aumentate del 3,8% presentando un andamento migliore rispetto all’intero comparto del legno arredo che ha registrato invece una flessione. Un segnale che certamente ci fa sperare, che intercetta l’esperienza e il know how di tanti giovani e talentuosi creativi, ma che dobbiamo leggere con prudenza all’interno di un contesto ancora difficile, e per il quale ci auguriamo vengano adottate al più presto misure a sostegno del comparto che rappresenta un’eccellenza e un patrimonio che non possiamo disperdere.

Il distretto del mobile di Monza e Brianza è sinonimo di design nel mondo. Quante sono le imprese attive? E qual è il loro giro d’affari?
In Brianza le imprese attive nella fabbricazione e nel commercio di mobili sono 2.754, un quinto di quelle lombarde, con un giro d’affari di oltre 2 miliardi di euro. Un patrimonio di eccellenze che rappresenta il nostro miglior biglietto da visita nel mondo. Design brianzolo significa qualità, funzionalità, cura del particolare, bellezza, tutti aspetti, tangibili e intangibili, che concorrono a rafforzare il brand “Brianza” e il concetto di ItalianStyle, rendendoci apprezzati e riconosciuti ovunque, anche e soprattutto all’estero.

Quanto vale l’export delle imprese del design del vostro territorio? Verso quali Paesi si esporta e quali sono le nuove frontiere?
La quota export delle imprese brianzole del legno arredo nel 2012 mondo ha superato gli 800 milioni di euro ed è in crescita rispetto all’anno precedente del 14%, con performance migliori rispetto al dato lombardo. L’Europa rappresenta ancora il principale mercato di riferimento per le esportazioni (assorbe il 63% dell’export, con un ruolo di traino dei “cugini” francesi) anche se emerge, in modo significativo, l’Oriente come nuovo mercato di sbocco, e il Medio Oriente con nuovi Paesi (Qatar e Arabia Saudita) che registrano performance eccezionali. Questi nuovi mercati possono aprire per le nostre imprese opportunità inesplorate e nuove prospettive di crescita.

Tra poche settimane debutterà il Salone del Mobile 2013. Che cosa rappresenta questo appuntamento per le imprese di Monza e Brianza? Quali sono le vostre aspettative?
Il Salone del Mobile 2013 è l’appuntamento per antonomasia della Brianza, pur essendo a Milano. Un appuntamento che è stato coltivato da molti imprenditori brianzoli, un nome per tutti Rosario Messina, ex Presidente di Federlegno Arredo e fondatore del Salone, a cui va il nostro ricordo e riconoscimento per quello che ha fatto. Quest’anno al Salone saranno presenti oltre 150 espositori di Monza e Brianza, ma molti altri imprenditori, designers e artigiani parteciperanno al Fuori Salone e agli eventi collaterali che arricchiscono l’iniziativa e la rendono un appuntamento internazionale di grande richiamo. Anche la nostra Camera di commercio sarà presente al Fuori Salone attraverso l’organizzazione di iniziative a supporto del comparto e rivolte in particolare ai giovani.

In tema di Saloni, lo scorso anno ha debuttato iFurniture Design, il salone virtuale da voi promosso. Qual è stata l’accoglienza? Il salotto virtuale si prepara a sostituire i padiglioni della fiera?
L’esperienza della fiera virtuale in 3D interamente sul web dedicata al legno arredo, è stata un progetto pilota che ha visto la partecipazione a novembre 2012 di 900 visitatori provenienti da 24 Paesi. Un’opportunità che certamente non andrà a sostituirsi alle fiere reali, ma che vuole essere uno strumento complementare e ulteriore per incrementare la visibilità e le opportunità delle nostre aziende.

Alessia CASIRAGHI

Design Directory, il design 2.0

 

Una mappa per fotografare lo stato dell’arte del design del Belpaese, ma anche uno strumento in grado di ‘fare rete’, di stringere i fili e creare nuove relazioni tra le aziende, piccole e grandi, che danno forma a quell’eccellenza italiana chiamata ‘Design’. Si chiama Design Directory il progetto nato grazie al Dipartimento INDACO – di Industrial Design, Arti, Comunicazione e Moda – del Politecnico di Milano e   in collaborazione con Fondazione Museo del Design. Il primo e unico in Italia,  che vanta anche tanti ‘gemelli’ europei.

Ma perchè è importante ‘mappare‘ il design in Italia? Qual è la fisionomia delle imprese che da sempre costituiscono l’ossatura e la forza di un settore che sembra non conoscere crisi (o quasi)?

Infoiva a intervistato Venanzio Arquilla,designer e ricercatore del Dipartimento INDACO del Politecnico di Milano e tra i fondatori del progetto.

Com’è nato il progetto di Design Directory Italia?
Il progetto Design Directory Italia è nato qualche anno fa inizialmente come Design Directory Lombardia per un progetto della Provincia di Milano e Camera di Commercio di Milano in occasione della mostra MilanoMadeinDesign tenutasi a New York. In quell’occasione è stato realizzato il volume Milano Made in Design – Design Directory consultabile sul sito www.designfocus.it nella sezione Ricerche. L’evoluzione di quell’esperienza ha portato alla realizzazione della Design Directory Italia, un progetto del Dipartimento DESIGN del Politecnico di Milano, sviluppato in collaborazione con Fondazione Museo del Design, come contributo alla realizzazione del Triennale Design Museum.
L’obiettivo del progetto era lo sviluppo di una mappa dinamica e consultabile, attraverso l’interrogazione di apposite sezioni tematiche, che rendesse palese la dimensione sistemica del design italiano, ben consapevoli che la messa in rete, in un’unica piattaforma, di tutti gli attori del design italiani rappresentasse un importante strumento di visibilità e promozione dell’intero sistema del design italiano. Il Modello lombardo è stato poi applicato all’intero contesto nazionale; Design Directory oggi è una realtà anche se dovrà essere avviata la sua seconda fase: la mappa social, ovvero uno strumento grazie al quale le imprese di tutto il territorio possono comunicare fra loro. Si tratta di una mappa certificata ma non autonoma, uno strumento dinamico che sia in grado di mettere in contatto le aziende fra loro e diventare uno strumento importante per farsi conoscere: una sorta di vetrina del design made in Italy.

Quante sono oggi in Italia le imprese del design? Si tratta perlopiù di piccole e medie imprese?
Proprio nell’ottica sistemica del design abbiamo inserito nella directory una sezione dedicata alle imprese e ci siamo trovati di fronte al problema di definire cosa fossero le imprese di o del design. Per fare ciò abbiamo classificato come imprese di design tutte quelle imprese che hanno ricevuto premi o segnalazioni in concorsi nazionali (compasso d’oro ADI e ADI Design Index) e internazionali (ad esempio Red dot design award o altri) e/o che fossero presenti in esposizioni permanenti o mostre di design in Italia e all’estero (dalla Triennale di Milano al MOMA). Questo ci ha permesso di includere le sole imprese eccellenti di design. Il numero quindi non è elevatissimo, sono circa un migliaio. Nonostante sia diffusa l’associazione tra imprese italiane e design, quelle realmente eccellenti sono poche, le altre vivono in un’atmosfera di design ma non sono realmente innovative e per questo non ricevono riconoscimenti ufficiali. Per la maggior parte si tratta di micro, piccole e medie imprese che hanno fatto della relazione positiva con designer, spesso esterni alla realtà aziendale, un carattere distintivo: sono imprese design oriented.

Qual è l’identikit del designer oggi?
La disciplina del design sta radicalmente cambiando perchè cambia il contesto e soprattutto cambia il mondo della produzione. Oggi sono richieste nuove competenze. Il design da un lato assume un riconosciuto valore strategico integrando oltre alle competenze di sviluppo prodotto anche competenze sugli aspetti comunicativi e di servizio e dall’altro crea nuove relazioni con la produzione. In molti casi, soprattutto nel contesto italiano, il design diventa microproduzione d’eccellenza, andando a rivalutare l’artigianato tradizionale (artigianato ma anche autoproduzione) senza dimenticare le nuove potenzialità offerte dalle tecnologie come la stampa 3D ed in generale tutto il fenomeno dei Makers. Oggi i designer non sono più chiamati a fare, solo e bene, il proprio mestiere, per emergere è necessario creare nuove connessioni, estendere il dominio delle proprie competenze, cercare di integrare gli utenti nel processo, in poche parole bisogna cercare di essere impresa, anche sostituendosi all’impresa, creando nuova impresa che si può chiamare designer=impresa, dove con impresa si intende il soggetto che sta nel mercato e genera economia, un’economia non speculativa ma con un importante portato sociale e culturale.

Il design è un’eccellenza e un vanto del made in Italy. Perchè?
Ad essere vanto del Made in Italy non è il design ma quell’inscindibile combinazione tra saper fare (spesso artigianale) e design che con modalità varie e sempre molto originali ha costituito il successo del Made in Italy e del modello ad esso connesso quello dei distretti industriali. La storia del design italiano, dal secondo dopoguerra fino quasi al duemila, testimonia di un rapporto fruttuoso e virtuoso tra capacità di progetto e di visione, che molti oggi chiamano creatività e che viene anche definita capacità di dare senso e significato agli oggetti, e saper fare artigianale. Una produzione non banale, saldamente ancorata alle tradizioni, un modello di sviluppo più manifatturiero che industriale.

Federlegno ha lanciato l’allarme qualche giorno fa, definendo ‘drammaticamente negative’ le prospettive per la filiera dell’arredo e del design per il 2013 (il 60% delle imprese ha dichiarato a gennaio 2013 ordini in forte flessione): dal vostro punto di osservazione privilegiato come commentate questo dato?
Oggi anche l’utopia, per dirla alla Mari, del Made in Italy si sta esaurendo di fronte alle sfide della globalizzazione, come certificano i dati di Confindustria. Questo non vuol dire che non vi siano speranze anzi è necessario provare davvero a valorizzare quello che contraddistingue il nostro Paese a livello mondiale. Il nostro patrimonio sono la miriade di piccole eccellenze del nostro artigianato, la capillarità di un sistema di microimprese, ognuna con la propria specificità e competenza, che hanno fatto grande il Made in Italy, che ora sono in sofferenza ma che ripensate in una rete globale potrebbero riprendere valore e soprattutto potrebbero non depauperarlo sdoganando definitivamente la sapienza insita nelle professioni artigianali, magari mixandola con la nuova tecnologia e la competenza del design, un nuovo design ma anche un nuovo modello produttivo, entrambi 2.0. Questo cambiamento auspicato è essenzialmente un cambiamento culturale e di approccio dove tutti devono trovare un ruolo, sia designer che imprese.

Alessia CASIRAGHI

Design fa rima con distretto a Brera

 

Il cuore, la mente e la mano: sono i tre elementi simbolici che racchiudono il segreto del successo del design made in Italy. Sospeso tra innovazione e tradizione, il nuovo artigianato è la leva sulla quale puntare per infondere nuova linfa vitale al settore: lo ha capito fin da subito Brera Design District, l’evento satellite del Fuorisalone 2013 che torna per la quarta edizione dal 9 al 14 aprile.

Perchè quando si parla di artigianato e tradizione, la prima parola che viene in mente è ‘distretto‘. E la Lombardia, la regione che ospita la manifestazione più importante del settore, il Salone del Mobile, e che vanta la più alta concentrazione in Italia di imprese attive (24,5% del totale nazionale) di distretti legati al settore dell’arredo e del design: quello di Monza e Brianza e naturalmente Brera.

L’attenzione per quello che è il motore trainante del settore non solo in Lombardia ma in tutta la Penisola è sintetizzato nel tema scelto per l’edizione 2013 del Brera Design District ‘Fare Artigianale e pensare Industriale‘.

”I mestieri artigianali, nella percezione comune, vengono ancora dipinti come il lascito di un passato ricco di tradizioni ma senza un futuro, senza credibili aspettative di sviluppo – ha sottolineato Marco Accornero, segretario generale dell’Unione Artigiani della Provincia di Milano. – Spesso non vengono considerati una risorsa e invece, grazie proprio al loro radicamento sul territorio e alle culture locali, possono avere un ruolo sui mercati più ampi del sistema globale e globalizzato. E infatti, nonostante la crisi, il prodotto realizzato a regola d’arte è stato in grado di conservare la propria competitività: basta pensare che nel 2012 a Milano le aziende del settore abbigliamento sono aumentate rispetto all’anno precedente del 15,4%, dell’8,3% quelle che rientrano nella più ampia categoria delle creazioni artistiche e del 6,8% quelle del design.”

Qualche dato: nel solo 2012 il tasso di crescita delle piccole e medie imprese di design in Lombardia è stato pari al + 4,4%, registrando oltre 40o nuove imprese. E se la parte del leone spetta al design tecnico (1.432 imprese, il 30,2% italiano) Milano resta la regina della moda e del design industriale (1.191, 26,9% italiano).

Insomma l’artigianato made in Italy si conferma un antidoto potente a dispetto di crisi e crolli dei consumi. Per conoscerlo da vicino Brera Design District ha organizzato un percorso guidato tra le botteghe di Brera: una selezione di realtà d’eccellenza e botteghe storiche da riscoprire, magari aiutandosi con la G-maps, l’app multipiattaforma che farà da guida tra gli eventi della kermesse. Perchè tradizione fa sempre rima con innovazione.

Alessia CASIRAGHI

Se la PA non paga, l’impresa crolla (e anche il Paese)

 

Il rischio è quello di un cedimento strutturale: dell’impresa prima, del Paese poi.  Sono 19 i miliardi di euro che la PA deve ancora alle imprese impegnate nell’edilizia e nelle opere pubbliche in Italia; pagamenti non ancora onorati che se procrastinati, potrebbero costare alle imprese un conto salatissimo, la chiusura dell’azienda.

Mentre ieri si è svolta a Roma la Manifestazione promossa dall’ANCI, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, per gridare il loro no al Patto di Stabilità che strangola le imprese, Infoiva ha incontrato Paolo Buzzetti, Presidente di ANCE, l’associazione che riunisce i costruttori edili.

Quante sono le imprese vostre associate colpite dalla piaga del ritardo dei pagamenti da parte delle PA?
Quasi tutte le pubbliche amministrazioni pagano in ritardo. In media le imprese attendono 8 mesi in più per vedersi onorare il corrispettivo dovuto ma spesso si arriva anche a due anni. Per questo tutte le nostre aziende che lavorano con la PA , su tutto il territorio nazionale, subiscono l’odioso fenomeno. Un malcostume che per le imprese di costruzione si traduce in 19 miliardi di crediti non pagati.

Quanto è pericolosa per la piccola e media impresa oggi la combinazione fra crisi economica e ritardo nei pagamenti delle PA?
Stretta del credito da parte delle banche e ritardati pagamenti sono un cocktail micidiale per le imprese che di fronte alla mancanza di liquidità non hanno soluzioni se non quella di chiudere. Un meccanismo che ha toccato anche le imprese sane, quelle con lavori in portafoglio, che si sono trovate nell’impossibilità di proseguire i lavori, di pagare i propri dipendenti e i fornitori. Un intero settore industriale, quello delle costruzioni, che rischia di scomparire. Gli sforzi seppur apprezzabili del ministro Passera e del Viceministro Ciaccia hanno però solo scalfito un macigno fatto di politiche depressive e reiterate nel tempo. E’ necessario, quindi, intervenire subito e con maggiore coraggio.

Come commenta la presa di posizione da parte dell’ANCI di affrontare il problema sforando il patto di stabilità per pagare le imprese?
Insieme ai Comuni siamo stati i primi a denunciare l’effetto perverso che un’applicazione così restrittiva del patto di stabilità stava producendo sul tessuto economico e sulle imprese e per questo abbiamo promosso in collaborazione con l’Anci l’iniziativa pubblica del 21 marzo. Una platea di sindaci e imprenditori compatta nel chiedere al Governo un piano immediato di sblocco dei fondi degli enti locali già disponibili. Già nel 2010 tutta la filiera dell’edilizia raccolta negli Stati generali scese in piazza per manifestare una situazione che ormai era divenuta insopportabile. Oggi, a distanza di tre anni, il debito della Pa nei confronti delle imprese di costruzione è cresciuto a dismisura e quasi nullo è stato l’effetto della certificazione dei crediti che il governo Monti ha introdotto nella speranza di smuovere qualcosa. Come sempre il problema va risolto all’origine e cioè è necessario un allentamento del patto di stabilità altrimenti tutti gli sforzi risultano vani e per pagare le imprese non rimane alle amministrazioni che sforare il patto.

Il ritardo nei pagamenti della PA è un male tutto italiano. Perchè?
Il livello del debito pubblico italiano e la necessità di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013 hanno imposto all’Italia sacrifici ingenti. Gli enti locali sono stati costretti a tagliare e questo ha generato un meccanismo a cascata che ha finito per sacrificare l’anello più debole ossia le imprese. La cosa più grave è che per tutto questo tempo si è nascosto il problema sotto il tappeto, utilizzando un artificio contabile che fa emergere il debito nel bilancio della Pa solo quando viene pagato. Paradossalmente in questo modo non pagare le imprese significa non avere debiti e quindi essere virtuosi, cosa che in realtà non è. Così facendo non si è fatto altro che scaricare sulle aziende le inefficienze dello Stato.

Quali sono le prime misure che chiedete di mettere in campo al nuovo Governo per fronteggiare questa emergenza?
Sono necessarie poche azioni concrete. Innanzitutto occorre definire un piano effettivo di smaltimento dei debiti pregressi della PA per lavori eseguiti, da concordare con le istituzioni europee come misura una tantum. Proprio su questo punto negli scorsi giorni i Vicepresidenti della Commissione europea Rehn e Tajani hanno aperto a un’ipotesi di superamento dei vincoli del patto di stabilità per il pagamento delle imprese. Con l’Anci abbiamo proposto un Piano in tal senso che prevede lo sblocco di 9 miliardi di euro di fondi disponibili solo nel 2013, una boccata d’ossigeno per le aziende. Ma per modificare davvero questo malcostume occorre inoltre rivedere il Patto di stabilità interno, introducendo una golden rule che salvaguardi la componente di investimento nei bilanci delle amministrazioni pubbliche e applicare pienamente la direttiva europea sui ritardati pagamenti per i nuovi contratti anche nel settore dei lavori pubblici.

Alessia CASIRAGHI

Scarpe ‘made in… Brenta’

 

Chanel, Céline, Gucci, Prada, ma anche Givenchy, Scervino, Ferragamo e Vuitton. Calzature pronte a fare il giro dei 4 Continenti ma che vengono create, lavorate e rifinite in questo lembo di terra che si estende tra Padova e Venezia. Parliamo del distretto calzaturiero della Riviera del Brenta, un luogo simbolo del made in Italy e di quella tradizione di tacchi e tomaie, suole e pelli che da oltre 50anni danno forma ai sogni di ogni donna grazie alle mani esperte dei maestri artigiani.

Infoiva ha deciso di fare tappa qui quest’oggi per raccontare una punta dell’eccellenza del nostro Paese, grazie alla voce di Siro Bardon, Presidente di Acrib, l’Associazione che raccoglie i calzaturifici del Brenta.

Crisi e nuovi mercati: l’Italia è ancora capace di “fare le scarpe” al mondo?
Sul piano quantitativo la risposta è “no”. Sono ormai diversi anni che la Cina produce oltre il 50% delle calzature esistenti sui mercati. Se guardiamo alla qualità, invece, l’Italia è e resta saldamente al primo posto.

Qual è la situazione delle imprese del vostro distretto? Soffrono, si sviluppano, sopravvivono…?
Il nostro distretto non è un “atollo” del Pacifico. Soffriamo come tutti, sicuramente meno di altri proprio per il posizionamento dei nostri prodotti sul segmento più alto del mercato.

Quante sono le imprese che operano nel vostro distretto? Che cifre muovono in termini di fatturato, indotto, occupati?
Le aziende sono 560; occupano 10.500 addetti; la produzione è di 20 milioni di paia l’anno, esportate al 91%, con un fatturato di 1,7 miliardi di euro.

Secondo lei, quali politiche dovrebbero essere adottate a livello nazionale per difendere l’eccellenza delle calzature italiane dalla concorrenza di bassa qualità?
A livello europeo è necessaria l’introduzione dell’etichettatura d’origine obbligatoria. In altri termini, il consumatore deve trovare sul prodotto il “Made in…”. In attesa di questa direttiva europea in Italia si potrebbero attuare politiche per favorire la tracciabilità dei prodotti. Poi, trattandosi di produzioni ad alta intensità di manodopera, bisognerebbe ridurre il carico fiscale che grava sul lavoro.

Domanda da un milione di euro: qual è il futuro dell’Industria calzaturiera italiana?
Io non ho la sfera di cristallo anche se ho una certezza: quando sarà – spero mai o più tardi possibile – l’ultimo paio di scarpe prodotto in Italia proverrà dalla Riviera del Brenta.

Davide PASSONI

Scarpe di carta, anzi di ‘cartina’

 

Bella, versatile ma soprattutto ecocompatibile. Arriva da Capannori, provincia di Lucca, la prima scarpa a km zero: è Cartina Ballerina, la calzatura prodotta a partire dalla carta. E in questa settimana che Infoiva ha scelto di dedicare alla filiera della calzatura in Italia, abbiamo voluto raccontare la storia, o meglio la ‘favola’, di una piccola grande eccellenza ‘made in Italy’.

A raccontarcela è Mirko Paladini, che nel luglio del 2011 ha preso carta e penna per dare vita a una scarpa ‘di carta’, Cartina Ballerina.

Come è nata l’idea di produrre calzature ecocompatibili a partire dalla carta?
L’idea di produrre calzature utilizzando un materiale diverso dalla pelle è sempre stata una mia ambizione: dopo svariati tentativi, anche con altri materiali, nel 2011 abbiamo testato e messo a punto un materiale speciale che al tatto e alla vista si presenta come carta. Si tratta però di una carta speciale che nasce da un prodotto che viene utilizzato per le coibentazioni e viene poi adattato alla lavorazione della calzatura. Un materiale che ha le stesse caratteristiche di tenuta  e resistenza di quelli utilizzati per le calzature, ed è chiaramente impermeabile. Inoltre la nostra carta è riciclabile, e quindi le nostre scarpe sono riciclabili , sia nella tomaia che nella suola, anche quella fatta con termoplastico riciclabile. La nostra idea era quella di creare una scarpa bella e  accattivante ma utilizzando un materiale innovativo; una calzatura ‘eco fashion’ completamente prodotta in Italia, le scarpe Cartina vengono infatti ideate e costruite in Toscana, nel comune di Capannori (LU). Tre sono punti di forza delle nostre calzature: ecologiche, leggere (ossia comode) e personalizzabili.

Perchè è importante utilizzare materiali di riciclo?
Oggi più che mai bisogna guardare con attenzione ai temi legati all’ inquinamento ambientale, al riciclaggio e alla differenziazione dei rifiuti. Capannori, il comune dove ha sede la nostra azienda, è tra i più all’avanguardia in Italia in ambito di politiche ambientali e riciclaggio. Forse non tutti sanno che la calzatura rappresenta uno dei rifiuti non riciclabili più difficili da smaltire: è per questo che abbiamo lavorato per poterci distinguere in questo senso.

Attualmente su quali cifre si aggira il vostro fatturato? Esportate anche all’estero? Se si, in quali Paesi?
Il fatturato dell’azienda si aggira intorno ai 2 milioni di euro. Abbiamo iniziato da poco ad esportare Cartina in Francia e Australia, e stiamo sviluppando una rete vendita di agenti in tutte le Nazioni europee.

Tra i vostri canale di vendita c’è anche l’e-commerce?
Al momento l’e-commerce non è ancora partito, sicuramente è nei nostri programmi futuri, anche se per il momento vogliamo affermarci attraverso i canali tradizionali di retail, ovvero i negozi sia di abbigliamento che di calzature.

Quanto è difficile oggi fare impresa in Italia? Quali sono le maggiori difficoltà che avete riscontrato?
Oggi fare impresa nel nostro Paese è veramente difficile. In confronto al contesto internazionale, avviare e gestire un’attività economica Italia richiede un enorme sforzo, nonostante il nostro sia uno dei primi Paesi manifatturieri al mondo e il secondo esportatore europeo. Nonostante le premesse, la nostra azienda crede ancora che grazie alle idee innovative si possa trovare spazio per vendere sia in Italia che all’estero.
Le maggiori difficoltà che ogni giorno ci troviamo ad affrontare sono soprattutto di tipo finanziario: le banche oggi non aiutano le società nuove, le cosiddette Start-up, nemmeno nella fase di avviamento, anzi le penalizzano; inoltre, a differenza di altri Paesi, in Italia non esiste la possibilità reale di finanziare progetti innovativi.

Come vedete il vostro futuro? Su quali prodotti punterete e quali mercati?
Speriamo che il nostro Brand si affermi come prodotto particolare con caratteristiche innovative. Il mercato italiano ha sicuramente subito un forte calo dei consumi, ed è per questo che anche un’azienda giovane come la nostra, nonostante il prodotto si differenzi dagli altri, deve sin da subito rivolgersi ai mercati esteri.

Alessia CASIRAGHI

Milano val bene un kebab

 

Dopo Roma, il nostro viaggio attraverso l’imprenditoria straniera in Italia fa tappa quest’oggi a Milano, dove il fenomeno più evidente è la crescita e proliferazione di imprese legate al settore del food e della ristorazione in crescita vertiginosa. Nel 2012 erano quasi 2.400, dove a farla da padrone sono le attività gestite da cinesi (spring rolls e gamberi fritti prime portate), seguite da sushi e kebab.

Infoiva ha intervistato Alfredo Zini, vicepresidente vicario di Epam, l’Associazione milanese pubblici esercizi di Confcommercio Milano e consigliere della Camera di Commercio di Milano.

Quante sono le imprese guidate da stranieri a Milano e provincia? Con quale trend di crescita?
Stando ai dati diffusi dalla Camera di Commercio nel 2012 siamo a quota 34.294 imprese con titolari stranieri nel quarto trimestre 2012, con un incremento del +7,38% in un anno. Si tratta di cifre in linea con gli anni passati, anche se va sottolineata la crescita sempre più significativa delle attività legate al food e alla ristorazione, soprattutto con l’avvicinarsi di Expo 2015. Da un lato con l’aumento di cittadini stranieri nella nostra città e in Lombardia cresce la richiesta di alimenti provenienti da Paesi più o meno lontani, mentre dall’altro la ristorazione etnica è preferita anche tanti italiani per una questione di prezzo maggiormente concorrenziale.

Esistono dei settori d’impresa in cui gli stranieri superano in numero di presenze gli imprenditori italiani? Quali?
Come anticipato, il settore che crescono maggiormente sono quelli della ristorazione e del food e dell’alimentare in genere, che nel 2012 hanno segnato un +9,1%. Segue l’area delle attività legate alla telecomunicazione come gli internet point ( 74%) e i centri per il benessere fisico (70%), anche se in questo ultimo caso occorre sottolineare che molto spesso questo tipo di imprese cela in realtà attività di altra natura.

Il boom dei ristoranti etnici a Milano ha messo in difficoltà i piccoli e medi imprenditori impegnati nella ristorazione?
Assolutamente si, per una questione di costi. I ristoranti stranieri risultano quasi sempre ditte individuali dove non si registrano collaboratori, questo riduce notevolmente i costi di gestione rispetto a quelle made in Italy; dall’altro lato si tratta di attività che restano aperte tutti i giorni molto spesso oltre gli orari canonici. Ci vorrebbe maggiore attenzione e controllo nel monitorare queste imprese, soprattutto perchè esistono ristoranti e punti vendita gestiti da stranieri che restano aperti 24 ore su 24, e magari risultano anche registrati come ditte individuali senza collaboratori. Se ci deve essere concorrenza, questa deve leale e nel rispetto delle nostre norme vigenti.

Qual è la geografia di provenienza degli imprenditori stranieri a Milano e in Lombardia?
A Milano al primo posto egiziani (5.622 imprese ),cinesi (4.143), rumeni (2.265) e marocchini (2.038), in Lombardia al primo posto rumeni (8.149), egiziani (8.146), cinesi (7.853) e marocchini (7.767).

A suo avviso qual è la forza delle imprese guidate da stranieri? E quali le linee d’ombra?
Se riflettiamo, 50 anni fa nelle nostre grandi città si verificava lo stesso fenomeno: allora si parlava però di immigrazione interna, cittadini italiani disposti a spostarsi per trovare lavoro, e poi c’era chi sceglieva di ‘fare la valigia’ e partire per gli Stati Uniti dove ad attenderli c’era una vita di sacrifici. Quello che accade con gli stranieri che oggi arrivano in Italia è molto simile: gli imprenditori stranieri vedono in Italia una ‘possibilità’ rispetto ai loro Paesi, quindi si impegnano molto, lavorando intensamente e facendo turni massacranti. Non da ultimo gli imprenditori stranieri hanno un accesso al credito diverso rispetto a quelli italiani; mi spiego meglio: anche sulle start up di impresa gli imprenditori italiani faticano a trovare liquidità, mentre proliferano le nuove aperture di attività gestite da stranieri. E’ un fenomeno che getta una linea d’ombra sull’impresa straniera e andrebbe maggiormente monitorato.

Gli imprenditori stranieri sono in grado di resistere meglio alla crisi rispetto a quelli italiani?
Si, perchè si adattano meglio alle situazioni e alle circostanze, in una parola sono più ‘flessibili’. Basti pensare agli spazi abitativi dove molto spesso vivono, perlopiù ridotti e condivisi da più persone, e questo determina una riduzione dei costi. Gli imprenditori stranieri sono più parsimoniosi, quasi sempre mettono da parte i soldi accumulati per rispedirli al Paese di origine dove costruirsi una casa, con la speranza di tornare. Il loro stile di vita è diverso, sono meno propensi al divertimento esterno e al consumo anche negli altri settori.

Infine qual è la sua previsione sulla crescita dell’impresa straniera a Milano e in Lombardia nei prossimi anni? Si registrerà un boom o un calo (vista anche la situazione politico economica confusa del nostro Paese)?
Credo nei prossimi anni persisterà la linea di crescita osservata in questi anni, continueranno ad aumentare i punti vendita e le attività aperte da cittadini stranieri. In Lombardia e a Milano questo trend sarà anche sostenuto dall’arrivo di Expo 2015, per cui si attende in città lo sbarco di un grandissimo numero di visitatori, che avranno esigenze differenti, soprattutto dal punto di vista del food e alimentare.

Alessia CASIRAGHI

Roma caput mundi

 

Più temerari, ma anche più flessibili e capaci di adattarsi in base alle esigenze del mercato. E’ questo il segreto del successo degli imprenditori stranieri in Italia, che secondo gli ultimi dati diffusi da UnionCamere, stanno sfiorando la cifra di quasi mezzo milione di unità.

Infoiva quest’oggi ha deciso di puntare l’attenzione sulla capitale, per comprendere meglio quale sia la geografia umana e la forza intrinseca dell’impresa straniera. Ecco che cosa ci ha suggerito Lorenzo Tagliavanti, direttore Cna di Roma e vicepresidente della Camera di Commercio di Roma.

Quante sono le imprese guidate da stranieri a Roma e provincia? Con quale trend di crescita?
Alla fine dell’anno scorso, a Roma e provincia, si contavano oltre 30mila imprese a titolare straniero. Per comprendere la crescita esponenziale degli ultimi anni basti pensare che nel 2009 sfioravano le 21mila. Sono per lo più microimprese e ditte individuali. In media un’impresa straniera in Italia risulta infatti più piccola di un’impresa con titolare italiano: 1,9 rispetto a 4,5 addetti. Le imprese straniere a Roma e provincia occupano 70mila addetti. Il loro apporto sull’economia del territorio è notevole, per questo servono politiche e servizi che tengano conto di questa forza, la tutelino e la promuovano favorendone l’accesso al credito, alleggerendo la burocrazia e semplificando la comunicazione con le istituzioni. Per dare voce e rappresentanza a questo importante settore dell’economia Cna di Roma ha dato vita a Cna World, che raccoglie oltre mille imprese a titolare straniero.

Esistono dei settori d’impresa in cui gli stranieri superano in numero di presenze gli imprenditori italiani? Quali?
L’impatto dell’immigrazione straniera sull’economia è molto alta in alcuni settori come quello del commercio, della ristorazione e dell’edilizia.

Qual è la geografia di provenienza degli imprenditori stranieri a Roma e nel Lazio?
Nove imprenditori su 10 provenienti da Bangladesh, Cina, Egitto, Nigeria, Polonia, Senegal, Serbia, Pakistan, Perù, Filippine, Slovacchia, Iran e Colombia tendono a concentrarsi nell’area di Roma. Altre collettività, come ad esempio Romania, Marocco, Albania e Brasile, nelle province del Lazio.

A suo avviso qual è la forza delle imprese guidate da stranieri in Italia?
Gli imprenditori immigrati continuano a crescere perché sono più propensi a rischiare, provengono da situazioni di disagio e quindi si adattano meglio alle difficoltà, hanno una consolidata professionalità e sono per lo più orientati verso una forma di impresa agile, come la ditta individuale.

La Camera di Commercio di Roma prevede bandi di finanziamento/contributi destinati all’imprenditoria straniera?
La Camera di Commercio sostiene da sempre l’imprenditoria straniera, prova ne è la promozione dell’unico studio della Caritas che monitora l’apporto dell’imprenditoria straniera sull’economia della regione. Tra le recenti iniziative per favorire le imprese immigrate ricordo il progetto “Start it up – Nuove imprese di cittadini stranieri” con il quale abbiamo accompagnato, attraverso seminari formativi, molti imprenditori stranieri verso l’avvio aziendale. Abbiamo, poi, costituito un fondo di garanzia di 10 milioni di euro per sostenere le nuove imprese. Sono risorse destinate alla prima fase di creazione d’impresa, quella più difficile per i neotitolari, italiani e non.

Alessia CASIRAGHI

Nuovo ossigeno al mercato dell’auto

Rilanciare la competitività del mercato dell’auto attraverso la riduzione e razionalizzazione dell’imposizione fiscale e un intervento sui costi dell’energia. Sono queste le richieste di ANFIA, l’Associazione Nazionale Fra Industrie Automobilistiche, al nuovo esecutivo.

Continua il viaggio di Infoiva di questa settimana per ascoltare le richieste delle Associazioni di Categoria in Italia: oggi abbiamo intervistato Roberto Vavassori, Presidente di ANFIA.

Quali sono, a suo parere, le tre priorità che dovrà affrontare il nuovo Governo per rilanciare domanda e consumi?
Per rilanciare la domanda di autoveicoli, sono prioritarie una revisione della fiscalità sulle auto aziendali, una riduzione dell’RC Auto e una riduzione programmata delle accise sui carburanti. La recente riduzione della deducibilità del costo delle vetture aziendali ci ha allontanati un altro poco dall’Europa, visto che ad oggi, in Italia, abbiamo una quota di immatricolazioni di auto aziendali attorno al 30% all’anno, contro il 50% della Germania e del Regno Unito. Sul fronte delle tariffe assicurative, i costi possono essere ridotti grazie all’utilizzo della scatola telematica installata in auto, secondo la logica pay-as-you-drive, e all’introduzione di un sistema unitario di monitoraggio e rilevazione statistica della sinistrosità, che consenta di approfondire la conoscenza sulle circostanze degli incidenti, fornendo informazioni preziose anche, e soprattutto, in un’ottica di riduzione delle vittime della strada. Infine, una riduzione delle accise sui carburanti, se ben studiata, potrebbe non comportare perdite di gettito per l’Erario, se incrementassero, anche di poco, i chilometraggi medi.

Quali, invece, le politiche che dovrà mettere in campo per dare sostegno a imprese e professionisti, strozzati dalla crisi?
E’ urgente ricreare condizioni di maggior competitività attraverso un intervento sui costi dell’energia – con una riduzione di almeno l’80% della componente A3 per le imprese ad alta intensità energetica come quelle del settore automotive – l’introduzione di un credito d’imposta strutturale, o almeno della durata di 5 anni, per gli investimenti in R&D – sul modello della Francia, dove è al 30% – e un miglioramento delle condizioni di accesso al credito per le aziende, a tassi coerenti con quelli praticati dalla BEI, mentre ad oggi le aziende italiane pagano tassi più alti rispetto alle aziende concorrenti europee.

Per parte vostra, quali saranno le prime istanze che porterete al nuovo esecutivo? Chiederemo di attuare subito, con il coinvolgimento di tutti gli attori del sistema della mobilità, un serio e improcrastinabile piano d’azione, che punti a dare ossigeno al mercato – in primis attraverso la riduzione e razionalizzazione dell’imposizione fiscale – e ad avviare le misure di politica industriale appena indicate, indispensabili per rilanciare la crescita e lo sviluppo.

Qual è l’errore più grave commesso dai precedenti Governi che non volete venga più commesso dall’Esecutivo che verrà?
Riteniamo non debba più accadere che provvedimenti impattanti sulle dinamiche del nostro comparto – che dà un contributo alle entrate fiscali dello Stato di oltre 65 miliardi di Euro l’anno, oltre il 15% del gettito fiscale nazionale e al 4,4% del PIL – vengano introdotti senza alcuna consultazione preventiva con le associazioni di settore, per un’analisi il più possibile approfondita delle problematiche che ci troviamo ad affrontare quotidianamente nel nostro rapporto con le aziende che rappresentiamo.

Alessia CASIRAGHI