Concordato preventivo biennale, reddito alto per chi ha un Isa basso

Procedono i lavori per stabilire le norme per determinare il reddito per il biennio per il concordato preventivo, naturalmente queste norme non trovano applicazione per i forfettari perché per loro, in via sperimentale, l’accordo avrà validità di 1 anno. Ecco le prime indicazioni sul concordato preventivo e il reddito dell’accordo proposto.

Concordato preventivo biennale con reddito diverso per i due anni

Fulcro centrale del concordato preventivo biennale è la determinazione della base imponibile e quindi della tassazione applicabile per due anni.

Fin dalle prime note sul concordato preventivo biennale molti esponenti politici hanno parlato di un sistema volto ad agevolare l’evasione fiscale, man mano però si stanno delineando i tratti di questo metodo fiscale di calcolo delle imposte che dovrebbe in realtà portare all’emergere dell’evasione fiscale.

Nelle prime formulazioni, il concordato preventivo biennale era accessibile solo a coloro che avevano un punteggio Isa almeno pari a 8. Si è poi passati a una formulazione più ampia in cui non serve un’elevata affidabilità fiscale, ma ovviamente la proposta di imponibile e quindi di tassazione tiene conto anche dell’indice di affidabilità fiscale e non solo dei redditi dichiarati negli anni precedenti.

C’è però ora un ulteriore dettaglio, infatti sembra che il concordato preventivo biennale debba portare a un aumento dell’imponibile dichiarato e per i due anni di imposta, 2024 e 2025, l’imponibile base dell’accordo non sarà uguale ma incrementato, cioè l’imponibile proposto per il 2025 sarà più elevato rispetto all’imponibile del 2024. Inoltre la proposta sarà strettamente correlata all’affidabilità fiscale, al punto che l’obiettivo del governo è far arrivare i contribuenti a un punteggio Isa pari a 10.

In poche parole il Fisco calcola il reddito necessario per avere un punteggio isa 10 e lo spalma su due anni.

Regole severe per chi ha un punteggio Isa basso

Ovvio che l’impatto maggiore sarà per coloro che hanno un punteggio Isa attuale particolarmente basso.

Coloro che hanno un punteggio Isa inferiore a 6 dovranno pagare il costo dell’adeguamento del reddito imponibile ai singoli indicatori elementari ISA, sia quelli di affidabilità che di anomalia come i ricavi per addetto o la durata delle scorte, che daranno risultati non sufficienti (di non affidabilità fiscale) .

Si continuerà a tenere inoltre in considerazione la redditività del settore.

Naturalmente questi sono i primi dettagli che emergono dai lavori che sta portando avanti il comitato degli esperti.

Leggi anche: Concordato preventivo biennale, approvato il modello di adesione

Partite Iva, in arrivo due correttivi per la riforma del regime forfettario

Partite Iva a regime forfettario verso la riforma. Sono due i possibili cambiamenti che riguarderebbero l’applicazione del meccanismo della flax tax tra gli autonomi. In primis, i coefficienti di redditività che non sarebbero più adeguati ai tetti di reddito per l’applicazione della fiscalità agevolata. Il secondo cambiamento potrebbe aversi per i contribuenti che superino il tetto dei 65 mila euro di ricavi. Si indebolisce, invece, l’ipotesi di allargare l’applicazione della fattura elettronica alle partite Iva del forfettario, eventualità che era stata avanzata negli ultimi mesi.

Riforma partite Iva a regime forfettario: il disegno di legge atteso in settimana

I correttivi sui coefficienti di redditività e sul superamento del limite dei 65 mila euro delle partite Iva a regime forfettario, secondo quanto scrive Il Sole 24 Ore, sono stati già messi in evidenza nella relazione delle commissioni parlamentari. I due correttivi potrebbero essere contenuti nella riforma fiscale, come già anticipato nella Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza. Il disegno di legge con le modifiche sulle partite Iva dovrebbe arrivare nel Consiglio dei ministri già a partire da questa settimana.

Partite Iva, quante sono in Italia quelle forfettarie?

Sempre più autonomi scelgono di aprire la partita Iva con il regime forfettario. Nel 2021 il 46% delle nuove aperture ha scelto la flat tax. In tutto, sono circa 1,9 i contribuenti del forfettario – senza tener conto delle chiusure – includendo chi ha optato per il regime agevolato nella dichiarazione dei redditi dello scorso anno e le nuove aperture che si sono avute tra il 2020 e il 2021. Nell’anno in corso sono state 153 mila le nuove partite Iva con la flat tax.

Partite Iva, attese modifiche ai coefficienti di redditività dei forfettari

Nel disegno di legge sulle partite Iva a regime forfettario non vi saranno variazioni nelle aliquote. Continueranno a essere in vigore quella del 15% e quella ancora più agevolata del 5% per le nuove attività. La prima revisione potrebbe riguardare i coefficienti di redditività, ovvero le percentuali, variabili a seconda dell’ambito di attività della partita Iva, che sono applicate ai ricavi e ai compensi e che determinano il reddito da tassare.

Perché potrebbero cambiare i coefficienti di redditività dei forfettari?

Le motivazioni alla base dei correttivi che il governo potrebbe adottare sulle partite Iva a regime di flat tax riguarderebbero la non aderenza delle percentuali alla “struttura dei costi delle imprese di dimensioni meno contenute”. In altre parole, per determinate imprese i costi sostenuti non sarebbero in linea con il coefficiente di redditività. Del resto, le percentuali non sono state adeguate nel momento in cui è stata elevata la soglia di ricavi (65 mila euro) per poter accedere al regime di imposta fissa del 15%. La revisione dei coefficienti di redditività era già stata suggerita a marzo scorso da Fabrizia Lapecorrella, direttore generale delle Finanze.

Quali attività potrebbero vedersi modificato il coefficiente di redditività?

Un’analisi preliminare delle Finanze ha già individuato i settori che potrebbero vedersi modificare i coefficienti di redditività. Avrebbero la possibilità di applicare un coefficiente più basso e, quindi, una più ridotta base imponibile:

  • le attività con codici Ateco rientranti nel commercio ambulante (ad oggi pari al 40% per gli alimentari e al 54% per tutti gli altri prodotti);
  • il settore delle costruzioni (coefficiente odierno dell’86%).

Chi vedrebbe salire il coefficiente di redditività sono invece gli intermediari del commercio, ai quali oggi spetta una percentuale del 62%. Tutti gli altri settori (e codici Ateco) dovrebbero rimanere invariati, compresi i professionisti che sono la categoria più numerosa dopo il commercio.

Il correttivo del superamento dei 65 mila euro delle partite Iva forfettarie

Il secondo correttivo che potrebbe riguardare le partite Iva a regime forfettario riguarda lo sforamento del tetto dei 65 mila euro di ricavi per poter mantenere il regime fiscale agevolato. La proposta prevede che chi superi il tetto massimo, rimanendo comunque al di sotto di una seconda soglia da individuare, vedrebbe applicarsi per due anni l’aliquota di forfait del 20% (anziché del 15%). L’ipotesi verrebbe ancorata all’incremento del volume di affari del contribuente autonomo di almeno il 10% annuo.

Partite Iva, lo sforamento dei 30 mila euro dall’attività alle dipendenze

Al momento non vi sono novità per le partite Iva a regime forfettario che svolgano anche lavoro alle dipendenze e, con quest’ultimo, sforino il tetto dei 30 mila euro. Nel regime attuale, lo sforamento comporta l’esclusione dal forfettario. Mentre chi può contare su altri tipi di reddito, come ad esempio quelli da capitali o quelli immobiliari, non subisce alcun divieto.

Si va verso il ‘no’ all’allargamento della fattura elettronica ai forfettari

Diversamente da quanto dibattuto nei mesi precedenti, le partite Iva a regime forfettarie potrebbero continuare a rimanere fuori dall’obbligo della fatturazione elettronica. Nei mesi scorsi l’Italia ha presentato a Bruxelles la richiesta per l’allargamento di applicazione della fattura elettronica anche al regime di flat tax. Sul punto, tuttavia, la Relazione alla Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanze è chiara. “Al di sotto di una determinata soglia di compensi e ricavi, l’introduzione dell’obbligo di fatturazione elettronica non è compatibile con la disciplina dell’Unione europea”.

 

Quali sono le imposte sul reddito delle società? Scopriamolo

La società è un’organizzazione di beni e persone il cui obiettivo è realizzare un’attività di impresa con finalità di lucro o mutualistica. Naturalmente la società produce un reddito e quindi viene tassata, ora vediamo quali sono le imposte sul reddito delle società e come vengono applicate, ciò tenendo in considerazione che vi sono delle differenze tra le società di persone e le società di capitali.

Imposte sul reddito delle società: IRAP

L’IRAP è l’Imposta Regionale sulle Attività Produttive, la base imponibile dell’IRAP è formata dal valore della produzione netta ed è stata introdotta dal decreto legislativo 446 del 1997. Tra le peculiarità di questa imposta c’è il fatto che la base imponibile comprende anche elementi che in realtà non sono una vera e propria parte attiva, ad esempio i salari. L’IRAP è dovuta da:

  • società di persone e di capitali;
  • enti pubblici;
  • trust residenti in Italia;
  • persone fisiche titolari di redditi di impresa;
  • soggetti che svolgono lavoro autonomo;
  • amministrazioni dello Stato.

Vi sono invece dei limiti riguardanti le attività svolte nel settore dell’agricoltura, inoltre sono esenti dalla dichiarazione e dal versamento IRAP coloro che svolgono attività in modo occasionale.

Per scoprire chi sono i soggetti che devono presentare la dichiarazione IRAP, leggi l’articolo: Chi è obbligato a presentare la dichiarazione IRAP.

IRES

L’IRES è l’Imposta sul Reddito delle Società, la stessa però non viene pagata da tutte le società ma solo da quelle di capitali, società cooperative e mutue assicurazioni, enti pubblici, enti privati e trust. L’IRES dal 2004 ha sostituito l’IRPEG, cioè l’imposta sul reddito delle persone giuridiche. E’ caratterizzata dalla presenza di un’aliquota fissa, attualmente al 24%, in passato era più alta.

IRPEF

Le società di persone, cioè Società Semplice, Società in Nome Collettivo e Società in Accomandita Semplice hanno un’autonomia patrimoniale imperfetta, cioè non vi è separazione tra il patrimonio della società e quello dei soci e di conseguenza di eventuali debiti delle stesse rispondono anche i soci, sebbene dopo la principale escussione nei confronti della società.

Ne consegue che i redditi della società si dividono tra i soci della stessa e si imputano pro quota in base a quanto concordato dalle parti oppure in modo egualitario. I redditi quindi saranno tassati nel momento in cui entrano nella disponibilità dei soci e quindi con l’IRPEF e non con L’IRES. In questo caso si può dire che l’imposta si calcola sui redditi delle società di persone, ma in modo indiretto. D’altronde non si può tacere questa tassazione altrimenti apparirebbe uno squilibrio tra il trattamento fiscale delle società di persone e quello delle società di persone.

In teoria l’applicazione dell’IRPEF al posto dell’IRES potrebbe essere anche uno svantaggio, infatti l’IRES, come visto, si basa su un’aliquota fissa, attualmente fissata al 24%, mentre l’IRPEF ha una tassazione con aliquote progressive che cioè aumentano all’aumentare del reddito. Proprio per questo se la società genera profitti ragguardevoli, l’IRES può essere più conveniente. Lo squilibrio della tassazione diventa più evidente nelle società unipersonali o con pochi soci in quanto il reddito si divide in poche quote.

IRI

L’IRI è l’Imposta sul Reddito Imprenditoriale. L’obiettivo è evitare lo squilibrio tra le aliquote IRES e quelle IRPEF, chiarisce quindi l’Agenzia delle Entrate che si tratta di un regime opzionale a cui possono aderire le società di persone in contabilità ordinaria, le imprese individuali e alcune piccole società di capitali, trattasi di:  società a responsabilità limitata con un numero di soci non superiore a 10, o a 20 nel caso di società cooperativa, con ricavi annui non superiori a quelli previsti per l’applicazione degli studi di settore (5.164.569 euro).

Il vantaggio dell’IRI è dato dal fatto che si applica l’aliquota proporzionale al 24%.

L’IRI ha visto la luce con la legge 2015 del 27 dicembre 2017, cioè la legge di bilancio per il 2018 ed è in vigore dal 2018.

Occorre fare attenzione: una volta esercitata l’opzione, la stessa resta in vigore per 5 anni ed è rinnovabile, l’opzione deve essere esercitata al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi.

In realtà l’IRI dopo una prima fase di applicazione è sparita dal nostro ordinamento, sebbene il sito dell’Agenzia della Entrate ancora preveda l’imposta. E’ bene riparlare oggi dell’IRI perché tra le proposte sulla riforma fiscale 2021 vi è proprio il ritorno dell’IRI. Vedremo se si riuscirà a inserire nuovamente nel sistema questa imposta.

Occorre, infine, ricordare che queste non sono le uniche imposte da pagare, c’è infatti l’IVA, ci sono i contributi previdenziali e assistenziali, in molti casi la TOSAP e altre tasse la cui base imponibile non parte però dal reddito.

Chi sono i soggetti sottoposti a IRES? Scopriamo insieme i soggetti passivi

Il sistema tributario italiano è piuttosto complesso in quanto caratterizzato da numerose imposte che spesso vanno a colpire anche più volte la stessa base imponibile. In questo caso ci soffermiamo sui soggetti sottoposti a IRES e cercheremo di scoprire chi sono.

Chi sono i soggetti sottoposti a IRES

L’IRES è l’Imposta sul Reddito delle Società, a differenza dell’IRPEF ha un’aliquota proporzionale e non progressiva e la stessa è fissata nel 24%. Puoi scoprire la differenza tra aliquota progressiva e aliquota proporzionale nell’articolo: IRES o Imposta sul Reddito delle Società: cos’è e su cosa si paga.

Dal 2004 l’IRES ha sostituito l’IRPEG ed è dovuta da:

  • Società di capitali;
  • società cooperative;
  • società di mutua assicurazione residenti nel territorio dello Stato;
  • enti pubblici ed enti privati;
  • trust (sia residenti in Italia, sia non residenti, inoltre si applica ai trust con personalità giuridica e senza, che esercitano o meno attività commerciale).

Soggetti sottoposti a IRES: esenzioni

Sono invece esenti dal pagamento dell’IRES gli organismi di investimento collettivo del risparmio. Appare evidente dallo schema visto che neanche le società di persone pagano l’IRES, queste infatti sono sottoposte al pagamento dell’IRPEF (sul reddito dei singoli soci) e al pagamento dell’IRAP (Imposta Regionale sulle attività Produttive) questa scelta è dovuta al fatto che nelle società di persone non vi è separazione del patrimonio tra società e soci. Si parla in questo caso anche di autonomia patrimoniale imperfetta. Le società di persone sono: Società Semplice (SS), Società in Nome Collettivo (SNC) e Società in Accomandita Semplice (SAS).

La base imponibile IRES

Ora che sono stati delineati i soggetti sottoposti a IRES è bene determinare almeno in modo generico la base imponibile su cui l’imposta viene calcolata. Per determinare la base imponibile dell’IRES è necessario fare riferimento al Testo Unico Imposte sul Reddito che però differenzia in base al soggetto passivo le diverse modalità di costruire la base imponibile. Per le società di capitali e gli enti residenti in Italia, la base imponibile è formata da qualsiasi tipo di reddito, si fa quindi riferimento all’utile di esercizio determinato all’interno del conto economico. Tale valore deve poi essere rettificato, in aumento e in diminuzione, seguendo le indicazioni del TUIR.

Ad esempio possono essere portati in deduzione i costi sostenuti dall’impresa, gli stessi però devono essere, in base all’articolo 109 del TUIR, sostenuti nell’anno di riferimento dell’imposta, ad esempio l’IRES 2021, riferita all’anno 2020, può avere una base imponibile con deduzione dei costi sostenuti nello stesso 2020. Tali costi devono comunque essere inerenti all’attività di impresa, certi e determinabili. Vi sono però dei casi in cui è possibile rimandare la deducibilità dei costi ad anni successivi.

La Corte di Cassazione in alcune sentenze ha stabilito l’indeducibilità di alcune fatture e parcelle in quanto le descrizioni delle spese erano troppo generiche e di conseguenza era difficile determinare l’inerenza della spesa rispetto all’attività esercitata. Deve essere sottolineato che tra gli oneri deducibili vi sono anche le spese di rappresentanza.

Le spese sono considerate componenti negative del reddito e riguardano costi di ammortamento dei beni , spese inerenti studi e ricerche.

Per le società e gli enti non residenti in Italia, sono sottoposti a tassazione IRES solo i ricavi prodotti in Italia.

Termini e pagamento IRES 2021

Il pagamento IRES 2021 non vede particolari novità, infatti entro il 30 giugno 2021 doveva essere versato il saldo per l’IRES 2020 3 il primo acconto dell’IRES 2021. Il termine è prorogato al 20 luglio solo per coloro che aderiscono ai regimi forfettarie i soggetti ISA, cioè i contribuenti per i quali si applicano gli indici sintetici di affidabilità fiscale. Il pagamento avviene con modello F24 e i codici tributo vengono determinati di anno in anno.

La dichiarazione deve invece essere presentata dai soggetti passivi IRES entro il 30 novembre di ogni anno, naturalmente è riferita all’esercizio precedente, quindi entro il 30 novembre 2021 deve essere presentata la dichiarazione IRES 2020.

Reddito d’impresa, un po’ di chiarezza

Le tipologie di corrispettivi, indennità e contributi che sono considerate ricavi sono elencate al primo comma dell’articolo 85 del Tuir, che prosegue nel secondo comma affermando che “si comprende inoltre tra i ricavi il valore normale dei beni di cui al comma 1 assegnati ai soci o destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa”.

Ma cosa si intende per destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa e cosa succede quando l’esiguità del prezzo di vendita è dovuta a particolari finalità dell’operazione legate, ad esempio, a interessi di assetto societario?
Il caso più frequente è, infatti, quello del trasferimento dei beni, dettato non dalla volontà di realizzare il massimo prezzo consentito dal mercato, bensì dalla necessità di estromettere i beni immobili da una società per farli confluire in un’altra, prima di cedere parte delle quote della prima società a terzi. La scelta del prezzo fuori mercato è in questo caso possibile grazie al fatto che la cessione degli immobili non avviene nei confronti di un terzo “estraneo”, ma di altro soggetto societario riconducibile alla stessa compagine.

Come conseguenza, si assiste quindi a un trasferimento di beni tra società riferibili a identici proprietari, che non hanno alcun interesse a determinare il prezzo di vendita in base all’andamento del mercato.
E’ quindi evidente come debbano essere applicate le disposizioni previste dall’articolo 85 del Tuir, in base al quale “si comprende tra i ricavi il valore normale dei beni destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa”, laddove il valore normale a cui fa riferimento la norma è quello disciplinato dall’articolo 9, comma 3, Tuir, da intendersi come “il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione”.

Il prezzo di cessione, in questo caso, è senz’altro fuori mercato e avviene nell’ambito di una destinazione del bene aziendale a finalità estranee all’impresa. L’ufficio con tali tipi di accertamenti, quindi, non sindaca la legittimità dell’atto di compravendita, ma ne afferma l’estraneità alle finalità imprenditoriali e applica, pertanto, il diverso metodo di quantificazione dei ricavi. Ai fini fiscali, è la legge a stabilire che, con tali presupposti – cioè le finalità estranee all’attività imprenditoriale – i ricavi vadano commisurati non sulla base del prezzo, ma su quella del valore di mercato.

Niente rimborso Irpef per gli affitti non percepiti

Il proprietario-locatore di un locale commerciale non ha diritto al rimborso Irpef relativo ai canoni di locazione non percepiti, anche se ha ottenuto lo sfratto per morosità del conduttore. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 651 del 18 gennaio.

La possibilità di non dichiarare i redditi da locazione non percepiti, in base all‘articolo 8 della legge 431/1998, o il diritto al rimborso Irpef, riguarda infatti i soli contratti di locazione a uso abitativo e non a fini commerciale, così come stabilito dalla sentenza 362/2000 della Corte costituzionale.

La regola generale fissata dal Tuir (articolo 23 del Dpr 917/1986, nel testo vigente ratione temporis) prevede infatti che i canoni di locazione devono essere dichiarati, a prescindere dal fatto se siano stati incassati o meno. Nonostante l’introduzione di un’eccezione al principio generale, con l’articolo 8, comma 5, della legge 431/1998, in base alla quale i canoni non percepiti non concorrono a formare il reddito complessivo del contribuente, a patto però che la morosità del locatario risulti dal provvedimento di convalida dello sfratto per morosità, il Ministero delle Finanze specifica però che tale provvedimento entra in vigore per il locatario soltanto dal periodo d’imposta in cui ottiene il provvedimento giurisdizionale, ovvero a partire dalla dichiarazione dello sfratto.

Sull’argomento si sono da sempre confrontati due opposti orientamenti giurisprudenziali:
• il primo, che fa capo alla sentenza 6911/2003, afferma che, in tema di determinazione del reddito dei fabbricati, l’articolo 35 del Dpr 597/1973, laddove stabilisce che il reddito lordo effettivo è costituito dai canoni di locazione risultanti dai relativi contratti, esso riguarda soltanto i criteri applicabili per la revisione della rendita catastale e non può essere invocato sulla tassazione del reddito effettivo di un immobile

• il secondo, propugnato dalla successiva pronuncia 12095/2007, sostiene invece che il solo fatto dell’intervenuta risoluzione consensuale del contratto di locazione, unito alla circostanza del mancato pagamento dei canoni relativi a mensilità anteriori alla risoluzione, non è idoneo, di per sé, a escludere che tali canoni concorrano a formare la base imponibile Irpef

Con la sentenza 651 del 18 gennaio 2012, la Corte di Cassazione ha stabilito invece, propugnando per il secondo orientamento, che i canoni di locazione commerciale dovranno essere dichiarati fino alla data in cui è intervenuta la risoluzione del contratto, anche se non incassati per morosità del conduttore.