Assegno Unico: ampliata la platea dei beneficiari. Messaggio 2951 Inps

L’Assegno Unico è stato introdotto con il decreto legislativo 230 del 2021, le erogazioni sono iniziate nel mese di marzo 2022, ma nel frattempo sono state introdotte numerose novità aventi l’obiettivo di rendere la disciplina armonica e chiarire punti oscuri. A oltre 5 mesi dall’entrata in vigore non cessano di essere necessari chiarimenti e l’ultimo arriva con il Messaggio 2951 del 2022 da parte dell’INPS che va ad ampliare la platea dei beneficiari. Ecco chi ne avrà diritto.

I beneficiari dell’Assegno Unico

L’Assegno Unico prevede la corresponsione di denaro per i nuclei familiari in cui siano presenti figli minori e in alcuni casi per figli di età compresa tra 18 e 21 anni. L’ammontare dipende da numerosi fattori tra cui età del figlio, maggiore età, reddito e la possibilità di percepire maggiorazioni. Per conoscere le maggiorazioni in vigore, leggi l’articolo:

Assegno Unico: tutte le maggiorazioni previste dal decreto legislativo 230 del 2021

e

Chiarimenti dell’INPS sulle maggiorazioni Assegno Unico e genitori lavoratori

I requisiti soggettivi per poter accedere all’assegno unico sono specificati nell’articolo 3 comma 1, specifica però l’Inps che ai fini della corretta individuazione dei potenziali beneficiari è necessario avere come punto di riferimento la normativa dell’Unione Europea e in particolare:

direttiva 2011/98/UE (attuata con il D.lgs 4 marzo 2014,n. 40), dal decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, recante “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”

L’articolo 3 comma 1 lettera a del decreto legislativo 231 specifica che possono usufruire dell’assegno unico:

  • cittadini italiani;
  • cittadini di uno Stato Membro dell’Unione Europea o familiari titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente;
  • cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione Europea in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o sia titolare di permesso unico di lavoro autorizzato a svolgere un’attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi o sia titolare di permesso di soggiorno per motivi di ricerca autorizzato a soggiornare in Italia per un periodo superiore a sei mesi.

A questa disciplina devono poi aggiungersi le precisazioni dell’INPS con la circolare 23 del 2022. In essa viene sottolineato che possono beneficiare dell’Assegno Unico:

  • apolidi, rifugiati politici, titolari di protezione internazionale ;
  • titolari di carta blu, cioè lavoratori altamente qualificati;
  • lavoratori di Marocco, Algeria e Tunisia; lavoratori autonomi titolari del permesso previsto nell’articolo 26 del Testo Unico .

Ampliata la platea dei beneficiari dell’Assegno Unico

Con il Messaggio 2951 l’Inps specifica che possono inoltre accedere al beneficio:

  • gli stranieri con contratto di lavoro almeno semestrale;
  • lavoratori stagionali con contratto almeno semestrale;
  • permesso di soggiorno per assistenza minori rilasciato a familiari per gravi motivi connessi allo sviluppo psico-fisico del minore;
  • titolari di permesso per protezione speciale permessi rilasciati in casi speciali, ad esempio rilasciato a soggetti passivi di grave sfruttamento o violenza.

Sono invece esclusi dalla platea dei potenziali beneficiari:

  • gli stranieri in attesa di occupazione;
  • titolari di permessi per tirocinio e formazione professionale;
  • titolari di permesso studio;
  • studenti;
  • titolari di permessi per vacanze/affari, visite;
  • titolari di permessi per residenza elettiva.

Precisazioni per i cittadini del Regno Unito Sappiamo che il Regno Unito

per effetto della Brexit non è più parte dell’Unione Europea, quindi i cittadini del Regno Unito hanno perso la qualifica di cittadini dell’Unione Europea, l’Inps con il Messaggio 2951 ha sottolineato che coloro che sono cittadini del Regno Unito, devono essere considerati equiparati ai cittadini degli Stati Membri dell’Unione Europea se residenti nel territorio nazionale entro il 31 dicembre 2020. Negli altri casi sono invece applicate le norme per i cittadini extracomunitari.

Puoi scaricare il Messaggio completo seguendo il link Messaggio_numero_2951_del_25-07-2022


	

Made in Italy alimentare resiste alla Brexit

A quanto pare, sembra che l’alimentare Made in Italy non soffrirà gli effetti della Brexit, o almeno non tanto quanto altri settori, come ha affermato anche Antonio Ferraioli, vice presidente di Federalimentare e presidente di La Doria durante la conferenza “Brexit nel negoziato: impatti su commercio, dogane e logistica tra Ue e Regno Unito” organizzata da Eunews a Roma.

La certezza di ciò dipende dal fatto che i beni alimentari sono quelli di prima necessità e, come tali, saranno sempre richiesti e, appunto, necessari per i consumatori, anche quelli inglesi. E anche in caso di rincari a causa di nuovi A dazi, ci rimetterebbero prima di tutto i beni di lusso.

Il settore alimentare genera un export pari a 2,8 miliardi di euro (dati 2016). Solo La Doria vanta un fatturato di 650 milioni di euro, con il Regno Unito che vale il 50% di questo turnover e per ora queste cifre non accennano a calare.

Ha dichiarato Ferraioli in proposito: “Lo scenario in cui abbiamo lavorato in questo anno è stato quello di mantenere i volumi, e ci siamo riusciti. Per noi adesso è business as usual”.
Ovviamente, quando Londra uscirà definitivamente dall’Ue, e la data di riferimento in questione diventa dunque il 29 marzo 2019, si potranno fare calcoli e stime differenti, e allora “non è escluso che ci possa essere un prolungamento dei negoziati se c’è l’accordo e un accordo transitorio se si intravede la possibilità”.

Vera MORETTI

Brexit ed export made in Italy

La Brexit, lo dicono in molti, avrà diverse ripercussioni sulla vita economica europea, specialmente per i Paesi più esposti verso il Regno Unito in termini di relazioni finanziarie e commerciali.

L’Italia è uno tra questi Paesi, specialmente per ciò che riguarda il comparto agroalimentare e quello della moda. E, in questo senso, vi potrebbe essere un grosso danno per il settore.

Le stime le ha fatte Coldiretti, secondo la quale la Brexit farà calare le esportazioni italiane sull’isola del 12%. Un calo generalizzato e diffuso in tutti i settori, dall’agroalimentare alla moda, dall’automotive al legno-arredo che potrà arrivare a quasi 3 miliardi all’anno.

L’associazione rileva che il settore dell’export made in Italy maggiormente colpito dall’effetto del referendum inglese è quello dei mezzi di trasporto, calato del 22% su scala globale e del 31% limitandosi alle sole automobili.

Giù anche l’export di macchinari e apparecchi, specialmente elettromedicali, penalizzato dalla Brexit per un 13%, quello dei prodotti agroalimentari (-9%) e della moda e tessile (-6%).

Non sfuggono alla sforbiciata della Brexit gli articoli in gomma e materie plastiche (-17%), il legno-arredo (-17%) e gli apparecchi elettrici (-6%).

Sangalli: post Brexit strategico per le Pmi

Da Confcommercio Milano e Lombardia, adesione convinta alle finalità del documento Post Brexit “Dichiarazione del sistema istituzionale, economico e sociale della Lombardia”, siglato nei giorni scorsi in Regione a Palazzo Lombardia dal vicepresidente vicario di Confcommercio Lombardia, Renato Borghi, e dal vicepresidente di Confcommercio Milano, Simonpaolo Buongiardino.

Nonostante il difficile momento internazionale vi sono, infatti, tutti i presupposti per candidare il territorio regionale a polo attrattore di importanti investimenti con l’istituzione di una free tax area e la collocazione, nel sito di Expo, dell’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) e, a Milano città, dell’Autorità Bancaria Europea (EBA).

Confcommercio Milano e Lombardia guardano con fiducia al percorso post Brexit che è stato avviato e il cui buon esito potrà dare non soltanto ricadute positive per tutto l’indotto – dalle attività commerciali, alla ricettività, al mercato immobiliare – ma un ulteriore rafforzamento del ruolo di Milano, della Lombardia e del Paese, in un contesto globale estremamente competitivo.

La sfida del post Brexit, che oggi ha fatto un importante passo in avanti – dichiara il presidente di Confcommercio Carlo Sangalliè utile e strategica perché, indipendentemente dai risultati, impegna il sistema Milano, con la Regione e il Governo, a ricercare livelli di eccellenza sempre più alti. L’alleanza pubblico privato e la costituzione di una free tax area, come da noi auspicato, sono già fattori positivi che fanno ben sperare per il futuro”.

Sarà determinante – prosegue Sangalliil coinvolgimento anche delle piccole e medie imprese, in particolare quelle dei settori dei servizi, per rendere l’area del sito espositivo sempre più attrattiva, ed evitando così il rischio di isolarla dal contesto metropolitano”.

Per raggiungere gli obiettivi indicati nel documento Post Brexit occorre la piena collaborazione tra istituzioni – Regione, Comune, Camera di Commercio – e sistema economico: quel gioco di squadra pubblico-privato che ha dato i suoi frutti per Expo. E va compiuto un ulteriore sforzo per accrescere le infrastrutture immateriali come la banda ultralarga.

Brexit e mercati azionari: il ruolo dell’oro

Considerando che il settore azionario europeo è in crollo e lo stesso vale per quello americano, e che vi è una scarsa probabilità di un rialzo dei tassi americani, a difesa del patrimonio rimangono poche cose, tra cui i metalli preziosi (oro e argento prima di tutto).

Questo il commento di David Finch, Ideas Team di Exane BNP Paribas, sul settore aurifero all’indomani del referendum sulla Brexit: “Immagino che la domanda oggi sia: ‘È troppo tardi per acquistare oro e società del settore aurifero?’. La mia risposta è no (alquanto prevedibile!). Questa mattina, il prezzo dell’oro è salito del 4.5% circa mentre le quotazioni delle società operanti nel settore dell’estrazione aurifera quotate nel Regno Unito e in Australia sono in rialzo dell’8% circa in dollari americani”.

Ricordate – ha proseguito Finch all’indomani della Brexitche l’EPS leverage sul prezzo dell’oro è intorno a 5:1. Come certamente ricorderete, con il prezzo dell’oro intorno a 1250, pensavo che le previsioni sugli EPS per il 2016 erano sottostimate del 25%. A 1320, invece, sono sottostimate del 35%. Entro metà luglio, avremo gli earnings attuali del secondo trimestre per il settore. Mi aspetto che i dati batteranno fortemente il consensus. Inoltre, con il recente rialzo dell’oro, ci sono molte probabilità che anche nel terzo trimestre si registreranno ottimi risultati in termini di earnings. Vorrei sottolineare come, man mano che l’anno procede, il tasso di crescita annuale del prezzo dell’oro sale a ritmi vertiginosi”.

Tornando indietro nel 2014 con l’oro che quotava a 1250 – ha concluso Finch -, il mercato prevedeva che l’EPS per il 2016 dovesse essere 8.75. Oggi, dopo il secondo trimestre, nonostante da un lato il prezzo dell’oro si sia attestato in media su 1250 e dall’altro i costi di produzione siano crollati del 20%, il mercato ha aggiustato le proprie previsioni, stimando ora un valore pari a 5. Tutto ciò è semplicemente incorretto. Anche se l’oro quotasse 1250 nei prossimi due anni (5% al di sotto del livello odierno), il settore sarebbe ancora sottovalutato e dovremmo assistere ad un upgrade degli EPS”.

Quindi, qual è l’outlook per l’oro? Secondo me, l’esito del referendum nel Regno Unito sulla Brexit non riguarda davvero Regno Unito vs Europa o Regno Unito vs stranieri, ma piuttosto si riferisce al malcontento generale nei confronti dell’élite che si è arricchita dalla crisi finanziaria, mentre la maggior parte delle persone si è invece impoverita. Questo fenomeno non riguarda solo il Regno Unito. Ad esempio, si prenda il caso degli Stati Uniti con Trump oppure quello della Cina o dell’Europa.

Prossimamente, bisognerà prestare attenzione a:

  • Referendum costituzionale in Italia il prossimo ottobre. Le recenti vittorie alle elezioni comunali a Roma (Virginia Raggi, esponente dei 5 Stelle, ha vinto con il 67% dei voti) e a Torino suggeriscono che Renzi potrebbe perdere questa battaglia
  • Trump negli Stati Uniti a novembre 2016 e Le Pen in Francia a maggio 2017

A mio parere, siamo in un periodo dove i risk premium in Europa rimangono elevati con forte volatilità nel mercato FX e con diverse situazioni di agitazione sociale. Condizioni perfette per un apprezzamento dell’oro.

dott. Marco Degiorgis – Consulente patrimoniale e finanziario indipendente, Studio Degiorgis

Brexit, è ora di comprar casa a Londra

Quanti sostengono che la Brexit non avrebbe alcun impatto immediato sulla vita quotidiana di britannici ed europei, forse non hanno una casa a Londra né hanno intenzione di comprarla. Secondo il Centro Studi di Casa.it, infatti, dopo la Brexit a Londra i valori delle trattative immobiliari sono calati del 5,5%, mentre la domanda è diminuita del 19% in 4 giorni. Anche il mercato degli immobili di pregio ha subito un rallentamento, soprattutto nelle zone top come il quartiere di Kensington e l’area di Notting Hill. Boom delle richieste di case in Scozia (+150%) da parte di famiglie del Regno Unito.

Secondo Alessandro Ghisolfi, responsabile del Centro Studi di Casa.it, “lo spettro di una ‘Bolla Brexit’ sul mercato residenziale londinese viene considerata più che probabile dalla maggioranza degli operatori locali, soprattutto per quanto concerne il segmento top del mercato. Sebbene nell’ultimo trimestre i valori di vendita delle case a Londra abbiano registrato una nuova crescita del 9,8%, la Brexit, nel giro di poche ore, ha fatto scendere i valori delle trattative di 5,5 punti percentuali. Oggi le case di Londra valgono in media 33mila euro in meno rispetto ai prezzi record registrati 7 mesi fa, il costo medio di un appartamento è valutato intorno ai 590mila euro”.

Un calo a cui è seguita anche la frenata della domanda: “I dati registrati sui principali portali immobiliari inglesi – prosegue Ghisolfi – dicono che le richieste per le case a Londra sono calate del 19% in 4 giorni, mentre la domanda di chi cerca casa in Scozia, proveniente dalle famiglie del Regno Unito, è curiosamente cresciuta del 150% in soli 5 giorni”.

La Brexit ha portato una ventata gelida anche sul mercato degli immobili di pregio londinesi, soprattutto sul fronte della domanda interna, che si spera possa essere compensata da una crescita della domanda estera, in particolare da Asia e Usa.

Gli ultimi dati registrano una caduta della domanda per le zone top di Londra del 2,5% nell’ultimo trimestre, rispetto al trimestre precedente – sottolinea ancora Ghisolfi -; un dato negativo che non si registrava da oltre un anno e mezzo e che contrasta con il dato annuale, giugno su giugno, che registra una crescita dell’8,2%. In particolare le aree urbane più prestigiose del West End sono state quelle più colpite dalla Brexit: il quartiere di Kensington nel secondo trimestre ha registrato un calo della domanda dell’11,8%, seguito da un -10,7% per l’area di Notting Hill”.

Secondo Ghisolfi, infine, i più colpiti dall’esito del referendum sulla Brexitsono sicuramente gli azionisti delle società di sviluppo che stanno operando sul mercato londinese. Le loro azioni hanno già subito delle riduzioni di valore superiori al 25% un’ora dopo l’apertura dei mercati il 24 giugno, a urne chiuse e risultati acquisiti”.

Brexit, i rischi per l’export

È inevitabile, dopo la Brexit, fare i conti in tasca alle aziende italiane e capire quanto la decisione della Gran Bretagna di uscire dalla Ue possa incidere sull’export. Questi conti ha provato a farli la Cgia, secondo la quale però è “difficile prevedere cosa potrà accadere” all’indomani della Brexit.

Si parte però da un dato certo: l’export italiano nel Regno Unito, nel 2015 ha toccato un valore complessivo di 22,4 miliardi di euro con automobili, abbigliamento, medicinali, vino, legno arredo, forni e calzature come principali beni esportati. Lo scorso anno, le importazioni hanno toccato quota 10,5 miliardi, con un saldo commerciale, quindi positivo per 11,9 miliardi. Come inciderà su tutto questo la Brexit?

Di sicuro non positivamente. Secondo i calcoli della Cgia, infatti, se si spacchetta per macro aree l’export italiano verso il Regno Unito, si scopre che il Nordest si dovrà guardare le spalle dalla Brexit: con 7,9 miliardi di euro, è infatti la macro area che esporta di più in Uk. Seguono il Nordovest (7,8 miliardi), il Centro (3,6 miliardi) e il Sud (2,7 miliardi).

Guardando invece alla singole regioni, guida la Lombardia (5,3 miliardi di euro), seguita da Veneto e l’Emilia Romagna (ciascuna con 3,4 miliardi di euro), Piemonte (2,3 miliardi) e Toscana (1,8 miliardi). Insieme, queste regioni esportano oltre il 70% del totale italiano.

Inoltre, la Cgia sottolinea come, nel 2015, l’export verso Londra sia stato pari al 5,4% del totale italiano e come le vendite in Uk siano cresciute del 7,4%. L’auspicio è che la Brexit non vanifichi queste performance.

Il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, ricorda che “nei prossimi 2 anni, tra Londra e Bruxelles dovranno essere ratificati 54 accordi commerciali e, salvo sorprese, le transazioni ritorneranno a essere soggette ai dazi doganali e al pagamento dell’Iva. Non è da escludere, inoltre, la possibilità che vengano introdotte alla dogana barriere non tariffarie che potrebbero ostacolare l’attività commerciale”.

Brexit e imprese italiane, le ricadute sul territorio

Ci sono realtà territoriali che, in Italia, guardano con preoccupazione alla Brexit, per quanto la sua effettività si potrà avere non prima di due anni. Una di queste è la Lombardia, le cui imprese sono molto esposte sul mercato del Regno Unito e dove operano molte aziende inglesi.

Sono infatti 500 le imprese a partecipazione o controllo britannico che valgono 13 miliardi e 50mila posti di lavoro in Lombardia. Per il 41% la Brexit non avrà effetti sul loro business ma per il 35% sì. La Camera di commercio di Milano ne ha sentite circa 20 tra quelle milanesi il 24 giugno, all’indomani del referendum che ha sancito la cosiddetta Brexit, l’uscita del Regno Unito dalla Ue.

Che tipo di effetti si aspettano queste imprese? Se per il 23% non ci sarà alcuna conseguenza, per il 35% ci sarà su parte del business e per il 18% ci saranno costi più elevati, ma anche conseguenze su import e export. Per il 10% arriverà un calo di fatturato. Per il 60% il mercato italiano ed europeo manterranno la stessa rilevanza, ma per il 24% ci sarà un calo di business. Per tutti l’Italia, nel contesto europeo, resta un Paese interessante. Comunque restano ottimisti sull’Unione Europea (65%).

In Lombardia la Gran Bretagna è il quarto investitore per numero di imprese e il quinto per fatturato generato (oltre 13 miliardi di euro), imprese che danno lavoro a 50mila dipendenti. È tra i primi investitori, poiché in media le imprese sono insediate dal 1998. Milano è prima con 392 imprese, 11 miliardi di fatturato e 43mila addetti, seguita da Monza, Brescia e Bergamo con circa 20 imprese ciascuna e oltre 1000 addetti.

Negli ultimi 3 anni 40, aziende inglesi hanno attivato progetti di investimento sul territorio lombardo. Il 30% di questi progetti sono investimenti ad alto contenuto tecnologico, come emerge da un’elaborazione della Camera di commercio di Milano e la sua azienda speciale Promos per l’internazionalizzazione sui dati dell’Osservatorio di Invest in Lombardy, il servizio per l’attrazione di investimenti esteri in Lombardia promosso da Regione Lombardia, Unioncamere Lombardia, dal Sistema Camerale lombardo, con il supporto di Promos.

Secondo quanto emerge da un’elaborazione Camera di commercio di Milano su dati Istat relativi al I trimestre 2016 e al 2015, l’Inghilterra, al netto della Brexit, vale un interscambio da 9 miliardi all’anno per le imprese lombarde, 5 di export e 4 di import, su un totale italiano di 33 miliardi. Milano è prima con tre miliardi di scambi, con Bergamo, Varese e Brescia, con circa 1 miliardo e Monza con oltre 600 milioni. Cresce il business, +1,8% in un anno.

Brexit e mercato immobiliare

Sono molti gli ambiti di mercato nei quali gli effetti della Brexit sono scarsamente prevedibili. Uno di questi è il mercato immobiliare della Gran Bretagna, che può diventare un rischio ma anche una opportunità per quanti vorranno investire nel mattone britannico dopo la Brexit.

Per capire che cosa potrà succedere nei prossimi anni, quando la Brexit sarà in essere a tutti gli effetti, Alessandro Ghisolfi, responsabile del Centro Studi di Casa.it, tra i primi portali immobiliari d’Italia, ha provato a prospettare gli scenari nel quale inserire nuovi rischi e opportunità per il mercato immobiliare britannico.

L’uscita della Gran Bretagna dalla Ue – sostiene Ghisolfiavrà sicuramente un impatto, negativo o positivo a seconda dei punti di vista, sul mercato immobiliare. Da oltre 30 anni Londra è considerata il punto di riferimento per gli investimenti nel mattone, sia da parte dei top spender privati, sia dei principali fondi di equity (privati e pubblici) mondiali. Il valore degli investimenti immobiliari è ovviamente legato all’economia del Paese e ora, soprattutto, al tasso di cambio della sterlina”.

Sarà opportuno guardare alle possibili reazioni, una volta passato lo shock dell’esito del referendum – prosegue Ghisolfi -. Tuttavia è facile intuire che se la sterlina perderà molto terreno nei confronti di dollaro ed euro, per chi ha investito in questi anni si presenterà uno scenario poco attraente, mentre per chi avrà voglia di rischiare, le occasioni per fare shopping immobiliare non mancheranno. Se i danni all’economia reale si avverassero come hanno sempre sostenuto i contrari alla Brexit, allora il mercato del mattone ne subirebbe le conseguenze peggiori”.

Intanto – ritiene Ghisolfi -, già oggi non pochi potenziali acquirenti di case si sono fermati e hanno rinviato la loro decisione, in attesa di capire meglio cosa succederà. Il fatto è che il percorso di uscita di un Paese membro dall’Ue va negoziato. Si tratta di un processo che durerà, nella migliore delle ipotesi, almeno due anni. Due anni di incertezza, quindi non il meglio per i mercati, durante i quali, peraltro, il Regno Unito continuerà a essere contributore netto dell’Ue”.

Ma c’è anche un’altra riflessione da fare: come influirà la Brexit sui britannici che vorranno acquistare case all’estero, anche in Italia, considerando l’amore che molti di essi hanno per il nostro Paese? O sugli italiani che vorranno comprare in Uk? “Sul fronte delle case vacanza – conclude Ghisolfi -, gli impatti peggiori li potremo subire sul nostro territorio nell’ipotesi che la sterlina si svaluti fortemente. Il flusso di inglesi alla ricerca della casa da comprare in Italia si ridurrebbe notevolmente così come di chi viene in affitto. Per noi che decidiamo di passare le vacanze in Inghilterra le cose potrebbero invece migliorare dal punto di vista sia dei canoni di locazione sia del costo della vita”.

Brexit e imprese. Parola d’ordine: prudenza

Il Regno Unito è uscito dall’Ue, evviva la Brexit! Dopo che i mass media e gli esperti di tutta Italia ed Europa ci hanno massacrato per settimane cercando di spiegare gli effetti della Brexit sull’economia e sulla vita di tutti i giorni qualora in Gran Bretagna avesse vinto il leave, ci siamo presi qualche giorno per disintossicarci e per provare a guardare al risultato di giovedì scorso a mente più fredda e, soprattutto, da un punto di vista delle imprese.

Intanto ricordiamo che, con la vittoria della Brexit, il governo britannico dovrà rinegoziare i trattati per uscire dalla Ue. Non è una cosa che avviene in pochi giorni, ci vorranno almeno due anni, periodo durante il quale nell’economia reale non si avvertirebbero grandi scossoni (a parte sotto il profilo della valuta) ma nel quale finanza, speculazione e mercati impazziti potrebbero fare danni pesanti.

Possiamo cominciare con il dire che le imprese che avevano in essere ipotesi di accordo per scambi commerciali con altre imprese che pagano in sterline, saranno state avvantaggiate qualora avessero deciso di chiudere o meno questi accordi dopo l’esito del referendum sulla Brexit. Visto il crollo della sterlina successivo al leave, chiudere o meno gli accordi a determinate condizioni potrebbe essere vincente.

A proposito di sterlina, questo potrà essere il problema più serio per le imprese. All’indomani del sì alla Brexit la divisa britannica ha perso oltre il 10% rispetto al dollaro, toccando i minimi da 30 anni a questa parte. Se, come prospettano alcuni analisti, la sterlina potrà deprezzarsi fino al 20% sull’euro, le imprese che hanno transazioni commerciali con i clienti i che pagano in sterline potranno trovarsi in difficoltà.

Intelligente chi, per cautelarsi, ha deciso di rimandare a dopo il referendum la definizione dei prezzi di listino in sterline. Non sempre, però, si tratta di una mossa possibile: bene ha fatto chi ha previsto e inserito negli accordi commerciali delle clausole specifiche per rinegoziare gli stessi qualora avesse vinto la Brexit.

Quello che è certo è che, come vedremo nei prossimi giorni, sono molte le imprese italiane che ora hanno paura. Paura giustificata o solo suggestione? Lo vedremo.