Mercato del falso sempre in aumento in Italia

Il mercato dei prodotti contraffatti non cala, anzi, in Italia il falso vale 6,9 miliardi di euro ed è in crescita del 4,4 se raffrontato con i dati del 2012.
Questo è quanto emerso da una ricerca effettuata dal Censis per conto del Mise. Ma ciò che si evince è anche un’altra notizia sconvolgente: se gli stessi prodotti venissero realizzati e commercializzati nel circuito dell’economia legale comporterebbero 100.000 unità di lavoro in più.

Ma, anche se questo dato è di per sé allarmante, c’è di più: senza la contraffazione, la produzione interna registrerebbe un incremento di 18,6 miliardi, con un valore aggiunto di 6,7 miliardi.
Senza contare che, con l’emersione della contraffazione, si ricaverebbe un aumento del gettito fiscale, sia sulle imposte dirette, ad esempio su impresa e lavoro, sia su quelle indirette come l’Iva perché ad oggi il falso evade all’erario 1,7 miliardi di euro.

E si tratta di un calcolo per difetto, perché se si considerano anche le imposte che deriverebbero dalla produzione attivata in altri settori dell’economia, il gettito fiscale complessivo aumenterebbe a 5,7 miliardi di euro, pari al 2,3% del totale delle entrate dello Stato per le stesse categorie di imposte.

Ma quali sono le maggiori vittime del falso? In primo luogo abbigliamento ed accessori, per un valore stimato di 2,2 miliardi (il 32% del totale). In particolare vengono contraffatti soprattutto giubbotti, capi sportivi e, tra gli accessori, borse e portafogli.
Segue poi il settore degli audiovisivi, con un valore pari a quasi 2 miliardi (il 28,5% del totale), ma anche i prodotti alimentari, per un valore di 1 miliardo di euro, pari al 14,8% del totale.

Tra i prodotti in crescita negli ultimi tempi ci sono gli apparecchi e i materiali elettrici, soprattutto cellulari e componenti, con un valore di 732 milioni di euro (il 10,6% del totale).
Un altro settore in crescita è quello degli orologi e dei gioielli, che si distingue per la contraffazione di prodotti di alta gamma e che nel mercato del falso vale oggi 402 milioni di euro (il 5,8% del totale).
Segue il settore del materiale informatico, costituito soprattutto da componenti hardware per computer, tablet, schede di memoria, chiavette Usb, per un valore di 282 milioni di euro (4,1% del totale).

La situazione, dunque, non è rosea e nel 2016 sono stati fatti da parte di Guardia e Finanza e Agenzia delle Dogane, 14.768 sequestri, intercettando 26 milioni di articoli falsi.
Le province italiane dove la contraffazione è più viva spicca Napoli, con oltre 6 milioni di pezzi sequestrati, pari al 24% del totale, seguita da Roma, con circa 4 milioni di pezzi (15,2%), e Catania, con 2,6 milioni di prodotti fake (10%).

Vera MORETTI

L’innovazione sempre alla base del Made in Italy

E’ partita la collaborazione tra AGI e Censis, con il patrocinio e la promozione della Fondazione Cotec, per realizzare, tra il 2017 e il 2019, una ricerca permanente sui temi dell’innovazione Made in Italy.
L’elaborazione avverrà tenendo presente un campione di popolazione italiana compresa tra i 18 e gli 80 anni che andrà a far parte del rapporto sulla Cultura dell’Innovazione e che verrà presentato al Quirinale durante la Giornata dell’Innovazione, il secondo martedì di giugno.

Il patrimonio informativo acquisito attraverso l’indagine verrà utilizzato in una serie di rapporti presentati in 4 eventi nazionali dedicati a specifici temi d’attualità: dagli impatti della tecnologia sul mercato del lavoro all’evoluzione del rapporto tra gli italiani e la pubblica amministrazione digitale, da come le tecnologie digitali stanno cambiando i modi di abitare e fruire delle città alla panoramica sui comportamenti e le opinioni sullo sfondo della de-carbonizzazione dell’economia urbana e delle prospettive di sviluppo di una e-society.

Giorgio De Rita, segretario generale del Censis, ha dichiarato che un rapporto simile “serve per raccontare il Paese e la capacità degli italiani di guardare verso il futuro, meglio e tanto di più della politica e delle istituzioni. Serve per ridare coraggio alla società perché l’innovazione non è fonte di preoccupazione, è fonte di sviluppo, crescita e miglioramento. Dalle fabbriche è partita la rivoluzione 4.0 e l’eccellenza italiana, ad esempio nell’automazione industriale, e ci fa dire che noi siamo all’avanguardia nel’innovazione. C’è ancora molto da fare. Perdere lavoro significa impegnarsi a costruirne di nuovo. E’ un passaggio duro, faticoso, ma non ci sono altre opzioni”.

Anche Claudio Roveda, direttore generale della Fondazione Cotec, ha poi espresso il suo parere, facendo leva in particolare sull’importanza della Giornata dell’Innovazione, appuntamento utile per “far riconoscere che l’innovazione è un fattore trainante e importante dello sviluppo sociale, non è un processo da lasciare solo agli addetti ai lavori, ricercatori e uomini di impresa. Deve invece coinvolgere tutta la società. Anche la presentazione del rapporto sulla cultura dell’innovazione va in questa direzione: cioè come si muove la società italiana verso l’innovazione”.

Vera MORETTI

E-commerce avanti piano

Piano piano, il luogo comune che vuole l’italiano poco propenso all’ e-commerce per ragioni più culturali che di capacità si sta affievolendo. Lo testimonia un’indagine del Censis, secondo la quale sono 15 milioni gli italiani che acquistano regolarmente online (erano 9 nel 2011), il 43,5% degli utenti italiani della rete.

Secondo il Censis, il fatturato dell’ e-commerce in Italia ha cominciato a crescere in maniera sensibile e interessante, specialmente per le Pmi che vogliono utilizzarlo come canale di vendita: dagli 11,27 miliardi del 2013 ai 13,3 del 2014 (+20%). Se si pensa poi che quando sono iniziate le rilevazioni, nel 2006, il fatturato era di 4,1 miliardi, si capisce meglio la dimensione della crescita.

Sono cifre che, in confronto a quelle di altri Paesi europei o dei big extraeuropei sono noccioline, ma in termini assoluti sono incoraggianti per una realtà come quella italiana. Specialmente se si considera la percentuale di scettici cronici nei confronti dell’ e-commerce, che in Italia resiste solidamente al 24,4%.

Come scritto all’inizio, si tratta sostanzialmente di riserve di natura più che altro culturale. Le persone che ripongono scarsa fiducia nell’ e-commerce lo fanno soprattutto perché temono truffe di qualunque natura. Che ci sono, è inutile negarlo. Stando alle denunce che ogni giorno riceve l’Antitrust, le principali lamentele riguardano la mancata consegna del prodotto o il mancato rimborso del prezzo pagato al momento dell’ordine online a fronte della mancata consegna di quanto acquistato; il mancato riconoscimento del diritto di recesso o della garanzia; l’impossibilità di mettersi in contatto con il venditore.

Il 28,7% degli italiani che hanno a che fare con l’ e-commerce teme che dietro allo scontrino virtuale si celino truffe, anche legate al sistema dei pagamenti, mentre il 23,2%, lamenta la freddezza dell’esperienza di acquisto online, priva del contatto umano. Non mancano quanti esprimono dubbi legati al buono stato del prodotto: il 21,8% di chi compra online teme infatti che la consegna avvenga in ritardo o con prodotti difettosi o sbagliati.

Insomma, se per l’utente finale l’esperienza dell’ e-commerce oscilla tra l’esaltazione e la paura, per le Pmi è uno strumento dal quale diventerà sempre più difficile prescindere, pena l’essere tagliati fuori dal mercato globale con ingenti ricadute sui fatturati.

Vino italiano, un bene rifugio

Che cosa c’è di più lussuoso di un vino italiano? Quasi nulla, anche perché il vino italiano è sempre più un bene prezioso e di rifugio, quasi come l’oro. Lo hanno certificato anche due ricerche commissionate da un vino italiano tra i più pregiati, Ornellaia, al Censis e alla famosa casa d’aste inglese Sotheby’s.

Dalle ricerche emerge che nel 2014 i vini di pregio battuti nelle aste internazionali sono cresciuti in quantità e in valore (+13%), tanto che il vino italiano top (+47%) ha sconfitto il francese (-1%) per prezzi di battitura. E, tra i vini che sono un investimento, c’è proprio l’Ornellaia.

Questo cambiamento nell’approccio al vino italiano, secondo il Censis, è dovuto principalmente alla crisi, che ha modificato il concetto di lusso dal possesso all’esperienza. Una sterzata che ha fatto aumentare la spesa delle famiglie per alberghi, ristoranti e l’alimentare puntando tutto sulla qualità.

Una cambiamento che si riflette anche nelle cifre e anche per quello che riguarda il vino italiano. Infatti, secondo il Censis, negli ultimi 40 anni il consumo di vino italiano è calato del 40%, dall’inizio della crisi (2008) ha perso un ulteriore 8%, mentre la spesa è salita del 3,5%. Qualcosa vorrà pur dire…

Il rapporto annuale Censis premia il made il Italy

È stato di recente pubblicato il rapporto annuale Censis sulla situazione sociale del Paese 2014, il 48esimo, dal quale emerge un’Italia sempre più disillusa e ripiegata su se stessa, in preda alla tentazione del facile egoismo.

Eppure, tra le tante ombre presenti nel rapporto annuale Censis, qualche luce c’è ed è costituita dalla tenuta del made in Italy all’estero. Secondo il 48esimo rapporto annuale Censis, infatti, l’interesse suscitato all’estero dall’Italia, nonostante non sia adeguatamente sfruttato, non conosce crisi: l’Italia è infatti la quinta destinazione turistica al mondo, con 186,1 milioni di presenze straniere nel 2013 e 20,7 miliardi di euro spesi (+6,8% rispetto al 2012).

L’export delle cosidedette “4 A” del made in Italy (alimentari, abbigliamento, arredo-casa e automazione) è cresciuto del 30,1% in termini nominali tra il 2009 e il 2013. Secondo il 48esimo rapporto annuale Censis, il successo di cibo e vini italiani nel mondo è uno degli indicatori più significativi dell’appeal incrollabile che ha il nostro stile di vita. L`Italian food, nella sua accezione di rapporto con il territorio, autenticità, qualità, sostenibilità, è uno dei primi ambasciatori del nostro Paese nel mondo.

Secondo il 48esimo rapporto annuale Censis, il made in Italy agroalimentare è una delle componenti più dinamiche dell’export: 27,4 miliardi di euro nel 2013, con un +26,9% rispetto al 2007. L`Italia è infatti il Paese con il più alto numero di alimenti a denominazione o indicazione di origine (266), e stacca Francia (219) e Spagna (179) al secondo e terzo posto. Così il nostro Paese sta riuscendo a conquistare, con logica da soft power, un posto di rilievo nel mercato globale. Mentre il mercato interno, purtroppo, arranca sempre di più.

Le famiglie spendono come dieci anni fa

Dopo aver saputo che la pressione fiscale è in costante aumento, contrariamente al potere d’acquisto degli italiani, in caduta libera, ora il Censis comunica che le spese delle famiglie, nel corso del 2013, hanno subito un brusco stop, tanto da tornare indietro di ben dieci anni.

Questo è quanto è emerso dal Rapporto sulla situazione sociale del Paese, appena presentato dal Censis.
Ciò che emerge, dunque, dai dati raccolti dal centro studi, non è certo incoraggiante, poiché la contrazione dei consumi certo non aiuta a risollevarsi da una crisi che sta lasciando ferite profonde.

Nel dettaglio, le spese per prodotti alimentari sono scese del 6,7% dai primi anni 2000, quelle per abbigliamento e calzature del 15%, per arredamento e manutenzione casa dell’8%, per i trasporti del 19%.
Viceversa sono cresciute le spese per utenze domestiche e manutenzione casa (+6,3%) e quelle medico-sanitarie (+19%).

Nell’ultima parte del 2013 ben il 69% di un campione di 1.200 famiglie ha indicato una riduzione e un peggioramento della capacità di spesa nel corso dell’anno, mentre appena il 2% ha indicato un miglioramento.

Quando devono affrontare spese, di qualsiasi tenore, gli italiani cercano, nel 76% dei casi, le promozioni, mentre il 63% sceglie gli alimenti in base al prezzo più conveniente, il 62% ha aumentato gli acquisti di prodotti di marca commerciale, il 68% ha diminuito le spese per cinema e svago, il 53% ha ridotto gli spostamenti con auto e scooter per risparmiare benzina, il 45% ha rinunciato al ristorante.

Nonostante, però, tagli e rinunce, sono molti, ovvero 1,2 milioni di famiglie, che non sono riusciti a coprire le spese con i propri redditi e quindi si sono visti costretti a chiedere aiuto ad amici.
A questo proposito, sono circa 8 milioni le famiglie che hanno ricevuto dai parenti una forma di aiuto nell’ultimo anno.

A conferma di questa situazione di incertezza e preoccupazione, c’è il 52% degli intervistati che sente di avere difficoltà a preservare i propri risparmi e quasi il 50% sente di non riuscire a mantenere il proprio tenore di vita.
Il 72,8% si sentirebbe in difficoltà se dovesse affrontare spese impreviste di una certa portata, come quelle mediche (oppure riparazioni per la casa o per l’auto), il 24,3% ha difficoltà a pagare tasse e tributi e quasi il 23% a rispettare le scadenze delle bollette.

Vera MORETTI

La crisi non si ferma per le famiglie italiane

Non c’è pace per le famiglie italiane, sempre più schiacciate dal peso della pressione fiscale, che rende difficile riuscire ad arrivare a fine mese.
Secondo le rilevazioni effettuate dal Censis nell’ambito dell’Outlook Italia Confcommercio-Censis, è emerso infatti che una famiglia italiana su cinque non riesce a far fronte alle spese con il proprio reddito.

Questo allarmante dato è relativo all’inizio del mese di ottobre ed è peggiore, di gran lunga, rispetto ai numeri del marzo scorso, quando la percentuale era dell’11,3%, mentre ora siamo arrivati al 19%.

Inoltre, le famiglie che non rientrano in questa percentuale non se la passano certo bene: dallo studio, infatti, si nota che quasi il 50% delle famiglie prevede di tagliare i consumi per affrontare la crisi, mentre una su quattro ha difficoltà a pagare tasse e tributi e oltre il 72% non riesce ad affrontare spese impreviste.
Questo trend è confermato anche dal numero di coloro che si sono rivolti alle banche per un prestito, quasi raddoppiato e passato dal 6% di marzo all’11,5% di ottobre, mentre più di una famiglia su tre ha dovuto posticipare alcuni pagamenti.

Per questo motivo, sono sempre meno gli ottimisti nei confronti del futuro, calati in un solo anno di sette punti, passando dal 37 al 30%. Gli incerti sono raddoppiati, ed ora sono al 33%, contro il 16% del 2012.

Quale intervento si potrebbe rivelare più efficace per evitare che la situazione peggiori ulteriormente? Per il 55% delle famiglie intervistate, il Governo dovrebbe pensare a misure che possano davvero contrastare la disoccupazione, ma anche, per il 42,3%, pensare seriamente a ridurre le tasse.

A questo proposito, è intervenuto Mariano Bella, direttore del centro Studi: “La fiducia, che da maggio alla prima parte di settembre, ha rilevato l’Istat sembra ora ricominciare a sgretolarsi. Non è pensabile poi che le persone decidano di investire di più semplicemente grazie agli annunci o a complicati provvedimenti legislativi. C’è bisogno di provvedimenti importanti, di un taglio di spesa pubblica consistente che si traduca in una riduzione delle imposte“.

Vera MORETTI

Giovani preparati in teoria ma carenti in pratica

Il Censis ha effettuato un’indagine riguardo la preparazione dei giovani che si affacciano sul mondo del lavoro.
La ricerca è stata condotta intervistando i Cavalieri del Lavoro, i quali hanno lodato creatività e preparazione dei giovani che muovono i primi passi sotto la loro ala, ma hanno anche dovuto rilevare una carenza per quanto riguarda la tecnica, ma anche una certa titubanza quando si profila la possibilità di affinare la propria carriera all’estero.

I giovani, dunque, nello studio “Idee e proposte per la competitività del sistema-Italia”, vengono promossi nella formazione teorica, ma bocciati in quella tecnica e il 65,5% degli imprenditori pensa che gli stranieri siano migliori degli italiani nelle capacità pratiche.
Ma il confronto con gli stranieri non finisce qui perchè, secondo l’82,4% degli interpellati vengono considerati una risorsa molto più adattabile e disponibile degli italiani.

Per quanto riguarda il curriculum di studi, i Cavalieri del Lavoro preferiscono di gran lunga la laurea quinquennale, considerata ancora basilare per acquisire competenze utili ad entrare nel mercato del lavoro, mentre non accoglie altrettanti apprezzamenti nè la laurea breven nè l’istruzione secondaria di tipo tecnico. Quest’ultima viene definita addirittura insufficiente.

Nonostante le pecche siano tante, le imprese dei Cavalieri del Lavoro si basano per un terzo sui giovani under 35, poichè considerari una risorsa ed un investimento per il futuro. Al fine di semplificare e favorire l’inserimento in azienda delle nuove leve, sono stati messi a punto programmi ed iniziative che possano fare da vero e proprio raccordo con scuola ed università.
L’86,2% delle aziende dei Cavalieri del Lavoro collabora con scuole e universita’ per l’organizzazione di stage e tirocini. Il 24,4% finanzia direttamente master o corsi di elevata specializzazione.

Di strada, però, ce n’è ancora tanta da fare, per rendere agevole l’ingresso dei giovani in azienda.
I principali problemi che si riscontrano sono legati alle eccessive aspettative di natura economica da parte dei giovani (35,3%) e la scarsa preparazione di tipo tecnico (32,3%).
Il 25,6% riscontra anche difficolta’ a sopportare carichi di lavoro elevati.

I Cavalieri del Lavoro sono stati chiamati a dire la loro anche sulla Riforma Fornero, ritenuta dai più inefficace per risolvere il problema dell’occupazione, tanto che solo il 22,9% ne dà un giudizio positivo, affermando che senza queste l’effetto della crisi sarebbe stato ancora più grave.

Tra le diverse ipotesi di intervento ritorna, ancora una volta, l’abbattimento del costo del lavoro (in generale, non solo per i giovani) e, subito dopo, la creazione di incentivi specifici per l’occupazione giovanile: un’ipotesi che raccoglie più o meno gli stessi consensi della possibilità di rendere più agevole per le aziende il ricorso ai contratti flessibili.
Gli strumenti di stimolo all’imprenditorialità, come l’abbattimento del carico fiscale per le imprese giovanili, vengono indicati al quarto posto.

Benito Benedini, presidente della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro, ha commentato così i risultati della ricerca: “L’esigenza prioritaria è avere un Paese stabile politicamente, capace di valorizzare le sue eccellenze. Abbiamo già cominciato a pagare alla debolezza politica un prezzo che mette a repentaglio le ormai scarse opportunità di ripresa e che rischia di diventare enorme. Per innescare la ripresa, tra le priorità da affrontare occorre far leva sulla riduzione del carico fiscale, a partire dal famigerato cuneo, per far ripartire assunzioni e crescita della domanda interna, e il rilancio degli investimenti in ricerca e sviluppo“.

Vera MORETTI

Censis: gli Italiani sono disposti a fare sacrifici

In tempi di crisi, gli italiani riscoprono il valore della responsabilità collettiva: il 57,3% è infatti disponibile a fare sacrifici per l’interesse generale del Paese. Anche se il 46% di questi lo farebbe solo in casi eccezionali. E’ quanto risulta da un’indagine del Censis contenuta nel Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2011.

Secondo il rapporto, il 65,4% indica la famiglia come elemento che accomuna gli italiani, mentre l’81% condanna duramente l‘evasione fiscale. A fronte poi di un 46% di cittadini che si dichiara ”italiano”, c’è un 31,3% di ”localisti” che si riconoscono nei Comuni, nelle regioni o nelle aree territoriali di appartenenza, un 15,4% di ”cittadini del mondo” che si identificano nell’Europa o nel globale e un 7,3% di ”solipsisti” che si riconoscono solo in se stessi. Ancora oggi i pilastri del nostro stare insieme fanno perno sul senso della famiglia, indicata dal 65,4% come elemento che accomuna gli italiani.

Seguono il gusto per la qualità della vita (25%), la tradizione religiosa (21,5%), l’amore per il bello (20%). Cosa dovrebbe essere messo subito al centro dell’attenzione collettiva per costruire un’Italia piu’ forte? Per piu’ del 50% la riduzione delle diseguaglianze economiche. Moralità e onesta’ (55,5%) e rispetto per gli altri (53,5%) sono i valori guida indicati dalla maggioranza degli italiani. Emerge poi la stanchezza per le tante furbizie e violazioni delle regole. L’81% condanna duramente l’evasione fiscale: il 43% la reputa moralmente inaccettabile perché le tasse vanno pagate tutte e per intero, per il 38% chi non le paga arreca un danno ai cittadini onesti. Infine, il Censis sottolinea come il modello di sviluppo italiano abbia sempre trovato nella famiglia un punto di grande forza e la famiglia si sia sempre fatta carico dei bisogni sociali, andando a integrare se non a sostituire le prestazioni di welfare.

Ma questo modello, avverte, comincia a mostrare segni di debolezza: se è vero che in proporzione al Pil la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane rimane una delle più rilevanti in Europa, in valore assoluto si è assistito a un’erosione significativa di questo patrimonio tra il 2006 e il 2009, il cui ammontare è passato da 3.042 miliardi di euro a 2.722 miliardi. Inoltre, dal punto di vista della capacità di assistenza informale delle famiglie, il numero dei potenziali caregiver (persone che si prendono cura dei familiari) andrà riducendosi in modo netto: se nel 2010 c’erano 18,5 persone autosufficienti in età compresa tra 50 e 79 anni (fascia d’età nella quale rientra la gran parte dei caregiver) per ogni ultraottantenne non autosufficiente, entro il 2040 questa proporzione è destinata a dimezzarsi, scendendo a 9,2 caregiver per ogni anziano potenzialmente bisognoso di assistenza.

Fonte: Confcommercio.it

La crisi porta gli italiani al low cost, ma occhio allo spreco

La fiducia dei consumatori italiani tocca il minimo dal luglio 2008 senza però essere arrivata alle famiglie. La sensazione è che esistano degli stabilizzatori automatici che rallentano la caduta. Gli italiani non hanno tagliato la voce «stadio» nei budget familiari. Il caso limite è quello del Napoli che a fine agosto ha visto 8 mila tifosi accollarsi il costo di una trasferta a Barcellona per seguire gli azzurri in un match amichevole.

Per rimanere in zona sport possiamo aggiungere che gli abbonati di Sky non sono diminuiti. Anzi. Mancano pochi giorni alla chiusura della trimestrale e le stime sono ottimistiche. La pay tv cresce al ritmo di 30-40 mila abbonati ogni tre mesi con un costo medio per abbonato pari a 43 euro al mese.

Il presidente dell’Istat Enrico Giovannini sostiene che fino alla bufera di agosto gli italiani erano rimasti dell’idea che la crisi fosse transitoria, che si dovesse aspettare che passasse la nottata e che bastasse in qualche modo stringere di un buco la cinghia. Giovannini pensa che nei prossimi mesi ci troveremo di fronte a una discontinuità.

Per cercare di spiegare la lenta metamorfosi italiana Giuseppe Roma, direttore del Censis, racconta la storia de L’Aquila, una città che ha perso dopo il terremoto 20 mila abitanti, in cui la ricostruzione è sostanzialmente a zero e nella quale in virtù della defiscalizzazione sono sorte tante piccole attività tutte a basso valore aggiunto. Il paradigma aquilano è un tipico comportamento adattivo italiano, si ottimizzano le risorse esistenti e si nasconde l’assenza di un progetto socioeconomico vero.

Milano è sociologicamente interessante anche per monitorare altri comportamenti adattivi. Un fenomeno interessante è quello legato all’espandersi dell’economia dei buoni pasto. Gli esercizi commerciali del centro puntano sempre di più sulla pausa pranzo degli impiegati. Sorgono nuovi punti di ristoro con un target ben preciso e i bar ristrutturano gli spazi in funzione della maggiore capienza di tavolini. Nello slang meneghino nasce l’ «ape», la cena di una fascia generazionale che va dai 25 ai 40 anni che  risolve il problema di un pasto a prezzi contenuti e per di più non rinuncia alla socializzazione.

Per capire come reagiscono gli italiani alla bufera economica il commercio è sicuramente un elemento chiave. I dati degli uffici/studi delle associazioni segnalano la chiusura di 10 mila piccoli esercizi ogni semestre in Italia, aggiungono che questa cifra è destinata ad aumentare vertiginosamente e tuttavia esiste un buon tasso di rotazione. Quello che si compra si consuma e le scorte sono ridotte al minimo.

Resta il risparmio. È chiaro che non se ne forma di nuovo, non ci sono però code davanti alle banche o alle società di gestione per ritirare i soldi già investiti. Del resto il portafoglio degli italiani è tra i più prudenti in Europa e l’investimento in azioni è circa al 20%.

Laura LESEVRE