Pagamento dell’Irap per tutti i liberi professionisti

Con la sentenza n. 19688 del 27 settembre 2011 la sezione tributaria della Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate contro la decisione della Commissione tributaria regionale del Lazio, che aveva concesso il rimborso dell’imposta Irap a tre liberi professionisti in quanto titolari di un “assetto organizzativo di rilievo minimale”.

Ciò significa che i liberi professionisti sono soggetti al prelievo Irap anche se la loro organizzazione è di “modesta entità”.
Sono state dunque accettate dai giudici del Palazzo di Giustizia le motivazioni addotte dall’amministrazione finanziaria, secondo cui: “il giudice di appello non considerava che i contribuenti sono dei liberi professionisti, che perciò operano con autonoma organizzazione e quindi non in maniera subordinata o di collaborazione, né saltuaria od occasionale, bensì con struttura propria, ancorché di modesta entità, tale da costituire la base reale dell’imposizione specifica e ciò anche prescindendo dal reddito finale.”

Che il libero professionista lavori con strutture minimali non rappresenta più una ragione per esentarlo dal pagamento dell’Irap, anche se ciò non sembra essere condiviso all’unanimità.

Sull’argomento, infatti, sono state registrate posizioni discordanti, ad esempio con la sentenza n. 10271/2011 si è affermato che il piccolo professionista che ha lo studio in affitto ha diritto al rimborso dell’Irap versata. In un altro pronunciamento (sentenza n. 16340) la Cassazione ha stabilito che “l’esercizio dell’attività di piccolo imprenditore è escluso dall’applicazione dell’imposta soltanto qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata”.

Si potrà perciò parlare di sentenza equa?

Vera Moretti

Nuova sentenza della Cassazione in merito all’opposizione a terzo

In una sentenza del 31 agosto 2011, la 17876, la Corte di cassazione ha stabilito che non è legittimato all’opposizione di terzo all’esecuzione (ex articolo 619 del codice di procedura civile), l’affittuario di una azienda che comprenda i beni mobili oggetto della procedura espropriativa.
In pratica, l’affittuario di un’azienda non è in condizione di opporsi all’esecuzione mobiliare forzata sui beni della stessa, in quanto non in grado di vantare alcun diritto reale.

La sentenza era stata resa necessaria in seguito a quanto successo ad una società in nome collettivo che aveva affittato un’azienda.
Poco dopo i beni della società erano divenuti oggetto di un’esecuzione mobiliare da parte dell’esattore (per iscrizione a ruolo di imposte e contributi non pagati dal proprietario dei beni affittati). L’impresa affittuaria, una srl, si era però opposta – quale terzo – alla procedura esecutiva. In tribunale, tale procedura veniva sospesa e l’opposizione dell’affittuaria accolta. Il primo giudice interpretava, quindi, in modo estensivo l’articolo 619 c.p.c. che legittima solo il proprietario dei beni a opporsi all’esecuzione esattoriale.

Contrario alla decisione del tribunale, l’Agente della riscossione presenta ricorso per Cassazione, per violazione del più volte richiamato articolo 619, in quanto l’affittuaria d’azienda non sarebbe legittimata all’opposizione all’esecuzione di terzo, trattandosi di un mero soggetto affittuario dei beni oggetto di esecuzione mobiliare, non titolare, pertanto, di un diritto di proprietà o altro diritto reale.

Con la sentenza 17876/2011, la Suprema corte accoglie il ricorso e, decidendo nel merito, rigetta l’opposizione di terzo, (mezzo di impugnazione straordinario, poichè può essere proposto avverso provvedimenti ormai passati in giudicato) agli atti esecutivi della riscossione tributaria attivata dalla srl avverso l’esecuzione mobiliare esattoriale intentata in danno della snc, con la conseguente conclusione che non è legittimato all’opposizione di terzo all’esecuzione, di cui all’articolo 619 del codice di procedura civile, l’affittuario di un’azienda che comprenda i beni mobili oggetto della procedura espropriativa.

Ciò in quanto i contratti di locazione e comodato non sono, ad avviso della Corte, “titoli giuridicamente idonei a legittimare il diritto allegato dal terzo”. Per tali contratti la tutela “è meramente obbligatoria” e può essere invocata esclusivamente nei confronti del dante causa, con le opportune azioni concesse appunto per la limitazione, la compressione, la soppressione delle possibilità di godimento del bene oggetto dell’obbligazione pattiziamente assunta.

E’ stato, infatti, deciso che l’opposizione del terzo all’esecuzione può essere proposta non solo da chi pretende avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati, ma anche da chi si asserisca titolare di un diritto di credito che, potendo essere soddisfatto direttamente sulla cosa oggetto dell’esecuzione, possa prevalere su quello che il creditore ha sui beni medesimi (Cassazione, sentenza 3896/1968).

Si ricorda, poi, che l’attuale articolo 63, del Dpr 602/1973, dispone, in materia di espropriazione mobiliare, che l’ufficiale della riscossione deve astenersi dal pignoramento o desistere dal procedimento quando è dimostrato che i beni appartengano a persona diversa dal debitore iscritto a ruolo, dai coobbligati o dai soggetti indicati nel precedente articolo 58, comma 3 (coniuge, parenti e affini fino al terzo grado), in virtù di titolo avente data anteriore all’anno cui si riferisce l’entrata iscritta a ruolo – in precedenza, l’istituto era regolato dall’articolo 65 dello stesso decreto che, nella sostanza, conteneva una previsione analoga a quella sopra esposta, anche se si riferiva indistintamente “ai beni pignorabili” (cfr Cassazione, sentenza 10961/2010).

L’occultamento della documentazione contabile ha natura di reato permanente

La Corte di cassazione, con la sentenza 30552 del 2 agosto ha stabilito che il termine di prescrizione del delitto di occultamento di documenti contabili (articolo 10, Dlgs 74/2000) decorre dalla data della verifica fiscale e viene interrotto dal decreto che dispone il giudizio, anche quando il contribuente omette la presentazione della dichiarazione dei redditi.

Il tribunale di Pesaro aveva dichiarato l’improcedibilità nei confronti di un contribuente, tra l’altro, in ordine al reato di occultamento della documentazione contabile, giudicato estinto per prescrizione. Il procuratore generale presso la corte di appello di Ancona ha sostenuto che il termine di prescrizione aveva iniziato il suo decorso non dal 31 dicembre di ciascun anno per il quale risultava omessa la presentazione delle dichiarazioni (anni di imposta 1998, 1999 e 2000), bensì dalla data della verifica fiscale (13 luglio 2004).

La Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso del Procuratore generale e ha cassato con rinvio la sentenza del Tribunale di Pesaro, statuendo che “il reato di occultamento della documentazione contabile (D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10) ha natura di reato permanente, in quanto la condotta penale dura sino al momento dell’accertamento fiscale, dies a quo da cui decorre il termine di prescrizione”.

Nello specifico mentre la distruzione configura un reato istantaneo che si realizza al momento dell’eliminazione della documentazione (e, cioè, con la stessa eliminazione del supporto cartaceo o mediante cancellature o abrasioni), l’occultamento, che può realizzarsi con diverse modalità (nascondimento della documentazione, rifiuto di esibizione, o qualunque altra condotta che si riveli impeditiva della ricostruzione del volume di affari e dei redditi da parte degli organi verificatori), ha natura permanente e si protrae nel tempo.

La condotta antigiuridica, cioè, perdura finché è consentito il controllo da parte degli organi competenti dell’Amministrazione (quindi, sino allo spirare dei termini previsti dalle leggi tributarie per l’accertamento dell’ammontare dei redditi o del volume degli affari – articoli 57, Dpr 633/1972, e 43, Dpr 600/1973). Può cessare con l’interruzione dell’azione criminosa del contribuente, sia spontanea (esibendo i documenti occultati, prima, però, dell’inizio dell’azione penale – Cassazione, n. 5791/2008) sia per l’interveto di terzi (ad esempio, a seguito della contestazione dell’illecito). Non può, però, essere sanata grazie alla solerzia degli accertatori e alla loro capacità di reperire aliunde elementi di prova (Cassazione, nn. 39711/2009 e 37592/2008) o con una ricostruzione ab externo, attraverso riscontri incrociati (Cassazione n. 3057/2008).

 

Rimborso Irap anche oltre la data di scadenza


La Corte di Cassazione che, con la recente sentenza n. 14932/2011, ha respinto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate ritenendo valida la richiesta di rimborso dell’Irap pagata per anni addietro da un avvocato.

La sentenza della Corte, in particolare, stabilisce che il contribuente, qualora nella dichiarazione abbia assoggettato i propri redditi ad imposta non dovuta effettuando anche il relativo versamento, può chiederne la restituzione nel termine previsto dall’art 38 del Dpr 602/73.

Le dichiarazioni fiscali possono, in linea di principio, essere liberamente emendate e ritrattate dal contribuente, sin in sede processuale, se, per effetto di errore di fatto o di diritto commesso nella relativa redazione, possa derivare l’assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, sulla base della legge, devono restare a suo carico

Redditometro: il sì dalla Cassazione

Per la Corte di Cassazione la presunzione di redditi occultati derivata dal redditometro è valida se il contribuente non fornisce elementi contrari oggettivi circostanziati.

Per la suprema corte servono prove rigorose e circostanziate per ribaltare le presunzioni costituite dal possesso di beni e servizi indicatori di capacità contributiva. A nulla serve lamentare condizioni di indigenza, di comunione legale dei beni o situazioni simili.
L’obiettivo dell’accertamento sintetico è proprio quello di far emergere redditi nascosti al fisco sulla base delle spese sostenute per l’acquisto ed il mantenimento di beni e servizi rilevanti.

I giudici, con la sentenza n. 13289/2011 hanno affrontato vari temi sull’accertamento da “redditometro”.
Da un lato, per il fisco, è sufficiente dimostrare la disponibilità del bene per far scattare il “redditometro”, dall’altro, il contribuente deve provare che il maggior reddito determinato è posseduto grazie a redditi esenti o soggetti a imposizione alla fonte.

Studi di Settore: Sì all’applicazione retroattiva

L’applicazione retroattiva di Studi di settore e parametri è legittima, secondo la Corte di Cassazione.

Con la Sentenza n. 12786/2011, la Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui è legittimo applicare lo studio di settore emanato successivamente all’anno di imposta oggetto di controllo.

Il contribuente, in sede amministrativa e processuale, potrà contestare l’utilizzo dei coefficienti e provare che i parametri sono inadeguati al caso.

In questo modo, la Corte si pronuncia sulla doglianza relativa all’illegittimità dell’applicazione retroattiva dello studio di settore, precisando che parametri e studi di settore costituiscono una procedura di accertamento unitaria, frutto di continue evoluzioni tese ad affinare e migliorare tali strumenti. Pertanto, l’applicazione dello strumento più recente garantisce maggiore affidabilità al risultato conseguito.

 

Valore d’avviamento e cessione d’impresa: la Sentenza della Cassazione

La Corte di Cassazione ha confermato il principio secondo il quale l’esistenza de valore di avviamento di un’azienda più essere iscritto in bilancio dall’acquirente, anche in presenza di perdite negli esercizi precedenti.

La Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 10586 del 13 maggio 2011, ha confermato il principio giurisprudenziale secondo il quale l’esistenza del valore di avviamento di un’azienda non può essere esclusa sulla base della sola circostanza che l’impresa abbia subito delle perdite negli esercizi precedenti.
Secondo la Suprema Corte, non vi è ragione di escludere che un’azienda in perdita possa disporre nel patrimonio di componenti attivi, tra i quali beni immateriali come l’avviamento commerciale.

La Corte ha, inoltre, affermato che nel caso di specie è stata correttamente applicata la disposizione del codice civile (articolo 2426, comma 1, n. 6) secondo la quale l’avviamento può essere iscritto nell’attivo patrimoniale della società acquirente, se acquisito a titolo oneroso, e nei limiti del costo per esso sostenuto. L’operazione, quindi, è ammessa purché l’avviamento sia stato acquistato a titolo oneroso (avviamento derivato e non originario o autoprodotto) e il valore dell’avviamento da iscrivere nel bilancio non sia superiore al costo sostenuto per lo stesso.

 

Retroattività negli studi di settore

La sentenza n. 12786 dello scorso 10 giugno, con cui la Corte di cassazione ha confermato alcuni principi in tema di parametri e studi di settore. In particolare viene resa legittima l’applicazione retroattiva degli strumenti applicati agli studi di settore.

Al centro della vicenda c’è un ricorso alla base del quale un contribuente critica:

  • il modello dello studio di settore emanato successivamente all’anno di imposta oggetto di controllo sarebbe per tale ragione inapplicabile
  • la Ctr non avrebbe comunque tenuto conto degli elementi emersi dallo studio, ma avrebbe deciso esclusivamente valorizzando la contumacia in appello del contribuente.

La pronuncia ha chiarito in merito che:

  • la procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione di parametri e studi di settore costituisce un insieme di presunzioni semplici
  • la gravità, precisione e concordanza di dette presunzioni non è ex lege predeterminata ma nasce in esito al contraddittorio con il contribuente
  • il contraddittorio è uno strumento indefettibile all’interno del procedimento e la mancata attuazione dello stesso provoca la nullità degli avvisi di accertamento emessi in sua assenza
  • la costruzione della motivazione dell’accertamento deve richiamare gli elementi emersi e valutati in sede di contraddittorio mentre può limitarsi al solo richiamo degli standard esclusivamente nel caso di mancata presentazione del contribuente regolarmente convocato.

La Corte di Cassazione ha ribadito che il contribuente ha l’onere, in sede amministrativa e in sede processuale, di contestare puntualmente l’applicazione dei coefficienti parametrici nonché di allegare e provare specifiche situazioni che renderebbero inadeguati al caso di specie gli standard considerati.

La Corte si pronuncia in merito all’illegittimità dell’applicazione retroattiva dello studio di settore, precisando che parametri e studi di settore costituiscono una procedura di accertamento unitaria, frutto di continue evoluzioni tese ad affinare e migliorare tali strumenti. Pertanto, l’applicazione dello strumento più recente garantisce maggiore affidabilità al risultato conseguito.

 

Cartelle esattoriali e ricorsi: parla la Cassazione

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 11736 del 27 maggio 2011, è intervenuta in merito a cartelle esattoriali, ruoli e relativi ricorsi, evidenziando come il ruolo, anche se atto interno dell’amministrazione, costituisce lo strumento fondamentale della riscossione, in quanto contiene l’indicazione del periodo d’imposta al quale l’iscrizione si riferisce, dell’imponibile, dei versamenti e dell’imposta effettivamente dovuta, oltre che degli interessi e delle sanzioni pecuniarie eventualmente irrogabili al contribuente.

La conclusione alla quale è giunta la Corte di Cassazione è che la cartella esattoriale integra l’unico valido strumento per impugnare anche l’iscrizione a ruolo, più che costituire l’atto che dà vita al rapporto obbligatorio tra l’amministrazione ed il contribuente. Contrariamente a quanto era stato sostenuto dall’Agenzia delle Entrate nel caso concreto.

La contestazione dell’iscrizione può avvenire, pertanto, solo tramite l’impugnazione della cartella esattoriale.

Durc, ommessa presentazione: si pronuncia la Cassazione

L’omesso deposito del Durc non è penalmente sanzionabile. Così la Corte di Cassazione, secondo al quale l’omessa presentazione del Documento Unico di regolarità contributiva non costituisce reato da punire penalmente ma costituisce soltanto violazione sanzionabile in via amministrativa.

 La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 21780 della Terza sezione penale depositata lo scorso lunedì, precisa che l’omessa presentazione del Documento Unico di regolarità contributiva non costituisce reato da punire penalmente ma costituisce soltanto violazione sanzionabile in via amministrativa.

Come noto, il Durc attesta la regolarità di una impresa nei pagamenti e negli adempimenti previdenziali, assistenziali ed assicurativi previsti dalla legge a favore di Inps, Inail e Casse Edili.

Nel caso specifico una cooperativa titolare del permesso di costruire non aveva depositato il durc della società a cui erano stati subappaltati lavori di costruzione.