Il futuro? Le imprese lo guardano con fiducia

Un segnale positivo che fa pensare ad una ripresa, e piuttosto convincente, deriva da un’accelerazione concreta, dal punto di vista economico, rilevata dal settore dell’industria, ma anche dal clima più ottimistico che si respira nelle aziende, e una conseguente fiducia nel futuro.

La fiducia tra le imprese, infatti, sta tornando ai livelli pre-crisi, e, scendendo nei particolari, l’indice calcolato dall’Istat sale da 108,1 a 109,1 a ottobre, raggiungendo il livello di giugno 2007. In aumento anche l’indice del clima di fiducia dei consumatori, che cresce per il quinto mese consecutivo passando da 115,6 a 116,1.

Considerando la situazione delle imprese del mese di ottobre, è staro rilevato un aumento del clima di fiducia in tutti i settori, ad eccezione delle costruzioni, dove però il calo dell’indice è stato causato soprattutto, e forse solamente, da una diminuzione delle aspettative sull’occupazione presso l’impresa, come conseguenza di un peggioramento, seppur lieve, dei giudizi sugli ordini.
Se, quindi, nel comparto delle costruzioni ancora non c’è stata una vera ripresa, anche se l’indice è rimasto ai livelli del 2007, si può guardare con più positività al settore manifatturiero, ma anche a quello dei servizi e del commercio, dove il clima di fiducia è salito, rispettivamente, da 110,5 a 111,0, da 107,1 a 107,6 e da 109,1 a 113,2.

Dando uno sguardo attento alla situazione delle famiglie, inoltre, l’Istat conferma un buon miglioramento dei giudizi e delle aspettative sulla situazione personale. Il saldo relativo all’opportunità di acquisto di beni durevoli sta registrando un nuovo aumento e si riporta sui livelli di gennaio.
Ciò, ovviamente, rende il futuro più roseo, tanto che aumentano gli ottimisti e diminuiscono coloro che credono sia ancora indispensabile, o almeno possibile, risparmiare sul futuro.

Vera MORETTI

Quanto ha inciso la crisi, regione per regione

La crisi c’è per tutti, ma non tutti la subiscono allo stesso modo. Almeno in Italia, almeno nelle diverse regioni italiane. Lo certifica l’istituto europeo di statistica Eurostat, secondo il quale nei sette anni di crisi (2008-2014) che ci stiamo faticosamente lasciando alle spalle, il Pil pro-capite degli italiani è calato di 1.100, da 27.600 a 26.500 euro all’anno (-4%). Nello stesso periodo, il Pil pro-capite nell’Ue a 28 è salito del 5,7%.

Una contrazione che però non è stata uniforme all’interno delle diverse regioni italiane, dove la crisi ha inciso in maniera differente o, in alcuni casi nemmeno si è sentita. Spiccano le contrazioni negative del Pil dei cittadini dell’Umbria (-8,37%, da 26.300 a 24.100 euro), della Campania (-7,7%, da 18.200 a 16.800), del Lazio (-7,33%, da 34.100 a 31.600) e della Liguria (-7%, da 31.000 a 28.800). Niente crisi per i Pil della Provincia Autonoma di Bolzano (+6,4%, da 37.500 a 39.900 euro), della Valle d’Aosta (+3,6%, da 35.500 a 36.700) e della Puglia (+0,6%, da 17.300 a 17.400).

In termini di potere d’acquisto, la crisi ha fatto perdere agli italiani in 7 anni quasi dieci punti: fatto 100 il valore Ue, l’Italia è passata da 105 a 96. Guardando alle regioni, tutto il Centronord è in affanno: Lazio -16 punti (da 130 a 114), Liguria -14 punti (da 118 a 104), Piemonte -13 (da 113 a 100), Lombardia -12 (da 138 a 126), Friuli Venezia Giulia -11 (da 112 a 101), Emilia Romagna -10 (da 127 a 117), Marche -10 (da 102 a 92), Veneto -8 (da 116 a 108), Toscana -6 (da 110 a 104).

Non va meglio nemmeno al Sud, dove la crisi ha fatto strage: Campania -9 (da 70 a 61), Sicilia -7 (da 69 a 62), Calabria -6 (da 65 a 59), Basilicata -6 (da 75 a 69), Sardegna -6 (da 78 a 72), Molise -6 (da 81 a 75), Puglia -3 (da 66 a 63).

Imprese artigiane ancora in calo nel 2015

Se l’economia italiana nel 2015 ha dato qualche segnale di risveglio, nel nostro Paese è comunque continuato il periodo nero per le imprese artigiane, calate lo scorso anno di 21.780 unità. Solo l’ultimo anello di una catena cominciata con la crisi e che, dal 2009, ha fatto calare di 116mila attività il mondo delle imprese artigiane, scese a meno di 1 milione e 350mila al 31 dicembre 2015.

A pagare il prezzo più alto, ancora una volta le imprese edili (-65.455 unità), seguite dai trasporti (-16.699), dalle imprese artigiane metalmeccaniche (-12.556 per i prodotti in metallo, -4.125 per i macchinari) e da quelle del legno (-8.076, -11.692 considerando anche i produttori di mobili).

Cresciuto, invece, il numero di imprese artigiane di pulizia e di giardinaggio (+ 11.370), gelaterie-rosticcerie-ambulanti del cibo da strada (+ 3.290), parrucchiere ed estetiste (+2.180).

Un calo che non accenna a diminuire e che, secondo il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia Paolo Zabeo, ha diverse spiegazioni: “La caduta dei consumi delle famiglie e la loro lenta ripresa, l’aumento della pressione fiscale e l’esplosione del costo degli affitti hanno spinto fuori mercato molte attività, senza contare che l’avvento delle nuove tecnologie e delle produzioni in serie hanno relegato in posizioni di marginalità molte professioni caratterizzate da un’elevata capacità manuale. Ma oltre al danno economico causato da queste cessazioni, c’è anche un aspetto sociale molto preoccupante da tenere in considerazione. Quando chiude definitivamente la saracinesca una bottega artigiana, la qualità della vita di quel quartiere peggiora notevolmente. C’è meno sicurezza, più degrado e il rischio di un concreto impoverimento del tessuto sociale”.

La crisi, online, fa meno paura

Pare che nel 2016 la crisi faccia meno paura, almeno in rete. Secondo quanto emerge da un’analisi della Camera di commercio di Milano insieme a VOICES from the Blogs, spin off dell’Università degli Studi di Milano, realizzata su commenti e news online dal 1 gennaio 2015 al 31 dicembre 2015 in confronto con i due anni precedenti, per un totale di un milione di segnalazioni analizzate nei tre anni, in questo avvio di anno, online si parla sempre meno di crisi, con un dibattito sul tema in calo del 20% negli ultimi due anni.

Confermato il trend del 2014 (-17,7%) anche nel 2015 (-1,8%). Cambia anche la connotazione del dibattito, che diventa più operativa e legata agli interventi di risoluzione della crisi o alla descrizione degli aspetti territoriali su cui occorre intervenire per farvi fronte.

La crisi è infatti sempre più citata insieme all’Italia e all’Europa, insieme il 6% delle citazioni e alle variabili territoriali come (Grecia, Russia, Regione, Paesi…), con cui si tocca l’11% dei commenti sul tema. Al primo posto delle valutazioni generali  appare “nonostante la crisi”, anch’esso con una connotazione positiva di uscita. I messaggi sulla crisi economica tout-court sono il 6% del totale in netto calo rispetto al 13% dello scorso anno. Con l’1,6% delle valutazioni entra una nuova componente, quella sociale e dell’impatto sulle famiglie.

Cambia anche il linguaggio utilizzato online. Nella classifica delle parole sulla crisi, nell’ultimo anno ci sono “Italia, Europa, Paesi, Grecia” rispetto al 2014 e al 2013 quando prevaleva “crisi economica”, seguita nel 2014 da “grave crisi”, “momento di crisi” ma anche “uscire dalla crisi”.

L’ agriturismo tira, anche a Natale

La formula della vacanza in agriturismo è una di quelle che, negli ultimi anni, hanno subito meno flessioni, specialmente in Italia. Tanto che, secondo i dati sono forniti da Agriturismo.it, dalla ricerca di Nextplora e dall’Osservatorio Innovazione Digitale nel Turismo, nel nostro Paese, gli agrituristi valgono più di 1 miliardo di euro, sono oltre 5 milioni e la maggior parte di loro sceglie la struttura dell’ agriturismo per l’ospitalità familiare (45,2%) e la buona cucina (24,2%).

Inoltre, l’agriturista tipo ha tra i 35 e i 65 anni, è sposato (l’87%) e parte o in coppia o in famiglia (il 75,8% ha uno o più figli). In Italia oggi sono presenti oltre 21mila aziende dedite all’agriturismo (21744), +4,1% in più rispetto al 2013.

La vacanza in agriturismo va forte anche a Natale, dal momento che l’agriturista ama rilassarsi e degustare i prodotti tipici, ma allo stesso tempo visitare attrazioni naturalistiche o storiche nei dintorni.

Tre milioni e 500mila persone hanno soggiornato in agriturismo negli ultimi 12 mesi e tra questi, dato importante, l’86% si ritiene soddisfatto e vuole ripetere l’esperienza.

La regione italiana più ambita, sia per l’italiano sia per lo straniero, rimane la Toscana con il 54% delle preferenze, seguita dall’Umbria (34%), da Veneto e Sicilia (20%) e dal Friuli Venezia Giulia (14%).

L’87% degli agrituristi proviene dall’Europa, tra cui il 35% dalla Germania, il 12% dal Belgio e dall’Olanda e l’8% dal Regno Unito.

Per quanto riguarda la crisi, il 61% degli agrituristi italiani dichiara di aver sentito l’influenza negativa sulle proprie vacanze in agriturismo, contro il 68% del 2014. Tutt’altro scenario per gli agrituristi stranieri: ben l’80% dichiara che la crisi non ha inciso in alcun modo sulle loro vacanze.

Secondo l’Osservatorio Innovazione Digitale nel Turismo 2015, tra gli strumenti digitali più usati per poter scegliere la vacanza giusta, in agriturismo e non, si trovano le recensioni, i commenti letti online e gli articoli specializzati in viaggi. Per quanto riguarda l’ispirazione offline, invece, sono molto influenti i consigli di amici e parenti e la nostalgia delle vacanze passate.

Dati interessanti questi sulle vacanze in agriturismo, sui quali potrà contare la quarta edizione di Agriturismoinfiera, la rassegna dedicata alle aziende agrituristiche italiane che si terrà a Milano il 24 e il 25 gennaio 2016 al Parco delle Esposizioni di Novegro.

Busta paga sempre più povera

Siamo abituati a parlare e a sentir parlare degli effetti che la crisi ha sull’andamento della macroeconomia, ma non sempre ci fermiamo a riflettere su quanto incide nella vita di tutti i giorni e, soprattutto, sulle retribuzioni. In sostanza, quali sono gli effetti della crisi economica sulla busta paga degli italiani?

A questa domanda ha provato a dare una risposta l’Osservatorio JobPricing, costruito in collaborazione con il sito di Repubblica.it. E ha provato a darla basando la propria analisi sui dati forniti dai lettori del quotidiano in merito alla propria busta paga.

Si tratta quindi di dati parziali, che non rivestono un valore statistico rilevante ma che aiutano a capire come, dall’inizio della crisi (2008) a oggi, la contrazione dell’economia non abbia influito negativamente solo sull’occupazione ma anche sulla busta paga di molti di noi.

Secondo l’osservatorio, negli ultimi 7 anni gli stipendi più penalizzati dalla crisi sono stati quelli agli estremi opposti della catena produttiva: gli operai hanno perso quasi 1.700 euro di potere d’acquisto complessivo e i dirigenti si sono trovati un totale di quasi 6mila euro in meno in busta paga.

I livelli intermedi come quelli degli impiegati hanno tenuto botta (-254 euro), mentre una ai quadri è andata decisamente peggio: -4mila euro e più.

Nel realizzare la propria indagine, JobPricing ha preso come base la Ral nella parte fissa, calcolando la perdita del potere d’acquisto sull’inflazione Istat per i beni ad altra frequenza d’acquisto. Il risultato: busta paga sempre più povera, grazie alla crisi.

Pasqua 2015 tra luci e ombre

A Pasqua 2015 quello che le imprese avrebbero voluto trovare nell’uovo era facile immaginarlo: la ripresa dell’economia. Una ripresa alla quale anche le famiglie guardano con attesa e che, stando almeno a quanto emerge da alcune ricerche recenti, pare comincino a vedere.

In occasione della Pasqua 2015, infatti, Confesercenti ha elaborato un sondaggio in collaborazione con Swg dal quale emerge che l’ottimismo degli italiani è in crescita: secondo il 44% di loro, infatti, economia, lavoro e consumi stanno andando verso una stagione più positiva. Quanti invece, continuano a vedere nero sono ancora il 40%, mentre il restante 16% non si pronuncia.

A dispetto dei risultati del sondaggio, però, pare che questo ottimismo non si traduca in fatti concreti, ossia in consumi, in occasione della Pasqua 2015. Dal sondaggio di Confesercenti, infatti, emerge che ben il 67% degli italiani ha lasciato la propria spesa invariata per la Pasqua 2015, mentre solo il 14% l’ha aumentata. Se però le intenzioni di spesa si proiettano sull’intero 2015, la percentuale di persone che dichiara voler ridurre la spesa durante l’anno si alza al 18%.

Anche sul fronte dei viaggi, Confesercenti rileva ancora poco movimento per Pasqua 2015: secondo l’associazione, è andato in vacanza un italiano su quattro (il 25%), pari a 12,6 milioni di persone, contro il 30% registrato lo scorso anno, nonostante la crisi mordesse ancora duro.

Se il numero dei viaggiatori per la Pasqua 2015 cala, aumenta di contro la spesa media per questi viaggi: il 60% degli intervistati da Confesercenti Swg ha speso oltre 250 euro, contro il 54% registrato del 2014. La sistemazione preferita rimane l’hotel, con il 28% delle preferenze, seguito da bed and breakfast (16%) e dalla casa vacanza (15%). E la vacanza di Pasqua 2015 è per lo più in Italia, scelta dall’88% degli intervistati contro il 12% partito per l’estero.

Meno crisi, almeno sul web…

Se è vero che la rete è lo specchio dei tempi che cambiano, lo è ancora di più per quello che riguarda l’impresa, grande o piccola che sia. Un’impresa che, da sette anni a questa parte, ha a che fare con la crisi e con il linguaggio nuovo che essa a portato, online e offline.

Un linguaggio che, a sette anni appunto dallo scoppio della grande crisi, sembra finalmente cambiare, almeno in rete. Stando infatti a un’analisi della Camera di commercio di Milano svolta insieme a VOICES from the Blogs, spin off dell’Università degli Studi di Milano, e realizzata sulle news online dal 1 gennaio 2013 al 31 dicembre 2014, nel 2014 si parla meno della crisi rispetto al 2013 (-17%) e sono più che raddoppiati i messaggi positivi sull’uscita dal tunnel della crisi: dal 2,2% al 4,8% del totale.

Rimane purtroppo costante il messaggio sulla gravità della crisi, che è oggetto di circa un messaggio su dieci sul tema, mentre si dimezzano in un anno le valutazioni del fenomeno legate ai settori, soprattutto a quello finanziario, o ai riferimenti geografici territoriali o internazionali: da circa un messaggio su dieci a  circa uno su cinque.
Nella classifica delle parole relative alla crisi, in entrambi gli anni c’è in testa “crisi economica”, seguita nel 2014 da “grave crisi”, momento di crisi” ma anche da “uscire dalla crisi”. Nel 2013 al secondo posto c’è “tempi di crisi”, poi “Regione”, Europa”, “grave crisi”.
Secondo la rilevazione della Camera di commercio, se il numero complessivo di post scritti su siti di news on-line che contenevano al loro interno la parola crisi sono stati complessivamente 740mila in 2 anni, la loro pubblicazione si suddivide in circa 406mila per il 2013 (pari al 54,8% del totale) e circa 334mila per il 2014 (pari al 45,2% del totale).

Per quanto riguarda invece i picchi di dibattito sulla crisi, questi sono stati a ottobre 2013, il più alto, e a aprile sempre dello stesso anno. Nel 2014, invece l’andamento è più costante, con punte a febbraio, settembre e fine anno. Se ne parla meno ad agosto in entrambi gli anni. Evidentemente, anche la crisi – o meglio, chi parla di lei – ha preferito prendersi una vacanza…

Sempre più negozi in vendita, sempre meno cari

La crisi ha un curioso effetto sugli immobili commerciali: sono sempre più i negozi in vendita a prezzi sempre più bassi. Lo ha certificato anche l’Ufficio Studi di Immobiliare.it, secondo il quale l’offerta di negozi in vendita nelle città italiane negli ultimi due anni è arrivata a crescere, in alcuni centri, di oltre l’8%, mentre i prezzi hanno seguito la direzione opposta, vale a dire quella del calo che, in città come Torino e Bologna, ha superato il 20%.

Secondo lo studio del sito, l’aumento dell’offerta di negozi in vendita ha riguardato, per la prima volta negli ultimi dieci anni, anche le famose vie dello shopping. A livello nazionale, nell’ultimo anno, si è assistito a un calo dei prezzi di vendita pari al 4,3%; diminuzione maggiore quella dei canoni di locazione, scesi dell’8,6%. Focalizzando la ricerca sulle grandi città, le cifre richieste per i negozi in vendita sono diminuite in maniera meno netta (-3,7% rispetto al 2013); stesso discorso per gli affitti di spazi commerciali che sono scesi del 7,6%.

Sempre restando alle grandi città, Bologna e Torino sono quelle che hanno fatto registrare l’aumento dell’offerta di negozi in vendita più elevato (rispettivamente +4,4% e +4,7% in un anno). Anche i prezzi sono quelli che hanno subito i cali maggiori, arrivando a scendere fino all’8,5%. Per le locazioni, la città che è riuscita a contenere di più il calo dei prezzi è stata Venezia (-1,4%) anche per una disponibilità di spazi contenuta rispetto ad altri centri. In termini di offerta, l’aumento dei negozi proposti in locazione ha raggiunto spesso la doppia cifra: a Torino, ad esempio, si registra un +12,6% di annunci in più in un anno nelle cosiddette retail streets.

Analizzando il numero di annunci presenti sul sito di immobiliare.it, si notano alcune tendenze che contraddistinguono le grandi città italiane: a Milano la metà dei negozi in vendita è concentrata nel centro storico; a Roma, invece, soltanto il 26% degli annunci riguarda immobili centrali, dato che rispecchia la maggior tenuta della vita di quartiere tipica della Capitale.

Secondo Carlo Giordano, Amministratore Delegato di Immobiliare.it, “esigenze di risparmio, soprattutto in termini economici ma anche in termini di tempo, hanno portato i consumatori italiani a un’ottimizzazione della scelta dei luoghi in cui comprare. Si predilige il negozio di quartiere per i piccoli acquisti di tutti i giorni e il centro commerciale per cercare offerte e promozioni. Questo cambiamento di abitudini non poteva non modificare il panorama immobiliare dei negozi in Italia, che da due anni a questa parte ha cominciato a cambiare nettamente profilo”.

La crisi pesa sugli ammortizzatori sociali

Ogni crisi ha i suoi costi e quella che stiamo attraversando ne ha di altissimi sul fronte degli ammortizzatori sociali. Secondo un’elaborazione effettuata dall’Ufficio Studi della Cgia, tra il 2009 e il 2013 l’Italia ha pagato 59 miliardi di euro in ammortizzatori sociali, al netto dei contributi figurativi.

Secondo la Cgia, il 72,7% di questi costi per ammortizzatori sociali (pari a 42,8 miliardi) è stato coperto grazie ai contributi versati dai dipendenti e dalle imprese, mentre il restante 27,3% (circa 16 miliardi) è stato a carico della fiscalità generale.

Se analizziamo l’andamento registrato in questi ultimi anni – ha commentato il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – notiamo che c’è stato un boom della spesa delle misure di sostegno al reddito dei lavoratori che hanno perso il posto di lavoro. Dai circa 10 miliardi riferiti al 2009 si è saliti a quota 14,5 nel 2013. Importo, quest’ultimo, che dovrebbe essere raggiunto anche nel 2014. Per contro, invece, la copertura garantita dai contributi versati dalle imprese e dai lavoratori dipendenti è rimasta praticamente la stessa. Se nel 2009 era pari a 8,4 miliardi, nel 2013 è stata di poco superiore ai 9 miliardi di euro. Questo si traduce in un saldo sempre più negativo: ovvero il costo degli ammortizzatori sociali è sempre più a carico della collettività. Era pari poco più di 1,5 miliardi nel 2009, l’anno scorso ha sfiorato i 5,5 miliardi di euro”.

Lo studio della Cgia ha preso in esame il flusso di entrate e uscite relativo a diversi ammortizzatori sociali: Cig ordinaria, Cig straordinaria, Cig straordinaria in deroga, trattamenti di disoccupazione, AspI e mini-AspI, indennità di mobilità. Un’analisi che però non comprende le somme a copertura della contribuzione figurativa garantite dallo Stato, quelle, per capirsi ai fini della maturazione dei requisiti previsti per l’ottenimento della pensione.

In questo quadro diventa esemplare, tra gli ammortizzatori sociali la situazione della Cig in deroga, introdotta all’inizio della crisi per favorire gli occupati della piccola impresa e diventata, da misura straordinaria, una misura strutturale che costa all’Italia circa 1,5 miliardi di euro all’anno. Un costo che ricade su tutti i contribuenti in quanto è finanziata dalla fiscalità generale, diversamente dalla Cig ordinaria, quasi del tutto finanziata attraverso i contribuiti versati dalle imprese e dai lavoratori dipendenti.