Decreto Aiuti 2022: aumenta il credito di imposta per formazione e investimenti

Novità per le imprese: con il Decreto Aiuti 2022 n° 75, approvato il 2 maggio dal Consiglio del Ministri, sono potenziati gli aiuti grazie a un aumento del credito di imposta per la Formazione 4.0 e per gli Investimenti 4.0. Ecco i nuovi importi di cui potranno avvalersi le imprese che decideranno di puntare sull’innovazione tecnologica.

Credito di imposta per Formazione 4.0

Il credito di imposta per la Formazione 4.0 è stato introdotto per la prima volta con la legge di bilancio 2020 e consiste in un sostegno alle piccole e medie imprese che decidono di investire in formazione 4.0 in favore dei lavoratori. Si tratta di adeguare le competenze del personale all’uso in sicurezza delle nuove tecnologie che possono accelerare o migliorare il processo di produzione o consentono di aumentare la qualità dei prodotti. In questo modo i dipendenti hanno nuove competenze spendibili nel mondo del lavoro e non c’è perdita di lavoro legata a conoscenze obsolete dei dipendenti.

Affinché si possa accedere al credito di imposta per la formazione 4.0 è necessario che le attività di formazione a carico dei dipendenti siano erogate da soggetti specifici individuati in un decreto del MISE (Ministero dello Sviluppo Economico), inoltre al termine dei corsi di formazione devono essere rilasciati certificati in cui sono indicate le competenze acquisite dai dipendenti.

Tra le tematiche che possono essere affrontate nei corsi ci sono big data, cyber security, realtà virtuale e realtà aumentata, analisi dei dati e robotica.

Attualmente gli aiuti previsti sono:

  • 30% per le grandi imprese (budget massimo di spesa 250.000 euro);
  • 40% per le medie imprese ( sempre con budget massimo di spesa di 250.000 euro);
  • 50% per le micro e piccole imprese, in questo caso con budget di spesa massima annuale di 300.000 euro.

Con l’entrata in vigore delle nuove norme previste nel decreto Aiuti 2022 le piccole e medie imprese possono ottenere maggiori agevolazioni, infatti il credito di imposta sarà di:

  • 70% per micro e piccole e imprese;
  • 50% per le medie imprese.

Per conoscere se la tua impresa può essere classificata come piccola o media, leggi l’articolo: Micro, Piccola e Media Impresa: definizione e differenze

Nel decreto Aiuti 2022 aumenta il credito di imposta per Investimenti 4.0 in beni immateriali

Naturalmente la Formazione 4.0 ha poco senso se all’interno dell’impresa non vi sono tecnologie 4.0. Proprio per questo motivo il decreto Aiuti 2022 varato dal Consiglio dei Ministri c’è la previsione del credito di imposta anche per gli investimenti 4.0.

In questo caso l’obiettivo è supportare le imprese che investono in beni immateriali come software, piattaforme e applicazioni. Tale misura è stata introdotta per la prima volta con la legge di bilancio 2017 e ora aumentano le aliquote per i soli beni immateriali.

In questo caso l’aliquota del credito di imposta aumenta dal 20% al 50%.

Tale maggiorazione si applica per gli investimenti 4.0 effettuati dal 1° gennaio 2022 al 31 dicembre 2022, inoltre si può ottenere la maggiorazione anche per gli investimenti effettuati dal 1° gennaio 2022 al 30 giugno 2023, ma in questo caso vi è un’ulteriore condizione e cioè che l’ordine sia stato accettato dal venditore entro il 31 dicembre 2022 e sia stato versato entro la stessa data un acconto pari almeno al 20% del valore dei beni acquistati.

Per il credito di imposta per gli investimenti 4.0 è comunque previsto un tetto massimo per la spesa, questo è fissato in un milione di euro.

Restano immutati gli aiuti previsti per l’acquisto di beni materiali. Si può avere una disamina su questi nell’articolo: Piano industria 4.0 e finanza agevolata. Benefici per le imprese

Il credito di imposta potrà essere fatto valere dalle imprese attraverso l’uso del modello F24 per la compensazione dei crediti con i “debiti fiscali”.

Lo smart working attrae i professionisti: 1 su 4 continua dopo la pandemia

Lo smart working è stato un regime ordinario in tempo di pandemia, ma ora che molti sono ritornati in ufficio c’è chi borbotta e vorrebbe proseguire l’esperienza del lavoro da casa e a manifestare interesse sono anche i professionisti e i dipendenti di piccoli studi professionali.

Lo smart working tra pubblico e privato

La necessità di ridurre il contagio, evitare assembramenti e restare “isolati” ha portato nel 2020 a una massiccia adozione dello smart working. Pian piano le cose sono poi tornate alla normalità e mentre il ministro Brunetta ritiene che non sia necessario ora continuare a far lavorare i dipendenti pubblici da casa, sebbene ormai molte funzioni siano state digitalizzate e ad esempio i cittadini possono scaricare gratuitamente molti certificati prima richiesti agli uffici pubblici, nel settore privato le cose vanno un po’ diversamente, infatti dopo aver sperimentato lo smart working, sono in molti a voler proseguire questa esperienza. Almeno uno studio professionale su 4 pensa di continuare a lavorare in smart working anche dopo la pandemia.

Lo smart working attrae i professionisti

Confprofessioni (organizzazione che rappresenta i liberi professionisti) ha pensato di intervistare i professionisti per capire come valutano l’esperienza con lo smart working. L’indagine ha coinvolto i professionisti, ma anche i dipendenti degli studi professionali. Il 40% dei professionisti intervistati ha dichiarato di voler proseguire questa esperienza, la percentuale sale al 50% se si considerano solo gli avvocati. Nell’82% dei casi gli intervistati hanno dichiarato di aver dovuto utilizzare per lo smart working soprattutto strumenti di loro proprietà, quindi il datore di lavoro non ha fornito computer o altri dispositivi per poter lavorare da casa o connessioni. In realtà questa soluzione può essere molto pericolosa e cioè espone maggiormente ad attacchi cibernetici in quanto gli stessi dispositivi sono utilizzati sia per lavoro sia per motivi personali e quindi i software aziendali e le piattaforme di lavoro diventano più vulnerabili.

Per saperne di più sulle strategie per aumentare la sicurezza, leggi l’articolo: Cyber Security: l’importanza per le aziende e i professionisti del settore

Tra i professionisti solo 1 su 4 è riuscito ad ottenere aiuti economici da parte dello Stato per poter organizzare il lavoro da casa. Nonostante questo, l’esperienza ottiene un giudizio positivo.

A mettere in atto lo smartworking sono stati il 58% degli studi professionali, di questi 1 su 3 ha preferito sperimentarlo solo durante il periodo emergenziale, mentre 1 su 4 dichiara di continuare su questa strada e pensa di introdurlo in maniera strutturale come modalità di lavoro.

Cosa pensano dello smart working i dipendenti degli studi professionali?

Naturalmente le opinioni non sono tutte positive, molti hanno apprezzato la possibilità di poter lavorare da casa e la maggiore facilità di conciliare i tempi di lavoro e di famiglia, anche considerando che i ragazzi sono stati in DaD e quindi vi era l’esigenza di “monitorare” i piccoli di casa. Per i dipendenti e per i professionisti un altro elemento da salvare è la riduzione dei tempi dedicati agli spostamenti, cioè il tempo dedicato al tragitto casa-ufficio che in molti casi doveva essere fatto anche 4 volte al giorno. A questo si aggiunge la possibilità di avere orari più flessibili.

Un dato particolare è dato dal fatto che il 43,5% dei dipendenti degli studi professionali apprezza la maggiore responsabilizzazione derivata dal non dover lavorare tutti i giorni a stretto contatto e sotto il controllo del datore di lavoro. Non mancano però criticità, alcuni hanno lamentato il senso di isolamento che si vive lavorando da casa, lamentato da circa 2 dipendenti su 3, mentre la metà dei professionisti ha notato un calo di produttività.

La pandemia falcidia gli studi professionali

Purtroppo dalla relazione di Conprofessionisti emerge anche che durante la pandemia sono stati persi 38.000 studi di professionisti, con una perdita di lavoratori di circa 194.000 unità, un aumento delle chiusure del 2,7% rispetto al 2019. Anche se può sembrare strano, la percentuale più alta di chiusure si è registrata al Nord.

Cyber Security:l’importanza per le aziende e i professionisti del settore

La maggior parte delle aziende ha correttamente adempiuto agli obblighi previsti per la protezione dei dati personali dei terzi raccolti per motivi legati all’attività aziendale, sono invece state poche quelle che hanno protetto i dati aziendali propri, esponendosi così al rischio di attacchi cibernetici. La Cyber Security rappresenta però un’importante risorsa e i professionisti del settore, come Cyber Security Manager e dei CISO (Chief Information Security Officer) possono aiutare le aziende a far fronte ai rischi connessi con l’uso delle nuove tecnologie.

Cyber Security: la situazione in Italia

Nell’era delle reti e della transizione digitale 4.0 le aziende lavorano con un costante uso di internet e dei dispositivi elettronici, lo smart working, a cui molte aziende hanno dovuto adattarsi in pandemia, ha portato numerosi dati e segreti aziendali a correre lungo le reti e senza un’adeguata protezione, i rischi di attacchi sono davvero numerosi. Nel solo 2021 le aziende italiane hanno subito 1.871 attacchi gravi questi sono i dati rilevati nel “Rapporto Clusit 2021 sulla sicurezza ICT in Italia” . L’aumento è del 12% rispetto al 2020 e addirittura un 66% rispetto al 2017. Questi sono i danni degli attacchi denunciati, ma è molto probabile che molti neanche siano stati rilevati e denunciati. I dati sensibili possono riguardare brevetti, protocolli aziendali, ricerca aziendale, dati inerenti gli attivi e i passivi, informazioni in grado di porre le aziende in difficoltà, dati bancari.

Attacco al sito della Regione Lazio

Creare una sistema di protezione dei dati vuol dire ridurre notevolmente l’impatto negativo degli attacchi cibernetici. Il primo passo verso la cyber security è sicuramente la formazione del personale che deve essere in grado di usare in modo adeguato i PC e gli altri dispositivi di cui sono dotati e di non commettere errori nella gestione. Ad esempio la più grande falla nel sistema di cyber security in Italia, o meglio l’attacco che ha destato maggiore scalpore, è stato l’attacco hacker al sito della Regione Lazio avvenuto nell’estate 2021 e che ha causato numerosi danni, mandando in tilt anche le piattaforme utilizzate per la gestione del piano vaccinale, partendo proprio da una disattenzione di un dipendente in smart working.

In questi casi si parla anche di data breach cioè il furto di dati, l’alterazione degli stessi, oppure attacchi che determinano l’impossibilità di accedere ai propri software a causa di attacchi esterni effettuati soprattutto con malware e virus informatici.

I professionisti della Cyber Security

In questa ottica per le aziende è molto importante dotarsi di figure professionali di alto rilievo che possano aiutare l’azienda a proteggersi e anche istruire in modo adeguato i vari dipendenti sulle corrette procedure da seguire per evitare intrusioni nei PC, software aziendali e piattaforme in uso. Le due figure professionali sempre più richieste dalle aziende sono il Cyber Security Manager e il CISO, questi hanno profili simili, con leggere differenze che vedremo a breve. Occorre sottolineare che lavorare in questo settore oggi può essere particolarmente interessante e remunerativo. In primo luogo si tratta di lavori a elevata specializzazione quindi ad oggi ci sono pochi professionisti nel settore, con domanda aumentata naturalmente crescono anche le tariffe. Un Security Manager può avere una retribuzione dai 62.000 ai 103.300 euro annui lordi e per una consulenza giornaliera la tariffa oscilla tra 1.550 o 2.100 euro.

Chi è il Cyber Security Manager

Il Cyber Security Manager è una professionista della sicurezza informatica laureato in ingegneria informatica o in informatica.Per svolgere correttamente il ruolo deve avere anche competenze legali e in criminologia, infatti gli attacchi hacker ai siti aziendali e alle reti sono reati molto gravi e nella prevenzione degli stessi è bene avere un’adeguata formazione per evitare di incorrere in errori. E’ essenziale anche la padronanza della lingua inglese, la conoscenza dei protocolli di comunicazione come Java e HTML. Infine, è bene avere ottime capacità di lavorare in team perché sarà necessario comunque coordinarsi con i vari dipendenti al fine di istruirli e lavorare all’unisono sulla sicurezza delle reti. Il suo ruolo è:

  • definire una strategia per la sicurezza aziendale personalizzata, cioè basata sulle reali esigenze, sulla struttura aziendale e sulla tipologia di dati che “corrono” in rete;
  • valutare rischi e minacce;
  • realizzare un piano di cyber security;
  • realizzare un piano di Incident Response, cioè di risposta ad eventuali attacchi hacker.

Chi è il CISO

Il  CISO Chief Information Security Officer affianca alla formazione del Cyber Security Manager elevate competenze anche in materia finanziaria, nella gestione aziendale e in campo amministrativo. Si tratta solitamente di un laureato in ingnegneria informatica che abbia seguito un percorso di formazione post laurea specifico attraverso master specifici. Tra i suoi compiti rientrano:

  • l’individuazione di falle e punti di vulnerabilità nella rete aziendale, cioè individuare quali punti del sistema aziendale possono essere più vulnerabili agli attacchi;
  • monitorare gli incidenti al fine di rispondere in modo adeguato agli attacchi e prevenirli;
  • definire le procedure per evitare attacchi alla cyber security.

In questa ottica appare evidente che la Cyber Security è importante non solo quando ci si trova di fronte ad aziende di grandi dimensioni, ma anche per le piccole e medie imprese. Certamente per costoro può rappresentare un costo non indifferente, ma una protezione adeguata dei dati è necessaria. Naturalmente la soluzione non sarà certo un dipendente dedicato a questo settore, ma la consulenza da parte dei professionisti visti.

Perché alle aziende conviene fare formazione continua?

In questi mesi si sta disegnando l’azienda del futuro e sarà a elevato valore tecnologico, indice di questa nuova prospettiva sono i vari fondi per le imprese che fanno innovazione, ad esempio il piano di transizione, il programma strategico sull’intelligenza artificiale. Proprio per questo motivo le imprese che vogliono restare sul mercato devono investire sull’innovazione, ma soprattutto devono investire sulla formazione continua del personale che sarà la chiave di svolta per poter utilizzare le nuove tecnologie e per ottenere fondi e agevolazioni. Al termine di questa analisi ci saranno i riferimenti per i vari piani.

Perché conviene investire nella formazione continua dei dipendenti?

E’ questo il momento di parlare dell’importanza della formazione del personale. Questa purtroppo per le aziende rappresenta un costo che non tutte possono permettersi, ma ad oggi è bene pensare a uno sforzo in più per fare tale investimento, anche utilizzando le risorse pubbliche, come quelle del Piano Strategico per l’intelligenza artificiale che prevede anche la formazione.

Aspetto psicologico della formazione

Il primo punto che in questo caso analizziamo è l’aspetto psicologico della formazione. Investire sulle competenze di un lavoratore vuol dire avere fiducia nelle sue capacità, investire sul capitale umano che per le aziende è sempre fondamentale, vuol dire anche garantire al lavoratore maggiori soddisfazioni perché un lavoratore spronato a migliorare se stesso, che ogni giorno può mettere in opera nuove competenze, che possiede maggiori skills, di fatto è un dipendente più felice e quando un dipendente arriva sul luogo di lavoro felice di esserci, produce di più, produce meglio, è più attento e si riducono anche gli infortuni, oltre ai permessi per malattia. Questo è sicuramente un aspetto da considerare.

Chi investe in formazione continua guadagna di più

Non solo questo, è stato dimostrato da vari sondaggi che le imprese che decidono di investire nella formazione registrano introiti più elevati. Ad esempio, una ricerca condotta nel 2011 su 2500 aziende che avevano fatto formazione ha fatto emergere che le stesse hanno avuto un incremento degli introiti del 24%. Da una ricerca condotta dall’Università La Sapienza di Roma è emerso che le aziende che investono in formazione riescono ad avere un aumento di fatturato 2-3 volte maggiore rispetto all’investimento in formazione. C’è quindi un rientro economico importante del capitale investito.

Dati importanti emergono anche dal XIX rapporto sulla formazione continua di ANPAL, si tratta dell’ultimo rapporto reso noto. Qui si sottolinea che le aziende che decidono di fare formazione in Italia sono ancora poche, nonostante le raccomandazioni dell’Unione Europea. A ciò si aggiunge una certa concentrazione della formazione nell’ambito delle lingue e questo in vista di una potenziale internazionalizzazione delle aziende. I lavoratori italiani che partecipano ad attività di formazione continua sono circa il 20% del totale e nel caso di lavoratori con competenze basse la percentuale scende addirittura al 9,5 %. I dati sono preoccupanti anche perché emerge che nei prossimi anni il 15,2% delle mansioni potrebbe essere completamente automatizzata, mentre il 35,5% subirà profonde trasformazioni dovute all’innovazione digitale.

Un dato preoccupante mette invece in correlazione la formazione e l’occupazione, infatti, emerge che nei prossimi anni in Italia serviranno 2,5 milioni di lavoratori, o meglio ci saranno 2,5 milioni di posti disponibili, ma di questi 800 mila potrebbero rimanere vacanti a causa della difficoltà per le aziende a trovare lavoratori con determinate competenze specifiche. Si calcola che serviranno soprattutto 280 mila super tecnici specializzati soprattutto nel settore dell’ingegneria.

Produttività e possibilità di carriera

Investire nelle capacità dei dipendenti e in nuove skills conviene a tutti, alle imprese consente di ampliare il know how interno e di avere personale specializzato senza dover procedere a nuove assunzioni e quindi con una riduzione dei costi. Dalle ricerche ANPAL e ISTAT emerge anche che avere dipendenti formati corrisponde anche a una maggiore produttività.

Allo stesso tempo la formazione continua dei dipendenti conviene anche a costoro che possono in questo modo restare nel mondo del lavoro e raggiungere anche posizioni apicali. Si è visto che il mondo del lavoro sorre veloce verso una elevata specializzazione di tutte le figure coinvolte e che proprio questa necessità riporterà in Italia molte aziende che avevano spostato la produzione all’estero per risparmiare su costi dei lavoratori. Avere un’adeguata formazione consentirà di evitare di perdere il lavoro, ma anche di avere stipendi più elevati, inoltre c’è una maggiore soddisfazione personale.

Investire in formazione è considerato talmente importante che vi sono finanziamenti specifici ad esempio c’è il piano Formazione 4.0 che rientra nel Piano Transizione 4.0. Inoltre si può accedere ai fondi interprofessionali.

In quali settori si svolge più formazione?

Il piano formazione mira a fornire soprattutto competenze digitali da applicare al settore del marketing, ma anche si settori produttivi, ad esempio catene di montaggio evolute con software di ultima generazione e naturalmente la formazione continua è necessaria nel settore dell’informatica.

Novità per le imprese: c’è il rifinanziamento del Fondo Nuove Competenze. I lavoratori vengono supportati nella formazione soprattutto per un maggiore uso della robotica, software per la gestione di big data, cyber security, sistemi di visualizzazione, realtà virtuale e realtà aumentata, internet of things, simulazione, interfaccia uomo-macchina.

Novità per le imprese: c’è il rifinanziamento Fondo Nuove Competenze

Dal MISE in arrivo 45 milioni di euro per innovazione tecnologica

Programma strategico sull’intelligenza artificiale: linee guida

Piano di Transizione 4.0 per ricerca e sviluppo: come accedere ai fondi

Come saranno le aziende del futuro? Analisi e aiuti sull’Industria 4.0 

Polizza cyber risk: a chi serve e come scegliere l’assicurazione migliore per proteggere i dati informatici

Il costante aumento delle connessioni di rete, sia per il lavoro che per il tempo libero, fanno incrementare anche i rischi legati agli incidenti sul web. Si tratta di un fenomeno che sta emergendo negli anni e che ha portato, ad oggi, i crimini informatici a diventare quasi un’emergenza a livello mondiale. Per questo stanno prendendo piede sul mercato delle polizze, dette “cyber risk” che tutelano cittadini e imprese per l’utilizzo che fanno del web e degli strumenti digitali dalla pirateria informatica.

Contesto globale degli attacchi informatici su web e per l’utilizzo di strumenti digitali

Il fenomeno degli attacchi cyber riguarda più l’Europa e l’Italia che il resto del mondo. Se a livello globale il cybercrime divora il 6% del Prodotto interno lordo (Pil), gli attacchi ai sistemi europei sono passati negli ultimi due anni dall’11% al 25% della totalità mondiale. Motivo per il quale le polizze assicurative stanno proponendo garanzie di tutela degli utenti della rete che coprono anche l’assistenza legale del sottoscrittore e della propria famiglia.

Cosa copre la polizza assicurativa cyber risk?

La polizza assicurativa cyber risk pertanto copre pertanto:

  • i costi e le spese per il ripristino dei propri dati;
  • l’assistenza legale;
  • l’offerta della garanzia Rc per tutto il nucleo famigliare del sottoscrittore per le perdite subite in modo involontario a causa di terzi e a seguito di un attacco informatico;
  • per alcuni pacchetti è prevista anche la garanzia per le perdite di denaro in conseguenza delle frodi di tipo informatico;
  • altri pacchetti offrono anche la copertura delle spese sostenute per il sostegno psicologico per fenomeni della rete quali ad esempio il bullismo;
  • l’assistenza di strutture dedicate in caso di attacco informatico.

A chi può servire la polizza cyber risk?

Per delineare il profilo di chi possa sottoscrivere la polizza assicurativa cyber risk è importante far riferimento ai dati e ai soggetti più a rischio degli attacchi informatici. Innanzitutto la finalità degli attacchi sul web è quasi sempre per estorcere del denaro. Dagli ultimi dati disponibili, nel nostro Paese gli attacchi a scopo di estorsione rappresentano l’88% del totale. La crescita recente è stata del 21%. Ma sono cresciuti anche gli attacchi collegabili a quella che viene indicata come la “guerra delle informazioni”. Le ultime rilevazioni segnalano un +18%. Sono diminuiti invece gli attacchi cosiddetti “di spionaggio cibernetico” che segnano un -36,7%. La diminuzione è dovuta, rispetto al 2020, essenzialmente alle contromisure allo spionaggio sui vaccini e sulle cure alla Covid-19.

A cosa prestare attenzione prima di stipulare una polizza cyber risk?

Le coperture offerte delle assicurazioni sui rischi informatici sono piuttosto recenti e in fase di rapido cambiamento, miglioramento e adattamento alle tipologie di attacchi. Prima di firmare una polizza cyber risk è pertanto indispensabile controllare molto accuratamente quali siano le garanzie prestate dalle assicurazioni. Può capitare, infatti, che alcune si limitino a risarcire solo i danni provocati a terzi. Altre polizze possono arrivare a coprire anche i danni subiti per aver perso i propri dati. Altre ancora offrono una copertura anche per le spese necessarie a ricostruire i dati a seguito del default informatico. Infine, altre polizze assicurano anche i danni patrimoniali derivanti da attacchi cyber. Si tratta di casi rientranti nei cosiddetti “phishing”, “troian” e “ransomware”.

Come farsi guidare nella scelta della migliore polizza assicurativa contro i rischi informatici?

In aiuto a famiglie e imprese nella scelta della migliore polizza assicurativa contro i rischi informatici possono competere figure particolarmente preparate sulla materia. Si tratta di agenti assicurativi e di broker. Se ci si affida a queste figure, è necessario farsi spiegare come si viene assistiti nel caso di un attacco informatico. E, inoltre, il modo in cui si affinano le tecniche per respingere possibili frodi dei pirati informatici.

Quali sono i settori più colpiti dai crimini informatici?

Un passaggio fondamentale nella scelta della migliore polizza assicurativa per i rischi informatici deriva anche dai dati sugli obiettivi dei pirati, sulle aree geografiche più colpite, sulle tecniche utilizzate e, soprattutto per le imprese, sui settori maggiormente colpiti. Nei primi sei mesi del 2021, rispetto al secondo semestre del 2020, gli attacchi gravi ai settori economici che hanno segnato numeri in forte rialzo sono stati:

  • attacchi al settore dei trasporti e stoccaggio, +108,7%;
  • servizi scientifici, tecnici e professionali, +85,2%;
  • informazione e multimedia, +65,2%;
  • commercio al dettaglio e all’ingrosso, +61,3%;
  • manifatturiero, +46,9%;
  • energia e servizi pubblici, +46,2%;
  • settore pubblico, +39,2%;
  • intrattenimento e arti, +36,8%;
  • sanità, +18,8%.

Confassociazioni Digital organizza convegno sulla cyber security

Il 2016 è stato un anno nero, anzi il peggiore, per quanto riguarda le minacce cyber e il loro impatto sulle persone, come testimonia l’undicesima edizione del Rapporto CLUSIT 2017 sulla sicurezza ICT in Italia.
Per questo motivo, è emersa l’urgente necessità di individuare i reali strumenti per affrontare e fronteggiare questo pericolo, tematica che dunque verrà affrontata nel convegno “Cyber Risk: tutti ne parlano, ma come si affronta davvero?”, organizzato per domani a Roma da Confassociazioni Digital in collaborazione con AIP, Associazione Informatici Professionisti presso la sede di Confindustria.

Andrea Violetti, presidente di Confassociazioni Digital, ha dichiarato in proposito: “I numeri parlano chiaro: 1.050 gli incidenti noti classificati come gravi, quindi con un alta incidenza di danno economico, reputazione e diffusione di dati sensibili. Cresce del 117% la guerra delle informazioni, mentre diventa a quattro cifre l’incremento degli attacchi compiuti con tecniche di phishing e social engineering (+1.166%). Il settore più colpito è la sanità (+102%), seguito dalla Distribuzione Moderna (+70%), dall’area finance e banche (+64%) e dalle infrastrutture critiche (+15%). Aumentano gli attacchi verso Europa e Asia mentre in termini assoluti a registrare il numero di attacchi più elevato degli ultimi 6 anni sono il cyber crime (+ 9,8%) e il cyber warfare (+117%). A registrare una lieve flessione verso il ribasso sono gli attacchi con finalità di cyber espionage (-8%) e cyber hacktivism (-23%)”.

Angelo Deiana, presidente di Confassociazioni, ha aggiunto: “Viviamo nell’era 4.0, dove velocità, rischio, incertezza sono dietro l’angolo. Ma dove ci sono anche tantissime opportunità. Dove prevale un nuovo stile di vita. Dove a vincere sono le persone che hanno la capacità di interconnettersi senza impoverirsi o guerreggiare, ma piuttosto arricchirsi di nuovi saperi. Un obiettivo questo che CONFASSOCIAZIONI, la rete delle reti, ha avuto chiaro fin dall’inizio e che manifesta ogni volta sia necessario come lo è il convegno del prossimo 23 giugno. Sviluppare le competenze, individuare i rischi, superarli piuttosto che sfuggirli e ampliare il più possibile la conoscenza sono i nostri driver. Perché è noto che il sapere, da qualsiasi prospettiva lo si guardi e lo si consideri, rende liberi ed efficienti”.

Ormai, c’è da dire, il tema della cyber security viene affrontato regolarmente, dalle aziende ma anche da politici e legislatori, e prova di ciò sono, ad esempio, “le nuove linee guida Agid sulle misure minime di sicurezza ICT per le pubbliche amministrazioni e sui profili di competenza dell’area digital; la Direttiva UE 2016/1148 recante misure comuni di sicurezza delle reti e dei sistemi informativi nell’Unione Europea; il nuovo Regolamento Europeo 2016/679 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali e alla libera circolazione dei dati e il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 17 febbraio 2017 sugli indirizzi per la protezione cibernetica e la sicurezza informatica nazionale”.

Vera MORETTI