Pos, dal 1° gennaio 2022 sanzioni a chi nega i pagamenti elettronici

Ritornano le sanzioni per i commercianti e professionisti che negano il pagamento con il Pos. La nuova stretta arriva dal decreto di attuazione del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza (Pnrr) che rilancia la lotta all’evasione fiscale attraverso i pagamenti elettronici. Il provvedimento porta la firma di Roberto Pella di Forza Italia e di Gian Pietro Dal Moro del Pd ed è stato approvato nella giornata del 13 dicembre alla Commissione Bilancio della Camera.

Commercianti e professionisti dal 1° gennaio 2022 sono obbligati ad accettare i pagamenti elettronici

In base al provvedimento normativo, dal 1° gennaio 2022 arriveranno sanzioni per i commercianti e per i professionisti che non accetteranno i pagamenti con carta di credito o con il bancomat. I pagamenti saranno relativi, dunque, sia per la vendita di beni che per la prestazione di servizi professionali.

Come si calcola l’importo della sanzione se non si accetta il pagamento con il Pos?

La sanzione amministrativa per i commercianti e i professionisti che dovessero rifiutare il pagamento elettronico sarà di 30 euro più il 4% dell’importo della vendita o del valore della prestazione. Si tratta di un provvedimento chiave nella lotta all’evasione fiscale. Peraltro, come specificato nell’emendamento, il commerciante e il professionista sono obbligati ad accettare almeno una tipologia di carta di credito o di carta di debito. Altri provvedimenti sono attesi anche per quanto riguarda il mancato rilascio dello scontrino o della fattura.

Lotta all’evasione fiscale come obiettivo del Pnrr

La lotta all’evasione fiscale rappresenta uno degli obiettivi del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza (Pnrr). Tra gli indicatori presi in esame a livello europeo per il rispetto del Piano, si fa riferimento al “tax gap”, ovvero alla quota del gettito che lo Stato non riesce a incassare a causa proprio dell’evasione fiscale. Sulla base degli ultimi dati disponibili, il tax gap è attualmente al 18,5%, percentuale che è già risultata in calo negli anni dal 2014 al 2019 del 3,6%. Ma il Pnrr chiede altri sforzi per ridurre questa percentuale.

Riduzione del mancato gettito entro il 2024: gli strumenti di lotta all’evasione fiscale

Infatti, tra gli obiettivi del Pnrr in tema di evasione fiscale, sono stati fissate le percentuali di riduzione del tax gap nei prossimi anni. La decurtazione dovrà essere di non meno del 5% entro il 2023 e di non meno del 15% al 2024. Un percorso alla portata del governo che, oltre all’accettazione dei pagamenti tramite la moneta elettronica, ha già individuato altri strumenti per la lotta all’evasione fiscale.

Gli strumenti di lotta all’evasione fiscale che potrebbero essere intensificati nel 2022

Tra questi strumenti che il governo metterà in campo per la lotta all’evasione fiscale rientrano:

  • la precompilata Iva;
  • l’utilizzo dell’anagrafe dei rapporti finanziari;
  • la revisione delle sanzioni per la mancata emissione dello scontrino fiscale;
  • l’accrescimento delle lettere di incentivo per l’adempimento spontaneo.

Su questi quattro strumenti il governo intensificherà il proprio lavoro nei primi sei mesi del nuovo anno.

 

Distribuzione in nero di utili ai soci: presunzione e cosa si rischia

Distribuire utili in nero ai soci di una società costituisce un reato, questo perché i redditi devono essere tassati e “far sparire” degli utili senza dichiararli, sottrae quote di imponibile, ma vediamo nel dettaglio cosa si rischia nel caso di distribuzione in nero di utili ai soci.

Come avviene la distribuzione degli utili ai soci

Nelle società di capitali vi è una netta separazione tra il patrimonio della società e quello dei soci, ne deriva che per dividere gli utili è necessaria una delibera dell’assemblea che stabilisce anche l’ammontare degli utili da dividere, tenendo comunque in considerazione i limiti previsti da legge. Ad esempio l’articolo 2430 del codice civile stabilisce l’obbligo di accantonare la riserva legale in misura del 5% degli utili fino al raggiungimento di una somma pari al 20% del capitale sociale.

La divisione degli utili subisce dei limiti anche nel caso in cui negli esercizi precedenti siano state registrate delle perdite, oppure ci siano in circolo delle obbligazioni societarie il cui ammontare è superiore al doppio del capitale sociale. Questi sono solo alcuni limiti. Gli utili societari vengono quindi tassati sia attraverso l’IRES, sia attraverso l’IRAP, ciò che resta può essere oggetto di divisione in favore dei soci però, nel momento in cui rientrano nella disponibilità dei soci, sono nuovamente tassati.

In questo caso, per gli utili prodotti fino al 2018, occorre differenziare tra soci con partecipazione non qualificata, cioè inferiore al 25% e soci con partecipazione qualificata. Nel primo caso al momento della distribuzione vi è un’imposizione sostitutiva al 12,5%, mentre nel secondo caso la tassazione va a sommarsi al reddito complessivo dichiarato dalla persona. In particolare si somma all’imponibile una quota pari al 49,72% dell’utile, questi importi si sommano agli altri redditi e si applica un’aliquota IRPEF che dipende dalla propria fascia di reddito. Questo per i redditi prodotti fino al 2018, per i redditi successivi si applica solo l’aliquota al 26% sia per le partecipazioni non qualificate, sia per quelle qualificate.

Per saperne di più sulla divisione degli utili leggi la guida: Ripartizione utili ai soci: come si dichiarano e come sono tassati.

Distribuzione in nero di utili ai soci

Questa è la situazione normale, mentre si è in una condizione patologica nel caso in cui una quota di utili sia oggetto di distribuzione in nero ai soci, al verificarsi di ciò è evidente che si è di fronte a un’evasione fiscale, trattata come tutti gli illeciti simili e cioè sanzionata, naturalmente è l’amministrazione finanziaria che deve occuparsi di scovare queste tasche di evasione fiscale, tranne i casi in cui trovino applicazione dei condoni fiscali e quindi ci sia una “autodenuncia”.

Per chi evade le imposte è prevista l’applicazione di sanzioni e interessi sugli importi dovuti, inoltre può configurarsi anche un reato penale.

Se vuoi conoscere le conseguenze di tale reato, leggi l’articolo: Reato penale di evasione fiscale: quando si verifica

Ciò che per l’amministrazione tributaria è sempre stato difficile è trovare tale evasione e provarla, proprio per questo nelle società a base ristretta, in particolare se la stessa è caratterizzata dalla presenza di persone con rapporto di parentela e coniugio, la giurisprudenza costante applica il principio di presunzione di divisione degli utili extracontabili ai soci, in questo modo riesce a recuperare le somme evase in modo semplice. Questo perché la ristrettezza della base sociale, soprattutto se formata da persone con rapporto di parentela, fa presumere, secondo la giurisprudenza, la conoscenza dell’esistenza di questi utili e quindi la complicità della divisione degli stessi in nero.

Naturalmente devono esservi dei presupposti per l’applicazione di questo principio e in particolare, nel caso in cui vi siano degli utili extra-contabili accertati, l’amministrazione finanziaria ritiene che gli stessi siano stati divisi tra i soci e di conseguenza invia l’avviso di accertamento ai singoli soci. Non solo, la giurisprudenza recente, con l’ordinanza 25501/2020 della Corte di Cassazione ha ravvisato la divisione degli utili in nero nel caso di recupero di costi inesistenti.

Come dimostrare l’assenza di distribuzione in nero di utili ai soci

L’applicazione di tale presunzione trova mitigazione nel principio secondo il quale i soci possono dimostrare l’assenza di tale divisione degli utili. Sappiamo però tutti che l’onere della prova contraria è abbastanza difficile da assolvere. Il contribuente potrebbe, ad esempio, dimostrare che in realtà gli utili hanno costituito investimenti nella stessa società e quindi non sono oggetto di distribuzione, oppure che costituiscono accantonamenti. Infine, il contribuente che riceve l’avviso di accertamento può dimostrare di essere in realtà estraneo alla gestione della società stessa.

La dottrina in verità ha sempre nutrito molti dubbi sulla prassi di presumere la divisione in nero di utili ai soci in presenza di utili extracontabili e la giurisprudenza negli ultimi anni sta dimostrando di sposare almeno in parte le titubanze della dottrina. Un punto molto controverso è la nozione di piccola società, o società con base ristretta in quanto il legislatore non ha fornito mai una definizione certa di tal “società”, quindi diventa importante capire quale possa essere il limite della definizione, in genere si ritiene che quando i soci non superano il numero di 5 persone si è di fronte a una società di capitali di piccola dimensione, ma è un criterio che non ha una reale base legislativa e questo può generare confusione e trattamenti differenti in situazioni similari.

La giurisprudenza

Qualche piccolo passo in senso contrario rispetto a tale presunzione di divisione degli utili ai soci in nero inizia quindi a vedersi, infatti la Corte di Cassazione in alcuni casi ha sottolineato che la ristretta base societaria è sicuramente un elemento che può far supporre una divisione in nero con conseguente evasione fiscale, ma da sola non è condizione sufficiente per un avviso di accertamento. Di conseguenza l’amministrazione finanziaria deve attivarsi al fine di trovare altri elementi presuntivi che, uniti alla ristretta base societaria, possano dimostrare che vi è stata questa occultazione di redditi. La Corte suggerisce che un elemento probatorio possono essere le movimentazioni sul conto corrente della società e in favore dei soci, oppure acquisti immobiliari equivoci.

Questo filone giurisprudenziale comprende l’ordinanza 923 del 20 gennaio 2016 in cui la Corte di Cassazione sottolinea che, se il contribuente prova attraverso estratti dei movimenti bancari che non vi sono flussi di reddito anomali, spetta all’amministrazione finanziaria fornire ulteriori prove che possano corroborare la tesi che vi sia stata una distribuzione in nero di utili ai soci.

Il caso concreto

Molto importante per il tema affrontato è l’ordinanza della Corte di Cassazione 18042 del 2018. In questo caso un neuropsichiatra risulta socio di un’attività di ristorazione insieme al figlio, in base a ciò l’amministrazione finanziaria emette un avviso di accertamento per il riscontro di utili in nero. Il professionista ha contrastato tale posizione affermando di essere in realtà estraneo a tale attività in quanto impegnato nella sua  professione che si svolge in tutt’altro settore. Il professionista ha ammesso movimento di denaro dal suo conto verso quello della società, ma questo non dimostra una partecipazione attiva nella società, ma semplicemente degli aiuti economici verso il figlio nell’avviare l’attività stessa. La Corte di Cassazione ha sposato tale tesi invalidando quindi l’avviso di accertamento.

Si evince da questa breve disamina  che negli ultimi anni vi è una sorta di inversione di tendenza e ricade sull’amministrazione finanziaria dare una prova concreta della distribuzione in nero di utili ai soci attraverso indizi che siano precisi e concordanti, non basandosi esclusivamente sulla presenza di utioli extra-contabili e base sociale ristretta.

Reato penale di evasione fiscale: quando si verifica?

Il reato penale di evasione fiscale è una particolare fattispecie che si verifica quando vi sono situazioni di particolare gravità che portano un grave danno all’erario. Naturalmente questa valutazione sulla gravità viene fatta a priori attraverso l’indicazione di soglie. In seguito una guida sul reato penale di evasione fiscale.

L’evasione fiscale: quando diventa reato penale

Il contrasto all’evasione fiscale è sempre stato uno degli obiettivi del Paese, ma di fatto non è semplice rincorrere i contribuenti e neanche i provvedimenti come il Saldo E Stralcio sono riusciti a migliorare la situazione. Naturalmente questo fenomeno può avere diverse portate, infatti spesso si tratta di piccole somme che l’erario tenta di recuperare in diversi modi, ma di fatto si tratta di eventi che per la loro tenuità non sono considerati reati. Quando, invece, il debito con l’erario, a causa di condotte volte ad occultare parte dell’imponibile, ha una rilevanza elevata, si è di fronte a un vero e proprio reato penale che come tale prevede anche la possibilità di applicare la sanzione detentiva.

Le soglie che tracciano la linea di demarcazione tra l’illecito amministrativo e il reato penale sono diverse, le stesse sono indicate nel decreto legislativo 74 del 2000Reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto” come modificato dalla legge di Bilancio 2020.

La prima cosa da dire è che esistono due tipologie di evasione:

  • quella di chi non effettua le dichiarazioni, oppure effettua dichiarazioni mendaci occultando parte dell’attivo oppure dichiarando spese superiori a quelle realmente sostenute con l’obiettivo di ridurre la base imponibile. In questo caso l’evasione diventa reato al raggiungimento delle soglie previste dalla legge;
  • quella di chi esegue le corrette dichiarazioni, ma poi non versa le somme dovute o le versa solo in parte. In questo caso siamo di fronte a reato solo in caso di omesso versamento dell’IVA e delle ritenute e al superamento delle soglie, mentre se il mancato versamento riguarda IRES, IRAP e IRPEF  il fatto non ha rilevanza penale.

Reato penale di evasione fiscale: quando si può contestare

Gli illeciti penali che possono essere contestati sono diversi:

Dichiarazione infedele

La dichiarazione infedele è contemplata nell’articolo 4 del decreto legislativo 74 del 2000 e prevede che commette il reato chiunque nelle dichiarazioni indica elementi passivi fittizi o elementi attivi per un ammontare inferiore a quello reale . La soglia per la configurazione del reato penale è un’evasione reale superiore a 50.000 euro, quando l’ammontare complessivo dell’attivo occultato è superiore al 10% rispetto a quanto effettivamente dichiarato o è superiore a 3 milioni di euro ( in passato la soglia era di 2 milioni di euro). Affinché si configuri il reato queste due condizioni devono essere entrambe presenti e la pena prevista è la detenzione da 2 a 4 anni e 6 mesi.

Dichiarazione fraudolenta

E’ prevista dall’articolo 2 del decreto 74/2000 e consiste nella falsificazione dei documenti attraverso la dichiarazione di spese non effettivamente sostenute o l’occultamento di parte dell’attivo alterando le scritture contabili. Naturalmente in tali operazioni vi deve essere un intento fraudolento e si tratta di una fattispecie di gravità superiore rispetto alla precedente.

In questo caso le soglie stabilite affinché si possa parlare di reato penale sono diverse, in particolare si ha reato penale se l’imposta evasa superi la soglia di 30.000 euro, oppure nel caso in cui il discostamento tra quanto dichiarato e l’attivo superi il 5%, quando le voci sottratte sono superiori a 1,5 milioni di euro; quando i crediti e le ritenute fittizie superano il 5% dell’attivo o superino i 30.000 euro. Per questa tipologia di reato è prevista la pena della reclusione da 4 a 8 anni. Ridotta da 1 anno a sei anni nel caso in cui l’ammontare dell’evasione sia inferiore a 100.000 euro.

Omessa dichiarazione

L’omessa dichiarazione è contemplata nell’articolo 5 del decreto si ha quando il contribuente entro i termini di scadenza previsti non ottemperi all’obbligo di effettuare la dichiarazione; è prevista una tolleranza di 90 giorni dal termine della scadenza. In questo caso la soglia del reato penale è di 50.000 euro di evasione e la sanzione è la reclusione da un minimo di 2 anni a un massimo di 5 anni.

Omesso versamento dell’IVA o delle ritenute

In questo caso la soglia oltre la quale si configura il reato penale è di 150.000 euro per ciascun periodo di imposta e la reclusione è da 6 mesi a 2 anni.

Emissione di false fatture

Il reato consiste nell’emettere fatture false al fine di ridurre la base imponibile e di conseguenza anche gli importi dovuti all’erario. In questo caso il reato è considerato di grave entità proprio per questo non sono previste soglie, basta anche una sola fattura relativa ad operazioni non compiute effettivamente per far scattare l’illecito penale. La sanzione prevista è la reclusione da 4 anni a 8 anni (art 8 d.lgs 74/2000).

Occultamento e distruzione di documenti

Anche nel caso di occultamento e distruzione di documenti che il contribuente ha l’obbligo di conservare  al fine di consentire la ricostruzione del volume di affari o del reddito, non si applica alcuna soglia. Di conseguenza basta la distruzione anche di uno dei libri contabili per avere la configurazione del reato penale punibile con la reclusione da 6 mesi a 5 anni.

Reato penale di evasione fiscale: note finali

Tra le note finali occorre ricordare che i reati penali sono di tipo personale, quindi la pena deve essere inflitta alla persona fisica, ciò implica che nel caso di società o altri enti collettivi la sanzione viene applicata alla persona fisica che ha la rappresentanza legale dell’ente stesso o alla persona a cui è imputabile il reato.

Fin qui abbiamo visto in generale quando l’evasione fiscale si tramuta in un reato penale. Ora vedremo che vi sono comunque delle esimenti. Anche in questo caso infatti è esclusa la punibilità del fatto in alcuni casi. In particolare la Corte di Cassazione ha escluso la reclusione nel caso in cui il discostamento dalle soglie viste sia di lieve entità. Naturalmente nei confronti del fisco è necessario comunque sanare la propria posizione.

Non solo, vi sono dei fatti che portano alla non punibilità del fatto, si tratta in linea generale di fatti che fanno propondere per l’assenza di intento fraudolento da parte del contribuente. In particolare non è punibile il reato di evasione fiscale quando il mancato pagamento è addebitabile a terzi che secondo l’ordinaria diligenza potevano essere ritenuti affidabili da parte del contribuente. Il reato non è punibile quando dovuto a forza maggiore; obiettiva incertezza riguardo alle disposizione inerenti un determinato tributo; ignoranza della legge tributaria non addebitabile al contribuente.

L’articolo 6 del decreto 74 stabilisce anche che non è punibile il tentativo di reato.

Infine, anche l’evasione fiscale, come altri reati penali, è sottoposto a prescrizione. I termini della stessa dipendono dal singolo reato.

Lotteria degli scontrini: l’esercente che non si adegua cosa rischia?

Come tutti sanno, è partita la lotteria degli scontrini, attraverso la quale sarà possibile per centinaia di italiani ottenere vincite, grazie allo scontrino fiscale, di acquisti effettuati senza denaro contante. Un incentivo per effettuare acquisti con carte digitali che però non ha visto ancora del tutto adeguarsi gli esercenti. Ma cosa rischia chi rifiuta la procedura?

Cosa accade se un negoziante non si adegua?

E’ un brutto periodo per tantissimi settori commerciali, causa Pandemia da Covid-19, come tutti ormai sappiamo, motivo per cui il nuovo sistema in vigore da alcuni mesi, cerca di incentivare acquisti con carte fisiche e acquisizioni di codici digitali, attraverso una lotteria degli scontrini che mette in palio premi in denaro grazie alle ricevute fiscali di acquisti effettuati, appunto, senza l’utilizzo di denaro contante.

Ma non tutti gli esercenti si sono adeguati, anche perché non tutti hanno voluto modernizzare la propria cassa, rendendola disponibile di lettore ottico. E, quindi, ci si chiede cosa accade a chi non si è adeguato?

Sostanzialmente, al momento, sembrerebbe che non siano previste multe e nemmeno sanzioni per coloro che non si sono adeguati al nuovo meccanismo. Ovviamente, molteplici sono stati i disagi, incentivati a maggior ragione della situazione attuale, da chi ha acquisito il materiale ma ha avuto carenza di tecnici per applicarlo, a chi non ha potuto procedere al “ringiovanimento” della propria cassa.

Il consumatore, in tutto ciò rischia di rimanere come un pesce fuor d’acqua, costretto in molti casi a dover utilizzare ancora il vecchio (e mai tramontato) sistema di pagamento in contanti e non poter quindi beneficiare della possibilità di vincita con la lotteria dello scontrino.

Nel prossimo periodo, però, probabilmente già a partire dalla fine di marzo, i consumatori potranno segnalare l’esercente che non ha trasmesso il codice d’acquisto all’agenzia delle entrate, che potrà quindi effettuare verifica sul negoziante.

Importante, prima di sperare nella vincita della suddetta lotteria degli scontrini, che il consumatore verifichi che la procedura di acquisto e rilascio del codice digitale siano andati a buon fine, prima di lasciare il negozio. Come si è già abituati fare in altre pratiche di transizione, come con una ricarica telefonica ad esempio.

Evasione fiscale ancora elevata in Italia

La lotta all’evasione fiscale , se ha dato buoni frutti con il recupero di 6 miliardi in un solo anno, è più viva e agguerrita che mai, poiché purtroppo non è arrivato ancora il momento di abbassare la guardia.
Le notizie, infatti, continuano a non essere particolarmente incoraggianti, poiché ad oggi, a seguito della non corretta dichiarazione dei redditi, ci sono ancora 93,2 miliardi di euro di imponibile evaso, e sono imputabili alle imprese e alle partite Iva.
Questo significa che l’incidenza dell’evasione attribuibile alle aziende sul totale del valore aggiunto prodotto dall’economia non osservata è pari al 44,9%. Un altro 37,3% è riconducibile al lavoro irregolare e un ulteriore 17,8% è ascrivibile alle attività illegali e ai fitti in nero.

Considerando le aziende, il settore in cui l’evasione è maggiormente diffusa è quella dei servizi professionali, che comprendono attività legali e di contabilità, attività di direzione aziendale e di consulenza gestionale, studi di architettura e di ingegneria, collaudi e analisi tecniche, altre attività professionali, scientifiche e tecniche e servizi veterinari.

Evasione che riguarda in particolare le libere professioni, al 16,2%, seguite da commercio all’ingrosso e al dettaglio, trasporti, alloggi e ristorazione (12,8) e quella riferita alle costruzioni (12,3).
Evasione fiscale più contenuta per i servizi alle persone (8,8%), nella produzione di beni alimentari e di consumo (7,7%), nell’istruzione e nella sanità (3,9%), negli altri servizi alle imprese (2,8%), nella produzione di beni di investimento (2,3%) e nella produzione di beni intermedi, energia e rifiuti (0,5%).

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, ha dichiarato: “Per combattere questa piaga sociale ed economica la strada da percorrere è una sola: ridurre il peso del prelievo fiscale e rimuovere i numerosi ostacoli burocratici che condizionano, di fatto, coloro che ogni giorno fanno impresa. In altre parole: pagare meno per pagare tutti. Ovviamente gli evasori seriali vanno perseguiti e messi nelle condizioni di non farlo più, ma attenzione a non fare di tutta l’erba un fascio. Purtroppo, esiste anche un’evasione di sopravvivenza, decisamente aumentata con la crisi, per cui non pagare le imposte ha consentito in questi ultimi anni la salvaguardia della continuità aziendale e dei posti di lavoro”.

Dal punto di vista territoriale, c’è più rischio nel Mezzogiorno (7,6 %). Seguono il Centro (6,5%), il Nordest (6%) e il Nordovest (5,4%).

Considerando le regioni, invece, il Molise la regione con la quota più elevata (8,4%), seguono l’Umbria, Marche e Puglia (8,3%), Campania (7,7%), Abruzzo e Calabria (7,6%) e Sicilia e Toscana (7,3%). Al contrario, il Friuli Venezia Giulia (5,8%), il Lazio (5,3%), la Lombardia (5%), la provincia autonoma di Trento (4,9%) e quella di Bolzano (3,9%) sono i territori che presentano un rischio evasione più contenuto.

Ha aggiunto Renato Mason: “È verosimile ipotizzare che con meno tasse da pagare, si registrerebbe una decisa emersione di base imponibile tale da consentire al nostro fisco di concentrare le attività di contrasto nei confronti dei comportamenti fiscali più insidiosi. Ovvero quelli praticati dalle grandi imprese e da molte multinazionali che hanno spostato le sedi fiscali nei Paesi con una marcata fiscalità di vantaggio”.

Vera MORETTI

Nell’ultimo anno diminuita l’economia sommersa

Ancora nel 2015 l’economia sommersa è stata valutata 190.474 milioni di euro, pari all’11,5% del PIL. Di questa cifra, il 48,9% è rappresentata dalla sottodichiarazione, mentre un altro 40,6% deriva dal lavoro irregolare e il rimanente 10,4% è rappresentato, ad esempio, dalla riconciliazione delle stime indipendenti dell’offerta e della domanda di beni e servizi e dalla valutazione degli affitti in nero.
All’economia sommersa si aggiungono 17.099 milioni di attività illegali, componendo il totale dell’economia non osservata pari a 207.573 milioni di euro.

Nell’ultimo anno, invece, il valore aggiunto dell’economia sommersa è diminuito del 2,8%, pari a 5.531 milioni di euro in meno.
Si tratta di una diminuzione determinata dal calo del 6,4% rilevato per le sottodichiarazione delle imprese, con una riduzione in valore assoluto di 6.328 milioni.
Un contributo positivo, seppure inferiore, deriva dal calo dello 0,9% del lavoro irregolare, con 685 milioni in meno, mentre crescono dell’8,1% le altre voci con 1.481 milioni in più.

Considerando i diversi settori, si nota che il peso della sottodichiarazione sul valore aggiunto è più che doppio rispetto alla media del 6,3% per i Servizi professionali (16,2%), seguiti da Commercio all’ingrosso e al dettaglio, trasporti e magazzinaggio, attività di alloggio e ristorazione (12,8%) e Costruzioni (12,3%); al contrario il Manifatturiero esteso mostra un peso sul valore aggiunto pari al 3,6% e quindi quasi dimezzato rispetto della media.

Relativamente alla dinamica della sottodichiarazione, il calo è diffuso ed il solo comparto in cui aumenta è Istruzione, sanità ed assistenza sociale (+2,5%) mentre le diminuzioni più intense si registrano per Produzione di beni intermedi, energia e rifiuti (-14,4%), Produzione beni di investimento (-11,9%) e Servizi alle imprese (-11,1%).

Cresce inoltre l’evasione riconducibile alla fiscalità internazionale: nostre analisi hanno evidenziato che la base imponibile evasa è pari nel 2015 a 30.797 milioni di euro, in crescita del 29,9% rispetto ad un anno prima.

Vera MORETTI

L’INT alla Commissione Evasione Fiscale del MEF

Giuseppe Zambon, nella sua duplice veste di Consigliere dell’INT e di coordinatore della Commissione Fiscalità, è intervenuto alla Commissione Evasione Fiscale MEF presieduta da Enrico Giovannini, tenutasi presso il Ministero dell’Economia, per discutere dello spinoso problema dell’economia non osservata e dell’evasione fiscale e contributiva.
Presenti al dibattito erano, ovviamente, le associazioni di categoria, gli ordini professionali, le organizzazioni sindacali e le associazioni familiari.

In quell’ambito, Enrico Giovannini ha dichiarato: “In vista della preparazione della Relazione di quest’anno la Commissione sta svolgendo numerose attività volte sia ad allargare lo spettro delle voci prese in considerazione, sia a migliorare le metodologie di stima, così da produrre dati sempre più accurati e dettagliati, vorremmo raccogliere osservazioni e suggerimenti da parte vostra, per migliorare la qualità dei dati e della Relazione”.

Zambon, dal canto suo, ha aggiunto: “Purtroppo la farraginosità legislativa, le modifiche normative troppo frequenti, quali i vari spesometri, le trasmissioni di liquidazioni IVA trimestrali, le trasmissioni dei dati più disparati all’Anagrafe tributaria con la finalità dichiarata di agevolare i contribuenti nella compilazione della dichiarazione dei redditi (ma di fatto utilizzati giustamente anche a fini accertativi) oltre alla limitazione nell’utilizzo dei crediti che ora vedono l’obbligo di apposizione del visto di conformità sopra i 5.000 euro (obbligando di fatto a maggiori costi anche i privati che affrontano rilevanti interventi di ristrutturazione e di risparmio energetico, in parte disincentivandoli), portano sicuramente ad un maggior controllo, ma anche inevitabilmente ad un aumento della propensione all’evasione ed alla perdita di credibilità del sistema fiscale italiano. Una credibilità che l’Amministrazione tributaria continua a perdere anche a causa del fatto che gli innumerevoli dati che le vengono forniti dai contribuenti tramite gli intermediari fiscali autorizzati, spesso, non sono condivisibili tra i vari settori della Pubblica Amministrazione per le differenti piattaforme informatiche utilizzate e di fatto ciò vanifica l’annuncio “semplificazione” e riduce la possibilità di controllare i comportamenti dei contribuenti. Se si vuole porre mano a delle iniziative anti evasione efficaci, è assolutamente necessaria una tregua normativa di durata “importante”, solo in questo modo si potrà valutare anche l’ipotesi di semplificare “veramente” e non solo a parole, la macchina fiscale, magari anche tornando indietro su scelte già fatte più di natura burocratica che di politica tributaria, non proprio condivise dai contribuenti e dai professionisti del settore”.

Vera MORETTI

Evasione fiscale? Gli enti locali dormono

L’ evasione fiscale è una piaga mortale per l’economia italiana e, se la lotta a questo male non comincia a partire dal basso, c’è poco da star sereni.

Dal basso significa anche dai comuni, dove spesso l’ evasione fiscale sui tributi erariali raggiunge livelli preoccupanti. Peccato che la collaboratività degli enti locali, stando a quanto rilevato dalla Cgia, sia tutt’altro che elevata.

Stando ai dati diffusi dall’associazione degli artigiani, solo il 7% dei Comuni italiani si è attivato per contrastare l’evasione fiscale, stando agli ultimi dati disponibili, relativi al 2014.

Su poco più di 8mila comuni italiani, solo 550 hanno instaurato una collaborazione attiva con l’Amministrazione finanziaria, diminuendo però il numero degli accertamenti sui tributi erariali.

Se il picco massimo, segnala la Cgia, è stato ottenuto nel 2012 (3.455 accertamenti), nel 2013 si è scesi a 2.916, nel 2014 a 2.701 e nel 2015 a 1.970.

Le somme recuperate dall’ evasione fiscale sono comunque in netta crescita, poiché cresce in parallelo l’incentivo economico riconosciuto agli enti locali per la loro partecipazione agli accertamenti fiscali.

Nel 2011, infatti, i Comuni hanno ricevuto 2,9 milioni, nel 2012 quasi 11 milioni, nel 2013 oltre 17,7 milioni e nel 2014 ben 21,7 milioni di euro.

La crescita del gettito – commenta il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeoè aumentata perché è stata incrementata l’aliquota riconosciuta dal legislatore ai Comuni sulle maggiori entrate tributarie recuperate dall’accertamento a cui hanno collaborato, in quanto originariamente la quota riconosciuta ai sindaci era del 30%, nel 2010 è stata innalzata al 33% e nel 2011 al 50%. Infine, per gli anni dal 2012 al 2017 è stata elevata al 100%”.

Si segnalano particolarmente attivi nella lotta all’ evasione fiscale i sindaci dell’Emilia Romagna e della Lombardia: nel 2014, gli enti locali di queste due regioni hanno assicurato oltre i due terzi dell’intero incasso recuperato dai Comuni a livello nazionale.

Al Sud l’attività di contrasto all’ evasione fiscale da parte dei sindaci è stata pressoché nulla. Ad eccezione delle amministrazioni delle Regioni a statuto speciale, non incluse nella elaborazione della Cgia, tra i comuni capoluogo di provincia del Sud solo Reggio Calabria, Vibo Valentia, Pescara, Teramo, Salerno, Lecce e Benevento hanno avviato delle segnalazioni agli uomini del fisco.

I principali ambiti d’intervento per i quali i comuni possono effettuare “segnalazioni qualificate” a contrasto dell’ evasione fiscale rientrano in cinque macro aree:

  1. Commercio e professioni;
  2. Urbanistica e territorio;
  3. Proprietà edilizie e patrimonio immobiliare;
  4. Residenze fittizie all’estero;
  5. Disponibilità di beni indicativi di capacità contributiva.

Amaro il commento del segretario della Cgia, Renato Mason: “Ci sono ancora moltissime persone completamente sconosciute al fisco che continuano a nascondere quote importanti di valore aggiunto. Non dimentichiamo, poi, il mancato gettito imputabile alle manovre elusive delle grandi imprese e alla fuga di alcuni grandi istituti bancari e assicurativi che hanno spostato le sedi fiscali nei Paesi con una marcata fiscalità di vantaggio per pagare meno tasse”.

Esenzione canone Rai, ecco l’autocertificazione

La scorsa settimana su Infoiva ci siamo occupati con dovizia di particolari della vicenda del canone Rai in bolletta. Uno degli aspetti di cui abbiamo parlato è stata l’autocertificazione per dichiarare di non possedere un apparecchio tv e di non essere, per questo, soggetti al pagamento del canone Rai.

Ora, per quanto riguarda questo ultimo aspetto, con provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 24 marzo 2016, sono stati definiti modalità e termini di presentazione della dichiarazione sostitutiva per autocertificare di non possedere un apparecchio televisivo.

Ricordiamo che la Legge di Stabilità 2016 ha introdotto la presunzione di possesso dell’apparecchio televisivo nel caso in cui esista un’utenza elettrica nel luogo dove il soggetto risiede anagraficamente, così da comportare il pagamento del canone Rai.

Il modello di dichiarazione sostitutiva deve essere presentato direttamente dal contribuente o dall’erede attraverso un’applicazione sul sito internet delle Entrate (disponibile dal 4 aprile), utilizzando le credenziali Fisconline o Entratel rilasciate dall’Agenzia, oppure attraverso gli intermediari abilitati.

Qualora non sia possibile l’invio telematico, il modello può essere inviato, insieme a un documento di riconoscimento valido, tramite raccomandata senza busta all’indirizzo Agenzia delle Entrate Ufficio di Torino 1, S.A.T. – Sportello abbonamenti tv – Casella Postale 22 – 10121 Torino.

Per il 2016, primo anno di applicazione del pagamento del canone Rai in bolletta, la dichiarazione sostitutiva avrà effetto per l’intero canone 2016 se viene presentata tramite raccomandata entro il 30 aprile, oppure per via telematica entro il 10 maggio 2016.

La dichiarazione presentata attraverso raccomandata dall’1 maggio 2016 ed entro il 30 giugno 2016, oppure in via telematica dall’11 maggio 2016 al 30 giugno 2016, avrà effetto per il canone Rai dovuto per il semestre luglio-dicembre 2016. La dichiarazione presentata dall’1 luglio 2016 al 31 gennaio 2017 avrà effetto per l’intero canone dovuto per tutto l’anno 2017.

Il canone Rai? Si paga doppio

Ci hanno raccontato fin da subito, per provare ad addolcire una pillola amara, che con la genialata del canone Rai in bolletta avremmo risparmiato sull’odioso balzello pagando, per il 2016, solo 100 euro tondi anziché i 113 e rotti dello scorso anno. Ora scopriamo che le cose non stanno proprio così.

I contribuenti, infatti, rischiano di pagare due volte il canone Rai: la prima, con l’imposta vera e propria in bolletta, la seconda, come una sorta di contributo alle società elettriche per i costi che sosterranno per la riscossione degli importi e il conseguente giro di questi ultimi all’Erario.

Se da un lato, infatti, nel nome di una sacrosanta lotta all’evasione fiscale il canone Rai è stato infilato nella bolletta elettrica, dall’altro per le società che gestiscono il servizio elettrico l’attività di riscossione avrà un costo, soprattutto in termini di risorse e di persone da destinare al coordinamento delle informazioni provenienti dal Fisco con quelle provenienti dai contribuenti.

Fin da subito le società elettriche non hanno nascosto il malumore, se non la vera e propria irritazione, per dover svolgere un servizio non richiesto. Visto che non abbiamo mai chiesto di farlo, è il loro ragionamento, non ci vogliamo mettere un euro; men che meno vuole fare lo Stato, girando parte del canone alle compagnie elettriche a copertura dei costi.

Un situazione che smaschera la leggerezza con la quale è stata gestita la questione del canone Rai in bolletta. Lo Stato ha infatti caricato sulle spalle dei privati un onere senza preoccuparsi di capire insieme a loro se l’operazione sarebbe stata economicamente sostenibile. Evidentemente non lo era.

Chi paga dunque? Il contribuente, ovvio! Nella bozza di decreto che regola l’attuazione delle norme contenute in legge di Stabilità e dedicate al canone Rai si ipotizza che alle imprese elettriche venga versato un contributo forfettario di 14 milioni per il 2016 e altrettanti per il 2017, a copertura dei costi della riscossione del canone Rai; 28 milioni che arriveranno dall’Agenzia delle Entrate, ovverosia dai contribuenti, secondo quanto denuncia il responsabile delle politiche energetiche della Cgil, Antonio Filippi.

E quindi ci risiamo. È intelligente e opportuno che il contrasto all’evasione fiscale sia fatto, dove non arriva l’amministrazione tributaria, utilizzando il soldi dei contribuenti onesti per ripianare i buchi fatti dai furbetti? Evidentemente per qualcuno al governo sì. Del resto, la situazione legata al canone Rai è lo specchio, in piccolo, di quanto accade da sempre in Italia con il Fisco: gli onesti pagano due volte, per se stessi e per i disonesti.