Liquidazione giudiziale e fallimento: presupposti soggettivi e oggettivi

Il 16 maggio 2022, dopo diversi rinvii, l’ultimo ad opera del decreto legge 118 del 2021, entra in vigore il Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza (decreto legislativo 14 del 2019 su legge di delega 155 del 2017) naturalmente questo porta delle novità, vi sono però anche delle conferme, una delle novità è la scomparsa all’interno del codice dei termini “fallito” e “fallimento”, si parla ora di liquidazione giudiziale, restano però fermi i presupposti che possono dar luogo a questa procedura volta a tutelare i creditori nel caso in cui l’imprenditore commerciale si trovi in un grave stato di insolvenza. Vediamo quindi ora i presupposti della liquidazione giudiziale, da intendere come il precedente “fallimento”.

Cos’è la liquidazione giudiziale

La procedura di liquidazione giudiziale (prima fallimento) è una procedura di tipo concorsuale e viene messa in atto al fine di tutelare i creditori cercando di assicurare a questi un trattamento paritario (ricordiamo però che i creditori assistiti da una garanzia sono maggiormente tutelati). Si tratta inoltre di una procedura che comprende tutti i beni e il patrimonio del debitore e può iniziare anche d’ufficio ( ma non è possibile dichiarare il fallimento d’ufficio, cioè senza una preventiva procedura di accertamento), oppure su istanza di parte . A questo punto una precisazione è necessaria, si è detto che il debitore risponde con tutti i suoi beni, ma nelle società di capitali vi è la separazione del patrimonio del socio e del patrimonio della società e si risponde esclusivamente con il patrimonio della società.

Requisiti soggettivi per l’apertura della procedura di liquidazione/fallimento

Ritornando ai presupposti della dichiarazione di liquidazione giudiziale, essi possono essere divisi in presupposti soggettivi ed oggettivi. Per quanto riguarda i primi possono essere sottoposti alla procedura di fallimento imprenditori commerciali che esercitano attività commerciale esclusi però gli enti pubblici economici.

Naturalmente in questo modo la definizione appare un po’ generica, in primo luogo può trattarsi di imprenditori individuali, oppure società commerciali. Formalmente sono esclusi dalla possibilità di fallire gli imprenditori agricoli, ma di fatto, vista l’applicabilità dell’articolo 182 bis della legge fallimentare che disciplina gli accordi di ristrutturazione dei debiti e l’articolo 182 ter che invece si occupa della transazione fiscale, si può dire che anche l’imprenditore agricolo oggi può essere sottoposto a procedure concorsuali.

Per quanto riguarda i presupposti soggettivi, devono essere operate ulteriori esclusioni, infatti la legge fallimentare, e il nuovo Codice della crisi di impresa non è intervenuto su ciò, stabilisce che non è sottoposto a procedura fallimentare l’imprenditore commerciale che:

  • nei 3 esercizi precedenti rispetto a quello del deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività, se inferiore a 3 anni, abbiano un attivo patrimoniale non superiore a 300.000 euro;
  • se, nello stesso periodo visto in precedenza l’imprenditore abbia “in qualunque modo” ricavi lordi di ammontare non superiore a 200.00 euro;
  • l’ammontare dei debiti non scaduti non superi 500.000 euro.

Per non essere soggetti a fallimento però questi 3 requisiti devono essere presenti congiuntamente. Spetta inoltre al debitore dimostrare la presenza dei tre requisiti visti.

Presupposti oggettivi per fallimento /liquidazione giudiziale

Il presupposto oggettivo affinché si possa procedere alla dichiarazione di fallimento o liquidazione giudiziale è la presenza di un grave stato di insolvenza e l’incapacità dell’imprenditore commerciale di far fronte alle proprie obbligazioni, non basta quindi il mancato pagamento di un debito a far aprire la procedura.

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che deve trattarsi di una situazione strutturale e non transitoria che renda impossibile far fronte alle obbligazioni con mezzi normali in quanto siano venute meno le condizioni di liquidità e la possibilità di ottenere credito. Possono essere sintomo di stato di insolvenza i continui inadempimenti, inoltre sono da considerare indizi: la fuga dell’imprenditore commerciale, la sua irreperibilità, la chiusura dei locali dell’azienda e tutti quegli indici concordanti che possono far pensare comunque a una situazione di difficoltà.

Dal momento in cui viene richiesta la dichiarazione di fallimento e la sua reale dichiarazione non può intercorrere più di un anno, questo per evitare che l’imprenditore commerciale resti per lungo tempo bloccato da questa procedura come comunque inibisce azioni.

L’imprenditore defunto può essere dichiarato fallito solo nel caso in cui l’insolvenza sia risalente a un periodo antecedente rispetto alla morte. La richiesta in questo caso può essere fatta anche dall’erede che abbia accettato l’eredità con il beneficio dell’inventario. Nel caso in cui l’apertura della procedura sia successiva alla morte, la procedura continua nei confronti degli eredi, ciò anche nel caso in cui abbiano accettato l’eredità con il beneficio dell’inventario.

Se vuoi saperne di più sulla nuova disciplina della liquidazione giudiziale e sul Codice della crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, leggi l’articolo: Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza: cos’è la crisi d’impresa

Codice della Crisi d’impresa e dell’Insolvenza: cos’è la crisi d’impresa

Sebbene, per effetto del D.L. 118 del 2021, sia prevista un’entrata in vigore scaglionata, il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza sta per segnare importanti novità con il superamento della datata Legge Fallimentare.

Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza

Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza è contenuto nel decreto legislativo 14 del 2019, l’obiettivo è armonizzare le varie norme che nel tempo si sono susseguite in materia. Diciamo fin da subito che è prevista un’entrata in vigore scaglionata, la stessa è iniziata il 25 agosto 2021 e terminerà il 31 dicembre 2023, ma sicuramente la definizione di crisi di impresa fin da ora aiuta gli “attori” a eliminare dei dubbi. Tra le novità importanti di questo decreto vi è il fatto che all’articolo 2 comma 1 lettera A viene finalmente data una definizione allo stato di crisi, cosa che non era invece prevista in tutta la normativa in materia che nel tempo si era susseguita.

La norma citata stabilisce che si è di fronte a uno stato di crisi dell’impresa quando “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate’’.

Unione Europea: è essenziale armonizzare la disciplina della crisi d’impresa

L’inserimento di un’indicazione chiara su cos’è una crisi d’impresa si è resa necessaria anche in virtù di diverse direttive emanate in un decennio dell’Unione Europea, tra cui da ultima: la Direttiva 2019/1023/UE che richiede un’armonizzazione minima della materia a livello europeo, tenendo però in considerazione che a livello europeo predomina la cultura della prevenzione e del salvataggio delle aziende in crisi concedendo alle imprese anche una seconda opportunità. In questo caso di parla anche di rescue culture, principio però fortemente contrastato dalla Germania che ritiene tale atteggiamento errato in quanto potrebbe danneggiare anche le aziende sane, in una sorta di contaminazione economica.

L’obiettivo delle direttive è addivenire a una tempestiva e rapida ristrutturazione delle aziende in crisi anche al fine di non danneggiare i creditori, inoltre l’Unione Europea sollecita un’armonizzazione degli ordinamenti in materia per evitare il Forum Shopping, cioè una pratica attraverso la quale le parti possono scegliere presso quale tribunale incardinare un’azione legale al fine di scegliere l’ordinamento che più di altri possa dare una risposta favorevole rispetto alle proprie istanze.

Confusione della disciplina antecedente

La prima cosa da notare è che nel nuovo Codice non è presente una connotazione negativa allo stato di crisi di un’impresa, cioè non si parla più di fallimento e si supera quel senso di “vergogna sociale” che da sempre nel nostro ordinamento ha caratterizzato l’imprenditore che non riusciva a far fronte agli impegni economici della sua attività.

Capire cos’è la crisi d’impresa è molto importante anche perché nella legge fallimentare in vigore attualmente non viene tracciata una netta separazione tra essa e lo stato di insolvenza, con la conseguenza che è il giudice di volta in volta a dover valutare se ci si trova di fronte a una crisi di impresa con la possibilità di mettere in atto degli strumenti di salvataggio oppure se ci si trova di fronte a uno stato di insolvenza che non rende possibile nessuna manovra.

Sentenze importanti

La prima separazione tra questi due concetti, cioè crisi d’impresa e stato di insolvenza può essere ricavata dalla sentenza del 5 settembre 2008 n° 287 del Tribunale di Milano e che stabilisce lo stato di insolvenza di Alitalia, dichiarato in seguito a un esame prospettico della situazione che portava a ritenere che non vi fosse possibilità di alcun miglioramento della situazione anche tenendo in considerazione il prezzo del petrolio e la crisi economica in atto. Per la prima volta si ha una visione in prospettiva futura.

Segue la sentenza della Corte di Cassazione del 20 novembre 2018, n. 29913 che ha definito lo stato di insolvenza come una condizione irreversibile con impossibilità per l’impresa di continuare e restare sul mercato “fronteggiando con mezzi normali le obbligazioni”, anche in questo caso il giudice applica uno sguardo prospettico per determinare se l’impresa ha una qualche possibilità di ritornare in attivo. In caso di insolvenza si apre quindi la strada alla procedura per il concordato fallimentare.

Se vuoi sapere come funziona leggi l’articolo: Concordato Fallimentare: la procedura da seguire per ottenerlo.

Definire in modo puntuale lo stato di crisi di un’impresa e l’insolvenza ha anche risvolti pratici, infatti le imprese che si trovano in situazioni particolari, ad esempio concordato preventivo, amministrazione controllata, fallimento, liquidazione non può accedere agli aiuti di Stato e agli aiuti in regime de minimis.

Se vuoi sapere cosa sono gli aiuti de minimis leggi l’articolo: aiuti de minimis: cosa sono, ammontare e come ottenerli.

Tra le novità importanti vi è l’introduzione della piattaforma unica nazionale di accesso su cui sarà disponibile anche il test di autodiagnosi che ogni impresa può utilizzare per determinare se vi sono i presupposti oggettivi per aprire lo stato di crisi dell’impresa e quindi accedere a piani di ristrutturazione. Il decreto che determina i criteri per realizzare tali infrastrutture deve essere preparato entro il 24 settembre 2021 dal ministero della Giustizia

Crisi d’impresa in senso aziendalistico

Fino ad ora abbiamo considerato lo stato di crisi d’impresa dal punto di vista giuridico, questo è senz’altro importante perché per l’impresa che si trova in tale fase è possibile applicare diversi “correttivi” il cui obiettivo è aiutare l’impresa ad uscire dalle difficoltà, salvando così anche posti di lavoro, ad esempio è possibile applicare il concordato preventivo, accordi stragiudiziali, piani di risanamento, accordi di ristrutturazione. La nozione fornita dai giudici e ora anche dalla normativa di fatto corrisponde al concetto di crisi d’impresa in senso aziendalistico.

In questo caso per azienda in stato di crisi si intende quella in cui si verifica la presenza stabile di meccanismi che creano stati di tensione finanziaria che se non corretti in modo immediato possono portare allo stato di insolvenza. Anche in questo caso quindi si ritiene che la crisi d’impresa possa essere convertita e che di conseguenza sia possibile risanare l’attività attraverso dei correttivi.

 

Insinuazione al passivo azienda fallita, come fare

Le imprese che sono in dissesto finanziario possono accedere, in presenza di determinati requisiti, ad una procedura concorsuale liquidatoria che è rappresentata dall’istituto giuridico del fallimento. In tal caso i creditori, al fine di ricevere i pagamenti, devono presentare la domanda di insinuazione al passivo fallimentare. A gestire la procedura fallimentare è il Tribunale che nomina il curatore fallimentare proprio al fine di gestire il fallimento.

A chi presentare la domanda di insinuazione al passivo azienda fallita

La domanda di insinuazione al passivo, da parte dei creditori, si presenta proprio al Tribunale che valuterà, insieme al curatore fallimentare, se il credito per il quale si richiede il pagamento è effettivamente dovuto. Essendo inoltre un’impresa fallita in una condizione di dissesto finanziario, salvo rare eccezioni i creditori quasi mai vengono pagati interamente. E questo anche in base alle somme dovute in quanto, all’interno della procedura fallimentare, non tutti i crediti sono considerati allo stesso modo.

Crediti privilegiati e crediti chirografari quando l’azienda è fallita

All’interno della procedura concorsuale liquidatoria attivata per un’azienda fallita, infatti, ci sono i crediti che vengono pagati sempre prima degli altri. Si tratta, nello specifico, dei cosiddetti crediti privilegiati che vengono pagati prima degli altri in quanto, ai sensi di legge, godono di una corsia preferenziale.

Solo dopo il pagamento dei crediti privilegiati, se c’è ancora disponibilità, si procederà con il pagamento dei crediti non privilegiati che sono detti chirografari in quanto non sono assistiti da privilegio. Per rendere l’idea, sono crediti privilegiati quelli che l’azienda fallita deve pagare ai lavori dipendenti, mentre sono crediti chirografari quelli di un fornitore di beni o di servizi che ha emesso la fattura per la prestazione resa, ma questa non è stata pagata.

Come presentare la domanda di insinuazione al passivo se l’azienda è fallita

Se l’azienda è fallita, come sopra accennato, il creditore deve presentare la domanda di insinuazione al passato al Tribunale anche senza avvalersi dell’assistenza di un avvocato. E indicando, nello specifico, la natura e la causa del credito unitamente agli importi dovuti.

Nell’istanza, inoltre, bisogna indicare l’azienda fallita, l’azienda creditrice, il tribunale che ha in cura la procedura fallimentare, nonché tutti i documenti fondanti ed accertanti il credito, per esempio la busta paga oppure la fattura.

La domanda, debitamente firmata, dovrà poi essere scansionata in formato PDF e inoltrata, insieme a tutta la documentazione attestante il credito, all’indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) del curatore fallimentare. Nella domanda, inoltre, occorre indicare l’indirizzo PEC al quale ricevere eventuali comunicazioni.

Se il creditore è un’impresa, l’istanza di insinuazione al passivo deve essere firmata dall’amministratore o dal legale rappresentante. Ed in ogni caso, per tutta la documentazione allegata, occorre sempre dichiarare, sotto la propria responsabilità, che questa risulta essere conforme all’originale.

In più, se il credito non è rappresentato da una busta paga o da una fattura, ma per esempio da assegni o cambiali, allora questi dovranno essere depositati in originale presso la cancelleria del Tribunale entro e non oltre il giorno in corrispondenza del quale è stata fissata l’udienza.

Concordato fallimentare: la procedura da seguire per ottenerlo

Il concordato fallimentare è una procedura volta a determinare la chiusura di una procedura di fallimento attraverso un accordo con i creditori, ma come funziona?

Concordato fallimentare: a cosa serve?

La crisi economica ha determinato difficoltà per molte imprese e società, non tutte sono riuscite a far fronte agli impegni economici e per molte si è aperta la porta del fallimento. Naturalmente un’impresa in difficoltà, che si avvia alla chiusura, ha sicuramente accumulato dei debiti ed è necessario comunque utilizzare i beni della società/impresa per liquidare i creditori (lavoratori, fornitori…).

Per velocizzare le procedure è possibile chiudere con un concordato fallimentare, solitamente questo si attua quando i beni sono insufficienti a coprire tutti i passivi accumulati  e consente al “fallito” di sanare definitivamente i propri debiti, sebbene non tutti i creditori siano stati interamente soddisfatti. La disciplina è contenuta nella Legge Fallimentare (legge 267 del 1942 e s.m.i.) e nel codice civile. La prima all’articolo 1 stabilisce che possono essere soggetti a concordato fallimentare gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, la formula è quindi ampia.

L’obiettivo è ridurre i tempi rispetto alla procedura ordinaria di fallimento che, per poter avviare le procedure del concordato fallimentare (da non confondere con quello preventivo) deve essere già iniziata, infatti come vedremo per poter procedere è necessario che sia stato già determinata l’entità della situazione debitoria (art 97). Ciò implica che siamo in una fase in cui l’imprenditore non può salvarsi dal fallimento, ma semplicemente si possono semplificare le procedure tramite un concordato volto anche a evitare che con il trascorrere del tempo il valore dei beni possa diminuire.

La proposta di concordato fallimentare

La procedura per il concordato fallimentare è distinta in diverse fasi, la prima è la proposta, qui c’è la prima cosa da sottolineare, l’articolo 124 della Legge Fallimentare stabilisce che può essere presentata “da uno o più creditori o da un terzo, anche prima del decreto che rende esecutivo lo stato passivo” ciò a condizione che il curatore fallimentare possa predisporre un elenco provvisorio dei creditori del fallito, oppure può essere proposta dal “fallito, da società cui egli partecipi o da società sottoposte a comune controllo se non dopo il decorso di un anno dalla dichiarazione di fallimento e purché non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo”. Ci sono quindi due strade percorribili, con tempi però diversi, infatti i debitori possono chiedere il concordato in modo anticipato rispetto al fallito.

Contenuto della proposta

La proposta di concordato fallimentare deve avere un contenuto ben determinato con:

  • Suddivisione dei creditori in classi definite (devono essere adottati criteri omogenei per la definizione delle classi);
  • possono essere indicati trattamenti diversi per i vari crediti vantati, ma tale differenziazione deve essere giustificata. Non può essere alterato l’ordine delle classi di prelazione, ad esempio un creditore assistito da un’ipoteca su un bene immobile ha diritto ad essere soddisfatto in via principale sul ricavato della vendita di quel determinato bene rispetto ad altri creditori. Se sullo stesso immobile sono presenti più ipoteche comunque si tiene in considerazione la data di iscrizione, per il semplice fatto che i creditori successivi potevano sapere dell’esistenza di una causa di prelazione su quell’immobile. Vedremo nel prosieguo che i creditori assistiti da causa di prelazione possono rinunciarvi;
  • il concordato fallimentare deve prevedere la ristrutturazione dei debiti, ciò anche attraverso la vendita di beni, attraverso l’accollo e altre operazioni straordinarie volte a liquidare il patrimonio, ad esempio cessione di azioni e obbligazioni ai creditori.

Deve essere sottolineato che in base al piano è possibile che i creditori non siano totalmente soddisfatti, sebbene siano assistiti da cause di prelazione, è però essenziale che siano rispettate determinate condizioni e cioè che l’ordine delle cause di prelazione sia rispettato e che la soddisfazione sia in misura non inferiore rispetto a quanto ricavabile in relazione al valore di mercato del bene indicato in una relazione giurata stilata da un professionista nominato dal tribunale. Questa misura è volta a proteggere i creditori assistiti da garanzia da manovre poco corrette volte a ledere i diritti da questi acquisiti.

A chi viene presentata la proposta

La proposta di concordato fallimentare deve essere presentata al giudice delegato che a sua volta deve:

  • valutarne la correttezza;
  • chiedere un parere al comitato dei creditori (parere vincolante) e uno al curatore fallimentare (parere non vincolante);
  • predisporre la comunicazione ai creditori indicando loro una data entro la quale far pervenire il loro dissenso o consenso. Il termine non può essere inferiore a 20 giorni e superiore a 30 (art 125 Legge Fallimentare).  Il silenzio ha valore di assenso (art.128).

Il concordato fallimentare è approvato nel caso in cui ottenga il voto favorevole dei creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Non sono ammessi al voto i creditori assistiti da causa di prelazione (pegno/ipoteca), tranne nel caso in cui rinunciano a tale causa di prelazione. In base all’articolo 127 L.F la rinuncia può essere anche parziale purché non inferiore a 1/3 e comunque il voto è ammesso solo per la quota non coperta da prelazione. Se però la proposta iniziale di concordato comunque non prevede l’intero soddisfacimento dei crediti assistiti da prelazione, i creditori con prelazione possono partecipare al voto anche senza la rinuncia formale alla prelazione.

Il curatore al termine delle operazioni di voto trasmette una relazione sull’esito dello stesso al giudice. Se la proposta risulta approvata, il giudice cura che ne sia data comunicazione con PEC ai creditori (anche dissenzienti), al proponente, che può richiederne l’omologazione, e al fallito ( in questo caso anche con raccomandata con avviso di ricevimento). Il giudice in tale sede stabilisce anche il termine per proporre opposizione al concordato fallimentare.

Omologazione del concordato fallimentare

Se non vengono proposte opposizioni, il giudice procede all’omologazione del concordato preventivo con decreto. Avverso tale decreto è possibile proporre ricorso davanti alla Corte di Appello entro 30 giorni dalla notificazione del decreto. Se nessuno propone ricorso nei termini, oppure nel caso in cui le impugnazioni siano state esaurite,  il concordato diviene obbligatorio e quindi iniziano le procedure per l’effettivo pagamento dei vari crediti. Il concordato è obbligatorio per il fallito e per tutti i creditori antecedenti all’inizio della procedura.

Annullamento e risoluzione del concordato

Il curatore o i creditori attraverso un’istanza possono chiedere l’annullamento del concordato fallimentare, ciò  nel caso in cui si rendano conto che l’attivo è stato in parte occultato oppure è stato dolosamente esagerato il passivo. Si ha invece la risoluzione nel caso in cui non siano effettivamente costituite le garanzie previste all’interno del concordato stesso. Sulla corretta esecuzione del concordato vigilano giudice delegato, curatore e comitato dei creditori. Nel caso in cui i creditori attraverso il concordato non riescano ad ottenere una soddisfazione totale dei crediti, possono comunque agire verso eventuali coobbligati, ad esempio fideiussori.

Nuove procedure per quanto riguarda la denuncia di fallimento

Il Decreto Sviluppo bis ha modificato la Legge fallimentare in modo che le procedure, in particolare notifica del ricorso per la dichiarazione di fallimento, presentazione della domanda di insinuazione del passivo, comunicazioni ai creditori da parte del curatore del fallimento, diventassero più rapide e meno dispendiose.

Il ricorso e il decreto di convocazione delle parti devono essere inviati al debitore tramite Posta Elettronica Certificata (PEC) ottenuto dal Registro delle imprese o dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica delle imprese e dei professionisti.

La notifica di persona da parte dell’ufficiale giudiziario può avvenire solo in caso di impossibilità o di esito negativo della modalità automatica, e comunque a cura del ricorrente.

Il creditore è obbligato a utilizzare l’indirizzo di PEC indicato dai debitori e dai titolari di diritti sui beni in caso di comunicazioni di ogni tipo. Se ciò non è possibile per cause dipendenti dal destinatario, ogni comunicazione sarà effettuata attraverso deposito in cancelleria.
Anche la domanda di ammissione al passivo dovrà essere inviata al curatore tramite via telematica mentre ai creditori andrà inviato il progetto di stato passivo all’indirizzo indicato nel documento. Il curatore potrà utilizzare i dati indicati nel documento e inseriti dai singoli creditori per la realizzazione del progetto di stato passivo e per l’elenco dei creditori, liberando dall’incombenza le cancellerie.

I creditori ammessi al passivo, chi ha fatto opposizione e i creditori in prededuzione non soddisfatti verranno informati mediante PEC del deposito del rendiconto approntato dal curatore e della data fissata per l’udienza. Fino a cinque giorni prima dell’udienza sarà possibile sottoporre osservazioni e contestazioni utilizzando il medesimo strumento.
Nel caso in cui non sia possibile valersi delle modalità previste, si potrà procedere attraverso l’utilizzo di lettera raccomandata con ricevuta di ritorno nei confronti del passivo.

La PEC va utilizzata anche nel caso di invio, ai creditori, del progetto di ripartizione all’attivo, della proposta di concordato, del ricorso e del decreto emanato dal Tribunale nel procedimento di esdebitazione.

Comunicazione telematica obbligatoria anche agli organi della procedura di concordato preventivo e ai creditori: diventa onere a carico del commissario giudiziale l’avviso recante la data di convocazione dei creditori, la proposta del debitore, il decreto di ammissione, l’indirizzo PEC del debitore e, in caso di necessità, l’invito a fornirne uno valido.

Entro il termine minimo di dieci giorni prima dell’adunanza dei creditori, il curatore deve depositare presso la cancelleria una relazione particolareggiata su:

  • cause del dissesto;
  • condotta del debitore;
  • proposte di concordato;
  • garanzie offerte ai creditori.

La medesima relazione deve essere inviata via PEC al Registro delle imprese e ai creditori.
Le comunicazioni tra commissario e creditori nell’ambito della procedura di liquidazione coatta amministrativa, se il destinatario è un imprenditore, vanno svolte attraverso procedura telematica, negli altri casi per mezzo di fax o posta raccomandata.

Vera MORETTI

Le tasse? Le pago col mutuo

Che il fisco sia il primo avversario delle piccole e medie imprese è una realtà che tutti coloro i quali hanno un’attività produttiva conoscono bene. Eppure è giusto che non passi giorno in cui, chi può, torni a battere su questa piaga, questa ingiustizia che mette in ginocchio le aziende, gli imprenditori, i lavoratori.

Ecco allora che assume un importante valore l’indagine di Ispo-Confartigianato secondo la quale il 58% dei piccoli imprenditori è costretto a chiedere prestiti, e quindi contrarre nuovo debito, per pagare le tasse. Questo nella peggiore delle ipotesi. Nella migliore è obbligato a chiedere una dilazione di pagamento al fisco stesso.

In questa situazione sono circa 615mila aziende di piccole e medie dimensioni, sono 40mila gli imprenditori che non potranno pagare le imposte per mancanza di liquidità e per il 26% delle imprese l’obesità del fisco ha causato ritardi nel pagamento di alcune imposte. L’abnorme e sempre crescente pressione fiscale sulle Pmi è la causa prima di questo scandalo: su oltre un milione di piccole e medie imprese (il 74% del totale), negli ultimi 12 mesi la pressione fiscale è aumentata in media del 22,6%. Una media che lascia il tempo che trova, visto che nei casi delle imprese con dipendenti l’aumento della pressione fiscale sale al 79%, in quelle localizzate nel Nord Ovest all’83%, per le imprese del Sud e per quelle che operano nel campo dei servizi alla persona all’80%.

Secondo sondaggio Ispo-Confartigianato, il 33% degli imprenditori è stato costretto a ritardare il pagamento dei propri fornitori, mentre il 29% ha dovuto rinunciare a nuovi investimenti. Una dilazione che ha pesato anche sulle prospettive di crescita, poiché il 16% delle imprese ha rinunciato ad assumere personale e il 14% ha dovuto licenziare i dipendenti o ricorrere agli ammortizzatori sociali.

Secondo il Presidente di Confartigianato Giorgio Merletti, “il sondaggio conferma quanto denunciamo da tempo a proposito dell’impennata della pressione fiscale sul sistema produttivo. Secondo le nostre rilevazioni, nel 2012 le entrate fiscali sono cresciute di 24,8 miliardi, al ritmo di 47.238 euro al minuto, e hanno raggiunto il livello del 44,7% del Pil, con un aumento di 2,2 punti in un solo anno. Tra il 2005 e il 2013 l’incremento delle entrate fiscali assorbe il 97,3% dell’incremento del PIL. Sono numeri che parlano chiaro: se vogliamo ritrovare la strada per uscire dalla crisi, è indispensabile intervenire per ridurre la pressione fiscale sulle imprese“.

d.S.

Srl semplificata, un flop?

 

Aziende senza futuro per la difficoltà di accesso al credito e l’impossibilità di guadagnarsi la fiducia di fornitori senza disporre di un vero capitale. Le srl a 1 euro o semplificate, introdotte grazie alla legge entrata in vigore lo scorso 29 agosto, si riveleranno ben presto un flop. Almeno secondo Marina Calderone, Presidente del Consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro e del Comitato unitario delle professioni.

Una misura nata per incentivare l’imprenditoria giovanile – sostiene la Calderone – ma che non sortirà alcun effetto positivo. Da un lato, infatti, si dà la possibilità ai giovani di costituire, senza pagare alcun onorario al notaio, una società a responsabilità limitata con un euro di capitale; dall’altro, questa nuova forma di srl non potrà materialmente andare ad operare perchè non riceverà credito dalle banche, non riceverà fiducia dal mercato, da quelli che sono i fornitori”.

La Presidente del Cup e del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro ha sottolineato poi come la fase di start up dell’azienda, pur esonerata dal costo dell’atto notarile di costituzione, risulta gravosa per il neoimprenditore: il costo complessivo non risulta inferiore infatti agli 8.000 euro per via degli oneri di iscrizione presso i vari istituti e dalle relative tasse governative.

Il rischio, conclude la Calderone è anche per “quanti in futuro, dopo aver lavorato con queste società, non potranno vedere riconosciuto il proprio credito, proprio per l’esiguità del capitale sociale”.

 

Un’impresa su tre rischia il fallimento

Analizzando i dati sulle sofferenze bancarie, Unimpresa afferma che una impresa su tre è a rischio fallimento entro il 2012. L’analisi si focalizza in particolare sulla probabilità di ingresso in sofferenza entro l’arco di un anno, che viene stimata attraverso una metodologia statistica che utilizza indicatori desunti dal bilancio dell’impresa e dalle segnalazioni delle banche alla Centrale dei rischi, che approssimano la presenza di tensioni sulle linee di credito.

I dati statistici elaborati dal Centro studi di Unimpresa sui bilanci delle banche provano che 8 imprese in osservazione su 10 peggiorano la loro performance e salute finanziaria nei 12 mesi successivi al segnale di rischio. Ebbene, l’analisi delle probabilita’ di default entro il 2012 evidenzia un chiaro peggioramento rispetto all’anno precedente: quasi un’impresa su tre.

In termini assoluti, contribuiscono al complessivo deterioramento soprattutto le imprese del comparto dei servizi (30.134 su 101.257), seguito da quello manifatturiero (22.073 su 40.178) e a breve distanza dal settore delle costruzioni (16.129 su 32.402). In termini percentuali sono, tuttavia, i comparti dell’industria e dell’edilizia che stanno peggio, con almeno un’una impresa su due in sofferenza.

Nel 2012 stanno fallendo quasi 35 imprese al giorno in Italia

Da quanto emerge dall’analisi dei fallimenti in Italia relativa al secondo trimestre 2012, realizzata da Cribis D&B, la società del Gruppo Crif specializzata nella business information, nei primi 6 mesi del 2012 sono quasi 35 le imprese che ogni giorno sono costrette a chiudere nell’arco del territorio nazionale. Più di 1000 al mese, per un totale di 6.321 fallimenti. Dopo i 3.212 casi rilevati nel primo trimestre, infatti, da aprile a giugno sono fallite altre 3.109 imprese. E dal 1 gennaio 2009 alla rilevazione attuale sono complessivamente 39.159 le imprese che hanno portato i libri in Tribunale, con un trend di aumento costante.

Il numero di fallimenti registrato in Italia nel secondo trimestre 2012 appare tuttavia in calo rispetto al corrispondente periodo dello scorso anno (-9% la variazione rispetto al secondo trimestre 2011), ma in crescita nel confronto con lo stesso periodo del 2010 (+4%) e del 2009 (+30%). Con riferimento al secondo trimestre di ogni anno si è passati dai 2.391 casi del 2009, ai 3.001 del 2010, ai 3.411 del 2011, fino ai 3.109 attuali.

Il numero dei fallimenti rimane molto al di sopra dei livelli pre-crisi – spiega Marco Preti, ad di Cribis D&B -. La crisi economica ancora irrisolta e le difficoltà sul mercato del credito fanno sì che oggi insoluti anche non gravi possano mettere seriamente in difficoltà anche aziende solide, soprattutto quando provengono dalla clientela storica dell’impresa e alla quale, magari, si sono concessi tempi lunghi di pagamento e fidi commerciali elevati”.

Crediti Iva, una beffa per le imprese

di Davide PASSONI

Difficile fare business e sopravvivere quando la crisi morde duro. Praticamente impossibile se la pubblica amministrazione ci mette del suo per prendere a cannonate le imprese che già faticano a rimanere a galla. Infatti, se molte aziende registrano una difficoltà sempre crescente per reperire liquidità per sosntentarsi, lo stato ci mette del suo nel peggiorare le cose grazie al ritardo nei pagamenti dalla PA.

Quante sono le imprese che aspettano il pagamento di opere e servizi realizzate ed erogati e non ancora saldati dalle amministrazioni pubbliche? E quante sono quelle che attendono invano un rimborso IVA per le tasse pagate in più? Tante? Troppe, diciamo noi.

I crediti IVA, ben lungi da essere un di cui del problema, ne sono ormai una parte sostanziale. E a poco serve che il Governo, nella persona del ministro Passera, abbia riconosciuto il problema relativamente ai rimborsi IVA del 2010: non ci voleva un professore per capire che al 31 gennaio 2012 solo 23.416 domande di rimborso erano state accolte su 62.211, per un importo erogato che sta oltre 3 miliardi sotto rispetto al totale vantato dai richiedenti, pari a 8,6 miliardi. Certo, prendere atto è già qualcosa, ma qui serve far uscire il grano.

Può infatti bastare sentirsi dire dal Governo che “in conformità al piano di accelerazione avviato dall’Agenzia delle Entrate, gli importi relativi alle restanti richieste, qualora accolte, verranno erogati nel corso del 2012 tenuto conto della effettiva disponibilità finanziaria“? Che vuol dire “tenuto conto della effettiva disponibilità finanziaria“? Che questi soldi non arriveranno. E l’idea di “pagare” queste somme con titoli di debito pubblico da girare poi alle banche a garanzia della solvibilità dei debiti delle aziende? Sparita. Capiamo che in questo periodo nemmeno le banche se la passano bene, ma almeno loro hanno una Bce che presta denaro a tassi ridicoli. E alle aziende alla canna del gas, chi lo presta il denaro? Ormai quasi più nessun, men che meno a tassi di favore.

E allora su, Monti, su Passera, su ministri tutti: trovate il modo di snellire le procedure elefantiache e di garantire tempi certi per i rimborsi; ve lo chiedono le aziende, ve lo chiede l’economia, ve lo chiede l’Italia. Nessuna delle tre ha più tempo da perdere.