Scudo penale per i reati fiscali: come funzionerà e dove è stato inserito?

Lo scudo penale per i reati fiscali è un provvedimento che spesso torna alla ribalta, osteggiato da molti perché consente ai grandi evasori di ottenere benefici particolarmente vantaggiosi e di conseguenza rappresenta un messaggio “sbagliato” per i contribuenti che potrebbero essere portati a evadere perché attirati dalle blande conseguenza del loro comportamento. Il Governo Meloni ci aveva provato già nei mesi passati, con la legge di bilancio. Ora invece è nel decreto Bollette. Vediamo cosa prevede lo scudo penale per i reati tributari.

Scudo penale per i reati fiscali: cosa vuol dire?

Lo scudo penale per i reati tributari prevede che in caso di accordo tra contribuente e Fisco, naturalmente previo pagamento delle imposte evase, si possa ottenere la non punibilità del reato. Ricordiamo che l’evasione fiscale è considerata reato solo in pochi casi, cioè quando la soglia del “beneficio fiscale” ottenuto è particolarmente alta. Proprio per questo in molti ritengono che non si tratti di casi di evasione per necessità, ma di una vera condotta fraudolenta.

Lo scudo penale per i reati fiscali prevede “cause speciali di non punibilità per i reati tributari” ciò avviene quando le fattispecie penali sono correttamente definite e le somme dovute sono integralmente versate dal contribuente seguendo tutte le indicazioni contenute negli accordi.

In quali casi si ottiene lo scudo penale per i reati tributari?

I 3 casi in cui, in base a quanto previsto dal decreto Bollette, si prevede che si possa ottenere lo scudo fiscale sono:

  • omesso versamento di ritenute dovute o certificate per importo superiore a 150.000 euro per annualità;
  • omesso versamento di Iva di importo superiore a 250.000 euro per annualità;
  • indebita compensazione di crediti non spettanti superiore a 50.000 euro.

Si tratta dei casi di evasione in cui effettivamente si applica la normativa penale.

Lo scudo penale può essere attivato per le definizioni raggiunte in sede amministrativa, cioè prima di arrivare a un processo e in sede giudiziaria. Sono esclusi dal condono previsto nel decreto Bollette i casi di dichiarazione infedele e omessa dichiarazione.

Critiche allo scudo penale

Naturalmente non sono mancate le critiche al provvedimento, le stesse sono determinate dal fatto che secondo le opposizioni il provvedimento non è caratterizzato da necessità e urgenza, di conseguenza è errato adottarlo per decreto. Inoltre nel merito si tratta di un provvedimento di tipo premiale che lancia ai contribuenti un messaggio negativo. Si aggiunge che nelle bozze circolanti prima dell’approvazione del decreto non c’era traccia dello scudo, quindi le opposizioni hanno denunciato un comportamento scorretto. Fratoianni, Sinistra Italiana, critica la scelta del Governo anche perché si pone in un filone tendente a premiare condotte poco corrette, tendenza di cui è indice anche il nuovo codice degli appalti.

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Trattamento integrativo Naspi 2023: a chi spetta?

Il governo Meloni ha confermato la possibilità di ricevere il trattamento integrativo ( ex bonus Renzi) anche sulla Naspi per il 2023. Naturalmente affinché si possa percepire questo importo è necessario che ci verifichino i requisiti previsti dalla normativa.

Trattamento integrativo Naspi 2023: sarà ancora erogato?

La Naspi è la Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego e viene corrisposta a coloro che perdonbo il lavoro involontariamente. Si tratta di un sussidio di durata temporanea corrisposto in base a quanto percepito in costanza di lavoro.

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L’attuale disciplina del trattamenti integrativo Irpef sulla Naspi è frutta delle modifiche intervenute con la legge di bilancio 234/2021. Il trattamento integrativo Irpef spetta lavoratori dipendenti, disoccupati in Naspi e pensionati con Ape social, con un reddito complessivo annuale tra gli 8.150,00 euro e 15.000 euro. Per i redditi compresi tra i 15.000 e i 28.000 euro spetta solo in determinate situazioni e cioè tenendo in considerazione il reddito complessivo ai fini Irpef. L’intero trattamento integrativo spetta comunque solo ai redditi inferiori a 15.000 euro e in media ha valore di 100 euro, anche se per i mesi con 31 giorni sarà erogato un trattamento integrativo Naspi pari a 101,92 euro, mentre per i mesi con 30 giorni saranno corrisposti 98,63 euro.

È necessario richiedere il trattamento integrativo Naspi 2023?

Il trattamento integrativo sulla Naspi  2023 viene riconosciuto senza bisogno di presentare alcuna domanda, ma in modo automatico, tenendo in considerazione i redditi presunti nel 2023. Nel caso in cui nel corso dell’anno la situazione reddituale dovesse cambiare è probabile che al momento di effettuare il conguaglio ci sarà la necessità di restituire le somme indebitamente percepite.

Carburanti, ritornano gli sconti? Ecco quando. Indagini sui prezzi

Ha destato scalpore e malcontento la decisione del governo Meloni di non confermare il taglio delle accise sui carburanti dal 1° gennaio 2023. I prezzi sono aumentati subito, ma a calmare il malcontento c’è l’annuncio di probabili nuovi tagli che dovrebbero arrivare presto.

Taglio delle accise sui carburanti a marzo? Ecco cosa potrebbe accadere

In base a quanto emerge dalle indiscrezioni trapelate da esponenti del centro destra e riportati in un articolo di Affari Italiani, sembra che il Governo stia studiando una soluzione per calmierare il prezzo dei carburanti. In particolare viene sottolineato che tutti gli interventi sulle accise messi in atto dal mese di marzo 2022 fino al 31 dicembre 2022 sono stati frutto di scelte straordinarie e confermate periodicamente. Ciò è dovuto al fatto che per poter operare tale taglio è necessario avere coperture finanziarie.

Con la riduzione dei prezzi dei carburanti è venuto meno l’extragettito fiscale che aveva permesso quei tagli, proprio per questo motivo al 1° gennaio  2023 è stato impossibile il rinnovo. Le fonti vicine al centro-destra però sottolineano che nei prossimi mesi dovrebbe crearsi un nuovo gruzzoletto derivante dai saldi che dovrebbero far ripartire il commercio. Di conseguenza si sta pensando a un nuovo taglio, ma ridotto a 10 centesimi a partire dal mese di marzo e confermato per circa 2-3 mesi. Naturalmente molto dipende anche dall’andamento dei prezzi dei carburanti.

Codacons: allarme prezzi carburanti. Avviare un’indagine sulle speculazioni delel società petrolifere

Fatto sta che dal 1° gennaio 2023 gli automobilisti hanno visto i prezzi aumentare e la benzina al self service costa oltre 1,80 euro al litro, il diesel ha raggiunto 1,90 euro al litro. Il servito sfiora i 2 euro al litro. Nel frattempo nella discussione sulla mancata conferma del taglio delle accise è intervenuta anche l’associazione dei consumatori Codacons che ha sottolineato che eventuali aumenti ulteriori dei prezzi dei carburanti sono esclusivamente speculazioni dei distributori.

Di conseguenza sono pronti a presentare un esposto alla Guardia di Finanza e alle Procure della Repubblica in caso di ulteriori aumenti. Il presidente Codacons, Carlo Rienzi, sottolinea che tali aumenti sono ingiustificati in quanto le quotazioni internazionali del petrolio sono al ribasso e quindi non giustificano l’andamento dei prezzi alla pompa.

La Codacons chiede quindi l’apertura di un’indagine per aggiotaggio con sequestro delle bolle di acquisto dei carburanti da parte delle società petrolifere. Secondo i calcoli effettuati, l’eliminazione del taglio delle accise se confermato per tutto l’anno dovrebbe portare per le famiglie italiane un maggiore esborso pari a 366 euro.

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Salasso carburanti 2023: perché il prezzo sta aumentando?

Il governo Meloni non ha provveduto alla proroga del taglio delle accise sui carburanti. Prezzi in salita che portano a un vero salasso carburanti per tutti gli automobilisti.

Salasso carburanti: stop al taglio delle accise

Con il governo Draghi gli italiani hanno potuto beneficiare del taglio delle accise sui carburanti, lo stesso era pari a 30 centesimi a litro a cui si aggiunge l’ulteriore risparmio sull’Iva. Dal primo dicembre 2022 invece il taglio è stato dimezzato e quindi gli italiani hanno assistito a un aumento del prezzo di 12 centesimi a litro per effetto del decreto legge Aiuti Quater.

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A questo si è aggiunto che nel tempo i prezzi dei carburanti si sono stabilizzati e proprio questo fattore ha molto probabilmente portato il Governo a non confermare il taglio delle accise sui carburanti, quindi dal 1° gennaio 2023 i prezzi sono tornati “normali”, cioè senza alcun intervento di taglio.

Salasso carburanti: quanto costano a gennaio 2023?

Secondo le stime effettuate, dal primo gennaio 2023 il prezzo della benzina in modalità self service è in media 1,732 euro/litro e quello del diesel self- service di 1,794 euro/litro, prezzi più alti naturalmente con il servito. Nei mesi passati con il prezzo calmierato il costo di un litro di benzina era intorno a 1,60 euro, con giornate in cui gli italiani hanno potuto acquistare la benzina anche a 1,50 centesimi a litro. Il prezzo del diesel era invece leggermente più alto, ma sicuramente più conveniente rispetto ad oggi.

In Italia le accise sui carburanti pesano sul prezzo finale per circa il 40%, una cifra davvero elevata e che si è accumulata nel tempo, quasi tutti alla vigilia delle elezioni promettono una revisione o un taglio di questi oneri, ma alla fine c’è sempre un nulla di fatto. Ne è dimostrazione il fatto che in questi mesi si è andati avanti con misure temporanee, la cui adozione è iniziata quando il prezzo dei carburanti aveva abbondantemente superato i 2 euro al litro.

Automobilisti sotto pressione: aumenta anche il pedaggio autostradale

Per gli automobilisti questa non è l’unica brutta notizia, infatti dal primo gennaio sono aumentate anche le tariffe autostradali. Avevamo annunciato questo provvedimento nei giorni scorsi, nell’articolo Pedaggi autostradali: aumenti in vista dal 1° gennaio 2023

Ora si può dar conto anche di questi aumenti fissati nel 2% per tutta la rete gestita da Autostrade per l’Italia. Si tratta però di un aumento temporaneo visto che a questo da luglio si unirà 1,34%. Sono bloccate le tariffe sul tratto A24/A25 (Roma Teramo; Torano-Pescara).

L’unica buona notizia per gli automobilisti è data dal fatto che è stato sospeso l’aumento delle multe per le violazioni del codoce della strada che dovevano partire dal 1° gennaio 2022.

Stipendi: aumento in arrivo da gennaio per 4 milioni di italiani. Chi ne beneficerà?

Il Governo Meloni con un emendamento alla manovra di bilancio ha confermato il taglio del cuneo fiscale del 2% introdotto dal governo Draghi, ma non solo, infatti lo ha aumentato di un punto percentuale e ha provveduto ad aumentare la soglia di reddito dei beneficiari. Da questa scelta consegue un aumento degli stipendi. Ecco a chi spetterà e a quanto ammonta.

Con la legge di bilancio in arrivo aumenti per 4 milioni di italiani

Con un emendamento alla legge di bilancio, il governo Meloni ha provveduto ad estendere il taglio del cuneo fiscale a carico del lavoratore del 3% ai redditi compresi tra 20 e 25.000 euro. Prima di questo intervento l’aumento del taglio del cuneo fiscale era per redditi fino a 20.000 euro. I beneficiari di questa estensione, secondo i calcoli effettuati, dovrebbero essere 4 milioni di contribuenti che dovrebbero avere dal mese di gennaio un aumento in busta paga di circa 38 euro. In totale in Italia i contribuenti che percepiscono un reddito fino a 25.000 euro sono 15,4 milioni di euro. I redditi compresi tra 25.001 e 35.000 euro potranno invece continuare a beneficiare del taglio del cuneo fiscale al 2%.

A quanto ammonta l’aumento degli stipendi?

In realtà gli aumenti reali dipenderanno molto dalla reale situazione del singolo contribuente, infatti un lavoratore con un reddito lordo di 12.000 euro, potrà avere un aumento mensile di circa 21 euro netti in più al mese. Chi ha uno stipendio lordo di 15.000 euro potrà invece ricevere 27 euro in più al mese in busta paga. Solo chi ha un reddito lordo di 35.000 euro potrà invece ricevere un aumento di 38 euro netti al mese.

Si tratta di piccole somme che vanno comunque a cumularsi al reddito ai fini Irpef e quindi sottoposte a tassazione.

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Opzione donna: cosa cambia per le donne che vogliono andare in pensione

Abbiamo visto negli articoli precedenti che il disegno di legge della manovra di bilancio 2023 prevede la possibilità di andare in pensione con Opzione donna. Nell’ultima versione arrivata in Parlamento vi sono però state delle modifiche, ecco chi potrà andare in pensione in base al nuovo dettato.

Opzione donna: la norma già cambiata: dubbi sulla costituzionalità

La legge di bilancio 2023, conferma la possibilità di andare in pensione nel 2023 con l’Ape Sociale, introduce la quota 103 o pensione anticipata flessibile, con almeno 62 anni di età e 41 anni di contributi, infine, prevede Opzione Donna con modifiche rispetto al 2022. In base alla nuova disciplina ci sono due diverse possibilità per andare in pensione con Opzione donna. Per entrambe è previsto il requisito contributivo di 35 anni di età. La norma base prevede il pensionamento con Opzione donna al compimento del sessantesimo anno di età, con la possibilità  di anticipare il pensionamento per le lavoratrici madri. In questo caso abbiamo:

  • 58 anni per chi ha due o più figli;
  • 59 anni per chi ha un solo figlio;
  • 60 anni per chi non ha figli.

Nonostante le critiche e i dubbi di costituzionalità resta quindi il requisito anagrafico legato al numero di figli.Questa non è l’unica novità legata  ad Opzione Donna. Infatti nell’articolo della nuova bozza di manovra per la legge di bilancio 2023, spunta un’ulteriore novità, infatti sono previste ulteriori condizioni.

Opzione donna: ulteriori condizioni

Affinché si possa andare in pensione con Opzione donna nel 2023 devono esservi ulteriori condizioni:

  • siano care giver, diano assistenza da almeno 6 mesi al coniuge o a un parente convivente di primo grado con handicap grave ai sensi della legge 104 del 1992 articolo 3 comma3, oppure un parente o affine di secondo grado convivente qualora i genitori o il coniuge di quest’ultimo siano impossibilitati ad occuparsene, ad esempio perché a loro volta invalidi o deceduti;
  • abbiano un’invalidità riconosciuta almeno del 74%;
  • sono lavoratrici licenziate o dipendenti di un’impresa che abbai un tavolo di confronto aperto per la gestione della crisi aziendale. Solo in quest’ultimo caso, stando alla lettera dell’articolo 56 della bozza della Legge di Bilancio 2023 si potrà andare in pensione a 58 anni di età.

 

Per una sintesi sulla manovra finanziaria, leggi

Manovra finanziaria: tutte le misure in breve, sigarette, carburanti, benzina, pace fiscale

Reddito di cittadinanza: chi sono i lavoratori occupabili e chi rischia di perdere il sussidio?

La manovra di bilancio 2023 prevede una stretta sul reddito di cittadinanza già dal prossimo anno, è previsto infatti che gli occupabili perdano questo diritto dopo 8 mesi di percezione, ora il limite è di 18 mesi rinnovabili. Dal 2024 dovrebbe invece esserci una riforma strutturale del reddito di cittadinanza, molti si stanno però chiedendo: chi sono gli occupabili? Cerchiamo di rispondere a questa domanda.

Gli occupabili: i cittadini tra 18 anni e 59 anni, ma con limiti

Il primo elemento da considerare è il fattore anagrafico. Si tratta di persone dai 18 anni ai 59 anni di età. Non basta però solo questo elemento a far propendere per la qualificazione come occupabile, infatti sono stati inseriti ulteriori criteri che in realtà vanno in protezione del nucleo familiare e non semplicemente del titolare beneficiario del reddito di cittadinanza.

In base alla disciplina non dovrebbero vedere il taglio delle mensilità coloro che hanno a carico figli minori, persone con disabilità, o familiari a carico con più di 60 anni di età.

Ad esempio, ci sono numerose persone non inserite in un nucleo familiare e che non hanno persone a carico che percepiscono il sussidio, queste persone dovrebbero essere occupabili con diritto alla corresponsione in misura minore. Il rischio concreto secondo le prime stime è per circa 500.000 percettori che si trovano in una situazione simile a quella descritta.

Decadimento immediato dal reddito di cittadinanza

In base alle disposizioni il contributo dovrebbe essere perso prima degli otto mesi (decadimento) nel caso in cui:

  • si rifiuti una proposta di lavoro congrua;
  • non si partecipi a corsi di formazione;
  • tra le ipotesi vi è anche la decadenza dal beneficio nel caso in cui nel nucleo siano presenti minori, ma questi non assolvano l’obbligo scolastico.

Naturalmente non mancano perplessità, ma ci sarà tempo per colmarle sia durante l’iter parlamentare, sia negli otto mesi che ci separano dai primi provvedimenti, infatti le prime persone dovrebbero perdere il reddito di cittadinanza dal mese di settembre 2023. Si è calcolato che da questa misura il risparmio dovrebbe essere di circa 700 milioni di euro, il costo totale del reddito in un anno è di circa 8 miliardi di euro.

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Amazon Tax (tassa verde) e Iva. Ipotesi allo studio

Novità in arrivo per chi ama comprare online, spunta l’ipotesi di una Amazon Tax e l’eliminazione Iva da beni essenziali.

Amazon tax o tassa verde: chi potrebbe colpire?

L’idea di aumentare la tassazione a carico dei colossi dell’e-commerce internazionale è sempre balenata nella testa dei vari governi che si sono succeduti nel tempo, ma non è semplice da attuare. Sembra però che il Governo Meloni stia per trovare un modo per riequilibrare le posizioni tra i commercianti tradizionali e i colossi, spunta infatti l’ipotesi di inserire l’Amazon Tax nella manovra di bilancio.

In realtà è bene chiarire: è un errore chiamare la tassa Amazon Tax e lo è per un limite importante che ha la norma, cioè colpisce tutti coloro che effettuano la spedizione di merci o semplicemente ordinano online, infatti questa tassa dovrebbe essere un balzello sulle consegne. L’obiettivo dichiarato è ridurre l’uso di mezzi inquinanti, proprio per questo quella che impropriamente si definisce Amazon Tax, è chiamata anche tassa verde e dovrebbe indurre le persone a ricominciare ad acquistare nel negozio sotto casa.

Le reazioni del settore e-commerce

Naturalmente le reazioni a questa ipotesi non si sono fatte attendere e arrivano da Netcomm, l’associazione del settore e-commerce, che sottolinea come questa tassa non tenga in considerazione il reale impatto economico e ambientale di questo settore, in particolare in questo periodo in cui le vendite online stanno già subendo gli effetti della inflazione e dell’aumento dei costi tecnologici.

A pagare sarebbero soprattutto le piccole e medie imprese che in questi anni hanno fatto sacrifici e investimenti per mettere su piccoli e-commerce che in molti casi hanno affiancato le attività tradizionali e hanno consentito di affrontare le chiusure del Covid. Secondo i dati resi noti da Netcomm, in Italia il digital Retail genera 58,6 miliardi di euro occupando il terzo posto tra le 99 attività economiche che registrano maggiore fatturato. La tassa verde o Amazon Tax andrebbe a creare difficoltà a queste imprese, ma anche a tutte le persone che si sono abituate alle consegne a domicilio.

All’ipotesi della Amazon Tax si affianca anche quella di una eliminazione, ma per un solo anno, dell’Iva su pasta, pane, latte e prodotti per l’infanzia. Si tratat di prodotti che hanno l’iva al 4%.