Dichiarazione dei redditi partite Iva: tutte le date

Ecco quali sono le date da rispettare per le partite Iva nella dichiarazione dei redditi 2022. In questa guida illustreremo quando e come si pagano le tasse e le varie scadenze fiscale dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti. In particolare è necessario prestare attenzione:

  • al versamento del saldo 2021 e del primo acconto;
  • alle modalità da seguire per il calcolo;
  • al secondo acconto;
  • alla dichiarazione dei redditi.

Partite Iva e lavoratori autonomi: a giugno il pagamento del saldo e del primo acconto

A giugno, le partite Iva e i lavoratori autonomi dovranno versare il saldo e il primo acconto. Per le partite Iva aperte nel corso del 2021 si tratterà del debutto nel versamento delle imposte. Infatti, la legislazione nazionale prevede che la tassazione sul reddito imponibile venga calcolata e poi versata a partire dal mese di giugno dell’anno susseguente, in concomitanza con la dichiarazione dei redditi. La scadenza è dunque fissata al 30 giugno 2022.

Partite Iva e liberi professionisti: entro il 30 giugno 2022 versamento del saldo e della prima rata

Le partite Iva e i liberi professionisti attivi già da anni, a giugno devono fare il calcolo di quanto versare sulla base di quanto già pagato nell’anno precedente. Infatti, nel 2021 sono state già versate o le ritenute a titolo di acconto o di acconti di imposta. E, pertanto, entro il 30 giugno 2022 dovrà essere pagato il saldo e la prima rata dell’acconto dell’Irpef, dell’Imposta regionale sulle attività produttive (Irap) o dell’imposta sostitutiva per le partite Iva a regime forfettario.

Versamento imposte partite Iva al 30 giugno 2022, si può pagare dopo?

Il primo pagamento di giugno relativo al saldo e alla prima rata delle partite Iva e dei lavoratori autonomi può essere differito di 30 giorni. Non è necessario che ci sia una motivazione da dimostrare, ma la scadenza può essere posticipata al 30 luglio prossimo. Considerando che nel 2022 il 30 luglio capita di sabato, si può procedere con il versamento entro il 2 agosto. Infine, data la pausa estiva, l’ultima data utile disponibile per il pagamento del saldo e della prima rata è quella del 22 agosto 2022. Tuttavia, pagare in ritardo rispetto al 30 giugno il saldo e la prima rata comporta l’addebito degli interessi al tasso dello 0,4%.

Imposte delle partite Iva, come si può rateizzare quanto dovuto?

Le partite Iva possono anche rateizzare gli importi dovuti al 30 giugno a titolo di imposte. Sia che scelgano la scadenza del 30 giugno prossimo che quella del 22 agosto, l’importo da versare può essere rateizzato con scadenza dell’ultima rata al 30 novembre 2022. A questa data corrisponde anche il versamento del secondo acconto. Il pagamento di quanto dovuto può essere effettuato solo on line, utilizzando il modello F24.

Partite Iva, come si calcola il saldo e il primo acconto?

Per il calcolo del saldo di imposta, le partite Iva dovranno considerare:

  • il reddito imponibile e la dichiarazione dei redditi;
  • le detrazioni e le deduzioni;
  • quanto già versato nel corso del 2021 come acconto.

Nel momento in cui si determina il saldo dell’imposta del precedente anno, si definisce anche quale acconto dovrà essere pagato. Tale acconto andrà a saldo nel 2023.

A quanto ammonta l’acconto delle partite Iva?

L’imposto dell’acconto delle partite Iva corrisponde al totale dell’imposta dichiarata nell’anno 2022. Il contribuente, tuttavia, nel caso in cui preveda delle riduzioni della propria attività autonoma, può versare a titolo di acconto un importo inferiore. Nel momento in cui viene definito il totale dell’acconto, dovrà essere pagato subito, entro il 30 giugno 2022, il 40% dell’acconto stesso. Le partite Iva forfettarie rientranti negli Indici sintetici di affidabilità (Isa), versano a titolo di acconto il 50%.

Partite Iva e liberi professionisti: entro quando va pagato il secondo acconto?

Il versamento del secondo acconto delle partite Iva e dei liberi professionisti ha scadenza al 30 novembre 2022. Entro questa scadenza, i lavoratori autonomi dovranno pagare la restante parte, ovvero il 60% (o il 50% dei soggetti Isa). Si tratta dell’acconto per il prossimo anno, da versare in via obbligatoria. Nel caso in cui l’acconto dovesse non eccedere l’importo di 257,52 euro, è possibile versarlo in un’unica soluzione con scadenza al 30 novembre 2022. In questo caso, non dovrà essere pagato nulla a giugno.

Dichiarazioni dei redditi delle partite Iva e professionisti: quali sono le date da ricordare?

La dichiarazione della dichiarazione dei redditi delle partite Iva tramite il modello Persone fisiche (Pf) deve essere presentata da tutti i lavoratori autonomi, indipendentemente dall’aver conseguito dei redditi nel periodo di imposta 2021. È quanto prevede l’Agenzia delle entrate con il provvedimento dello scorso 31 gennaio. Pertanto, anche le partite Iva che nello scorso anno non abbiano conseguito guadagni sono tenute a presentare il modello Persone fisiche.

Entro quando deve essere inviato il modello Persone fisiche dai titolari di partita Iva?

Il modello Pf deve essere inviato entro la scadenza del 30 giugno prossimo se si provvede mediante la compilazione del modello cartaceo. In tal caso, il modello va inviato da un ufficio postale. Nel caso in cui si scelga di inviare il modello Pf on line, la scadenza è al 30 novembre prossimo. Lo può inviare direttamente il contribuente o il proprio commercialista.

Quali sono le aliquote e la base imponibile per le ritenute a titolo di acconto e di imposta

Per i compensi da lavoro autonomo, a titolo di acconto, si applica una ritenuta che è pari al 20%. Pur tuttavia, ci sono casi in cui al posto della ritenuta d’acconto, sempre sui redditi da lavoro autonomo, il prelievo fiscale è secco ed è pari al 30% a titolo di imposta.

In più, in base al tipo di reddito da lavoro autonomo varia pure la base imponibile su cui applicare la tassazione. Vediamo allora di fare chiarezza in merito. Ovverosia, andando ad elencare proprio quali sono le aliquote e la base imponibile per le ritenute a titolo di acconto e di imposta.

Ritenuta acconto o di imposta compensi lavoro autonomo, quando è al 20% e quando al 30%

Nel dettaglio, a titolo di imposta, la ritenuta è al 30% quando i compensi sono riconosciuti a soggetti che non sono residenti in Italia. E quando le somme corrisposte si riferiscono all’utilizzazione economica di brevetti, di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali e simili così come riporta l’Agenzia delle Entrate attraverso il proprio sito Internet.

In tutti gli altri casi, ovverosia per i compensi corrisposti ai residenti, la tassazione per i redditi da lavoro autonomo è sempre pari al 20% a titolo di acconto. Ed è sempre al 20% pure quando i compensi sono riconosciuti a stabili organizzazioni in Italia di soggetti non residenti.

Qual è la base imponibile per l’applicazione della ritenuta d’acconto al 20%

Per l’applicazione della ritenuta d’acconto al 20%, sui compensi corrisposti al lavoratore autonomo, non sempre la base imponibile è quella piena, ovverosia al 100%. In particolare, la base imponibile, per esempio, è al 100% per le prestazioni di lavoro autonomo anche occasionale, per l’assunzione di obblighi di fare, non fare e permettere, ed anche per i compensi ad associati in partecipazione che apportano solo lavoro. E lo stesso dicasi pure per la partecipazione agli utili di soci fondatori o promotori.

Fanno eccezione, invece, i compensi riconosciuti per la cessione di diritti d’autore da parte dello stesso autore. In questo caso, infatti, la base imponibile su cui calcolare la ritenuta d’acconto è al 75% per i soggetti di età superiore a 35 anni. E scende al 60% per i soggetti di età inferiore a 35 anni.

Come e quando si versano le ritenute sui compensi lavoro autonomo

Con il modello F24, ed in modalità esclusivamente telematica, le ritenute sui compensi da lavoro autonomo, da parte dei sostituti di imposta, si versano sempre entro e non oltre il 16 del mese successivo a quello del pagamento. Pur tuttavia, se il 16 del mese cade di sabato, oppure in un giorno festivo, allora il termine slitta al primo giorno lavorativo successivo.

Contributo a fondo perduto Resto al Sud, concorre all’imponibile Irpef e Irap?

Il contributo a fondo perduto Resto al Sud concorre a formare il reddito imponibile ai fini dell’Irpef e dell’Irap? Per fornire una risposta al quesito è necessario rifarsi a quanto prevede la regola generale, secondo la quale i contributi a fondo perduto ottenuti devono essere considerati redditi imponibili. A meno che la norma di legge non disponga esplicitamente la non imponibilità dei contributi ricevuti ai fini dell’Irap e dell’Irpef.

Imponibilità dei redditi Irpef e Irap per i contributi Resto al Sud nei periodi di Covid

Ai fini dell’imponibilità Irpef e Irap dei contributi ricevuti, deve essere preso in considerazione anche l’articolo 10 bis, della legge numero 137 del 2020. Si tratta della la conversione del decreto “Ristori”. E, da ultima, l’interpretazione dell’Agenzia delle entrate. Quest’ultima ha chiarito come deve essere trattata la detassazione dei contributi a fondo perduto ricevuti nel periodo di emergenza sanitaria ed economica.

Contributi a fondo perduto Resto al Sud: non concorrono alla formazione del reddito imponibile

A decidere se i contributi a fondo perduto Resto al Sud concorrano alla formazione del reddito è stata l’Agenzia delle entrate con la risposta all’interpello numero 815 del 2021. In particolare, i contributi percepiti non concorrono a formare il reddito e, dunque, l’imponibile ai fini dell’Irpef e dell’Irap.

Resto al Sud: i contributi a fondo perduti previsti dal decreto 34 del 2020

L’Agenzia delle entrate ha infatti chiarito che la società che fruisce dei contributi a fondo perduto, nello specifico di quelli previsti dall’articolo 54 del decreto legge numero 34 del 2020, ne beneficiano per il rilancio produttivo e per la capacità di far fronte agli effetti sociali ed economici dell’emergenza da Covid-19. Pertanto, in base a questi elementi, i contributi a fondo perduto non sono soggetti a tassazione.

Il quesito sull’imponibilità dei redditi per i contributi ricevuti a fondo perduto

L’Agenzia delle entrate, nel suo giudizio, si è espressa sul quesito presentato da una ditta che ha percepito un contributo a fondo perduto rientrante nella misura Resto al Sud. L’articolo 245 del decreto legge numero 34 del 2020, che ha previsto il contributo, non pone esplicitamente la non imponibilità ai fini dell’Irpef e dell’Irap dei fondi ricevuti.

Sono imponibili ai fini Irpef e Irap i contributi a fondo perduto ottenuti non per l’emergenza Covid?

In situazioni di questo tipo, l’Agenzia delle entrate si era espressa in passato disponendo che “i contributi a fondo perduto, per i quali la legge non riporta esplicitamente la non imponibilità ai fini Irpef e Irap devono essere considerati redditi imponibili”.

Aiuti di Stato alle imprese e ai professionisti in tempi di emergenza sanitaria: cosa prevede la conversione del decreto Ristori?

Tuttavia, nella conversione del decreto “Ristori” (numero 137 del 2020) è stata introdotta una importante variazione all’articolo 10 bis. La norma, infatti, specifica che “i contributi e le indennità di qualsiasi natura erogati in via eccezionale a seguito dell’emergenza epidemiologica da Covid 19 e diversi da quelli esistenti prima della medesima emergenza, da chiunque erogati e indipendentemente dalle modalità di fruizione e contabilizzazione, spettanti ai soggetti esercenti impresa, arte o professione, nonché ai lavoratori autonomi, non concorrono alla formazione del reddito imponibile ai fini delle imposte sui redditi e del valore della produzione ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive (Irap)”.

Resto al Sud, i contributi a fondo perduto alle imprese vanno per il rilancio dall’emergenza Covid

I contributi a fondo perduto di Resto al Sud vanno proprio nella direzione del rilancio delle imprese dopo l’emergenza da Covid. Infatti, il comma 1, dell’articolo 245, del decreto legge numero 34 del 2020 (cosiddetto “Rilancio”) sancisce che: “Al fine di salvaguardare la continuità aziendale e i livelli occupazionali delle attività finanziate dalla misura agevolativa ‘Resto al Sud’, nonché di sostenere il rilancio produttivo dei beneficiari della suddetta misura e la loro capacità di far fronte a crisi di liquidità correlate agli effetti socio-economici dell’emergenza Covid-19, i fruitori del suddetto incentivo possono accedere, nei limiti delle risorse disponibili, a un contributo a fondo perduto a copertura del loro fabbisogno di circolante, il cui ammontare è determinato, ai sensi del Regolamento (UE) n. 1407/2013 della Commissione, del 18 dicembre 2013”.

Contributi a fondo perduto Resto al Sud: devono essere considerati aiuti di Stato nell’emergenza da Covid

Nel fornire il chiarimento, dunque, l’Agenzia delle entrate ha considerato i contributi a fondo perduto della misura Resto al Sud rientranti tra quelli erogati in fase di emergenza. I contributi a fondo perduto vanno, pertanto, a integrarsi nel quadro temporaneo delle misure di aiuto di Stato per il sostegno dell’economia nella fase di emergenza da Covid 19.

Come considerare ai fini Irap e Irpef i contributi a fondo perduto della misura Resto al Sud?

In definitiva, le imprese che percepiscono contributi a fondo perduto della misura Resto al Sud, nel dubbio se detti aiuti concorrano alla formazione del reddito e dunque siano imponibili ai dell’Irap e dell’Irpef, devono considerare:

  • che la misura è finalizzata a rilanciare la produttività dei beneficiari e a far fronte alle crisi di liquidità emerse nella fase di emergenza sanitaria ed economica;
  • inoltre, che la misura si concretizza in un contributo a fondo perduto a copertura del fabbisogno di circolante dell’azienda beneficiaria. Pertanto, l’aiuto ottenuto è differente rispetto alla medesima misura Resto al Sud esistente anteriormente all’emergenza sanitaria.

 

Acquisto fabbricato strumentale da privato o impresa con meno di 5 anni, quali tasse si pagano?

L’acquisto di un fabbricato strumentale comporta il pagamento di determinate tasse e imposte sia che l’acquisto avvenga da soggetto privato che da un’impresa costruttrice. In quest’ultimo caso è necessario distinguere se il fabbricato sia stato costruito da meno o da più di 5 anni. Per fabbricati strumentali si intendono quelli accatastati nella categoria catastale A/10 e nei gruppi catastali B, C, D ed E.

Comprare un fabbricato strumentale da un soggetto privato, quali tasse?

L’acquisto di un fabbricato strumentale da un soggetto privato non comporta il pagamento dell’Iva. Chiunque sia l’acquirente, è necessario pagare innanzitutto l’imposta di registro. L’aliquota, in questo caso, è del 9% come previsto dal primo periodo dell’articolo 1 del TP 1. Oltre all’imposta di registro, è necessario pagare anche quella ipotecaria. In questo caso, l’imposta è pari a 50 euro, ai sensi del comma 3 dell’articolo 10, del decreto legislativo numero 23 del 14 marzo 2011.

Le imposte da pagare nel caso di acquisto di un fabbricato strumentale

In virtù della stessa norma, anche l’imposta catastale sull’acquisto da privati di un fabbricato strumentale comporta il pagamento di 50 euro. L’acquirente non deve pagare, invece, l’imposta di bollo e la tassa ipotecaria in quanto l’operazione ne è esente in entrambi i casi.

Acquisto di un fabbricato strumentale da una impresa costruttrice: quali tasse e imposte sono da pagare?

Nel caso in cui l’acquisto del fabbricato strumentale avvenga da un’impresa costruttrice, è necessario distinguere l’epoca di costruzione. Per i fabbricati costruiti meno di 5 anni prima dell’acquisto e comprati da qualsiasi soggetto a eccezione di un fondo immobiliare, sull’operazione si applica l’Iva del 22% ai sensi dell’articolo 10 numero 8 ter, articolo 16 punto 127 undecies, della Tabella A III, del decreto numero 633 del 1972.

Quando si applica l’aliquota Iva del 10% per la legge Tupini?

L’aliquota scende al 10% nel caso di edificio “Tupini”. Si tratta dell’applicazione dell’articolo 13 della legge numero 408 del 2 luglio 1949, cosiddetta “legge Tupini”, espressione dalla quale il gergo professionale deriva la qualificazione di “fabbricato Tupini” dell’edificio che presenti i criteri della legge stessa. La norma, in particolare, prende a riferimento le “case di abitazioni, anche se comprendono uffici e negozi, che non abbiano il carattere di abitazioni di lusso”.

Le agevolazioni fiscali sui fabbricati strumentali successive alla legge Tupini

Sui fabbricati strumentali, la stessa legge è stata soggetta a successive modifiche quali:

  • l’articolo 1 della legge numero 1493 del 6 ottobre 1962 che ha previsto che le “agevolazioni fiscali previste per le case di abitazioni non di lusso sono applicabili anche ai locali destinati a uffici e negozi quando, questi ultimi, sia destinata una superficie non eccedente il quarto di quella totale nei piani sopra terra;
  • l’articolo unico della legge numero 1212 del 2 dicembre 1967 che ha disposto che le agevolazioni fiscali riportate nell’articolo 1 della legge 1493 devono intendersi applicabili anche ai locali destinati a uffici e negozi quando ai negozi sia destinata una superficie non eccedente il quarto di quella totale nei piani sopra terra.

Affinché siano concesse le agevolazioni fiscale è sufficiente che ricorrano, congiuntamente, le due seguenti condizioni:

  • che almeno il 50% più uno della superficie totale dei piani sopra terra sia destinata ad abitazione;
  • che non più del 25% della superficie totale dei piani sopra terra venga destinata ai negozi.

Quali altre imposte sono a carico di chi compra un fabbricato strumentale con meno di 5 anni?

Nel caso di fabbricato strumentale con meno di 5 anni acquistato da un soggetto qualsiasi dall’impresa costruttrice sono da pagarsi anche:

  • l’imposta di registro per 200 euro, ai sensi del comma 10 ter 1, dell’articolo 35 del decreto legge numero 223 del 4 luglio 2006, poi convertito nella legge numero 248 del 4 agosto 2006;
  • imposta ipotecaria del 3%, ai sensi della Nota all’articolo 1 bis della Tariffa allegata al decreto legislativo numero 347 del 31 ottobre 1990;
  • l’imposta catastale dell’1%, ai sensi del comma 1, dell’articolo 10, del decreto legislativo numero 347 del 31 ottobre 1990;
  • imposta di bollo di 230 euro, del comma 1 bis, numero 1) dell’articolo 1, della tariffa Allegata A al decreto del Presidente della Repubblica numero 642 del 26 ottobre 1972;
  • la tassa ipotecaria di 90 euro, ai sensi dei punti 1.1 e 1.2 dell’articolo 1, della Tabella delle Tasse ipotecarie allegata al decreto legislativo numero 347 del 31 ottobre 1990.

Tasse e imposte da pagare se l’acquirente è un fondo immobiliare

Nel caso di acquisto di un fabbricato dall’impresa costruttrice e l’acquirente è un fondo immobiliare, l’Iva da pagare è del 22%. L’aliquota scende al 10% nel caso si tratti di “edificio Tupini”. Le altre tasse da pagare consistono:

  • nell’imposta di registro per 200 euro;
  • l’imposta ipotecaria dell’1,5% con la riduzione dal 3% disposta dal comma 10 ter, dell’articolo 35, del decreto legge numero 233 del 4 luglio 2006;
  • nell’imposta catastale dello 0,5%, dimezzata dalla stessa legge precedente;
  • dall’imposta di bollo e dalla tassa ipotecaria rispettivamente di 230 euro e 90 euro.

Che cos’è l’imposta di donazione, quando si paga e quando no

Attraverso un atto che è sempre redatto da un notaio, in Italia le persone in vita possono donare beni ad altri soggetti. Al netto di eventuali franchigie, questo passaggio di beni è soggetto a tassazione. Si tratta, nello specifico, dell’imposta di donazione per la quale sono previste delle aliquote diverse in base ai soggetti che sono coinvolti nel contratto di donazione.

Chi paga l’imposta di donazione, le eventuali franchigie ed il ruolo del notaio

Il notaio, oltre a registrare l’atto di donazione, provvede pure al versamento delle relative imposte che sono a carico del beneficiario della donazione. Inoltre, come sopra accennato, se sono previste delle franchigie allora l’imposta di donazione sarà calcolata ed sarà dovuta sulla parte eccedente il valore del bene trasferito. Il notaio poi procederà alla registrazione dell’atto, entro un termine massimo di 30 giorni, presso l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate competente.

Quando l’imposta di donazione non si paga, dalle associazioni alle fondazioni bancarie

L’imposta di donazione, pur tuttavia, non sempre si paga quando il trasferimento di beni avviene in favore di alcuni soggetti. Tra questi, lo Stato italiano, le regioni, le province ed i comuni. Nonché gli enti pubblici e le associazioni che, legalmente riconosciute, hanno scopi di pubblica utilità. Pure le onlus e le fondazioni bancarie, inoltre, non pagano l’imposta di donazione.

Quali sono le aliquote applicate per il pagamento dell’imposta di donazione

Le aliquote applicate per l’imposta di donazione seguono il grado di parentela. In quanto più il legame di parentela è stretto, minore sarà l’aliquota applicata. Non a caso, questa è al 4% per il coniuge e per i parenti in linea retta con una franchigia, per ciascun beneficiario, che è pari a ben 1 milione di euro. Per i fratelli e per le sorelle l’imposta di donazione sale al 6% con la franchigia per ciascun beneficiario che in questo caso scende a 100.000 euro.

Per gli altri parenti l’aliquota è sempre al 6% ma senza franchigia. Mentre per le altre persone, anche in questo caso senza franchigia, l’imposta di donazione sale all’8%. Inoltre, indipendentemente dal grado di parentela, c’è una franchigia che è pari a ben 1,5 milioni di euro quando il beneficiario della donazione risulta essere una persona portatrice di handicap.

Il caso particolare della donazione di beni immobili e le tasse aggiuntive che sono previste

Quando la donazione è legata a beni immobili, ci sono inoltre delle tasse aggiuntive da pagare. Ovverosia, l’imposta catastale che è dovuta nella misura dell’1% del valore dell’immobile che è oggetto della donazione. E l’imposta ipotecaria che, invece, è dovuta nella misura del 2% del valore dell’immobile.

Inoltre, quando la donazione di un bene immobile si riferisce ad una prima casa, allora in base alla normativa fiscale vigente scatta la stessa agevolazione che è prevista per le successioni. Ovverosia, il pagamento in questo caso il pagamento delle imposte ipotecaria e catastale che è dovuto in misura fissa e pari a 200 euro ciascuna.

Dove vanno le imposte dell’esercizio nel conto economico?

Tra i documenti del bilancio d’esercizio di un’impresa spicca il conto economico. Al quale si aggiunge il rendiconto finanziario, lo stato patrimoniale e la nota integrativa. In particolare, con l’approvazione del bilancio d’esercizio l’impresa per il periodo di riferimento, il conto economico è finalizzato ad illustrare ed a spiegare come si è arrivati al risultato economico. Che può essere rappresentato da un utile oppure da una perdita di esercizio. Ma detto questo, ed entrando nello specifico, dove vanno le imposte dell’esercizio nel conto economico?

Ecco dove vanno le imposte dell’esercizio nel conto economico

Al riguardo, prima di tutto, c’è da dire che il conto economico, con una struttura a scalare, si compone di 4 sezioni principali. Ovverosia, prima la parte relativa al ‘Valore della produzione‘. e poi a seguire i ‘Costi della produzione‘, i ‘Proventi e oneri finanziari‘, e le ‘Rettifiche di valore delle attività finanziarie‘.

Per quel che riguarda le imposte dell’esercizio nel conto economico, queste vengono riportate e indicate sempre dopo la voce relativa a ‘utile o perdita prima delle imposte‘. Dopo questa voce, nel conto economico, ci sarà infatti sempre presente la voce imposte sul reddito che, sottratta all’utile o alla perdita prima delle imposte, porterà all’indicazione nel documento dell’utile netto o della perdita di esercizio.

Le imposte correnti, differite e anticipate nel conto economico

In particolare, la voce relativa all’utile o alla perdita netta è data dalla differenza tra l’utile prima delle imposte e le ‘Imposte sul reddito dell’esercizio, correnti, differite e anticipate‘. Con le imposte correnti che sono quelle che si riferiscono al reddito imponibile di un determinato esercizio di bilancio.

Le imposte differite sono invece quelle che sono sempre di competenza dell’esercizio ma, pur tuttavia, sono imponibili ed esigibili negli esercizi di bilancio successivi. Mentre le imposte anticipate sono quelle recuperabili negli esercizi futuri.

Obblighi conto economico per redigere il bilancio d’esercizio

In Italia, per redigere il bilancio d’esercizio, il conto economico è un documento obbligatorio che, ai sensi di legge, è in prevalenza disciplinato dagli articoli articoli numero 2423 e numero 2425 del codice civile. Sempre ai sensi di legge, inoltre, sono gli amministratori della società le figure che sono chiamate a redigere il conto economico. L’articolo numero 2425 del codice civile, inoltre, fissa per il conto economico lo schema di sintesi.

Partendo, come sopra accennato, dal ‘Valore della produzione‘ e passando per i ‘Costi della produzione’ e per la ‘Differenza tra valore e costi della produzione‘. A seguire, nella struttura a scalare del conto economico, ci sono poi i ‘Proventi ed oneri finanziari‘, le ‘Rettifiche di valore di attività finanziarie‘, il ‘Risultato prima delle imposte’, le ‘Imposte sul reddito dell’esercizio’ e la voce ‘Utile o perdita dell’esercizio‘.

Grazie allo schema sopra indicato, il conto economico permette di avere una fotografia dettagliata della gestione aziendale su tre aspetti. Ovverosia, la gestione ordinaria, la gestione finanziaria e la gestione fiscale. Con l’obiettivo di rispettare gli obblighi di trasparenza verso i soci, ed anche per fornire dati utili e attendibili al fine magari di permettere di attrarre nuovi investitori.

Entrate su, ma come vengono spesi i soldi dallo Stato?

C’è un’azienda che, in quanto a entrate, non conosce crisi. È lo Stato, che continua a macinare incassi, salvo poi spendere le proprie risorse in maniera scellerata.

Lo conferma il ministero dell’Economia, che ha reso noto come le entrate tributarie e contributive nel primo semestre del siano cresciute di quasi 5 miliardi (4.980 milioni, +1,6%) rispetto all’analogo periodo del 2015.

Si tratta di un combinato disposto tra crescita delle entrate tributarie (+2.624 milioni, +1,2%) e delle entrate contributive in termini di cassa (+2.356 milioni, +2,3%).

Nello specifico, nei primi sei mesi del 2016, le entrate tributarie erariali accertate in base al criterio della competenza giuridica sono state pari a 203.477 milioni, con un incremento di +8.374 milioni rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, +4,3%.

Le imposte dirette sono state pari a 111.708 milioni (+4.894 milioni, +4,6%) e quelle indirette a 91.769 milioni (+3.480 milioni, +3,9%). La variazione di gettito riscontrata sulle imposte dirette è da imputare all’andamento dell’Irpef, cresciuta di 4.229 milioni di euro (+5,1%) rispetto al 2015.

Tra le imposte indirette, le entrate Iva sono state pari a 53.707 milioni (+4.202 milioni, +8,5%). L’andamento dell’imposta sul valore aggiunto ha registrato una variazione positiva nella componente degli scambi interni di 4.919 milioni (+11,4%), di cui 5.175 milioni di crescita derivano dai versamenti da split payment.

Le entrate tributarie del bilancio dello Stato incassate nei primi sei mesi del 2016 sono state di 197.414 milioni, +10.284 milioni rispetto allo stesso periodo del 2015 (+5,5%). In aumento le imposte dirette, che ammontano a 109.914 milioni (+6.186 milioni, +6%). In crescita le imposte indirette, pari a 87.500 milioni (+4.098 milioni, +4,9%).

Tanti bei soldoni, quindi, nelle tasche dello Stato. E la qualità dei servizi che ritornano ai cittadini?

Metodo previsionale e acconto imposte

Per quanti aspettano il 30 novembre per versare l’ acconto imposte c’è una cosa in più da sapere. È infatti possibile utilizzare il metodo previsionale al posto di quello storico per pagare una o più imposte (con riferimento a uno o a tutti gli acconti), purché venga correttamente determinato il reddito presunto.

Qualora, infatti, il versamento effettuato risultasse insufficiente nel suo complesso, si rischia di vedersi comminata la relativa sanzione per insufficiente versamento dell’ acconto imposte. Fortunatamente, per la determinazione anticipata e corretta del reddito presunto è possibile fruire di alcune norme fiscali di favore, nel caso in cui la normativa non preveda espressamente il contrario.

Sarebbe, quest’ultimo, il caso dell’ acconto imposte per la nuova deduzione Irap relativa sia a imprese, sia a esercenti arti e professioni. In questo caso, la differenza tra il costo complessivo per il personale dipendente assunto a tempo indeterminato e alcune deduzioni richiamate dalla norma costituisce una ulteriore deduzione dalla base imponibile.

D’altro canto, non è possibile tenere conto dell’incremento dal 4% al 4,5% della percentuale utile alla determinazione del rendimento nozionale ai fini del calcolo dell’Ace 2015, come recita un apposito comma della legge di stabilità 2014.

Una, nessuna e… cento tasse

Che l’Italia sia un Paese di santi, poeti, navigatori e… tasse è cosa nota. Che ogni cittadino o impresa, tra imposte e tasse assortite, paghi ogni anno uno sproposito, altrettanto. Ma quante sono le tasse che paghiamo? Quali le più odiate? Quali le più strane? Quanto portano nelle tasche bucate dello Stato?

A tutte queste risposte ha provato a rispondere la Cgia, che ha sfruculiato tra tasse, tributi, ritenuti, accise, addizionali, imposte e chi più ne ha più ne metta, per arrivare alla sconcertante conclusione che gli italiani pagano in totale un centinaio di tasse diverse, tra imprese e privati cittadini.

Se, da un lato, il sistema tributario italiano non ha eguali nel mondo per quanto riguarda la fantasia delle cose da tassare, dall’altro è anche furbo nel tassare ciò che maggiormente porta gettito, dal momento che, come ha rilevato la Cgia, le prime 10 tasse della classifica valgono tutte insieme 417,7 miliardi di euro, pari all’86% del gettito tributario complessivo annuo.

Spacchettando il dato tra imprese e cittadini, per le prime le imposte maggiormente pesanti sono l’Ires (31 miliardi di euro nel 2014) e l’Irap (30,4 miliardi di gettito lo scorso anno). Per i secondi le imposte più gravose sono l’Irpef e l’Iva, che da sole costituiscono oltre la metà del gettito (53,1%). L’Irpef porta nelle casse dello Stato oltre 161 miliardi di euro (il 33,2% del gettito), l’Iva quasi 97 miliardi (19,9% del gettito).

Secondo il coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia, Paolo Zabeo, “nel 2015 ciascun italiano pagherà mediamente 8mila euro di imposte e tasse, importo che sale a quasi 12mila euro considerando anche i contributi previdenziali. E la serie storica indica che negli ultimi 20 anni le entrate tributarie pro-capite sono aumentate di 76 punti percentuali, molto di più rispetto all’inflazione che, invece, è salita del 47%”.

E per provare a non incazzarsi troppo per il modo in cui spesso lo Stato sperpera i soldi che imprese e cittadini gli elargiscono, direttamente dal sito della Cgia ecco la classifica delle 10 curiosità o stranezze delle tasse italiane.

  1. La tassa più elevata: l’Irpef;
  2. La tassa che paghiamo tutti i giorni: l’Iva;
  3. La tassa più pagata dalle società: l’Ires;
  4. La tassa odiata dalle imprese: l’Irap;
  5. La tassa più singolare: quella applicata dalle regioni sulle emissioni sonore degli aeromobili;
  6. La tassa più lunga (come dicitura): imposta sostitutiva imprenditori e lavoratori autonomi regime di vantaggio e regime forfetario agevolato;
  7. La tassa più corta (esclusi gli acronimi): bollo auto;
  8. L’ultima grande imposta introdotta: la Tasi;
  9. La tassa più odiata dalle famiglie (fino al 2015): l’Imu/Tasi;
  10. Le tasse più stravaganti: le imposte sugli spiriti (distillazione alcolici), sui gas incondensabili e sulle riserve matematiche di assicurazione (tasse su accantonamenti obbligatori delle assicurazioni), la tassa annuale sulla numerazione e bollatura di libri e registri contabili, le sovraimposte di confine applicate dalla dogana (sugli spiriti, sui fiammiferi, sui sacchetti di plastica non biodegradabili).

Pioggia di tasse tra novembre e dicembre

Come era accaduto questa estate, quando, tra giugno e luglio, gli italiani erano stati chiamati ad una serie di incombenze burocratiche da rispettare, ora, tra novembre e dicembre, sono in arrivo altrettante incombenze fiscali, una dietro l’altra.

Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, ha dichiarato in proposito: “Una pioggia di scadenze che potrebbe mettere in seria difficoltà moltissime piccole imprese a causa della cronica mancanza di liquidità. Un periodo, quello di fine d’anno, molto delicato per le aziende: oltre all’impegno con il fisco devono corrispondere anche le tredicesime ai propri dipendenti. E con il perdurare della crisi, questo impegno economico costituirà un vero e proprio stress test”.

Sono state contate a quasi un centinaio, tra i quali troviamo l’addizionale regionale all’accisa sul gas naturale, l’imposta provinciale di trascrizione, l’imposta sulle riserve matematiche e le sovraimposte di confine sui gas, gli spiriti, i fiammiferi, i sacchetti di plastica non biodegradabili, la birra e gli oli minerali.

Le prime dieci imposte sono, invece, Irpef, Iva, Ires, Irap, imposta sugli oli minerali, Imu, imposta sui tabacchi, addizionale Irpef regionale, ritenute sugli interessi e altri redditi da capitale e l’imposta sul lotto, che hanno garantito nel 2013 oltre l’83% del gettito tributario.

A seguito di queste scadenze, lo Stato e le Autonomie locali riceveranno 487,5 miliardi di euro e, aggiungendo i contributi sociali, che ammontano a 216 miliardi, il gettito fiscale, nel 2014, sfiorerà 704 miliardi di euro.

Vera MORETTI