Liquidazione giudiziale e fallimento: presupposti soggettivi e oggettivi

Il 16 maggio 2022, dopo diversi rinvii, l’ultimo ad opera del decreto legge 118 del 2021, entra in vigore il Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza (decreto legislativo 14 del 2019 su legge di delega 155 del 2017) naturalmente questo porta delle novità, vi sono però anche delle conferme, una delle novità è la scomparsa all’interno del codice dei termini “fallito” e “fallimento”, si parla ora di liquidazione giudiziale, restano però fermi i presupposti che possono dar luogo a questa procedura volta a tutelare i creditori nel caso in cui l’imprenditore commerciale si trovi in un grave stato di insolvenza. Vediamo quindi ora i presupposti della liquidazione giudiziale, da intendere come il precedente “fallimento”.

Cos’è la liquidazione giudiziale

La procedura di liquidazione giudiziale (prima fallimento) è una procedura di tipo concorsuale e viene messa in atto al fine di tutelare i creditori cercando di assicurare a questi un trattamento paritario (ricordiamo però che i creditori assistiti da una garanzia sono maggiormente tutelati). Si tratta inoltre di una procedura che comprende tutti i beni e il patrimonio del debitore e può iniziare anche d’ufficio ( ma non è possibile dichiarare il fallimento d’ufficio, cioè senza una preventiva procedura di accertamento), oppure su istanza di parte . A questo punto una precisazione è necessaria, si è detto che il debitore risponde con tutti i suoi beni, ma nelle società di capitali vi è la separazione del patrimonio del socio e del patrimonio della società e si risponde esclusivamente con il patrimonio della società.

Requisiti soggettivi per l’apertura della procedura di liquidazione/fallimento

Ritornando ai presupposti della dichiarazione di liquidazione giudiziale, essi possono essere divisi in presupposti soggettivi ed oggettivi. Per quanto riguarda i primi possono essere sottoposti alla procedura di fallimento imprenditori commerciali che esercitano attività commerciale esclusi però gli enti pubblici economici.

Naturalmente in questo modo la definizione appare un po’ generica, in primo luogo può trattarsi di imprenditori individuali, oppure società commerciali. Formalmente sono esclusi dalla possibilità di fallire gli imprenditori agricoli, ma di fatto, vista l’applicabilità dell’articolo 182 bis della legge fallimentare che disciplina gli accordi di ristrutturazione dei debiti e l’articolo 182 ter che invece si occupa della transazione fiscale, si può dire che anche l’imprenditore agricolo oggi può essere sottoposto a procedure concorsuali.

Per quanto riguarda i presupposti soggettivi, devono essere operate ulteriori esclusioni, infatti la legge fallimentare, e il nuovo Codice della crisi di impresa non è intervenuto su ciò, stabilisce che non è sottoposto a procedura fallimentare l’imprenditore commerciale che:

  • nei 3 esercizi precedenti rispetto a quello del deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività, se inferiore a 3 anni, abbiano un attivo patrimoniale non superiore a 300.000 euro;
  • se, nello stesso periodo visto in precedenza l’imprenditore abbia “in qualunque modo” ricavi lordi di ammontare non superiore a 200.00 euro;
  • l’ammontare dei debiti non scaduti non superi 500.000 euro.

Per non essere soggetti a fallimento però questi 3 requisiti devono essere presenti congiuntamente. Spetta inoltre al debitore dimostrare la presenza dei tre requisiti visti.

Presupposti oggettivi per fallimento /liquidazione giudiziale

Il presupposto oggettivo affinché si possa procedere alla dichiarazione di fallimento o liquidazione giudiziale è la presenza di un grave stato di insolvenza e l’incapacità dell’imprenditore commerciale di far fronte alle proprie obbligazioni, non basta quindi il mancato pagamento di un debito a far aprire la procedura.

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che deve trattarsi di una situazione strutturale e non transitoria che renda impossibile far fronte alle obbligazioni con mezzi normali in quanto siano venute meno le condizioni di liquidità e la possibilità di ottenere credito. Possono essere sintomo di stato di insolvenza i continui inadempimenti, inoltre sono da considerare indizi: la fuga dell’imprenditore commerciale, la sua irreperibilità, la chiusura dei locali dell’azienda e tutti quegli indici concordanti che possono far pensare comunque a una situazione di difficoltà.

Dal momento in cui viene richiesta la dichiarazione di fallimento e la sua reale dichiarazione non può intercorrere più di un anno, questo per evitare che l’imprenditore commerciale resti per lungo tempo bloccato da questa procedura come comunque inibisce azioni.

L’imprenditore defunto può essere dichiarato fallito solo nel caso in cui l’insolvenza sia risalente a un periodo antecedente rispetto alla morte. La richiesta in questo caso può essere fatta anche dall’erede che abbia accettato l’eredità con il beneficio dell’inventario. Nel caso in cui l’apertura della procedura sia successiva alla morte, la procedura continua nei confronti degli eredi, ciò anche nel caso in cui abbiano accettato l’eredità con il beneficio dell’inventario.

Se vuoi saperne di più sulla nuova disciplina della liquidazione giudiziale e sul Codice della crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, leggi l’articolo: Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza: cos’è la crisi d’impresa

Che significa crediti passati a perdita?

Quando la riscossione dei crediti non è certa, da parte di banche e società finanziarie, questi vengono definiti come crediti in sofferenza. E questo quando il debitore si trova in una situazione tale da non poter onorare gli impegni presi contrattualmente, per esempio, con la stipula di un mutuo o con l’accensione di un prestito.

Quando invece i crediti già in sofferenza non sono più recuperabili, allora si utilizza un’altra definizione. In tal caso, infatti, si parlerà di crediti passati a perdita. Ecco allora quali sono tutti gli aspetti e le caratteristiche per i crediti passati a perdita, cosa succede e quali sono i rischi e le conseguenze per chi ha concesso il credito, e per chi invece non è riuscito a pagare il debito in tutto o magari solo in parte.

Cosa succede e che fine fanno i crediti che sono passati a perdita?

Quando il credito da in sofferenza passa a perdita, questo significa che l’intermediario, la banca o la società finanziaria, non è più in grado di recuperarlo. Con la conseguenza che, tecnicamente, il rapporto di credito tra le parti, ovverosia tra chi ha concesso il credito e chi lo ha ricevuto, si estingue in maniera anomala.

E questo perché la banca o la società finanziaria dall’operazione ha subito una perdita, mentre per chi ha ricevuto il credito, senza ripagare il debito, in futuro sarà difficile se non impossibile, specie nel breve termine, riuscire ad accedere di nuovo al credito attraverso la stipula di mutui, di prestiti e di finanziamenti spesso anche se questi risultano essere coperti da garanzie reali.

Incubo Centrale dei Rischi per le famiglie e per le imprese insolventi

Quando le famiglie e le imprese sono insolventi, o comunque il credito loro concesso non è passato a perdita, ma è in sofferenza e quindi solo di dubbia riscossione, scatterà inevitabile e inesorabile la segnalazione e l’inserimento nella CR, ovverosia nella Centrale dei Rischi che è una base di dati che è gestita dalla Banca d’Italia.

La base di dati, in particolare, è alimentata proprio dalle banche e dalle società finanziarie. Ma quando un cliente che accede al credito è segnalato nella CR? Al riguardo c’è da dire che la segnalazione in Centrale Rischi scatta solo quando l’importo che il cliente deve restituire, sia questo un’impresa o un privato cittadino, risulta essere pari o superiore alla soglia dei 30.000 euro. Pur tuttavia, se il credito concesso al cliente è in sofferenza, allora la soglia di segnalazione nella Centrale dei Rischi crolla ad appena 250 euro.

E se il cliente bancario, pur tuttavia, è segnalato in CR ritenendo che ci sia un errore, cosa fare? Al riguardo, in caso di problemi o di contestazioni relative proprio alla segnalazione nella Centrale dei Rischi, il cliente prima di tutto può inviare un reclamo direttamente all’intermediario bancario o finanziario. Ed eventualmente il cliente può pure rivolgersi al giudice ordinario, oppure può optare per sistemi di risoluzioni stragiudiziali delle controversie. E questo avviene, nel caso specifico, rivolgendosi all’ABF che è l’Arbitro Bancario Finanziario.

La stretta creditizia soffoca le imprese italiane

Diminuiscono i prestiti concessi alle aziende, crescono i tassi di interesse e si moltiplicano le imprese insolventi. E’ la Cgia di Mestre a denunciare la stretta creditizia che è in atto sulle aziende delle penisola: negli ultimi 3 mesi del 2011 i prestiti erogati dal sistema bancario italiano alle imprese sono diminuiti dell’1,5%, toccando quota – 2,2% a dicembre. Sul fronte dei tassi di interesse le cose non vanno meglio: l’aumento del tasso è costato alle aziende italiane nel solo 2011 3,7 miliardi di euro.

Il risultato? Aumento delle insolvenze in capo alle aziende che hanno raggiunto quota 80 miliardi di euro, ovvero il +36% rispetto al 2010.

“Ci troviamo di fronte a una vera e propria stretta creditizia – afferma la Cgia di Mestre. – Le banche hanno chiuso i rubinetti del credito ed in una fase recessiva, come quella che stiamo vivendo in questo momento, corriamo il rischio che il nostro sistema produttivo, costituito prevalentemente da piccole e piccolissime imprese, collassi.”

Anche se i dati confermano che nel 2011 l’ammontare complessivo dei prestiti erogati alle imprese è stato di 995 miliardi di euro, con un +3% rispetto al 2010, tale dato va messo in rapporto con la crescita dell’inflazione, che l’anno scorso è stata del +3,3%, ovvero superiore all’aumento dei prestiti erogati alle imprese. A dicembre poi il collasso: aumento vertiginoso dell’inflazione e contrazione dei prestiti pari a – 2,2%.

Nel 2011 le insolvenze in capo alle imprese italiane hanno toccato gli 80,6 miliardi di euro, con un incremento rispetto l’anno precedente pari al + 36%. “Questa situazione ha sicuramente indotto molti istituti di credito a ridurre i prestiti – conclude Bortolussi – soprattutto a quelle realtà produttive che non erano più in grado di dimostrare e garantire una certa affidabilità”.

Appello a Monti: accelerare i pagamenti per le Pmi

Piccole e medie imprese italiane sempre più strette dalla morsa dei ritardi nei pagamenti e dal rischio del fallimento. Unazienda su 10 in Italia, secondo quanto rivelato dal l‘Osservatorio sulla rischiosità commerciale di Cribis D&B, è a rischio declassamento per l’insostenibilità degli oneri nei confronti dei propri fornitori.

La Cgia di Mestre chiede un intervento immediato ed efficace da parte del presidente del Consiglio Mario Monti, affinchè intervenga in prima persona per accelerare l’iter della Direttiva emanata dalla Comunità Europea contro i ritardi nei pagamenti. Le piccole e medie imprese, denuncia Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre, “a seguito della diminuzione del credito erogato dalle banche, non sono ormai più’ in grado di fronteggiare la crisi”.

E sono i dati a confermare l’ipotesi peggiore. Tra la stretta creditizia (-1,24% di prestiti erogati nel 2011 dalle banche), l’aumento dei ritardi nei pagamenti (+ 38 giorni negli ultimi 3 anni) e l’incremento dei fallimenti (+ 60,5% negli ultimi 4 anni), le piccole e medie imprese in Italia sono condannate.

“I ritardi nei pagamenti tra la Pubblica amministrazione italiana e le imprese private – continua Bortolussi – sono aumentati in questi ultimi 3 anni di 38 giorni. Secondo una recente elaborazione della Cgia, attualmente la Pa paga i suoi fornitori con un ritardo medio di 90 giorni. Se teniamo conto che le aziende italiane avanzano quasi 70 miliardi di euro dallo Stato italiano e il nostro Paese e’ maglia nera in Europa per i tempi medi di pagamento”.

Ritardi nei pagamenti che sono molto spesso l’anticamera del fallimento dell’azienda. Dal 2007 ad oggi i fallimenti sono aumentati i del 60,5%, toccando nel 2011 quota 11.615. Un’azienda su tre denuncia di aver portato i libri in tribunale a causa dei forti ritardi nei pagamenti subiti.

E il sistema creditizio e bancario? Come sostiene la piccola e media imprenditoria in Italia?

A causa dell’ aumento dell’inflazione del 3%, le imprese artigiane hanno registrato una contrazione dei prestiti pari a -1,24% e per le quasi società non finanziarie, le piccole società come le snc o le sas, l’aumento e’ stato solo dello 0,31%.

E’ andata meglio all’impresa pubblica, ch ha visto erogati crediti con +26,11%. Per le altre imprese private gli impieghi sono invece aumentati del +5,08%.

Micro imprese: 1 su 10 non può pagare i fornitori


Ritardi nei pagamenti, casi di insolvenza, rischio fallimento. Le aziende italiane, soprattutto la piccola e micro impresa, rischia di non riuscire a far fronte agli oneri nei confronti dei propri fornitori. E’ quanto denuncia lo studio realizzato dall‘Osservatorio sulla rischiosità commerciale di Cribis D&B, societa’ del Gruppo Crif.

Il grado di affidabilità delle imprese italiane è a rischio declassamento. Un’azienda su dieci infatti, non riesce a pagare i propri fornitori. Le aziende maggiormente esposte al rischio sono le micro imprese, mentre le difficoltà maggiori emergono nel settore del commercio all’ingrosso.

Qualche dato: a fine 2011 il 10,93% delle imprese italiane ha registrato un’alta rischiosità di generare insoluti commerciali nei confronti dei propri fornitori per i 12 mesi successivi. Se si confronta il medesimo dato a fine 2010 il tasso scende al 9,96% delle imprese italiane. Facendo un ulteriore salto indietro, nel marzo 2008 le imprese italiane caratterizzate da un’elevata rischiosità di insolvenza erano l’8,89%.

Le percentuali di rischio nel 2012 appaiono poi così suddivise: un livello di rischiosità media per il 45,56% delle imprese, mentre nella fascia medio-bassa il valore scende al 37,68%. Una fetta piccolissima occupa poi la percentuale di aziende che si collocano nella fascia di rischiosità bassa: appena il 5,83% del totale.