Fondo Nazionale Innovazione per supportare start up innovative

Il Fondo Nazionale Innovazione nasce dalla cessione del 70% di Invitalia Venture a Cassa Depositi & Prestiti ed è appunto gestito da quest’ultima attraverso la holding CDP Equity. L’obiettivo è partecipare al capitale di start up in modo da supportarne la crescita e l’accesso al credito.

Perché nasce il Fondo Nazionale Investimenti

Una startup è un’impresa che apporta profonda innovazione nel mercato attraverso un modello di rapida crescita replicabile. In realtà può anche essere considerata una fase dell’attività di impresa, cioè quella iniziale di input ed è quindi destinata poi a trasformarsi in un’attività ordinaria.

Il Fondo Nazionale Innovazione nasce per dare al Paese la possibilità di crescere attraverso le sue imprese e sfruttando i talenti presenti in Italia, creando così anche lavoro qualificato. Si tratta di una vera e propria iniezione di capitali che può aiutare nell’input iniziale di crescita. Il Fondo Nazionale Innovazione è in realtà diretto a finanziare due tipologie specifiche di Start up, si tratta di:

  • modelli di business scalabili (che consentono all’impresa di crescere in modo esponenziale con poche risorse);
  • elevata appetibilità per gli altri investitori.

Il ritorno di capitale previsto sugli investimenti è pari al 10- 14%.

Gli investimenti sono rivolti startup e PMI innovative che stiano per lanciare investimenti o che abbiano fatto investimenti nei 6 mesi precedenti rispetto alla richiesta di accesso al fondo. Deve trattarsi di società non quotate. L’investimento può essere effettuato sia immettendo liquidità, in questo caso si tratta di investimenti diretti, sia attraverso fondi indiretti, come ad esempio i fondi di fondi.

I principi su cui è basato il Fondo Nazionale Investimenti

Nel progetto del Fondo Nazionale Innovazione sono indicate 6 principi peculiari:

inclusione: il programma intende sostenere l’innovazione tecnologica rendendola accessibile a tutti, in questo modo l’innovazione tecnologica diventa strumento per la mobilità sociale, di crescita e motore di opportunità per le persone e per le imprese.

Crescita: la crescita di un Paese richiede ingenti investimenti e l’obiettivo di FNI è ricevere anche finanziamenti privati e internazionali, in questo modo diventa possibile coordinare le risorse pubbliche su tutti il territorio, incluso il Sud. FNI vuole quindi essere un volano di crescita.

Presidio strategico a tutela dell’uguaglianza e delle pari opportunità. Le nuove tecnologie hanno profondamente spaccato la società globale in termini di accesso, sono nati dei veri e propri monopoli che di fatto hanno escluso parte della società dalle opportunità che le nuove tecnologie possono offrire. Con il FNI è possibile dare supporto alle start up e PMI innovative e di conseguenza fare in modo che anche in Italia ci possa essere lavoro qualificato.

Ecosistema: una parte dei fondi è dedicata alla formazione in modo da superare i ritardi culturali nell’accesso alle nuove tecnologie. L’obiettivo è recuperare il gender gap attraverso una maggiore presenza femminile all’interno delle start up innovative con posizioni qualificate.

Leadership internazionale: FNI si pone come interfaccia privilegiata verso gli investitori istituzionali in rapporto di collaborazione e pianificazione.

Impatto atteso: l’obiettivo finale è rendere l’Italia sempre più competitiva a livello internazionale, generare lavoro qualificato a moltiplicatore 5.

Per approfondimenti: Imprenditoria femminile e gender gap digitale nell’industria 4.0 

Programma strategico sull’intelligenza artificiale: linee guida 

 

Intelligenza artificiale in Italia: presente e prospettive

L’Intelligenza Artificiale è la nuova frontiera per le imprese e questo anche grazie ai vari programmi pubblici volti a incentivare l’adozione di nuove tecnologie. In Italia il settore è comunque in evoluzione, l’Osservatorio sull’Intelligenza Artificiale ha provveduto a un censimento sulle imprese italiane che forniscono servizi nel settore offrendo anche spunti per gli investimenti futuri e sui dati per l’occupazione.

Le aziende che lavorano nel settore dell’Intelligenza Artificiale in Italia

Per capire a che punto dello stato dell’arte sono le aziende che in Italia si occupano di Intelligenza Artificiale è necessario partire dai dati reali. Dall’indagine effettuata dall’Osservatorio sull’Intelligenza Artificiale è emerso che vi sono 260 imprese che lavorano nel settore, di queste:

  • il 55% fornisce servizi in aree specifiche come Salute, Marketing & Sales, Finanza e Sicurezza Cibernetica;
  • il 25% fornisce analisi avanzate in dati strutturati e non strutturati ad esempio su interazione Uomo-IA, Computer Vision, un terzo di queste aziende sono start up.
  • 10% sono società System Integrator;
  • 5% sono società di consulenza.

Le aziende di questo settore sono di medie e grandi dimensioni.

Questa la situazione iniziale, ma ci sono molte aziende che si stanno dotando di laboratori di ricerca sull’Intelligenza Artificiale in Italia. In questo settore le aziende più attive sono quelle che operano nel settore energetico, sicurezza, aerospazio, telecomunicazioni, assicurazioni, banche, cloud e cura della casa e della persona. Questi numeri sono però ancora limitati, infatti non assicurano una crescita sufficiente rispetto a quello che è il mercato attuale. 

Come investono le aziende italiane in nuove tecnologie

Nel 2020 il 53% delle imprese medio grandi italiane dichiaravano di aver intrapreso progetti inerenti l’Intelligenza Artificiale, di queste la maggior parte si occupava di servizi manifatturieri 22%, settore bancario e finanziario 16% e infine, assicurazioni 10%. Solo il 5% di coloro che hanno intrapreso progetti inerenti l’intelligenza artificiale è rappresentato dalla Pubblica Amministrazione, che invece come si può notare nell’ultimo anno ha dovuto accelerare a causa della pandemia.

Il valore del mercato dell’Intelligenza Artificiale in Italia nel 2020 era di 300 milioni di euro, ma questo dato è in forte ripresa rispetto al 2019 quando il valore era il 15% inferiore, si tratta di dati però estremamente sconfortanti se paragonati a quelli del mercato europeo, infatti rappresentano il 3% di questo. Per avere un raffronto basti ricordare che il PIL italiano rappresenta il 12% del PIL europeo, quindi dovremmo avere dati sull’intelligenza artificiale nettamente superiori.

I servizi del mercato dell’Intelligenza Artificiale sono diretti al 77%, per un valore di 230 milioni di euro, ad aziende italiane, mentre il restante 23% è diretto ad aziende estere per un contro valore di 70 milioni di euro. Questo vuol dire che ci sono ancora ampi margini di sviluppo ed è possibile per le aziende già esistenti crescere e per chi si occupa di questo settore è possibile fare nuovi investimenti, quindi dare maggiore copertura al mercato.

Gli investimenti sull’intelligenza artificiale in Italia

Particolarmente ridotti sono gli investimenti che in Italia vengono fatti sull’Intelligenza Artificiale, ad esempio la spesa in Ricerca e Sviluppo in Italia rappresenta solo l’1,45% del Pil, mentre in Spagna il 3,7% e in Francia il 2,19%. Ciò si riflette anche sui dati relativi all’occupazione, infatti il settore offre 5.150 posti di lavoro, mentre in Spagna 8.500, in Francia 6.950 e Gran Bretagna 7.000. Questo vuol dire che investire di più nel settore dell’intelligenza artificiale può sicuramente portare alla creazione di nuovi posti di lavoro.

Non è un problema di formazione perché in Italia i ricercatori potenzialmente ci sono e ci sono anche lavoratori altamente specializzati. Nel 2019 però ci sono stati solo 739 ricercatori nel settore, contro i 2.660 della Spagna, i 2.755 della Francia e 2.974 della Gran Bretagna. Sulle capacità dei nostri ricercatori ci sono pochi dubbi, infatti sono riusciti ad avere 3.374 pubblicazioni con una produttività del 4,57% contro un indice di produttività del 2% della Spagna con soli 5.310 pubblicazioni, 1,2% della Francia con 3.350 pubblicazione. Questo implica che la Francia investe molto di più, impiega più ricercatori, ma ha risultati uguali a quelli dell’Italia e se l’Italia investisse di più sui suoi talenti, potrebbe avere risultati davvero eccellenti, non paragonabili a quelli degli altri Paesi dell’Unione Europea. Visto il numero risicato di ricercatori che abbiamo, l’Italia ha un numero di richieste di brevetti davvero alto, cioè 32.001.

Investimenti e applicazione delle nuove tecnologie

A rallentare l’Italia sono quindi gli scarsi investimenti sia del pubblico sia del privato, mentre i riconoscimenti a livello internazionale per i nostri ricercatori non mancano. I dati negativi della ricerca si ripercuotono sulle aziende, si tratta quindi di un fatto culturale, cioè l’Italia non investe in Intelligenza Artificiale, ma le aziende italiane sono restie anche ad applicare nuove tecnologie, infatti dal report emerge che solo il 35% delle aziende italiane ha adottato soluzioni di intelligenza artificiale, mentre nel resto dell’Unione Europea la media è del 43%. Le aziende italiane hanno collegato tale scarsa propensione al fatto che i costi delle nuove tecnologie sono elevati e allo stesso tempo vi sono pochi finanziamenti e incentivi pubblici al settore. A questo proposito occorre ricordare che il MISE ha stanziato 45 milioni di euro per supportare l’adozione di nuove tecnologie da parte delle aziende.

Considerati questi dati, emerge che il Programma Strategico sull’Intelligenza Artificiale per l’Italia è una sfida sul futuro e un modo per rendere le aziende italiane sempre più internazionali e in grado di reggere alle sfide del futuro incrementando l’occupazione non solo nel settore della ricerca e dello sviluppo di soluzioni tecnologiche evolute, ma anche per far in modo che le PMI adottando le soluzioni di Intelligenza Artificiale possano essere competitive.

Non resta che accogliere le sfide del futuro e per chi è interessato c’è l’approfondimento sul Programma strategico sull’Intelligenza Artificiale: linee guida.

 

 

Investimenti, infrastrutture e mobilità sostenibile, lo opportunità per le imprese dal Pnrr

Il Piano nazionale per la ripresa e la resilienza (Pnrr) assegna agli investimenti, alle infrastrutture e alla mobilità sostenibile risorse per complessivi 61,3 miliardi di euro. Nello specifico delle risorse, circa 41 miliardi di euro sono finanziati dal fondo Next Generation Eu (40,7 miliardi), 313 milioni con il programma React Eu, 21 miliardi di euro di risorse nazionali (10,6 miliardi dal Fondo complementare e 10,3 miliardi dallo scostamento di bilancio).

Infrastrutture e mobilità sostenibili, come sono distribuite le risorse e a chi spettano?

All’interno delle risorse stanziate per le infrastrutture e la mobilità sostenibile, il 56% dei fondi andranno alle regioni del Sud Italia. Gran parte dei progetti, circa il 76%, riguarderanno il contrasto alla crisi climatica e la transizione ecologica. Andando a scorporare gli ambiti di intervento, gli investimenti, le infrastrutture e la mobilità sostenibile (gestiti dal ministero per le Infrastrutture e per la mobilità sostenibile – Mims), sono previsti in 4 delle sei missioni del Piano nazionale per la ripresa e per la resilienza (Pnrr).

Mobilità sostenibile e infrastrutture, quante risorse sono state stanziate dal Pnrr?

La missione del Pnrr dove sono maggiori le risorse stanziate per il Mims è la numero 3. Infatti, nella missione “Infrastrutture per una mobilità sostenibile” sono stati stanziati 41,872 miliardi di euro. Ulteriori risorse sono state stanziate nelle missioni:

  • la Missione 1, “Digitalizzazione, innovazione e cultura”. Le risorse stanziate sono pari a 475 milioni di euro;
  • la Missione 2, “Rivoluzione verde e transizione ecologica”. I fondi a disposizione sono pari a 15,159 miliardi di euro;
  • la Missione 5, “Inclusione e coesione”. Le risorse a disposizione sono di 3,863 miliardi di euro.

Il totale delle risorse stanziate per le infrastrutture, gli investimenti e la mobilità sostenibile sono pari a 61,369 miliardi di euro.

Quali sono i progetti per settori di investimento di infrastrutture e mobilità sostenibile?

Le risorse stanziate dal Pnrr nell’ambito delle infrastrutture, degli investimenti e della mobilità sostenibile riguardano vari settori rientranti nelle diverse missioni. In particolare:

  • allo sviluppo della rete ferroviaria della Missione 3 sono destinati 36,6 miliardi di euro;
  • alla rigenerazione urbana e housing sociale delle missioni 2 e 5 sono destinati 5,2 miliardi di euro;
  • per la riqualificazione del parco dei mezzi delle missioni 2 e 3 sono stanziati 4 miliardi di euro;
  • al trasporto rapido di massa della missione 2 sono destinati 3,6 miliardi di euro;
  • al potenziamento della logistica, ai porti e agli aeroporti della missione 3 sono riservati 3,4 miliardi di euro;
  • alla mobilità innovativa e sostenibile delle missioni 1 e 2 sono riservati 3,2 miliardi di euro;
  • alle infrastrutture idriche, al potenziamento e alla gestione sostenibile della missione 2 sono destinati 3,2 miliardi di euro;
  • al rafforzamento della sicurezza stradale della missione 3 vanno 1,4 miliardi di euro;
  • allo sviluppo delle aree interne della missione 5 sono destinati 900 milioni di euro.

Quali tipologie di investimento per infrastrutture e mobilità sostenibile?

Le tipologie di intervento che si andranno ad attuare con le risorse del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza riguardano:

  • le opere pubbliche per 56 miliardi di euro;
  • l’acquisto di beni e di servizi per 3,7 miliardi di euro;
  • i contributi alle imprese per 1,6 miliardi di euro.

Tra gli esempi che si possono fare sul tipo di investimento, rientrano:

  • le infrastrutture ferroviarie;
  • l’acquisto di autobus green;
  • i contributi per il rinnovo delle navi;
  • le infrastrutture idriche;
  • il rinnovo dei treni;
  • il supporto alla filiera degli autobus elettrici;
  • l’edilizia sociale e penitenziaria;
  • i servizi di digitalizzazione del Tpl;
  • la digitalizzazione dei servizi aeroportuali.

Quale supporto viene richiesto alle imprese nell’ambito degli investimenti del Pnrr?

Nell’ambito dell’attuazione dei progetti del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza, il ministero delle infrastrutture è responsabile della governance del Pnrr e dell’assegnazione delle risorse ai soggetti attuatori. Questi ultimi ricoprono un ruolo principale nel realizzare i progetti stessi e, pertanto nella realizzazione delle infrastrutture richieste. Il principale soggetto attuatore è la Rete Ferroviaria Italiana (Rfi) con il 47,48% delle risorse da assegnare; a seguire gli enti territoriali con il 26,25% e i concessionari e società di gestione con il 14,63%. Le autorità del Sistema portuale gestiscono il 5,65% delle risorse, mentre le imprese il 3,06%. Infine, la gestione diretta delle risorse da parte del ministero è pari al 2,92% delle risorse.

Quali riforme verranno fatte con il Pnrr in ambito di investimenti e infrastrutture?

Le riforme (tre già realizzate) nell’ambito dell’attuazione del Pnrr riguardano:

  • la valutazione dei progetti nel settore dei sistemi del Tpl (impianti fissi e Trm) secondo quanto prevede il comma 1 ter dell’articolo 44 del decreto legge numero 77 del 2021;
  • la riforma dell’iter di approvazione del Contratto di programma (tra il ministero delle infrastrutture e Rfi) secondo quanto prevede l’articolo 5 del decreto legge numero 152 del 2021;
  • l’accelerazione dell’iter di autorizzazione dei progetti ferroviari previsto dall’articolo 6 del decreto legge numero 152 del 2021;
  • la Governance delle infrastrutture per l’approvvigionamento idrico (il comma 4 bis dell’articolo 2 del decreto legge 121 del 2021);
  • la procedura per la pianificazione strategica portuale (il comma 1 septies dell’articolo 4 del decreto legge 121 del 2021).
  • infine, entro il 2024 si prevede la riforma della Governance della Piattaforma logistica nazionale (articolo 30 del decreto legge 152 del 2021).

Quali investimenti sono in scadenza nel 2021 e nel 2022?

Tra i traguardi e gli investimenti del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza si annoverano:

  • l’infrastruttura per le Zone economiche speciali (Zes);
  • il supporto alla filiera degli autobus;

Saranno invece 13 gli investimenti del Piano complementare (per 20,6 miliardi di euro), tra i quali:

  • quattro per il rinnovo degli autobus, delle ferrovie regionali, per il verde e la socialità, inclusa la riqualificazione dell’edilizia residenziale pubblica. Questi traguardi sono stati già raggiunti con i relativi decreti emanati ad agosto 2021;
  • otto gli investimenti in fase di attuazione avanzata;
  • un investimento, quello di Strade Sicure è in fase di avanzamento entro il 31 dicembre 2021.

TFR in azienda: il datore di lavoro può investirlo? Ci sono rischi?

Il TFR, o Trattamento di Fine Rapporto, è una porzione di retribuzione la cui riscossione viene differita al momento della fine del rapporto di lavoro, ad esempio per dimissioni o pensionamento. Nel tempo queste somme accantonate sono state disciplinate in diverso modo, tra le varie opportunità vi è quella di lasciare il TFR in azienda per poi riscuoterlo al termine del rapporto di lavoro, ciò che molti si chiedono è: il datore di lavoro può investire il TFR lasciato in azienda?

Cos’è il TFR

Il TFR è una spettanza del lavoratore dipendente del settore pubblico e del settore privato ed è anche conosciuto come liquidazione o buonuscita. Per calcolare il suo importo occorre tenere in considerazione la retribuzione annua e dividerla per il coefficiente 13,5, infatti la normativa stabilisce che il TFR annuale debba essere pari e comunque non superiore a tale somma. A tale somma deve essere sottratto lo 0,50%  che deve finanziare il sistema previdenziale del fondo di garanzia come stabilito dall’articolo 2 comma 8 della legge 297 del 1982. Il TFR per un breve lasso di tempo è stato liquidato, a richiesta, anche in busta paga, ma l’INPS con Messaggio 2791 del 2018 ha precisato che non è più possibile fruire di tale opzione in quanto il legislatore non ha provveduto a prorogarla.

Come gestire il TFR: è consigliato lasciarlo in azienda?

In materia un’ importante riforma si ha con il decreto legislativo 252 del 2005 in cui la gestione del TFR è riformulata con l’obiettivo di stimolare i lavoratori a utilizzare il TFR per avere una pensione integrativa. Questa modifica è stata essenziale anche perché gli importi delle pensioni maturate sono andati via via scemando a causa delle riforme del sistema pensionistico. In passato il TFR restava in azienda e il datore di lavoro normalmente lo investiva nella stessa azienda, ad esempio per acquistare nuove strumentazioni e poi provvedeva a liquidare le somme ai lavoratori accedendo a risorse aziendali proprie, naturalmente al momento di versare gli importi c’era il rischio di non avere liquidità.

Oggi è tutto cambiato ed è il lavoratore di fatto a scegliere come investire la propria liquidazione durante il dispiegarsi del rapporto di lavoro.

Occorre ricordare che la riforma entra in vigore il primo gennaio 2007 e le somme accantonate prima di tale data restano soggette alla vecchia disciplina e quindi possono restare in azienda e possono essere ancora oggi liquidate alla fine del rapporto di lavoro. Fatta questa premessa, occorre ricordare che il TFR, in seguito alla riforma, può essere  lasciato in azienda ( che li gestisce solo in alcuni limitati casi)  oppure investito in fondi di investimento chiusi o aperti. Il lavoratore ha sei mesi di tempo dall’inizio del contratto di lavoro per scegliere, con il modello TFR2, come utilizzare il TFR che matura di anno in anno.

Il lavoratore come può investire il TFR?

Di conseguenza il lavoratore può:

  • scegliere di devolvere il TFR maturando a un fondo pensione che sceglie lui e indicandolo in modo esplicito, al momento di andare in pensione riceverà quindi il TFR come pensione integrativa;
  • Può non esprimere alcuna scelta e in questo caso si applica il principio del silenzio assenso e il datore di lavoro accantona il TFR presso fondo pensione previsto dagli accordi o contratti collettivi e, nel caso in cui siano disponibili più fondi, presso il fondo a cui hanno aderito la maggior parte dei lavoratori dell’azienda;
  • Infine può decidere in modo esplicito di lasciarlo in azienda. In questo caso si verificano due ipotesi:
  1. se l’azienda ha meno di 50 dipendenti può trattenerlo e poi versarlo al momento della cessazione del rapporto di lavoro ( se l’azienda dovesse avere difficoltà economiche, ottenere le somme potrebbe essere difficile);
  2. se l’azienda ha almeno 50 dipendenti deve invece devolvere il TFR man mano che matura al Fondo di Tesoreria dell’INPS. Il lavoratore può controllare in modo costante l’ammontare del proprio TFR lasciato al Fondo INPS attraverso il sito dell’INPS, occorre accedere all’area personale MyINPS. Ricordiamo che dal primo ottobre 2021 non è possibile accedere con il PIN, ma solo con lo SPID, e visitare l’area del sito “servizio consultazione posizione personale da lavoro dipendente”.

Il TFR lasciato in azienda si rivaluta automaticamente ogni anno dell’1,5% a cui si aggiunge il 75% del tasso di inflazione, ma tale rendimento è solitamente inferiore a quello dei fondi di previdenza complementare. La tassazione sul TFR è comunque più elevata rispetto a quella prevista in caso di devoluzione ai fondi di previdenza complementare.

TFR in azienda: il datore di lavoro può investirlo?

In effetti ad oggi l’unico caso in cui l’azienda ha la disponibilità diretta delle somme accantonate è quello in cui vi sono meno di 50 dipendenti. Tale condizione è comune a oltre il 90% delle aziende italiante Il lavoratore che inizialmente ha deciso di lasciare la liquidazione in azienda, in un secondo momento potrà decidere di investirlo in un fondo pensione chiuso o aperto, mentre nel caso in cui il lavoratore abbia inizialmente deciso di investirlo, non può cambiare idea e decidere di lasciare il TFR in azienda.  L’INPS ha chiarito che può essere devoluto ai fondi pensione anche il TFR pregresso.

TFR in Azienda: cosa succede se l’azienda non liquida le somme?

Il datore di lavoro deve liquidare le somme, su istanza del lavoratore, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, se gli investimenti del datore sono stati poco fortunati, il rischio di non avere il TFR è alto. Nel caso di mancato versamento nei termini, ricordiamo che gli stessi sono previsti nel CCNL di settore e che comunque il TFR deve essere chiesto prima di 5 anni dalla cessazione del rapporto di lavoro, il lavoratore può comunque agire per ottenere le somme anche attraverso il Fondo di Garanzia dell’INPS per il trattamento di fine rapporto, questo però ha un accesso limitato, infatti ci sono delle condizioni. In particolare si può chiedere l’erogazione tramite il fondo nel caso in cui l’azienda sia sottoposta a procedure di fallimento, come il concordato preventivo o la liquidazione coatta amministrativa.

Se l’azienda non è sottoposta a procedure concorsuali/fallimentari il lavoratore deve impegnarsi per ottenere le somme dal proprio datore di lavoro tramite procedure esecutive e potrà accedere al fondo solo nel caso in cui dimostri di aver percorso tutte le strade possibili per ottenere il TFR dal datore di lavoro, ma le stesse non hanno avuto esito positivo.

A questo punto occorre ricordare che il datore di lavoro potrebbe anche omettere il versamento ai fondi pensione, in questo caso è onere del lavoratore controllare che i versamenti siano eseguiti e in caso di mancato versamento è bene sollecitare il datore di lavoro affinché li esegua e, se l’esito è negativo, può procedere per vie legali.

Industria 4.0 spinta del recupero degli investimenti

Si è svolto a Torino il G7 ministeriale su Industria e ICT.
In particolare, per quanto riguarda la ripresa degli investimenti, sono stati trattati i temi riguardanti la Nuova Rivoluzione della Produzione, “Next Production Revolution – NPR” che è basata su robotica, intelligenze artificiali applicate alla manifattura, stampa 3D e big data.

Si tratta di cambiamenti radicali che interesseranno il mercato del lavoro e che influenzeranno profondamente l’economia italiana, che già nella prima metà del 2017 è stata caratterizzata dalla ripresa degli investimenti, che già si era rimessa in marcia lievemente nel 2015 (+1,4%) e rafforzata nel 2016 (+3,1%) e ulteriormente nel 2017 (+3,2% negli ultimi quattro trimestri, tra III trimestre 2016 e II trimestre 2017).

Il recupero degli investimenti è sostenuto dal Piano Industria 4.0, con una serie di incentivi e detassazioni, come iper-ammortamento e credito di imposta in ricerca e sviluppo.
Questo progetto sta funzionando bene, considerando che negli ultimi quattro trimestri gli investimenti sono saliti del 4,8%. A maggio, inoltre, i nuovi ordinativi per macchinari degli ultimi dodici mesi salgono del 4,6%, aumento trainato dall’eccezionale +9,1% degli ordini interni, il tasso di crescita massimo degli ultimi 5 anni.

Nel mese di maggio il fatturato delle imprese produttrici di macchinari ha segnato un rialzo del 2,9%, completamente indotto dal mercato interno che segna un aumento del 7,1% mentre ristagna (-0,3%) il fatturato estero. Sale anche l’attività ad alta vocazione artigiana dell’installazione dei macchinari e la loro integrazione nel processo di produzione, settore in cui il 42,1% degli addetti lavora nelle imprese artigiane: nei primi sette mesi del 2017 la produzione di installazione di macchine ed apparecchiature industriali sale del 5,2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Il sostegno degli incentivi sta riportando gli Investimenti al netto delle costruzioni verso i livelli medi del periodo pre crisi (2000-2007) e manifestando segnali positivi sulla domanda di lavoro.

Vera MORETTI

Se la crisi azzoppa gli investimenti

Uno dei dati che fanno capire quanto ancora la crisi non abbia smesso di mordere, è quello relativo alla propensione delle imprese agli investimenti. Investimenti che, negli ultimi, lunghissimi 8 anni di crisi sono letteralmente crollati.

I conti li ha fatti l’Ufficio studi della Cgia, che ha calcolato come, tra il 2007 e il 2014, l’ammontare complessivo degli investimenti al netto dell’inflazione sia sceso di 109,4 miliardi di euro, un calo del 29,7%. Tra tutti gli indicatori economici, si tratta di quello che ha registrato la contrazione percentuale più ampia.

Analizzando i settori nei quali il calo degli investimenti è stato più sensibile, la Cgia ha rilevato che le contrazioni più significative sono state relative ai mezzi di trasporto (autoveicoli, automezzi aziendali, bus, treni, aerei, etc.), in flessione del 43,4% (-10,9 miliardi di euro), i fabbricati non residenziali (capannoni, edifici commerciali, opere pubbliche, etc.), -38,6% (-39,1 miliardi) e le abitazioni. Quello dell’edilizia, non è un mistero, è il settore più colpito dalla crisi. L’edilizia residenziale ha fatto segnare un calo degli investimenti del 31,6%(-31,7 miliardi).

Pesanti anche le cadute nel settore informatico (-30,1%, pari a -1,9 miliardi), in quello degli impianti e dei macchinari (-29,3%, -25,4 miliardi) e in quello dei software (-10,8%, -2,4 miliardi).

Le uniche tipologie di investimenti che non hanno patito la crisi sono state quelle in ricerca e allo sviluppo (+8,1%, +1,5 miliardi) e in tlc (+10,6%, +598 milioni).

Nel periodo 2007-2014, la crisi ha colpito anche gli investimenti nel settore pubblico (-30,8%), così come le famiglie consumatrici (-29,9%). L’Ufficio Studi della Cgia segnala come, fatto 100 il totale degli investimenti in Italia nel 2014, oltre il 60% era riconducibile alle imprese e il 24% circa alle famiglie consumatrici.

Confassociazioni Giovani e Anpib insieme per “Investire sul futuro”

Confassociazioni Giovani, la branch formata dai giovani al di sotto dei 35 anni, che ha riunito in poche settimane di esistenza più di 60mila elementi, e Anpib, l’Associazione Nazionale Private & Investment Bankers organizzano la conferenza “Investire sul futuro”, che avrà a luogo a Roma il 10 dicembre prossimo nella Sala Parlamentino dell’Inail (Via IV Novembre 144, dalle ore 10 alle ore 13.30). Tre saranno le questioni al centro del dibattito:

  • Quale futuro prevediamo per la previdenza di Stato e per il nostro sistema di welfare complessivo? Come le assicurazioni sul lavoro possono svolgere un ruolo di protezione di lungo periodo?
  • Come proteggere i lavoratori ed i consumatori con processi educativi concreti che diminuiscano le asimmetrie informative?
  • Come possiamo ridisegnare un approccio scolastico più moderno ponendo al centro dell’insegnamento nuove materie tra cui la capacità di gestire le proprie risorse finanziarie ed economiche, importanti per affrontare in maniera serena e consapevole il proprio futuro?

La conferenza del 10 dicembre sarà quindi un momento di approfondimento in cui raccontare una visione di medio-lungo periodo per il Paese. Anche perché, per Confassociazioni la capacità di ognuno di noi di saper gestire in un’ottica di lungo periodo le risorse economiche e la progettazione assicurativa e previdenziale è una priorità fondamentale per lo sviluppo del benessere individuale, sociale e collettivo.

Confassociazioni ritiene quindi importante la creazione di una piattaforma collaborativa che coinvolga tutti gli stakeholder, dalle associazioni dei consumatori al sistema bancario e finanziario, dalle Istituzioni alle associazioni dei professionisti, per costruire insieme iniziative permanenti che rendano l’education alla progettazione del futuro una competenza “infrastrutturale” di ciascuno.

Orizzonti temporali e profilo di rischio

Ecco come si smonta l’impostazione tradizionale delle asset allocation generate da banche e reti di promotori.

Una casa si costruisce dalle fondamenta, un piano finanziario anche.
Investire significa avere degli obiettivi, magari non troppo chiari a sé stessi, ma una motivazione per risparmiare ed investire c’è, altrimenti tanto varrebbe spendere tutto e godersi la vita.
Ad ogni obiettivo di vita, corrisponde una somma di denaro che serve alla sua realizzazione, e di solito una persona vuole raggiungere più obiettivi, distanziati nel tempo.

COSA SONO GLI ORIZZONTI TEMPORALI

Ecco che non ha senso definire un solo profilo di rischio ed un solo orizzonte temporale, poiché ogni obiettivo avrà una determinazione diversa per quanto riguarda: somma necessaria e tempo in cui sarà disponibile, quindi di conseguenza anche rischio sopportabile.
Faccio un esempio; sempre il nostro Nestore sta pensando alla sua pensione e tra dieci anni vorrebbe godersi i frutti del suo lavoro. Quindi ha un orizzonte temporale (10 anni) e deve stabilire quale somma gli serve per poter vivere decorosamente quando smetterà di lavorare. Fatte le dovute stime e analisi della situazione previdenziale, emerge che la pensione pubblica non sarà sufficiente a garantirgli il tenore di vita voluto e che sarà necessario integrare il reddito con altre entrate, per altri 12000 Euro annui (al valore attuale, tra dieci anni saranno di più). Quindi, calcolata l’inflazione attesa, sarà necessario avere o una rendita o un capitale che consenta di raggiungere questo primo obiettivo. Gli strumenti, le strade per raggiungere quanto sperato possono essere diverse: previdenza integrativa, capitale o immobile a reddito, investimenti speculativi o un mix di tutto questo.
E’ importante calcolare bene quanto sarà necessario, per evitare di eccedere ed avere risorse sovrabbondanti, che potevano essere usate per altri obiettivi.
Vi ricordate però gli altri obiettivi di Nestore? Università dei figli, avviare loro un’attività, comprare casa. Ogni obiettivo ha scadenza temporali e capitale a disposizione diversi, ma sopratutto ha diversa priorità. Verificato che tutti gli obiettivi siano raggiungibili, cioè che il patrimonio sia sufficiente, è necessario fare una graduatoria degli obiettivi. In particolare, quale di questi può mettere in difficoltà davvero Nestore?
Non c’è una risposta valida per tutti, ogni persona avrà una scala di priorità diverse, ma se un mancato raggiungimento comporta una vera difficoltà, allora questo sarà prioritario.
Nell’ esempio citato, non poter mantenere un tenore di vita decoroso quando Nestore andrà in pensione è prioritario, quindi sarà l’obiettivo numero 1.
La prossima volta confronteremo investimenti e prelievi di denaro nel tempo dai medesimi, per capire come influenzano il patrimonio complessivo.

dott. Marco Degiorgis – Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

Orizzonti temporali

 

Sfatiamo uno dei tanti miti della finanza; l’orizzonte temporale non è quello che sembra!

Intendo dire che è necessario prima stabilire quali sono le cose e le persone veramente importanti per voi, per poter capire qual è l’orizzonte temporale, cioè quanto tempo siete disposti ad aspettare che il vostro investimento generi i suoi frutti.
Al di là di quanto dichiarate durante la raccolta delle informazioni necessarie a stabilire il vostro profilo di rischio, il limite al quale il vostro investimento deve tendere è in funzione sia delle necessità vostre sia di quelle dei vostri cari.
Si torna cioè a parlare di planning.
Ad esempio, se una persona ha dei figli e vuole provvedere a loro in qualche modo con il proprio patrimonio, l’orizzonte temporale si sposta in avanti di moltissimi anni.

Vediamo un caso pratico: Nestore ha due figli, di 14 e 16 anni.
Per loro vuole provvedere al mantenimento agli studi universitari per almeno 4 anni( tra 4 anni per il figlio più giovane, tra 2 per quello più vecchio).
Poi vuole aiutarli ad avviare un’attività (tra 7 e 10 anni), a comprare casa (tra 12 e 15 anni).
Quale sarà l’orizzonte temporale complessivo di Nestore? almeno 15 anni!
Ma con tappe intermedie; tra due anni, tra 4, tra 7 e così via.

Per ogni tappa fissata sul percorso, è necessario anche stabilire quanto sarà necessario per soddisfare l’obiettivo previsto. Quanto e quando viene prelevato dal patrimonio complessivo è fondamentale per determinare la corretta composizione dell’investimento. E per capire quanto rischio effettivo si può assumere.
Se avete mai fatto un investimento finanziario, certamente vi avranno chiesto quale orizzonte temporale avete, perché anche sulla base di quello è possibile determinare il profilo di rischio e di conseguenza impostare la corretta asset allocation, cioè quali prodotti inserire nel vostro investimento finanziario.
Siccome si è sempre proceduto in tal modo fatto, pensate che sia corretto…e invece non è così!

Capite quindi che chiedere ad una persone qual è il suo orizzonte temporale e quanto vuole rischiare, non ha nessun senso. Ogni investitore ha orizzonti temporali e profili di rischio diversi, che vengono determinati in base alle sue priorità, obiettivi e finalità.
Se si determinano a priori rischio e tempo, ci si dovrà poi accontentare di quanto prodotto dall’investimento sulla base di questi fattori e si potranno soddisfare solo parzialmente le proprie esigenze, magari neppure tutte.
Approfondiremo il discorso prossimamente, attraverso alcune tabelle comparative che aiutino a comprendere meglio.

dott. Marco Degiorgis – Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

Imprese e le rinunce italiane


Lo sapete che dal 2007 ad oggi sono stati persi 4 milioni di euro al giorno nel settore delle imprese? Stiamo parlando ufficialmente della caduta degli investimenti, causata principalmente dall’assenza di risorse proprie e banche che non prestano più soldi.
La conferma arriva ufficialmente dal Centro Studi del Cna. Il 2007 è stato l’ultimo anno positivo prima dell’arrivo della fase recessiva, gli investimenti realizzati all’interno del sistema sono letteralmente precipitati a 38.768 milioni.
Questo significa che ogni giorno la spesa per investimenti si è ridotta di 3.7 milioni rispetto a quella del 2007. Le cause? Innumerevoli? Si parte con il crollo della domanda interna e da una parte della chiusura dei rubinetti per il settore creditizio.
Basti pensare che il costo del denaro per investimenti è aumentato del 30% in tre anni. Il confronto è stato reso possibile grazie ai tassi applicati dalle banche alle imprese per importi a revoca. Non è possibile andare avanti di questo passo, visto che si rischia di chiudere le piccole imprese artigianali.