Divieto vendita auto a benzina, potrebbe saltare tutto

Il divieto di vendita di auto con motore endotermico dal 2035 è a rischio, ad avere riserve su questa misura non è solo l’Italia, ma anche la Germania e si uniscono al coro altri Paesi dell’Unione Europea. Ecco perché l’approvazione dei divieto di immatricolazione e vendita di auto a benzina dal 2035 potrebbe saltare.

Divieto vendita auto a benzina: Italia e Germania potrebbero far saltare la norma

L’obiettivo è portare le emissioni inquinanti provenienti dalla circolazione di auto a zero entro breve termine, ma la strada sembra essere in salita, infatti la sostituzione delle auto con motore endotermico con auto elettriche non è così semplice da realizzare. L’Italia ha più volte espresso perplessità sulla misura perché potrebbe mettere a rischio il settore automotive che in Italia non è pronto a tale conversione. La conseguenza sarebbe una notevole perdita di posti di lavoro. L’Italia in questi mesi ha lavorato molto per evitare “disastri”, ad esempio attraverso la norma volta a salvare la Ferrari. Il divieto infatti non troverebbe applicazione nei confronti dei produttori di auto con una quota di mercato ridotta.

A rendere la strada tortuosa vi è il fatto che ora anche la Germania inizia ad esprimere perplessità e proprio per questo l’approvazione definitiva, che doveva esservi mercoledì, non vi è in realtà stata, tutto rimandato.

Leggi anche: Caldaie a gas vietate dal 2025, le nuove norme dell’Unione Europea

Chi vota contro il divieto di vendita auto a benzina?

La sede in cui è avvenuto lo strappo è la riunione dei Rappresentanti Permanenti aggiunti dei 27, qui doveva essere votato il Regolamento che appunto prevede il divieto di vendita di auto con motore endotermico dal 2035. Il rinvio è stato determinato dal fatto che l’Italia ha presentato per iscritto la sua posizione contraria a tale normativa, di seguito la Germania ha espresso riserve. L’Italia sostiene che non si può prevedere un simile divieto senza prevedere incentivi volti a facilitare questo passaggio epocale.

Il potenziale voto contrario dell’Italia segue quello espresso già a novembre dalla Polonia, la Bulgaria si era invece astenuta e tale astensione ha lo stesso valore di un diniego. Se Polonia e Italia votano contro il provvedimento e Germania e Bulgaria si astengono di fatto la norma non può essere approvata per mancanza della maggioranza qualificata richiesta che prevede il consenso di Paesi che rappresentino il 65% della popolazione dell’Unione Europea.

Tra le possibili vie d’uscita all’impasse che si è creato vi è il sostegno all’e-fuel che potrebbe essere la via d’uscita per salvare le auto con motore endotermico.
Per un approfondimento è possibile leggere l’articolo: E-fuel: sarà l’alternativa alle auto elettriche? Novità per gli automobilisti

Inflazione in calo, la notizia che tutti stavano aspettando

Il 2022 è stato caratterizzato da un’elevata inflazione che ha costretto la BCE a prendere importanti provvedimenti, ora sembra che ci sia un’importante inversione di tendenza con inflazione in calo. Ecco cosa sta succedendo.

Inflazione in calo: dopo mesi deludenti arrivano i primi dati positivi

L’inflazione è caratterizzata da una forte ondata di aumento dei prezzi, per il 2022 è stata in costante aumento in tutta l’area euro e anche oltre i confini europei. A determinare questa ondata sono stati i rincari del settore energetico che hanno portato aumenti a raffica in tutta la filiera. Questo ha generato un impoverimento generalizzato delle persone che hanno perso potere di acquisto. L’Unione Europea al fine di intervenire sulla domanda di beni e servizi e quindi indurre una riduzione dei prezzi, ha pensato di aumentare in modo costante il costo del denaro.

Le previsioni fatte dicevano tutte che il 2023 sarebbe stato l’anno della riscossa, cioè in cui la rincorsa dei prezzi si sarebbe fermata e ora ci sono le prime effettive avvisaglie. I dati rilevati dicono che nel mese di dicembre 2022 in Francia l’inflazione è scesa dello 0,8%, un primo dato incoraggiante. La discesa dei prezzi deriva da una riduzione del consumo del gas dovuta alle temperature molto miti a cui si è unita una riduzione dei prezzi di molti servizi. Secondo le previsioni fatte, in Francia i prezzi dovrebbero comunque avere una piccola risalita nei primi mesi del 2023, mentre l’andamento al ribasso costante e strutturale dovrebbe esservi dal prossimo mese di marzo quando la riduzione dei consumi energetici sarà effettiva.

Inflazione in calo anche in Italia?

Questa prima inversione di tendenza della Francia segue i dati di Germania e Spagna. Per la Germania a determinare il calo dell’inflazione e quindi il rallentamento della corsa dei prezzi è stata la politica interventista tedesca con il pagamento delle bollette del gas delle famiglie nel mese di dicembre.

Per quanto riguarda l’Italia deve essere sottolineato che i dati di dicembre 2022 saranno diffusi dall’Istat a breve, e potrebbero esserci belle sorprese perché in effetti anche l’Italia ha visto una riduzione dei prezzi di alcuni beni, come i carburanti, l’energia elettrica e il gas la cui domanda è diminuita a causa delle elevate temperature. A ciò si aggiungono gli interventi volti a calmierare i prezzi delle fatture energetiche come il bonus sociale. Secondo alcuni dati diffusi dalla Coop per il 2023 l’inflazione in Italia dovrebbe ridursi, ma la diminuzione dei costi non riguarderà il settore food & beverage, insomma la spesa alimentare continuerà ad essere sostenuta.

Salario minimo europeo approvato: cosa cambia per lavoratori e aziende?

Il Parlamento Europeo a larga maggioranza approva il salario minimo europeo, ma cosa cambia per l’Italia e in particolare per aziende e lavoratori?

Salario minimo europeo per garantire tenore di vita dignitoso

Le nuove norme europee  sul salario minimo mirano a garantire un tenore di vita dignitoso. La principale novità, in base a quanto vedremo a breve, è il fatto che in caso di violazione delle norme si concede la possibilità ai lavoratori di rivolgersi a rappresentati e sindacalisti al fine di trovare tutela.  Nelle nuove norme la definizione del salario minimo è rimandata agli Stati Membri i quali dovranno agire tenendo in considerazione il costo della vita e più ampi livelli di retribuzione.

Nella disciplina non ci sono molte indicazioni per i Paesi, di conseguenza, questi avranno un ampio margine di manovra. Tra le linee guida si indica che la determinazione del salario minimo europeo dovrà essere basata su un paniere di beni e servizi a prezzi reali, o fissarlo al 60% del salario mediano lordo e al 50% del salario medio lordo.

La normativa vuole anche stimolare la contrattazione collettiva, questa infatti solitamente è in grado di determinare retribuzioni che siano in linea con il costo della vita del paese di riferimento. I Paesi dell’Unione Europea che hanno una copertura con contratti collettivi nazionali di almeno l’80% non saranno quindi tenuti ad adottare il salario minimo. Rientra tra questi Paesi proprio l’Italia.

A chi si applicherà il salario minimo europeo?

In realtà possiamo affermare che la direttiva, per quanto importante abbia un effetto limitato, infatti dei 27 Paesi dell’Unione Europea solo 6 ancora non hanno una disciplina sul salario minimo e tra questi vi è appunto l’Italia che però non sarà comunque obbligata a fissare un minimo, visto che la contrattazione collettiva viene applicata a oltre l’80% dei lavoratori.

Nonostante questo, si sta discutendo anche in Italia dell’introduzione del salario minimo e i partiti ne stanno parlando in campagna elettorale. Tra le varie ipotesi c’è quella di fissare il salario mensile minimo in 1.200 euro e chi invece, come il Pd propone una retribuzione oraria minima di 9 euro.

Attualmente in Unione Europea il Paese in cui i salario minimo è più elevato è Lussemburgo, mentre i Paesi con un salario esiguo sono soprattutto quelli dell’Est Europa con la Bulgaria che detiene il record negativo, cioè 332 euro.

I Paesi dell’Unione Europea avranno due anni di tempo per adeguarsi alla disciplina del salario minimo.

Italia nella top list dei Paesi con le migliori performance estere

L’Italia a testa alta a confronto con le altre potenze mondiali quando si tratta di esportare i propri prodotti di eccellenza.
Questo è quanto emerge dal rapporto I.T.A.L.I.A. 2017 – Geografie del nuovo made in Italy realizzato da Fondazione Symbola, Unioncamere e dalla Fondazione Edison di Marco Fortis, presentato oggi a Treia nella sessione di apertura del XV Seminario estivo di Symbola.

Patrocinato dai ministeri degli Affari Esteri, dello Sviluppo Economico, delle Politiche Agricole, dei Beni Culturali e del Turismo, dell’Ambiente, il rapporto mostra un’Italia innovativa, versatile, creativa, reattiva, competitiva e vincente, anche e soprattutto nei mercati globali.

Ciò emerge dalle cifre che riguardano il triennio 2014-2016, durante il quale le esportazioni Made in Italy sono cresciute di 26,7 miliardi di euro, seconda migliore performance in valore assoluto tra i 4 maggiori paesi dell’Eurozona dopo la Germania.
Questa performance ha fatto guadagnare alla nostra bilancia commerciale un nuovo surplus record con l’estero: 51 miliardi di euro. Da record anche il surplus commerciale manifatturiero, quinto al mondo con 90,5 miliardi di euro al 2016 dietro alla Cina, alla Germania, alla Corea del Sud e al Giappone.

A fare da traino le imprese medio-grandi, ma anche le medie e piccole sono in grado di emergere e dare il proprio forte contributo, cominciando dalla loro capacità di essere flessibili e attive in campi diversi, puntando in particolare su creatività ed innovazione.
Caratteristiche che risaltano principalmente nel design, nell’hi-tech ma anche nella meccanica e nei mezzi di trasporto. e ciò ha portato all’Italia ben 844 prodotti da record per saldo commerciale attivo con l’estero.

L’Italia, grazie alle sue attrattive e alla qualità altissima dei suoi prodotti, rimane salda nella top ten delle mete più desiderate dai vacanzieri, ed è terza, dopo Stati Uniti e Gran Bretagna, per notorietà. Il Belpaese è conosciuto in primis per il patrimonio culturale e architettonico, ma anche per la creatività espressa nella moda e per l’eccellenza dell’enogastronomia. Altri elementi che giocano a favore sono apertura, tolleranza e rispetto per l’ambiente, nonostante gli italiani tendano ad avere una percezione di sé molto inferiore rispetto a ciò che davvero viene percepito all’estero.

Ermete Realacci, presidente di Fondazione Symbola, ha dichiarato: “C’è un’Italia in grado di parlare al mondo con i suoi talenti, la sua creatività, il suo territorio, la sua bellezza. Capace con le sue energie migliori di affrontare a testa alta le sfide per il futuro a partire da quelle del clima, di un’economia più sostenibile e a misura d’uomo, della ricostruzione delle aree terremotate. Troppo spesso questo Paese non ha piena coscienza delle proprie potenzialità. Tanto che è una delle Nazioni al mondo in cui è maggiore la forbice tra percezione interna, spesso negativa, e percezione esterna positiva e favorevole. Un’Italia che fa l’Italia può essere protagonista insieme all’Europa delle grandi questioni aperte che abbiamo di fronte”.

Giuseppe Tripoli, segretario generale di Unioncamere, ha aggiunto: “L’Italia è percepita come un bouquet di eccellenze di prodotti, di brand e di territori. In sette anni le nostre esportazioni sono cresciute significativamente (+43%) e per saldo commerciale su quasi mille prodotti siamo leader nel mondo o nelle primissime posizioni. Da oltre dieci anni, inoltre, l’Italia è in vetta per pernottamenti di turisti non europei (60 milioni di notti). E possiamo fare di più per sfruttare il nostro potenziale. Ci sono almeno 70 mila imprese potenzialmente esportatrici che potrebbero varcare i confini nazionali perché hanno tutte le carte in regola per farlo. Il digitale è un moltiplicatore di esportazioni e di innovazione e cresce quotidianamente il numero delle imprese che comincia a utilizzarlo grazie anche a Industria 4.0. Ogni impresa in più che comincia a utilizzare l’e-commerce raddoppia il fatturato. E sono ancora tantissime quelle che non l’utilizzano. Sono questi i campi sui cui le Camere di commercio stanno lavorando”.

Vera MORETTI

Italia ultima nell’UE per tasso di crescita

Ancora una volta l’Italia è fanalino di cosa per quanto riguarda le previsioni 2017 del tasso di crescita. Pur trattandosi di una percentuale positiva, è comunque ferma allo 0,9%, molto al di sotto, dunque, della media Ue dell’1,9%.
Per il biennio 2017-2018 l’economia del Belpaese mostra il tasso di crescita più basso rispetto a tutti i 28 paesi dell’Unione Europea.

Ci si chiede, quindi, perché siamo sempre in fondo a queste classifiche, perché arranchiamo a confronto degli altri paesi europei.
Si tratta di fattori diversi, a cominciare dal PIL, su cui pesano fattori demografici quali natalità e immigrazione. Inoltre, nel 2016 la quota di anziani con 65 anni ed oltre è salita al 22,0% della popolazione, il valore più alto nell’Unione Europea, e in parallelo è salita al 10,7% la quota di occupati stranieri.

A sua volta il PIL pro capite è dato dal prodotto tra tasso di occupazione, ore lavorate per occupato e valore aggiunto per ora lavorata. Mentre il tasso di occupazione sintetizza le spinte della domanda e dell’offerta di lavoro, le ore lavorate per occupato sono tendenzialmente regolate da contratti di lavoro assume un ruolo specifico la terza variabile data dal PIL per ora lavorata, la tanto discussa produttività del lavoro, che nell’economia italiana ristagna da molti anni.

Ma non è tutto: nel 2016 il valore aggiunto per ora lavorata è pressoché uguale a quello del 2000, variando di un ridotto 0,6% in sedici anni; nello stesso arco di tempo la produttività nell’eurozona è salita del 15,8%. Inoltre la produttività presenta evoluzioni fortemente differenziate tra comparti.
Mentre il settore manifatturiero ha registrato una crescita del valore aggiunto per ora lavorata del 18,6% nel periodo in esame, quello dei servizi ha registrato una flessione del 3,1% e ha determinato la stagnazione della produttività dell’intera economia italiana per oltre tre lustri.

Questa analisi dimostra che gli interventi per supportare l’accumulazione di capitale contenuti nel Piano Industria 4.0 sono maggiormente necessari per i settori concentrati sul mercato interno quali costruzioni e servizi le cui imprese, intensificando gli investimenti digitali, potranno ridisegnare i processi produttivi in modo più efficiente.

Vera MORETTI

Un buon 2015 per il turismo in Italia

Cresce il turismo in Italia nel 2015, grazie soprattutto all’effetto trainante di Expo 2015. Per crescita del turismo nell’anno in corso, l’Italia è infatti prima nella classifica dei Paesi europei con camere più occupate negli alberghi rispetto all’anno scorso (+6%).

È la Milano di Expo a trainare la crescita (+18%), contagiando altre città d’Italia che il turista ha visitato con l’occasione di vedere Expo. Le camere a Milano nel periodo di Expo sono state in piena occupazione: 70/80% a maggio, giugno, luglio, agosto, del 90% a settembre e ottobre. Picco di crescita ad agosto (dal 45% al 65% in un anno). La Milano del turismo ha avuto voto positivo per l’accoglienza in albergo: 8. Più gradite: gentilezza, attrazioni turistiche, posizione dell’albergo (voto 9), servizio, colazione e pulizia (8), cibo, atmosfera, reception, letti (7).

Il turismo del week end è cresciuto in un anno di oltre il 10%, dal 60% di occupazione camere a oltre il 70%. Tutto questo emerge dall’indagine “Milano nel semestre di Expo, performance del mercato alberghiero”, realizzata dalla Camera di commercio di Milano attraverso RES STR global.

Nello specifico, con il turismo è cresciuta del 6% l’occupazione delle camere, rispetto al +4% di Spagna, Olanda e Belgio. La Germania si è fermata a +2%, il Regno Unito a +1%. Stabili Grecia, Austria e Francia. Dei dati positivi di Milano riportati sopra hanno beneficiato anche Torino, Bologna e Napoli (+8%), Bergamo (+6%), meno Firenze e Venezia (+1%-2%).

Milano, per turismo, in Europa è davanti a Madrid (+6%), Lisbona, Barcellona e Berlino (+4%), superando Monaco, Vienna, Amsterdam, Londra e Roma (stabili) e Parigi (in calo del 3%). A Milano città la crescita è stata del 18%.

Investimenti diretti esteri in aumento per l’Italia

L’Ufficio Studi della CGIA ha presentato i dati relativi agli Ide, gli Investimenti diretti esteri, relativi al 2014.
Ebbene, l’Italia, tra i Paesi dell’area euro, è quello che ha conseguito l’incremento maggiore, con un aumento percentuale del 3,5 rispetto al 2013.
Risultato positivo anche per Slovenia e Finlandia, unici, insieme al Belpaese, ad aver conseguito risultati positivi.

Questo dato, però, pur essendo positivo, non risolve i nostri problemi, perché la situazione dello stock degli Ide in percentuale al Pil italiano rimane allarmante. Con un misero 17,4%, anche nel 2014, così come è avvenuto dall’inizio della crisi, ci troviamo in coda alla graduatoria europea, con la sola Grecia dietro di noi.

Quali sono i motivi principali per cui gli stranieri sono diffidenti nei confronti del nostro Paese? Paolo Zabeo della CGIA ha spiegato e commentato questi risultati: “L’eccessivo peso delle tasse, le difficoltà legate ad una burocrazia arcaica e farraginosa, la proverbiale lentezza della nostra giustizia civile, lo spaventoso ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali, il deficit infrastrutturale e il basso livello di sicurezza presente in alcune aree del paese da sempre scoraggiano gli investitori stranieri a venire in Italia. Se queste sono le ragioni che rendono il nostro paese poco attrattivo, pensate in che condizioni operano gli imprenditori italiani che nonostante ciò continuano a credere nelle proprie attività, ad investire nel futuro e a dare lavoro a milioni e milioni di italiani”.

Zabeo ha poi rivolto la sua attenzione verso il buon risultato conseguito nel 2014: “Questo risultato è stato conseguito in massima parte grazie all’acquisizione, da parte dei grandi gruppi finanziari stranieri, di pezzi importanti del nostro made in Italy. Nel settore della moda, dei servizi, delle comunicazioni e dei trasporti, molti marchi storici sono finiti sotto il controllo degli investitori stranieri. Se queste acquisizioni non daranno luogo a una fuga all’estero delle attività progettuali e produttive di questi nostri brand, tutto ciò va salutato positivamente. Purtroppo, l’internazionalizzazione dell’economia che stiamo vivendo da almeno 20 anni si manifesta e prende sempre più forma anche in questo modo”.

Nel 2014 i principali paesi di provenienza dei flussi in entrata nel nostro paese sono stati il Lussemburgo (39 per cento del totale), la Francia (20,8 per cento del totale) e il Belgio (12,4 per cento del totale).

A livello territoriale, è il Nordovest l’area che riceve il più alto numero di investimenti.
Nel 2013, ultimo anno in cui i dati sono disponibili per ripartizione geografica, il vecchio triangolo industriale ha “attratto” il 65 per cento circa degli investimenti totali. Seguono il Centro (18,5 per cento del totale), il Nordest (13,8 per cento) e il Sud (2 per cento).

Vera MORETTI

Food Made in Italy re dell’export

Seppur siano tanti i settori di eccellenza che hanno imposto il Made in Italy oltre i confini nazionali, è ancora il food che spopola e che colloca il Belpaese ai vertici mondiali di gradimento, con ben 20 prodotti.

Sono la pasta, le conserve di pomodoro, gli insaccati, i formaggi, ma anche le verdure e gli ortaggi, i prodotti più amati dagli stranieri, in particolare nel Paesi dove l’export è cresciuto maggiormente nell’ultimo anno, come la Germania (+17,3 per cento), la Francia (+20,5 per cento), l’Inghilterra (+23,6 per cento) e gli Stati Uniti (+37,8 per cento).

Tra gli alimenti che solleticano le papille gustative in Europa e nel mondo, ci sono anche i dolci e i prodotti da forno, il caffè, le carni e i vini, immancabili quando si tratta di Made in Italy.

si tratta di un patrimonio il cui export vale 30 miliardi di euro, in crescita di un terzo rispetto a cinque anni fa, nonostante le contraffazioni e l‘italian sounding, che danneggiano pesantemente il nostro nome e le nostre tradizioni.

Le cifre sono da capogiro: si tratta di un fatturato di quasi 300 miliardi di euro, che garantisce 230mila posti di lavoro.
Considerando la qualità, altissima, dei prodotti, c’è da andarne fieri.

Vera MORETTI

Italia, la più cliccata dai mercati stranieri

L’Italia e il Made in Italy piacciono ancora, anzi, sempre di più.
A testimoniarlo sono le percentuali delle ricerche su Google, che negli ultimi tre anni sono aumentate del 22%.

Questo dato è frutto di uno studio, il rapporto Italia – Geografie del nuovo Made in Italy, realizzato da Fondazione Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison, presentato a Treia (Macerata) nella sessione di apertura del XIII seminario estivo.

Questo risultato fa capire come il Belpaese sia concepito all’estero, nonostante i sette anni di crisi: i mercati globali, infatti, hanno ancora un’idea di Italia innovativa, versatile, creativa, reattiva, competitiva e vincente.

Questo successo, comunque, è dovuto grazie ad un percorso che, in questi anni, si è deciso di percorrere, senza mai lasciare da parte la qualità, che da sempre contraddistingue, ad esempio, la nostra attività manifatturiera.

Proprio questo settore ha contribuito a far arrivare l’Italia tra le prime cinque potenze industriali, insieme a Cina, Germania, Giappone e Corea.
Non a caso dall’introduzione dell’euro l’Italia ha visto i valori medi unitari dei suoi prodotti salire del 39%, facendo meglio di Regno unito (36%) e Germania (23%).

Ma la qualità dei prodotti italiani non viene riconosciuta solo all’estero perché ben due italiani su tre sono disposti a pagare un sovrapprezzo per avere prodotti 100% italiani. E questa tendenza si riscontra anche in Giappone, Emirati Arabi, Usa, Russia e Brasile.

Ermete Realacci, presidente di Fondazione Symbola, ha dichiarato in proposito: “Mentre la crisi sembra finalmente allentare la sua presa sul Paese, è ancora più importante avere un’idea di futuro, capire quale posto vogliamo che l’Italia occupi in un mondo che cambia. Più che in passato, mi piace dire che l’Italia deve fare l’Italia, rispondendo ad una domanda che aumenta ed e’ confermata dai dati sull’innalzamento delle ricerche sul maggiore motore di navigazione internet, e puntare sui talenti che il mondo le riconosce: bellezza, qualità, conoscenza, innovazione, territorio e coesione sociale che sempre più incrociano la frontiera della green economy. Talenti che ci consegnano le chiavi della contemporaneità e delle sfide del futuro perchè assecondano la voglia crescente di sostenibilità dei consumatori e danno risposte ai grandi cambiamenti negli stili di vita e nei modelli di produzione”.

Vera MORETTI

Gli stranieri tornano ad investire nel Made in Italy

Il Made in Italy sta ricominciando ad essere appetibile agli investitori internazionali.
Dopo un periodo nero, con gli investimenti ridotti all’osso, che aveva determinato, tra il 2007 e il 2013, un crollo del 58%, il 2014 ha finalmente registrato una ripresa, con un’impennata di acquisizioni di imprese italiane per un controvalore di 20 miliardi di euro.

Questi dati sono stati resi noti dal rapporto Italia Multinazionale dell’agenzia Ice, in cui, comunque, si evidenzia ancora un gap da recuperare con gli altri paesi europei.
Se, infatti, il rapporto tra investimenti esteri e Pil del nostro Paese è di circa il 20%, meno della metà rispetto alla media Ue, che è assestata al 49%.

Ma secondo Riccardo Monti, il presidente dell’Ice, questi segnali di ripresa rappresentano una rinnovata fiducia nei confronti dell’Italia.

Le premesse ci sono, e sembrano molto chiare: il 2015 è iniziato con l’acquisizione di Pirelli da parte di ChemChina, una maxi opa da 7,5 miliardi di euro, e quella del progetto urbanistico di Milano Porta Nuova, 2 miliardi di valore ora in mano al fondo del Qatar.

Ma, se questi sono investitori orientali, la maggior parte di coloro che sono interessati al Made in Italy provengono da Nord America ed Europa, circa l’85% del totale.
Ma potrebbe trattarsi di una percentuale destinata a scendere, in favore proprio dei Paesi emergenti, come Cina, India, Russia e altri Paesi asiatici, i cui investimenti sono cresciuti del 255% dal 2000 a oggi, contro il +17,5% di Usa e Ue.

Lo stesso trend si nota negli investimenti in Borsa: in 20 società nazionali quotate, è presente almeno un investitore rilevante, con più del 20% delle azioni, che arriva da Paesi Arabi, Cina e Russia.

Altri esempi illustri sono Dainese, lo storico brand di abbigliamento per motociclismo ceduto al fondo d’investimento del Bahrain Investcorp, e la casa di moda vicentina Pal Zileri venduta al fondo del Qatar Mayhoola for Investment.

A farla da padrone, comunque, rimane il settore della manifattura, che è interessato da un terzo degli investimenti. Alcuni pezzi importanti dell’industria tricolore sono, infatti, finiti in mani esperi, come la società di compressori per elettrodomestici Acc di Belluno, passata sotto il controllo dei cinesi di Wanbao Group; Mangiarotti SpA, produttore di componenti per l’industria nucleare, petrolio e gas con sede a Pannellia di Sedegliano (Udine) e stabilimento a Monfalcone, finita nel perimetro degli americani di Westinghouse.

L’interesse degli investitori, inoltre, è sempre più pressante nei confronti di Generali, dove Blackrock, colosso americano del risparmio gestito, ha in mano il 2,61% del capitale, e People Bank of China possiede il 2,2%.

C’è da dire, a onor del vero, che le imprese italiane non fanno esclusivamente la parte delle prede, poiché il saldo entrate-uscite è ancora favorevole al Made in Italy. Sono 11.325 le imprese italiane con partecipazioni all’estero per 1,537 milioni i dipendenti e un fatturato di 565,3 miliardi di euro.
Nel 2013 i maggiori gruppi manifatturieri italiani con organizzazione multinazionale hanno prodotto il 67% dei loro beni all’estero e solo il 9% del fatturato è realizzato in Italia contro il 91% all’estero.

Vera MORETTI