Partita Iva e lavoro dipendente possono essere combinati?

Il mondo delle partita Iva è variegato e soprattutto non è più fonte di guadagno come un tempo. I dati di pochi giorni fa dell’Agenzia delle Entrate fanno emergere che circa 1 milione di partite Iva non riescono ad avere un reddito superiore a 15.000 euro annui. Ciò che molti non sanno è che è possibile combinare il lavoro dipendente con la partita Iva. Ecco come funziona.

Partita Iva e lavoro dipendente nel settore privato

Nei contratti di lavoro dipendente nel settore privato vi è ampia autonomia, quindi è possibile combinare la partita Iva con il lavoro dipendente. Vi possono però essere clausole contrattuali che limitano l’autonomia al fine di tutelare l’azienda nel caso in cui le tipologie di lavoro possono essere in conflitto.

Ad esempio un pasticcere dipendente della pasticceria X che apre una pasticceria in proprio può danneggiare l’azienda. Nel contratto possono quindi essere previsti dei limiti inerenti l’obbligo di non concorrenza e l’obbligo di fedeltà.

Se si verificano situazioni di conflitto, il datore di lavoro può procedere al licenziamento per giusta causa.

Partita Iva e lavoro nel settore pubblico

Diversa la situazione nel settore pubblico. In questo caso trovano applicazione le norme del Decreto Legge n. 165/2001:“Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni“, in cui sono indicati i limiti di compatibilità.

In questo caso occorre in primo luogo distinguere tra contratto di lavoro part time o full time. Nel contratto part time vi è la possibilità di integrare il lavoro svolto presso le pubbliche amministrazioni con altre attività, questo anche perché il part time difficilmente consente di ottenere un reddito sufficiente a una vita autonoma o comunque soddisfacente.

Per il contratto di lavoro full time la situazione è diversa, in questi casi possono esservi numerose incompatibilità:

  • l’incarico non deve essere in conflitto con l’attività della pubblica amministrazione ( ad esempio un tecnico comunale che svolge lavoro privato come geometra nello stesso comune, è in conflitto);
  • non deve essere svolto nelle ore di lavoro in cui si è impegnati presso la pubblica amministrazione, ad esempio se il contratto prevede che il lunedì il dipendente sia a lavoro nel settore pubblico, durante questo orario non potrà svolgere altro impiego.
  • sono esclusi dalle limitazioni del doppio lavoro gli insegnanti, solo se svolgono attività che riflettono quelle dell’insegnamento.

In ogni caso il dipendente pubblico che intende aprire una partita iva deve richiedere l’autorizzazione.

Il dipendente pubblico svolge un’attività di lavoro autonomo deve presentare la dichiarazione dei redditi cumulando quelli percepiti nel settore di lavoro dipendente e i redditi maturati come lavoratore autonomo.

Leggi anche: Concordato preventivo biennale esteso, cosa cambia

Associazione culturale con scopo di lucro: cosa cambia

L’associazione culturale è un gruppo organizzato di persone e beni finalizzato al raggiungimento di uno scopo di interesse collettivo, senza fini di lucro, ciò vuol dire che se vi sono degli utili gli stessi non possono essere divisi tra gli associati, ma devono restare nell’associazione ed utilizzati per svolgere le attività previste nell’atto costitutivo. Vi sono però delle peculiarità che meritano un accenno, cioè la possibilità di avere dei dipendenti e il rimborso spese e in questi casi si può genericamente parlare di associazione culturale con scopo di lucro.

Associazione culturale con scopo di lucro: esiste?

Si è visto negli articoli precedenti:

Resta ora da chiarire se è possibile avere un’associazione con scopo di lucro e quale forma giuridica è possibile dare a un’associazione che vuole perseguire tali finalità.

La prima cosa da fare è provare a capire cosa vuol dire scopo di lucro: lo scopo di lucro altro non è che la finalità di dividere gli utili che derivano dall’attività svolta. Molti però confondono lo scopo di lucro vero e proprio con i compensi dovuti ai dipendenti e i rimborsi spesa. In linea di massima l’associazione culturale non può dividere gli utili, può però stipulare contratti di lavoro anche in favore degli stessi associati e naturalmente le prestazioni lavorative devono essere retribuite, ma tale attività ha dei limiti altrimenti potrebbe configurarsi una divisione indiretta degli utili.

Contratti di lavoro

L’associazione cultutrale può stipulare contratti di lavoro, sono però previsti dei limiti per evitare una distribuzione indiretta degli utili. In particolare se colui che presta lavoro per l’associazione culturale ha una partita IVA, deve emettere una regolare fattura per il pagamento delle prestazioni. Nel caso in cui non sia un lavoratore autonomo, vi sono diverse possibilità, in pratica è possibile stipulare:

  • un contratto di lavoro subordinato;
  • un contratto di lavoro parasubordinato, ad esempio a progetto;
  • oppure si può stipulare un contratto di collaborazione occasionale.

E’ stato anticipato in precedenza che vi sono dei limiti inerenti tali contratti, in particolare il corrispettivo non deve superare del 20% dei salari e stipendi previsti dal Contratto Collettivo Nazionale per quel tipo di prestazione. In caso contrario si ritiene che in realtà vi sia una distribuzione indiretta di utili vietata dalla legge. Deve essere inoltre sottolineato che non vi è alcuna norma specifica che vieta di assumere, per le mansioni inerenti la realizzazione delle scopo dell’associazione culturale, i soci, anche se membri del comitato direttivo. Naturalmente anche in questo caso devono essere rispettati i limiti previsti dalla normativa altrimenti si può ipotizzare una distribuzione indiretta degli utili.

I rimborsi spesa

Svolgere le attività all’interno dell’associazione comporta per associati e volontari delle spese, in questo caso è possibile ottenere il rimborso spese che non ricade nella divisione degli utili. Ad esempio i soci di una compagnia teatrale potrebbero sostenere in proprio i costi per gli abiti di scena.

Per ottenere il rimborso spese occorre una deliberazione del consiglio direttivo, inoltre le spese effettuate devono essere provate attraverso le “pezze giustificative” , più comunemente chiamate fatture. Le spese devono essere inerenti all’attività svolta. In realtà molte associazioni hanno la cattiva abitudine di stabilire dei rimborsi spesa forfettari, questo comportamento però deve essere considerato a rischio perché potrebbe essere considerato come una divisione degli utili e quindi vietata per tale tipologia di associazione.

Cosa cambia con l’entrata in vigore del Codice del Terzo Settore

Occorre ricordare che con l’entrata in vigore del RUNTS, Registro Unico Nazionale Terzo Settore, che probabilmente avverrà nel 2022, entreranno in vigore nuovi limiti.  In questo caso infatti è previsto che, le associazioni che decidono di avere la forma delle Associazioni di Promozione Sociale, hanno l’obbligo di avvalersi prevalentemente del lavoro dei volontari e nel caso in cui si proceda all’assunzione di dipendenti questi non possono superare il 50% dei volontari e il 5% degli associati. Anche in questo caso non vi è il divieto di assumere associati.

Di fatto, se ci si chiede cosa cambia nel caso di associazione culturale con scopo di lucro e senza tale finalità, occorre sottolineare che sono due “fenomeni” incompatibili, le associazioni non possono avere scopo di lucro, non possono dividere gli utili tra gli associati, possono invece assumere, ma vi sono dei limiti da rispettare questo vuol dire che è improbabile “remunerare” tutti i soci.

Associazione culturale con scopo di lucro e trasformazione in società cooperativa

La strada per evitare tutti i limiti visti è quella di istituire una società cooperativa, in questo caso infatti è previsto che i benefici ricadano direttamente sui soci della stessa e nel caso di cooperative di lavoro, lo scopo è proprio quello di fornire occasioni di lavoro agli associati a condizioni particolarmente favorevoli. Un divieto espresso di assumere soci si ha soltanto nelle associazioni di volontariato.

L’articolo 2500 octies del codice civile prevede però la possibilità di trasformare le associazioni culturali in società cooperative e viceversa. In particolare il comma terzo di questo articolo stabilisce: la trasformazione di associazioni in società di capitali può essere esclusa dall’atto costitutivo o, per determinate categorie di associazioni, dalla legge; non è comunque ammessa per le associazioni che abbiano ricevuto contributi pubblici oppure liberalità e oblazioni del pubblico. Il capitale sociale della società risultante  dalla trasformazione è diviso in parti uguali fra gli associati, salvo diverso accordo tra gli stessi”.

Come si può notare è quindi possibile trasformare l’associazione in una società e quindi ottenere la divisione degli utili, ma solo nel caso in cui l’associazione non abbia ricevuto contributi pubblici o oblazioni da privati e se l’atto costitutivo non lo vieta espressamente. Deve essere sottolineato che in realtà l’associaizone può essere trasformata in qualunque società di capitali, ma lo schema più simile, a causa dello scopo mutualistico, è quello della società cooperativa.

Se vuoi conoscere le similitudini tra associazione culturale e società cooperative, leggi l’articolo: Associazione culturale e società cooperativa: cosa scegliere?

Per deliberare la trasformazione dell’associazione in società è necessaria una delibera da parte dell’assemblea a maggioranza dei ¾, come stabilito dall’articolo 21 del codice civile.

Partite Iva forfettarie: la verifica del limite dei 30mila euro coincide con la fine del periodo di preavviso

Per le partite Iva ricadenti nel regime forfettario, la cessazione del lavoro coincide con il momento in cui termina il periodo di preavviso e non con il momento effettivo delle dimissioni. L’importante specifica, contenuta nell’interpello numero 268 del 2021 dell’Agenzia delle entrate, è utile ai fini della verifica del tetto dei 30mila euro di reddito. Il superamento della soglia rappresenta, infatti, una causa ostativa proprio al regime forfettario.

Il limite dei 30mila euro di reddito per il regime forfettario

Il caso sul quale l’Agenzia delle entrate è stata chiamata a esprimersi riguarda un lavoratore dipendente che, nel 2020, aveva presentato le proprie dimissioni. Le dimissioni rappresentano un atto unilaterale recettizio per la cui efficacia non è richiesta l’accettazione da parte del datore di lavoro. Lo slittamento della cessazione del lavoro alla fine del periodo di preavviso e non al momento delle dimissioni impone di verificare, nel caso del lavoratore, i redditi del 2020.

Richiesta di apertura partita Iva con regime forfettario

Nel quesito posto all’Agenzia delle entrate si legge che il contribuente ha rassegnato le dimissioni volontarie in una data dell’anno 2020, e di aver proseguito il rapporto di lavoro sino a inizio del 2021 per il periodo di preavviso. Il lavoratore, nel periodo di imposta del 2020, ha ottenuto un reddito da lavoro alle dipendenze superiore ai 30mila euro. Lo stesso intende fare richiesta di attribuzione di partita Iva per esercitare l’attività di lavoratore autonomo a regime forfettario.

Limite di reddito per la partita Iva a regime forfettario

Considerando, dunque, il limite dei 30mila euro di reddito da lavoro dipendente ostativo ai sensi del comma 57, lettera d-ter, dell’articolo 1 della legge numero 190 del 2014, il lavoratore chiede se potrà avvalersi del regime forfettario. In particolare, il richiedete vorrebbe sapere se il superamento della soglia di reddito per l’anno 2020 rappresenti una condizione ostativa per l’apertura della partita Iva forfettaria nel 2021.

Partite Iva forfettarie, il limite del reddito si riferisce all’anno precedente

I chiarimenti forniti dall’Agenzia delle entrate, nell’interpello numero 368 del 2021, evidenziano che il limite dei 30mila euro di reddito non opera se il rapporto di lavoro alle dipendenze è cessato nel corso dell’anno precedente. La ragione di questo chiarimento consiste nel favorire il lavoratore, rimasto senza impiego, a iniziare una nuova attività.

Chiarimenti Agenzia delle entrate sul regime forfettario

Tuttavia, il richiedente ritiene di rientrare nel regime forfettario nel 2021. La sua convinzione risiede nel fatto che le dimissioni siano state presentate nel 2020, anno precedente a quello di apertura della partita Iva. La risposta dell’Agenzia delle entrate, in ogni modo, parte da quanto specificato dalla legge numero 190 del 2014. All’articolo 57, infatti, si precisa che non possono avvalersi del regime forfettario i soggetti che “nell’anno precedente hanno percepito redditi da lavoro dipendente e redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, eccedenti l’importo di 30mila euro”. Inoltre, “la verifica di tale soglia è irrilevante se il rapporto di lavoro è cessato”. Altrimenti è dovuta, essendo il rapporto di lavoro cessato nel 2021 e non nel 2020.

Cessazione del lavoro da dipendente e apertura partita Iva a regime forfettario

E, pertanto, ai fini della non applicabilità della causa di esclusione rilevano “solo le cessazioni di lavoro intervenute nell’anno precedente a quello di applicazione del regime forfettario”. Nel caso del lavoratore, il rapporto di lavoro si è protratto fino al 2021 per il rispetto del periodo di preavviso. Ed è solo a partire dalla data di effettiva cessazione del lavoro che vengono meno le retribuzioni e gli altri diritti connessi al rapporto di lavoro. Quindi il rapporto è in essere fino al termine del preavviso.

Per l’Agenzia delle entrate il richiedente potrà avvalersi del forfettario solo nel 2022

Pertanto, l’anno effettivo di cessazione del lavoro, il 2021, coincide con l’anno di apertura della partita Iva beneficiando del regime forfettario. Il richiedente potrà dunque aprire la partita Iva nel 2021 con la quale avviare la propria attività. Ma solo a partire dal 2022 potrà beneficiare del regime forfettario avendo superato nel 2020 il tetto dei 30mila euro. E la verifica, essendo il rapporto terminato a inizio anno, è dovuta per i redditi del 2020, essendo nel 2021 ancora in essere il rapporto di lavoro.

Lavoro autonomo e dipendente: tutti i pro e i contro

Lavoro autonomo o dipendente? Come in ogni cosa ci sono i pro ed i contro da valutare. Facciamo insieme il punto della situazione.

Lavoro autonomo o dipendente: non esiste una scelta oggettiva

Partiamo dal concetto di base che non esiste una risposta univoca ed oggettiva. Infatti, ci sono una serie di variabili da considerare, spesso legate allo stile di vita di ognuno. Ma una cosa è certa: in entrambe le categorie ci sono spesso dei veri e propri professionisti del settore. Il lavoratore autonomo è una persona che svolge per se la sua attività. Investe tempo e denaro al fine di offrire ai clienti, la sua competenza. Non è subordinato ad orari e tanto meno ad altre persone. Secondo l’articolo 2222 del codice civile il lavoro autonomo consiste nel compiere verso un corrispettivo un’opera  o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente.  E’ così che si guadagna da vivere. Invece il lavoratore dipendente è una persona che lavora per contro altrui. Ha un contratto di lavoro che lo lega al suo datore di lavoro. Ma ogni mese percepisce lo stipendio commisurato alle sue mansioni svolte.

Lavoro autonomo o dipendente: la stabilità

Come abbiamo appena accennato, uno dei vantaggi del lavoro dipendente è la stabilità economica. In altre parole chi ha un contratto di lavoro regolare, cioè è messo in regola, può contare su uno stipendio. Ciò vuole dire che alla fine di ogni mese, può stare tranquillo. Avrà la busta paga che gli permetterà di vivere e programmare la propria vita. E non solo, in molti contratti è prevista anche la tredicesima mensilità ed in alcuni casi anche la quattordicesima. E’ chiaro che in relazione al tipo di contratto che si è firmato o alla categoria di appartenenza ci sono delle variazioni. Ma questo permette anche pianificare le ferie e i congedi o permessi. Molto differente è il lavoratore autonomo che non può godere di questa tranquillità. Nessuna stabilità economica che il freelance, ma ciò non vuol dire che non possa guadagnare, anche molto di più di un dipendente.

Il lavoro e il mondo delle donne

Il mondo delle donne è sempre stato contrastante dal punto di vista lavorativo. Le donne dipendente hanno diritto alla maternità. Il congedo per maternità è un periodo flessibile, di astensione obbligatoria dal lavoro per un totale di 5 mesi. La donna può scegliere di congedarsi da due mesi precedenti alla data della presunta nascita, e fino a tre mesi dopo. Oppure si può scegliere un mese precedente al parto e quattro mesi successivi, previo parere medico. Ci sono anche dei tipi di lavoro che prevedeno l’astensione di lavoro subito dopo la scoperta della gravidanza. Per le lavoratrici autonome ci sono delle differenze. Tutte le casse prevedono un indennizzo di maternità. Si tratta di un assegno, spesso in unica soluzione, a titolo di ristoro per l’astensione dal lavoro. Le lavoratrici iscritte alla gestione separata dell’Inps,  possono fruire dell’indennità di maternità pari all’80% della retribuzione giornaliera stabilita annualmente dalla legge per il tipo di attività svolta. Esiste anche la possibilità di accedere al Premio nascita, pari ad 800 euro per la nuova vita.

Lavoro autonomo o dipendente: i fini pensionistici

Grazie al proprio lavoro, e agli stipendi, il lavoratore dipendente ha maturato il termine per il trattamento di fine rapporto (TFR). Si tratta di una somma di denaro, pertanto spesso anche chiamata liquidazione. E’ una porzione di retribuzione accantonata annualmente, che viene “restituita” al lavoratore quando cesserà la sua attività lavorativa. I lavoratori autonomi accumulano volontariamente delle quote ai fini del diritto alla pensione. Ad esempio il lavoratore autonomo può pagare l’INPS ogni tre mesi, ma non è obbligato a farlo. Febbraio, maggio, agosto e novembre sono i mesi destinati a questi pagamenti. Spesso il lavoratore autonomo sceglie anche dei fondi pensionistici per crearsi la famosa “liquidazione” che spetta al lavoratore dipendente.

E allora cos’è meglio?

Un consiglio che si può dare è quello di capire realmente che tipo di persona si è. Se si è pronti a lavorare sotto qualcuno, alle regole imposte, ma di contropartita avere una stabilità economica, allora il lavoro dipendente è quello più opportuno. Se invece si preferisce lavorare sentendosi più liberi, nella consapevolezza di poter stare sulle montagne russe dal punto di vista economico, allora il lavoro autonomo sarà la scelta vincente. Però a prescindere da tutto, il consiglio più giusto è probabilmente capire ed individuare il mestiere che si ama fare. Perché se si ama ciò che si fa, nulla diventa difficile ed i problemi, se ci saranno, si affronteranno con grinta. Importante è anche la propensione al rischio, al mettersi in gioco. Quindi, è meglio capire bene cosa si vuol fare davvero e poi scegliere che tipo di lavoratore essere. Perché se una persona il coraggio non ce l’ha di suo, è difficile che qualcuno possa darglielo.

Lavoro dipendente in aumento nel terzo trimestre 2017

Il terzo trimestre 2017 ha segnato un aumento di circa 1,2 milioni di posizioni lavorative dipendenti, se si confronta con il terzo trimestre 2014.
A confermarlo è stato anche il rapporto congiunto appena presentato da Istat, Ministero del Lavoro, Inps, Inail e Anpal sulle tendenze dell’occupazione.

Ciò che ne emerge è che, in questi tre anni, prevalgono i contratti a tempo indeterminato, aumentati di 837 mila unità, trainati comunque dagli sgravi contributivi previsti, seguiti a distanza da quelli a tempo determinato, 362 mila in più.

Anche il lavoro a chiamata, comunque, ha subito una impennata, poiché nel terzo trimestre di quest’anno è cresciuto addirittura del 77,9%, che va a continuare l’aumento già verificatosi nel secondo trimestre, del 75,6%, soprattutto a seguito dell’abrogazione dei voucher.
Facendo un totale, i lavoratori a chiamata registrano un aumento assoluto di 95 mila unità passando così da 122 mila a 217 mila.

In ogni caso, il terzo trimestre ha portato ad un aumento del tasso di occupazione, che ha raggiunto il 58,1%, con una crescita di 2,7 punti percentuali rispetto al minimo del terzo trimestre 2013 (55,4%) e comunque, come si legge dalla nota emanata “proseguendo nella tendenza al recupero dei livelli massimi pre crisi” che era, nel secondo trimestre 2008, di 58,8%.
Le unità di lavoro equivalenti a tempo pieno sono 24.132.000 con una crescita di 118mila unità sul secondo trimestre e di 308mila unità sul terzo trimestre 2016.

Vera MORETTI