Legge Fornero: applicazione totale dal 2023 o ci saranno correttivi?

Dal 1° gennaio 2023 potrebbe tornare il vigore al 100%, quindi senza correttivi e vie d’uscita anticipate, la legge Fornero, molti lavoratori sono già in allarme anche se non mancano proposte per evitare il ritorno di una delle riforme più odiate del sistema pensionistico italiano.

La legge Fornero torna in vigore nel 2023?

La legge Fornero in realtà in questi anni non ha mai cessato di esistere. La stessa prevede che si possa andare in pensione al raggiungimento di 67 anni di età e che l’età pensionabile sia rivista periodicamente in base alle aspettative di vita.

Per capire l’effetto dell’aumento dell’aspettativa di vita sulle pensioni, leggi l’articolo:  Pensioni: cosa cambia con il blocco dell’aspettativa di vita

Quota 100, Opzione Donna, Ape Sociale, Quota 102: chi può andare in pensione?

Nel frattempo il Governo ha provveduto di volta in volta a introdurre correttivi che hanno consentito a molti di andare in pensione in forma anticipata. In particolare prima abbiamo avuto la Quota 100 che ha cessato i suoi effetti il 31 dicembre 2021. In seguito si è passati a Quota 102. Le due riforme hanno consentito alle persone di andare in pensione dopo aver raggiunto la somma rispettivamente di 100 e 102 tra età anagrafica e anzianità contributiva. Per Quota 100 era previsto comunque il requisito dell’età minima a 62 anni, mentre per Quota 102, il requisito di età minima è 64 anni. Ne consegue che sono comunque necessari almeno 38 anni di contributi.

Nel frattempo il Governo ha provveduto alla proroga di Opzione donna ma solo per le donne che accettano di andare in pensione con il solo calcolo contributivo e quindi in molti casi perdendo circa 1/3 della pensione.

Pensioni: Opzione donna diventerà strutturale? Le ipotesi allo studio

Infine, c’è l’Ape Sociale rivolta esclusivamente a disoccupati, persone con invalidità civile almeno al 74% e che hanno maturato almeno 30 anni di contributi, caregiver e persone che hanno svolto lavori gravosi. Naturalmente per poter accedere occorre avere almeno 30 anni di contributi elevati a 36 anni per coloro che sono occupati in lavori gravosi. Inoltre l’attività gravosa deve essere stata svolta per almeno 6 anni negli ultimi 7 o 7 anni negli ultimi 10 anni.

Per conoscere i dettagli dell’Ape Sociale, leggi l’articolo: APE Sociale 2022: tutte le novità della legge di bilancio

Quali sono le proposte per superare la Legge Fornero?

Queste misure sono comunque tutte di tipo temporaneo e di conseguenza sono iniziate le pressioni da parte dei partiti, in particolare della Lega di Matteo Salvini al fine di prorogare i correttivi o introdurre nuovi correttivi che possano permettere di andare in pensione prima che scattino i requisiti previsti dalla legge Fornero.

Le ipotesi allo studio sono numerose, tra cui l’introduzione di Quota 101, la prosecuzione su Quota 102. Di certo questo è il momento in cui gli animi si scaldano, infatti è la fase antecedente rispetto a quella in cui iniziano trattative e discussioni sulla prossima legge di bilancio e soprattutto ogni partito inizia la sua campagna elettorale in vista delle prossime amministrative e delle politiche della prossima primavera.

Tra le ipotesi allo studio vi è anche la pensione in due tempi, suggerita anche da Tridico, presidente INPS. Si ipotizza in questo caso che nel momento del pensionamento anticipato rispetto alla Legge Fornero la pensione sarà calcolata solo con il sistema contributivo matematicamente sfavorevole ai pensionati. In un secondo momento, cioè alla maturazione dei requisiti anagrafici per il pensionamento con la legge Fornero, saranno aggiunte le somme che spetterebbero calcolando anche il sistema contributivo.

Per capire quando si applica il sistema contributivo e quando quello retributivo, leggi la guida: Pensione: quando si applicano il calcolo retributivo, contributivo e misto?

Legge Fornero e Quota 41: costi insostenibili

La proposta di Salvini invece è l’introduzione di Quota 41, cioè un sistema pensionistico che permetta a tutti di andare in pensione al raggiungimento di 41 anni di contributi. Per questa riforma c’è però un ostacolo importante e cioè i calcoli che non consentono all’INPS di erogare i trattamenti pensionistici così maturati. Tale sistema infatti costerebbe 12 miliardi di euro in più. A ciò deve essere aggiunto che dall’Europa già è arrivato il monito sulla Quota 102 che sarebbe insostenibile, figurarsi un’eventuale, più costosa, Quota 41.

Naturalmente al dibattito partecipano anche i sindacati che propendono per sistemi pensionistici maggiormente favorevoli ai lavoratori. Non resta che aspettare per capire, soprattutto chi è prossimo alal pensione, quali sono le vie d’uscita.

 

Corte Costituzionale boccia la legge Fornero. Sarà più difficile licenziare

Il giorno 19 maggio 2022 la Corte Costituzionale ha posto un’altra censura alla legge Fornero, rendendo di fatto più difficile per le imprese licenziare e andando ad ampliare le tutele dello Statuto dei Lavoratori. La sentenza 125 del 2022 infatti pone una maggiore tutela ai lavoratori.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

La sentenza della Corte Costituzionale va ad incidere sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche conosciuti come licenziamento economico come modificato dalla Legge Fornero ( legge 92 del 2012). Si tratta del caso in cui il datore di lavoro recede unilateralmente dal rapporto di lavoro a causa di una restrizione del personale, ad esempio per esuberi, per crisi aziendale.  Siamo nell’ambito di motivazioni che esulano dal comportamento del lavoratore, quindi non siamo nel caso dei licenziamenti disciplinari, ma è necessaria una riorganizzazione aziendale.

Affinché il licenziamento per giustificati motivi oggettivi sia valido non basta che ci sia una riorganizzazione aziendale, è anche necessario che la figura professionale licenziata non sia più necessaria all’interno dell’azienda, inoltre è previsto l’obbligo di ripescaggio e quindi la possibilità di collocare il lavoratore in mansioni diverse per per le stesse ha capacità e la giusta formazione.

Per conoscere meglio i dettagli dell’obbligo di ripescaggio, leggi l’articolo Obbligo di repechage: i principi a cui deve attenersi il datore di lavoro.

Naturalmente il lavoratore che ritiene non sussistere i giustificati motivi oggettivi per il suo licenziamento e pensa di dover essere collocato in nuova posizione, potrà impugnarlo. La legge Fornero prevedeva che affinché il licenziamento fosse giudicato illegittimo vi dovesse essere la “manifesta insussistenza del fatto” alla base delle motivazioni addotte dal datore di lavoro. Questo per i giudici è un limite perché implica di non poter andare oltre ciò che appare in modo chiaro e lapalissiano, il licenziamento può essere sanzionato solo nel caso anche senza andare oltre l’apparenza emergea immediata la sua illegittimità. Ad esempio, può ritenersi illegittimo il licenziamento se al posto del lavoratore l’azienda assume un altro soggetto impegnato nelle stesse mansioni e con le stesse qualifiche, ma per comportamento dell’azienda più “sofisticati”  è molto più difficile provare la manifesta insussistenza.

La sentenza della Corte Costituzionale: il termine “manifesta” è illegittimo!

Il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato la questione di legittimità dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, così come modificato dalla Legge Fornero. La sentenza della Corte Costituzionale nella sentenza del 19 maggio 2022 è andata a colpire proprio la “manifesta insussistenza del fatto”.

Secondo il giudice costituzionale il requisito della manifesta insussistenza è indeterminato e si presta a incertezze interpretative. Proprio per questo dal testo della norma si censura il termine “manifesta” prima della parola “insussistenza del fatto”, all’interno dell’articolo 18 settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori) così come modificato appunto dalla Legge Fornero. Di conseguenza il giudice nella sua analisi può andare a fondo e valutare la genuinità della scelta del datore di lavoro.

La Corte Costituzionale ribadisce che valutare la sussistenza o insussistenza di un fatto è già un atto gravoso e complesso, andare poi a valutare anche la gradualità di questa insussistenza appare un aggravio irragionevole con una conseguente complicazione sul fronte processuale. Inoltre secondo la Corte Costituzionale vi è un notevole squilibrio tra i fini che si era proposto il legislatore nel riformare la materia – una più equa distribuzione delle tutele con decisioni più rapide e prevedibili –  e i mezzi per ottenere tale risultato.

Le norme violate

La Corte Costituzionale ritiene che richiedere la manifesta insussistenza vada a violare l’articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza) in quanto tale manifesta insussistenza non è richiesta nel caso di licenziamento disciplinare. Inoltre per il lavoratore l’onere probatorio diventerebbe eccessivamente arduo visto che deve provare un fatto dai contorni non definiti e spesso si trova a dover provare fatti che sono fuori dalla sua sfera di conoscenza. La manifesta insussistenza andrebbe a delineare un sistema “marcatamente ed ingiustificatamente sbilanciato in favore del datore di lavoro e, di contro, ingiustificatamente penalizzante per il lavoratore”. Tutto ciò andrebbe a pregiudicare la sua chance di successo in un eventuale giudizio. Si rileva anche la violazione dell’articolo 35 della Costituzione che prevede la tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.

Pensione di inabilità: come vengono calcolati gli importi?

Il diritto alla percezione della pensione di inabilità è di spettanza dei lavoratori impossibilitati a svolgere mansioni lavorative. Molti, preoccupati per il loro futuro, si chiedono: come si calcolano gli importi della pensione di inabilità? Cercheremo di scoprirlo.

Requisiti per la pensione di inabilità

La pensione di inabilità spetta a coloro che si trovano nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere mansioni lavorative a causa di patologie invalidanti. Non basta però il requisito sanitario, infatti è necessario anche il requisito contributivo. Il lavoratore deve aver versato almeno 5 anni di contributi, di cui tre negli ultimi 5 anni.

Può capitare purtroppo che l’inabilità intervenga anche in giovane età, cioè nel momento in cui il lavoratore ha maturato il minimo dei contributi previsti per poter accedere a tale misura, in questo caso ha la necessità di avere comunque un importo mensile che consenta una vita dignitosa. Proprio per questo molti si chiedono: come vengono calcolati gli importi della pensione di inabilità?

Come si determinano gli importi della pensione di inabilità?

Per aiutare coloro che si trovano in questa condizione, soccorre il calcolo della pensione di inabilità basato in parte sui contributi effettivamente versati e in parte attraverso un incremento di contribuzione calcolato tenendo in considerazione gli anni mancanti al raggiungimento del sessantesimo anno di età. Il metodo è più conosciuto come “legge Amato”, purtroppo non è semplice da capire. I contributi aggiunti non possono comunque superare 40 anni (2080 settimane).

Per quanto riguarda la quota calcolata sui contributi versati occorre ricordare che per chi:

  • non possiede contributi nel periodo antecedente il 1° gennaio 1996, la pensione si calcola sul sistema contributivo;
  • al 31 dicembre 1995 ha maturato meno di 18 anni contributivi, si adotta il sistema misto (retributivo fino al 1995 e contributivo dal 1° gennaio 1996;
  • prima del 31 gennaio 1995 ha maturato più di 18 anni di contributi, si applica il retributivo fino al 31 dicembre 2012 e in seguito il contributivo.

La quota aggiuntiva per il calcolo della pensione di inabilità

La quota aggiuntiva di contribuzione si determina tenendo in considerazione i contributi effettivamente versati, cioè la media delle basi annue pensionabili rilevate negli ultimi 5 anni e rivalutate attraverso l’uso dei coefficienti di rivalutazione. La somma ottenuta deve essere rivalutata applicando l’aliquota di computo della gestione, che per i lavoratori dipendenti è al 33%. Il risultato deve essere diviso per 260 (numero di settimane presenti in 5 anni). A questo punto abbiamo la media contributiva settimanale degli ultimi 5 anni.

Questa deve essere moltiplicata per il numero di settimane intercorrenti tra il momento della richiesta di accesso alla pensione e il compimento dei 60 anni di età. Viene quindi determinata la quota di maggiorazione.

Il coefficiente di rivalutazione deve essere calcolato a 57 anni di età per chi ha un’età inferiore a tale limite.

E’ come se venisse fatto un calcolo della pensione ipoteticamente maturabile dal lavoratore nel caso in cui non avesse avuto problemi.

Ad esempio, per un lavoratore che ha 45 anni di età al momento del riconoscimento del diritto alla pensione di inabilità alla quota di contributi effettivamente versati (quota A) sono aggiunti ulteriori 15 anni di contributi (quota B) calcolati in modo virtuale tenendo in considerazione i contributi degli ultimi 5 anni.

Pensione di inabilità nel pubblico impiego

Nel pubblico impiego l’accesso alla pensione di inabilità decorre dal 1996, in questo caso varia però il calcolo, infatti la base contributiva è giornaliera e non settimanale. E’ inoltre previsto un doppio tetto. L’importo non può superare l’80% della base pensionabile delle quote di pensione determinate con il sistema retributivo ( vale per i lavoratori che hanno anzianità contributiva antecedente al 31/12/1995) e non può superare gli importi previsti per la pensione per causa di servizio.

A questo proposito deve essere anche ricordato che la legge Fornero ha eliminato la pensione privilegiata per causa di servizio generalizzata nel pubblico impiego e ha previsto solo residue applicazioni per il comparto Difesa, Sicurezza, Soccorso Pubblico).

Assegno per l’assistenza personale e continuativa

E’ bene ricordare che la pensione di inabilità si corrisponde quando vi è impossibilità di eseguire prestazioni lavorative, di conseguenza si tratta di casi abbastanza gravi. Nel caso in cui il percettore di pensione di inabilità abbia anche problemi di autosufficienza, può richiedere l’assegno per l’assistenza personale continuativa (assegno di accompagnamento). L’ammontare attuale di questo è di 547,45 euro.

La pensione di inabilità e reversibile mentre l’assegno per l’assistenza no.

Per conoscere la differenza, anche di importo tra pensione di inabilità, assegno ordinario di invalidità e invalidità civile, leggi la guida: Pensione di inabilità: differenze con invalidità civile, assegno ordinario. Guida

Pensioni 2023: la legge Fornero sarà definitivamente superata?

La riforma pensionistica introdotta con la Legge Fornero (decreto legge 201 del 2011) ha messo in difficoltà molti lavoratori perché, al fine di ridurre il debito pubblico, ha innalzato molto i requisiti per andare in pensione. Prevede il pensionamento a 67 anni di età oppure 42 anni e 10 mesi di contributi che scendono a 41 anni e 10 mesi per le donne. Dopo l’approvazione di Quota 102 fino al 31 dicembre 2022, i lavoratori fanno domande sulle pensioni 2023 sperando in una riforma che possa far superare definitivamente la Legge Fornero.

La Legge Fornero, Quota 100 e Quota 102

La Legge Fornero fin dalla sua entrata in vigore ha destato molti malumori, d’altronde già il fatto che al momento della presentazione della stessa, il ministro Elsa Fornero piangeva a dirotto, ha fatto immaginare ai lavoratori scenari apocalittici. Proprio per questo nel tempo, al fine di mitigare il malumore e le oggettive difficoltà dei lavoratori, i vari governi e le varie maggioranze parlamentari hanno proposto delle alternative alla Legge Fornero, che resta tutt’ora applicabile.

Per mitigare gli effetti della Legge Fornero con il decreto legge 4 del 2019 è stata introdotta la Quota 100 che permetteva ai lavoratori di uscire in anticipo dal mondo del lavoro a patto però che maturassero 62 anni di età e almeno 38 di contributi. La Quota 100 è però definitivamente andata in pensione il 31 dicembre 2021, sostituita dalla Quota 102.

Si tratta di una misura ponte che porterà molto probabilmente all’applicazione delle Legge Fornero in maniera totale. Quota 102 dovrebbe terminare la sua funzione il 31 dicembre 2022 e prevede la possibilità di andare in pensione a 64 anni di età con 38 anni di contributi. Ricordiamo che coloro che non hanno i requisiti per Quota 102, Opzione Donna, Ape Sociale o non vogliono approfittare di queste misure vedono l’applicazione della Legge Fornero che quindi è ancora attiva.

Cosa ci sarà dopo Quota 102? Le ipotesi per le pensioni 2023

Ciò che molti si chiedono è se dal 2023 si ritornerà alla Legge Fornero che, essendo criticata anche da molti partiti, potrebbe di fatto con un po’ di impegno essere superata. Le ipotesi allo studio per evitare l’applicazione dal 2023 della Riforma Fornero sono diverse, infatti i lavoratori sperano in un ritorno a Quota 100 dal 2023, mentre il Governo sembra stia studiando l’ipotesi di un’ulteriore misura ponte, cioè la Quota 104 che permetterebbe di andare in pensione con con almeno 66 anni di età e 38 di contributi.

Un’ulteriore ipotesi per poter tenere alla larga l’entrata in vigore completa della Legge Fornero senza ulteriori misure di pensione agevolata, è l’introduzione del solo sistema contributivo che andrebbe però a ridurre molto l’importo della pensione maturato. Secondo il Presidente del Consiglio Mario Draghi però questo è l’unico modo per evitare l’applicazione delle riforma pensionistica ideata dall’allora ministro Elsa Fornero.

Nota sul sistema contributivo per le pensioni 2023

Attualmente la disciplina del sistema contributivo prevede che:

  • il sistema contributivo, più favorevole ai lavoratori, venga applicato in maniera integrale ai lavoratori che hanno iniziato a lavorare dopo il 1° gennaio 1996;
  • per coloro che alla data del 31 dicembre 1995 avevano maturato un’anzianità contributiva di almeno 18 anni si applica un sistema misto fino al 1° gennaio 2012, cioè l’entrata in vigore della Legge Fornero del calcolo retributivo;
  • infine, per coloro che al 1° gennaio 1996 non avevano ancora maturato 18 anni di contributi, il calcolo dell’assegno pensionistico avviene con il sistema misto con applicazione del calcolo contributivo già dal 1° gennaio 1996. Con l’ipotesi allo studio verrebbe meno questa differenziazione.

Tra le ipotesi allo studio c’è anche Quota 41, presentata dalla Lega, che prevede la possibilità per i lavoratori di andare in pensione a 63 anni con almeno 41 anni di contributi. I sindacati invece chiedono una norma che consenta ai lavoratori di scegliere quando andare in pensione dopo aver raggiunto 62 anni di età e 41 di contributi, inoltre chiedono il riscatto gratuito della laurea e una pensione di garanzia per i giovani.

Pensioni 2023: resteranno Opzione Donna e Ape Sociale?

Ricordiamo che per agevolare il pensionamento ad oggi sono disponibili anche altre strade, cioè Opzione Donna che consente alle donne di andare in pensione a 58 anni di età, 59 per le lavoratrici autonome, con almeno 35 anni di contributi, ma perdendo però almeno il 30% dell’assegno in quanto gli importi sarebbero calcolati esclusivamente con il metodo contributivo. Infine è ancora possibile andare in pensione con l’APE Sociale che prevede anticipi pensionistici per chi ha perso il lavoro e ha difficoltà a collocarsi nel mondo del lavoro, per i lavori usuranti e per i care givers.

Per avere maggiori informazioni sulle attuali possibilità di pensionamento si consiglia la lettura di:

APE Sociale 2022: tutte le novità introdotte con la legge di bilancio

Legge di Bilancio 2022 novità per Quota 102 e Opzione Donna

Legge di bilancio 2022: novità per Quota 102 e Opzione Donna

La legge di bilancio 2022 ha provveduto a piccole modifiche al sistema pensionistico, tra le novità vi sono Opzione Donna e Quota 102 che va a sostituire Quota 100. Ecco le principali novità.

Quota 102 dal 1° gennaio 2022

Quota 100 è stata un’importante riforma, anche se transitoria, volta ad agevolare l’uscita dal mondo del lavoro anticipata, il fine era mitigare gli effetti della Legge Fornero. Risultato a cui hanno contribuito anche Opzione Donna e l’APE Sociale. Trattandosi di una misura transitoria era stata prorogata di anno in anno, fino al 31 dicembre 2021. Con lo scadere di tale termine vi erano diverse opzioni, cioè una proroga della Quota 100, una revisione della Quota 100 oppure un’applicazione netta della Legge Fornero che prevede il pensionamento a 67 anni di età. Con la legge di bilancio 2022 si è optato per una “revisione” della Quota 100, trasformata in Quota 102.

Il sistema Quota 102 ha una durata annuale (vi è sempre la possibilità, a dir il vero remota, che con la legge di bilancio 2023 possa essere estesa). Prevede la possibilità di andare in pensione anticipata (rispetto alla legge Fornero) a 64 anni con anzianità contributiva di 38 anni, appunto Quota 102. Per poter andare in pensione applicando questa normativa i requisiti devono essere maturati entro il 31 dicembre 2022, quindi iniziando a percepire la pensione anche dal 2023. Secondo i calcoli forniti, il costo di Quota 102 sarà di 1,6 miliardi di euro, molto inferiore rispetto a Quota 100 che ha avuto un costo di 2,18 miliardi nel 2019 e 3,53 miliardi nel 2020. Interesserà una platea di 60 mila lavoratori. Tenendo in considerazione le finestre trimestrali e semestrali, i primi pensionati con questo sistema si avranno a maggio 2022.

Estensione dell’applicabilità di Opzione Donna

La legge di bilancio 2022 provvede anche ad estendere l’applicabilità di Opzione Donna, si tratta di un sistema che consente alle donne che hanno compiuto 58 anni se lavoratrici dipendenti e 59 anni se lavoratrici autonome e che abbiano versato almeno 35 anni di contributi di accedere alla pensione anticipata. Per loro però c’è un piccolo pegno da pagare, infatti la pensione sarà calcolata interamente con il metodo contributivo e quindi con una perdita netta che dovrebbe oscillare intorno al 30%. Per poter accedere a Opzione Donna le lavoratrici dipendenti devono prima cessare l’attività lavorativa e poi presentare la domanda, per le lavoratrici autonome non è invece necessario cessare l’attività lavorativa.

Concorrono al raggiungimento della contribuzione minima tutti i contributi versati a qualsiasi titolo, sono esclusi solo i contributi figurativi per malattia, disoccupazione o situazioni simili. Contribuiscono a maturare il requisito i contributi da riscatto della laurea, ricongiungimento contributivo, ricostituzione della posizione assicurativa e versamenti volontari.

La domanda per accedere a Opzione Donna può essere presentata attraverso il sito INPS accedendo alla propria pagina personale attraverso l’uso dello SPID o di una Carta di Identità Elettronica 3.0 o CNS (Carta Nazionale Servizi). In alternativa, è possibile chiamare il contact center INPS al nuoero 803 164, oppure rivolgersi a un patronato.

Gli svantaggi di Opzione Donna 2022

Tra le note dolenti di Opzione Donna vi è il fatto che è particolarmente penalizzante per le lavoratrici dipendenti che devono cessare l’attività per poterne beneficiare, ciò per il fatto che si applica il principio delle finestre mobili. Questo prevede che tra la maturazione dei requisiti e l’effettiva riscossione del primo rateo pensionistico intercorrano almeno 12 mesi, cioè le lavoratrici dipendenti perdono un anno di pensione. Per le lavoratrici autonome invece tra la maturazione dei requisiti e la riscossione del primo rateo intercorrono 18 mesi, ma almeno possono continuare a lavorare e quindi a percepire un reddito.

La legge di bilancio 2022 ha provveduto anche ad ampliare la platea dei beneficiari dell’APE Sociale, ma per saperne di più è possibile leggere lo specifico approfondimento contenuto nell’articolo: APE Sociale 2022: tutte le novità introdotte con la legge di bilancio

Congedi per padri lavoratori e tutela paternità: la disciplina

Siamo abituati a sentire parlare dei diritti delle madri lavoratrici, dimenticando però spesso che il ruolo di cura affidato quasi esclusivamente alle madri va ad incidere sulla loro carriera e che invece un’equa ripartizione del lavoro di cura potrebbe aiutarle ad avere parità salariale, come indicato dall’articolo 37 della Costituzione, e a ridurre il tasso di disoccupazione femminile. Ecco perché ora elencheremo i vari diritti e congedi per padri lavoratori.

Congedi per padri lavoratori: il congedo di paternità

La disciplina dei congedi per padri lavoratori è inserita nel Testo Unico per la tutela e il sostegno della maternità e della paternità o semplicemente decreto legislativo 151 del 2001. Questa disciplina va a riordinare la materia in quanto in passato era disciplinata da diverse normative e non era facile avere un quadro chiaro. Ricordiamo che in questo caso ci concentriamo sui congedi per padri lavoratori, quindi tralasceremo la disamina dei diritti riconosciuti alle madri. La prima cosa da sottolineare è che il legislatore ha forse avuto poca lungimiranza nel “nominare” i vari istituti, infatti si parla di congedo di paternità, congedo di paternità obbligatorio e congedi parentali, per istituti che sono completamente diversi per trattamento e presupposti, con il rischio così di generare confusione.

Congedo di paternità

L’articolo 28 del Testo Unico prevede in primo luogo il congedo di paternità, si tratta di una misura residuale, cioè può essere usufruita dal padre, in luogo della madre, solo nel caso in cui la madre non possa godere del congedo di maternità obbligatorio e cioè:

  • la madre non effettui il riconoscimento, quindi l’unico a riconoscere il nato sia il padre;
  • nel caso di morte della madre o grave infermità della stessa;
  • in caso di affidamento esclusivo del nato al padre.

Si tratta del congedo obbligatorio solitamente riconosciuto alla madre e che si estende dai 2 mesi antecedenti il parto a 3 mesi successivi al parto, in alcuni casi può essere fruito dal mese precedente alla data prevista per il parto e 4 mesi successivi. In ogni caso, il padre può fruire solo del congedo di paternità successivo alla nascita del figlio.

Il padre in questi casi può usufruire del periodo che sarebbe spettato alla madre, se il parto avviene prematuramente il periodo non usufruito prima della nascita viene utilizzato dopo la nascita. Il congedo prevede quindi la possibilità di astenersi dal lavoro per il periodo di 3 o 4 mesi dalla nascita del figlio ( o il periodo maggiore previsto in caso di nascita prematura) con diritto a mantenere il posto di lavoro e la retribuzione.

Il congedo di paternità spetta anche nel caso in cui la madre sia lavoratrice autonoma nei limiti previsti dall’articolo 66 del Testo Unico. Inoltre spetta per adozione e affidamento nel caso in cui il congedo previsto dall’articolo 26 non sia richiesto dalla madre lavoratrice.

Come si può notare si tratta di un istituto residuale che non deve essere confuso con il congedo obbligatorio di paternità.

Cos’è il congedo obbligatorio di paternità?

Il congedo obbligatorio di paternità è una misura prevista in via sperimentale dalla Legge Fornero (legge 92 del 2012) per gli anni 2013- 2015, di seguito tale misura è stata prorogata di anno in anno prevedendo però delle leggere variazioni inerenti la durata del periodo di congedo obbligatorio. Nell’ultima versione, prima della legge di bilancio per il 2022, era previsto che il padre usufruisse del congedo obbligatorio di paternità per un periodo di 10 giorni nell’arco dei primi 5 mesi di vita del bambino. La legge di bilancio per il 2021 inoltre aveva previsto tale obbligo anche nel caso di morte perinatale del figlio.

Congedi per padri lavoratori: disciplina del congedo di paternità obbligatorio nella legge di bilancio 2022

Con la legge di bilancio 2022 ci sono ulteriori novità, infatti il congedo obbligatorio di paternità diventa una misura stabile, quindi termina la fase sperimentale, non sarà più necessario continuare a prorogare tale misura di anno in anno in quanto diventa strutturale. La legge di bilancio 2022 nel trattare in modo definitivo il congedo obbligatorio di paternità stabilisce che la sua durata è di 10 giorni da usufruire nei primi 5 mesi di vita del bambino, sia in un’unica soluzione, sia attraverso più richieste frazionate. Il padre potrà usufruire anche di un ulteriore giorno di congedo facoltativo, ma questo dovrà essere sottratto al congedo riconosciuto alla madre.

Il congedo obbligatorio di paternità deve essere obbligatoriamente usato dal padre, questo evita che le aziende possano adottare sotterfugi per non riconoscere tale diritto. Spetta anche in caso di adozione o affidamento, in questo caso i 5 mesi iniziano a decorrere dal momento di ingresso del minore in famiglia in caso di adozione o affidamento nazionali e dall’ingresso del minore in Italia in caso di adozione internazionale.

Il congedo obbligatorio di paternità è una misura indipendente dal congedo di maternità obbligatorio ( si tratta a ben vedere di due istituti completamente diversi, ecco perché il legislatore, a giudizio della scrivente, avrebbe dovuto usare una diversa terminologia al fine di non generare confusione) e quindi i giorni possono essere fruiti anche contemporaneamente rispetto al congedo di maternità.

Il congedo parentale

L’ultimo congedo per padri lavoratori previsto e che è stato studiato al fine di mitigare il ruolo di cura della madre, è il congedo parentale. Si tratta di un periodo di astensione facoltativa dal lavoro riconosciuto al padre e alla madre. Questo periodo spetta ai lavoratori dipendenti in costanza di lavoro per un periodo complessivo di 10 mesi da distribuire nei primi 12 anni di vita del bambino. Complessivo vuol dire che, sommando i periodi di congedo parentale riconosciuti alla madre ai periodi di congedo parentale riconosciuti al padre, il risultato deve essere massimo di 10 mesi.

Vi è però un correttivo volto ad incentivare l’uso del congedo parentale da parte del padre, cioè se il padre usufruisce almeno di 3 mesi, il totale si alza a 11 mesi. Ciascun genitore può usufruire di un periodo massimo di sei mesi. Elevato a 7 mesi nel caso in cui il padre usufruisca di almeno 3 mesi di congedo. Ad esempio, è possibile per il padre ottenere 7 mesi e la madre 4, oppure 5 mesi il padre e 6 la madre. Solo il padre può ottenere 7 mesi (articolo 32, comma 2, lettera b decreto legislativo 151 del 2001).

Nel caso in cui il bambino abbia un solo genitore, ad esempio perché non riconosciuto dall’altro genitore o perché l’altro genitore è deceduto, l’unico genitore potrà usufruire da solo dei 10 mesi di congedo parentale.

Mini-ASPI per chi ha perso il lavoro nel 2012

E’ prevista, per i lavoratori che hanno perso il lavoro nel 2012, un’indennità di disoccupazione, purché il lavoratore abbia un’anzianità assicurativa di due anni con almeno 78 giornate di lavoro nell’anno 2012.

Il sussidio mini-ASPI sarà erogato esclusivamente nel 2013 al fine di indennizzare periodi di disoccupazione relativi al 2012.
Il tetto massimo per la mini-ASPI è pari al 75% della retribuzione media mensile imponibile ai fini previdenziali degli ultimi due anni, se questa è pari o inferiore ad € 1.180,00 oppure, qualora fosse superiore, al 75% di € 1.180,00 sommato al 25% della differenza tra la retribuzione media mensile imponibile e l’importo di € 1.180,00.

L’indennità vale per una durata pari alla metà delle settimane lavorate nel 2012, calcolata come sottrazione tra il numero massimo di settimane presenti in un anno, ovvero 52, e le settimane lavorate e le settimane non indennizzabili o già indennizzate ad altro titolo.

La domanda per la mini-ASPI dovrà essere presentata all’INPS utilizzando in via esclusiva il canale telematico, fino al 2 aprile 2013.
E’ possibile collegarsi al sito web, attraverso i relativi servizi telematica accessibili con il PIN dell’Istituto, oppure il Contac Center multicanale attraverso il numero telefonico 803164 gratuito da rete fissa o 06164164 da rete mobile a pagamento.
Il pagamento avverrà in un’unica soluzione con accredito su conto corrente bancario o postale o su libretto postale o tramite bonifico domiciliato presso Poste Italiane.

Vera MORETTI

I Consulenti del Lavoro criticano la Riforma Fornero

Rosario De Luca, presidente della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, ha illustrato le criticità presenti nella Riforma Fornero: “Un elenco di criticità che fanno diventare illusoria la crescita dell’occupazione e che confermano la tendenza alla chiusura delle aziende. Il costo del lavoro è una delle componenti più gravose della gestione aziendale ed è miope, oltre che autolesionista, continuare a ignorarlo. I danni sono sotto gli occhi di tutti, bloccando sviluppo e occupazione. Noi consulenti del lavoro, che gestiamo mensilmente nei nostri studi le posizioni di 7 milioni di lavoratori, segnaliamo da tantissimo tempo questa criticità strutturale ma inutilmente; le attenzioni sono sempre rivolte ad altri problemi“.

Ad essere presi in considerazione sono soprattutto i casi definiti “eclatanti”, colpevoli di aver rallentato, se non addirittura bloccato, le assunzioni, con un conseguente aumento del tasso di disoccupazione.
L’assenza del provvedimento legislativo di proroga della mobilità per il 2013 e del relativo finanziamento comporta un blocco degli incentivi e, conseguentemente, dell’occupazione. Si tratta di uno strumento legislativo che nel tempo aveva consentito di ottenere ottimi risultati di occupabilità; pertanto, visto anche l’aggravarsi delle situazioni di difficoltà economica, per i datori poteva continuare a rappresentare un ottimo stimolo ad assumere“.

Questo significa che, per le assunzioni effettuate dal 2013 di lavoratori iscritti nelle liste di mobilità licenziati da aziende con meno di 15 dipendenti, così come per eventuali trasformazioni o proroghe effettuate nel 2013, non spettano le agevolazioni, perché la norma non è stata prorogata; in questi casi le agevolazioni sono subordinate ad un nuovo intervento legislativo.

I consulenti del lavoro puntano poi il dito contro i licenziamenti a pagamento: “L’Aspi sostituisce, migliorandolo, il trattamento di disoccupazione ma i maggiori oneri ricadono sulle aziende. Non si comprende perché, a fronte di una pur giusta tutela dei lavoratori, si danneggino i datori di lavoro che procedono ai licenziamenti, dovuti nella maggior parte dei casi all’impossibilità di far fronte a un costo del lavoro elevatissimo cui non corrispondono margini di utile adeguati. Parliamo del cosiddetto contributo di interruzione posto a carico del datore di lavoro che, per motivi diversi dalle dimissioni, decida di interrompere il rapporto in essere con il lavoratore dipendente assunto con contratto a tempo indeterminato. Il contributo di interruzione è dovuto da tutti i datori di lavoro indipendentemente dal numero di dipendenti occupati (quindi anche inferiore a 15), aggiungendo di conseguenza un nuovo onere contributivo anche in capo alle piccole imprese“.

Anche i contratti a tempo determinato subiranno inasprimenti, che spesso costringeranno i datori di lavoro ad abbandonare questa opzione, e una diminuzione della domanda di manodopera.

E’, poi, prevista la stipula di accordi collettivi o contratti collettivi finalizzata alla creazione di fondi di solidarietà bilaterali, nei settori non coperti dalla normativa in materia di integrazione salariale, volti ad assicurare ai lavoratori una tutela in costanza di rapporto nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa: “In mancanza degli accordi o dei contratti collettivi anzidetti, si procede all’istituzione di un fondo di solidarietà residuale -si spiega – tramite decreto del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, di concerto con il ministero dell’Economia e delle Finanze. In entrambi i casi, è stabilito che la gestione finanziaria di detti Fondi dovrà avvenire anche con una contribuzione a carico delle aziende datrici di lavoro“.

Inoltre, l’aliquota della gestione separata riferita ai titolari di altra posizione previdenziale obbligatoria, a partire dall’1 gennaio 2013 è aumentata dal 18% al 20%. Questa aliquota si applica agli associati in partecipazione e ai professionisti che non hanno l’obbligo di versamento ad altra cassa previdenziale.
A partire dal gennaio 2014 anche l’aliquota ordinaria della gestione separata subirà un incremento dall’attuale 27,72% al 28,72%.

Vera MORETTI