Cresce la spesa media mensile degli italiani

Le famiglie italiane tornano a spendere, almeno secondo quanto certifica l’Istat, ma lo fanno in maniera molto diversa da nord a sud e lo fanno privilegiando determinati prodotti al posto di altri.

Secondo l’Istat, nel 2015 la spesa media mensile delle famiglie italiane, al netto del costo della casa, è salita a 1.910,34 euro, +0,7% rispetto al 2014 e +1,9% rispetto al 2013. La regione con la spesa media mensile più bassa è risultata la Calabria (1.729,20 euro a famiglia), mentre Lombardia (3.030,64 euro), Trentino-Alto Adige (3.022,16) ed Emilia-Romagna (2.903,58 euro) hanno occupato i gradini del podio.

È aumentata la spesa media mensile per i generi alimentari (+1,2% globale sul 2014, pari a 441,50 euro), ma l’andamento dei prezzi dei differenti alimenti è diversificato: si ferma la spesa media mensile per la carne a 98,25 euro, cresce del 4,5% quella della frutta a 40,45 euro così come la spesa media mensile per acque minerali, bevande analcoliche, succhi di frutta e verdura (+4,2% a 20,48 euro).

Dato interessante è la crescita della spesa media mensile per ristoranti e hotel, segno che forse la crisi fa un po’ meno paura agli italiani. Si parla infatti di un +11%, da 110,26 a 122,39 euro, dopo 2 anni consecutivi di calo. Allo stesso modo, cresce la spesa media mensile per beni e servizi ricreativi, cultura e spettacoli: +4,1%, a 126,41 euro. Stabile, infine, la spesa per beni e servizi non alimentari (ferma a 2.057,87 euro al mese), mentre per il terzo anno consecutivo calano le spese mensili per le comunicazioni: -4,2%.

Infine, una nota interessante alla luce delle dinamiche migratori che stanno interessando in maniera massiccia il nostro Paese: le famiglie composte da soli stranieri hanno una spesa media di circa 1000 euro inferiore a quella delle famiglie italiane: 1.532,66 euro.

Prezzi, casa e trasporti sempre più cari

Il periodo dei saldi è l’ideale non solo per fare acquisti a prezzi stracciati ma per risparmiare anche un po’ di soldi da mettere da parte per le spese necessarie alla casa e non solo. E ce ne sono da mettere via non pochi, se si guarda all’elaborazione che Adnkronos ha fatto delle tabelle Istat contenute nell’annuario statistico 2015.

Uno studio dal quale emerge che, se dal 2005 al 2014 l’indice dei prezzi al consumo ha registrato una crescita del 19,3%, le spese sostenute dagli italiani per casa, acqua, elettricità e combustibili si sono impennate di quasi il doppio, del 34,5%.

In vista dei saldi, l’analisi delle tabelle rileva anche che l’indice dei prezzi al consumo per abbigliamento e calzature è cresciuto del 6,7%, poco meno dell’ambito “ricreazione, spettacoli e cultura” che ha fatto segnare un +6,9%. Aumenti marcati, in linea con quelli per la casa, per i prezzi dei trasporti (+30%), degli alcolici e del tabacco (+34,3%).

Segno più per i prezzi praticamente in tutte le altre categorie merceologiche: prodotti alimentari e bevande analcoliche (+20,7%), mobili, articoli e servizi per la casa (+16,5%), servizi sanitari e spese per la salute (+21,4%), spese per l’istruzione (+22,7%), alberghi, ristoranti e pubblici esercizi (+17,3%), altri beni e servizi (+22,5%).

Per una volta, però, noi italiani non facciamo la solita figura dei cornuti e mazziati rispetto ai nostri colleghi europei. L’andamento dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo nell’Europa a 18 rivela infatti che il trend del Belpaese è in linea con la media Ue.

L’incremento generale dei prezzi in Europa nel periodo 2005-2014 è stato infatti del 17,8% (-1,5% rispetto all’Italia) Se poi si analizza l’andamento nei prezzi per i diversi settori analizzati sopra, si scopre che la media europea per le spese della casa ha fatto registrare una crescita più contenuta rispetto alla nostra: +30%.

Crescono in maniera contenuta i prezzi al consumo per abbigliamento e (+6,2%) e in modo più consistente quelli delle bevande alcoliche e dei tabacchi (+36,7%), così come la spesa per trasporti: +23,7%.

Sofferenze bancarie, 8 su 10 in capo a grandi gruppi

All’indomani del referendum sulla Brexit, le Borse europee hanno subito un tracollo con pochi precedenti, trascinate a fondo dalle forti vendite sui titoli delle banche. La peggiore è stata Milano, non solo perché i nostri istituti, come quelle di altri Paesi, sono molto esposti nel Regno Unito, ma anche perché sono tra le più deboli del Vecchio Continente a causa delle forti sofferenze bancarie, farcite come sono di crediti deteriorati, ossia denaro prestato che difficilmente riusciranno a riottenere.

Per colpa dei privati, cui le banche hanno prestato soldi in maniera incauta? No. Secondo un’analisi dell’Ufficio studi della Cgia, l’80% delle sofferenze bancarie, somme quindi inesigibili, è in capo a grandi gruppi finanziari o industriali.

Al 31 marzo 2016, l’80% circa dei finanziamenti per cassa era stato erogato dalle banche italiane al primo 10% degli affidati, che ha causato da solo poco più dell’81% di sofferenze bancarie per crediti deteriorati.

E non si tratta di poca roba. Sempre secondo la Cgia, al 31 marzo 2016 il totale dei crediti deteriorati del nostro Paese tra sofferenze, inadempienze probabili o finanziamenti scaduti o sconfinati era pari a 333,2 miliardi: 196 di sofferenze lorde, 125,2 di inadempienze probabili e 12 miliardi di finanziamenti scaduti o sconfinati

Una situazione drammaticamente ingiusta soprattutto nei confronti delle imprese sane che richiedono finanziamenti, verso le quali le banche hanno chiuso i rubinetti del credito. Da aprile 2015 ad aprile 2016 gli impieghi alle imprese italiane sono calati di 24,3 miliardi, mentre dal 2011, anno di massima erogazione dei crediti, le imprese italiane hanno avuto 144 miliardi in meno di prestiti bancari. A livello di regione le strette al credito più rilevanti a seguito delle sofferenze bancarie si sono avute nel Lazio (-5,6 miliardi) e nel Veneto (-4,9 miliardi).

E se ancora ci fosse bisogno di una conferma su dove giace la maggior parte dei crediti deteriorati, ecco che, analizzando i dati relativi alle sofferenze bancarie per classi di grandezza, al 31 marzo 2016 il 70% delle sofferenze era concentrato nelle classi sopra i 500mila euro.

Brexit, è ora di comprar casa a Londra

Quanti sostengono che la Brexit non avrebbe alcun impatto immediato sulla vita quotidiana di britannici ed europei, forse non hanno una casa a Londra né hanno intenzione di comprarla. Secondo il Centro Studi di Casa.it, infatti, dopo la Brexit a Londra i valori delle trattative immobiliari sono calati del 5,5%, mentre la domanda è diminuita del 19% in 4 giorni. Anche il mercato degli immobili di pregio ha subito un rallentamento, soprattutto nelle zone top come il quartiere di Kensington e l’area di Notting Hill. Boom delle richieste di case in Scozia (+150%) da parte di famiglie del Regno Unito.

Secondo Alessandro Ghisolfi, responsabile del Centro Studi di Casa.it, “lo spettro di una ‘Bolla Brexit’ sul mercato residenziale londinese viene considerata più che probabile dalla maggioranza degli operatori locali, soprattutto per quanto concerne il segmento top del mercato. Sebbene nell’ultimo trimestre i valori di vendita delle case a Londra abbiano registrato una nuova crescita del 9,8%, la Brexit, nel giro di poche ore, ha fatto scendere i valori delle trattative di 5,5 punti percentuali. Oggi le case di Londra valgono in media 33mila euro in meno rispetto ai prezzi record registrati 7 mesi fa, il costo medio di un appartamento è valutato intorno ai 590mila euro”.

Un calo a cui è seguita anche la frenata della domanda: “I dati registrati sui principali portali immobiliari inglesi – prosegue Ghisolfi – dicono che le richieste per le case a Londra sono calate del 19% in 4 giorni, mentre la domanda di chi cerca casa in Scozia, proveniente dalle famiglie del Regno Unito, è curiosamente cresciuta del 150% in soli 5 giorni”.

La Brexit ha portato una ventata gelida anche sul mercato degli immobili di pregio londinesi, soprattutto sul fronte della domanda interna, che si spera possa essere compensata da una crescita della domanda estera, in particolare da Asia e Usa.

Gli ultimi dati registrano una caduta della domanda per le zone top di Londra del 2,5% nell’ultimo trimestre, rispetto al trimestre precedente – sottolinea ancora Ghisolfi -; un dato negativo che non si registrava da oltre un anno e mezzo e che contrasta con il dato annuale, giugno su giugno, che registra una crescita dell’8,2%. In particolare le aree urbane più prestigiose del West End sono state quelle più colpite dalla Brexit: il quartiere di Kensington nel secondo trimestre ha registrato un calo della domanda dell’11,8%, seguito da un -10,7% per l’area di Notting Hill”.

Secondo Ghisolfi, infine, i più colpiti dall’esito del referendum sulla Brexitsono sicuramente gli azionisti delle società di sviluppo che stanno operando sul mercato londinese. Le loro azioni hanno già subito delle riduzioni di valore superiori al 25% un’ora dopo l’apertura dei mercati il 24 giugno, a urne chiuse e risultati acquisiti”.

Casa, come cambiano le scelte degli italiani

Che la casa rimanga, per gli italiani, l’investimento principe, è un dato difficilmente controvertibile. Una certezza che fa il paio con il mutamento di abitudini d’acquisto e una certa dinamicità dei pressi registrata dal bene casa.

Lo dimostrano alcuni dati del Centro Studi Tecnocasa, dai quali emerge come negli ultimi anni il mercato immobiliare ha visto i prezzi scendere progressivamente, con il conseguente cambiamento a livello di tipologie immobiliari richieste.

Dal 2013 in poi si nota nelle grandi città una diminuzione delle percentuali sui tagli più piccoli della casa, come monolocali e bilocali. Al contrario, si segnala un aumento per le tipologie più ampie, dal trilocale in poi. Questo è avvenuto proprio a causa del ribasso dei prezzi che ha reso possibile l’acquisto di una casa più ampia, soprattutto il trilocale, scelto da tante giovani coppie che hanno saltato la fase in cui si acquistava prima il bilocale per poi passare all’appartamento con una camera in più.

Anche chi investe nella casa, da sempre orientato sul bilocale, tende ora a preferire il trilocale, di piccole dimensioni se ubicato in località turistiche. Nelle città universitarie si sceglie perché, in questo modo, c’è una camera in più da poter affittare.

Sempre maggiore l’attenzione al contenimento delle spese legate all’immobile, soprattutto quelle condominiali. Inoltre, in base alle indicazioni rilevate da La Ducale SpA, società di sviluppo immobiliare del Gruppo Tecnocasa, l’acquirente oggi, soprattutto in riferimento a una casa nuova, risulta molto sensibile a tematiche ambientali quali l’utilizzo di energie rinnovabili e la classe energetica, da cui discende un’attenzione verso il risparmio sui costi di gestione.

Un’architettura moderna, verde condominiale (soprattutto in città) ma con un occhio sempre ai costi e parti comuni curate sono plus che attirano i potenziali acquirenti. Terrazzi o pertinenze esterne fruibili, ormai intesi come un continuum dell’appartamento, e luminosità sono le richieste più frequenti dei clienti durante la ricerca della loro casa ideale. Per quanto riguarda gli interni, la differenza maggiore rispetto al passato riguarda la superficie dei locali e la gestione degli spazi della casa, con la tendenza a eliminare ciò che non è funzionale e a far crescere le superfici open.

Tutto ciò è stato reso possibile anche grazie a un cambiamento nel mondo dell’arredo, che privilegia il design a scapito della funzionalità o della praticità. Il design risulta essere molto amato dagli italiani, lo dimostra il continuo e sempre maggiore successo delle esposizioni e delle fiere che riguardano questo tema.

L’idea che hanno oggi gli acquirenti di casa, in definitiva, è strettamente legata all’idea di benessere personale. La casa viene intesa come un rifugio sicuro, un luogo dove isolarsi dal lavoro e dallo stress del mondo esterno. Oggi la tendenza è quella di voler vivere all’interno di una casa, di un condominio che funga da micro-habitat riparato ma dotato di tutti i comfort.

Traslochi italiani tra i più cari d’Europa

Come al solito, noi italiani facciamo la figura dei cornuti e dei mazziati. Sono tantissimi i beni e i servizi che, nel nostro Paese, costano più che in altri Paesi in Europa. Ora sappiamo che è così anche per quanto riguarda i traslochi.

Immobiliare.it, il più importante portale italiano di annunci immobiliari, e Movinga.it, sito specializzato nei traslochi nazionali ed internazionali hanno provato a capire quanto costa in Italia trasferirsi, considerando che le statistiche dimostrano che, in media, ogni italiano cambia casa 4 volte durante la vita, il più delle volte in estate.

Ebbene, l’analisi di un osservatorio congiunto tra i due siti ha fissato in 585 euro il costo medio da sostenere per i traslochi urbani in Italia effettuati tramite professionista. Il calcolo è stato effettuato per un immobile tipo di 78 metri quadrati e la movimentazione di 42 colli, non comprensivi di eventuali trasporti speciali e assicurazione.

I 585 euro italiani sono circa il 27% in più di quanto si paga nel Regno Unito (460 euro) e appena superiore alla somma dovuta in Germania (575 euro). Se non altro, a noi italiani va meglio che ai francesi, che per i loro traslochi devono sborsare in media 615 euro.

L’analisi, condotta su un campione di oltre 15mila casi registrati nei primi quattro mesi del 2016, ha evidenziato come il prezzo che si paga in Italia sia decisamente più alto anche nel caso di traslochi extra urbani. Chi cambia città, rimanendo dentro i confini nazionali, spende in media 1.450 euro in Italia, 1.160 euro nel Regno Unito, 1.325 euro in Germania e 1.430 euro in Francia, stavolta più economica di noi.

Altri dati interessanti emersi dall’analisi dell’Osservatorio congiunto Immobiliare.it e Movinga.it emergono dalle tipologie di traslochi più comuni nelle quattro nazioni usate come campione. Prendendo in esame i traslochi effettuati all’interno della stessa nazione, pur con il 57% di extra urbani gli italiani sono il popolo che meno di tutti si trasferisce in un’altra città; in Germania i traslochi verso un altro comune sono il 59% del totale, il 60% in UK e il 63% in Francia.

Italiani più “pigri” anche nello spostare mobili e suppellettili da una nazione a un’altra. In Italia, i traslochi internazionali sono il 2,1% del totale, il 2,9% in Germania, il 3% nel Regno Unito e il 3,2% in Francia.

Ripetizioni, i prezzi del mercato

Con la fine della scuola, per i genitori di bambini e ragazzi cominciano le spese. Nella migliore delle ipotesi, si tratta di spese per centri estivi e oratori feriali, nella peggiore parliamo delle spese per le ripetizioni scolastiche. E non sono spese da poco.

Da un’indagine sul mercato delle ripetizioni condotta da ProntoPro.it, portale che mette in contatto domanda e offerta di lavoro professionale e artigianale, risulta che la spesa più alta, in media, è quella legata alle materie scientifiche: 18 euro all’ora.

Le ripetizioni di inglese posso costare in media, a livello nazionale, 13,50 euro all’ora, una lezione di matematica per le medie e superiori raggiunge un prezzo medio di circa 12 euro, mentre le lezioni di materie umanistiche arrivano a poco meno di 10 euro all’ora.

L’indagine ha anche appurato che esiste un forte divario di prezzi tra Nord e Sud Italia in fatto di ripetizioni, sia per le materie scientifiche sia per quelle umanistiche. Milano è la città più cara dove prendere lezioni private: occorrono in media circa 23 euro per una lezione di carattere scientifico – contro una media nazionale, lo abbiamo visto di poco più di 18 euro -, mentre per una di ambito umanistico si arriva a 12,50 euro – contro la media italiana di circa 10 euro.

C’è anche una correlazione tra il livello di studio e i costi per le ripetizioni. Sempre a Milano, studiare privatamente matematica costa in media 24 euro se si è all’Università (media nazionale 19 euro), mentre per un liceale la cifra è poco sotto i 16 euro (media nazionale 12 euro). In città come Genova, Roma e Perugia, i costi per le ripetizioni si mantengono in linea sia per le lezioni di matematica per universitari, 23 euro, sia per quelle per liceali, 15 euro circa.

Al Centro-Sud, per colmare le proprie lacune nelle materie scientifiche uno studente di Napoli arriva a spendere circa 10,50 euro all’ora e 5,50 per le materie di ambito umanistico. Anche per le ripetizioni di matematica di livello universitario e scolastico, le città meridionali sono più convenienti: ancora Napoli guida la lista delle province più economiche (11 euro per un’ora di lezione di tipo universitario, 7 euro per una di ambito umanistico), seguita da Catanzaro, L’Aquila e Potenza.

Quali, invece, i capoluoghi più economici: per le ripetizioni di inglese, Bari, L’Aquila e Potenza (9 euro/ora), per le materie scientifiche e umanistiche Catanzaro (rispettivamente 11 e 6 euro), per le ripetizioni di matematica a studenti universitari Catanzaro e Napoli (11 euro), cosi come per le ripetizioni di matematica a studenti di medie e superiori (7 euro).

Pa e fatturazione elettronica, la grande beffa

Una delle specialità nelle quali eccelle la nostra Pubblica amministrazione è quella di prendere in giro le imprese. Lo dimostra il caso dell’obbligo di fatturazione elettronica, che in larga parte ha disatteso gli obiettivi per i quali era stato introdotto, come ha sconsolatamente sottolineato la Cgia.

Com’è possibile – si chiede il coordinatore dell’Ufficio studi degli artigiani mestrini, Paolo Zabeo, – che a distanza di oltre un anno dall’introduzione della fatturazione elettronica la nostra Pubblica amministrazione non conosca l’ammontare complessivo dei debiti commerciali che ha accumulato nei confronti dei propri fornitori, visto che questo sistema dovrebbe permettere di controllare che tutti gli enti centrali e periferici paghino in 30 o massimo 60 giorni così come previsto dalla Direttiva Ue?”.

Zabeo non si limita a domandare, ma circostanzia la situazione: “Il dato di partenza è il seguente: oggi lo Stato non ha una mappatura certa dei debiti a cui deve far fronte, nonostante sia obbligatorio per legge comunicare attraverso la piattaforma elettronica lo stock maturato alla fine di ogni anno entro il 30 aprile successivo. Inoltre, con l’introduzione della fatturazione elettronica, resa obbligatoria a partire dal 31 marzo 2015 a tutte le aziende che hanno rapporti commerciali con la Pa, il Governo si era posto l’obbiettivo di rendere trasparente e immediato il rapporto tra le parti, ma, soprattutto, di fornire un riscontro immediato dell’impegno economico preso dallo Stato nei confronti dei propri creditori. Dopo più di un anno, invece, non c’è ancora un dato ufficiale; l’indagine campionaria eseguita dalla Banca d’Italia, indica che la Pa, al 31 dicembre 2015, sarebbe debitrice nei confronti dei propri fornitori per 65 miliardi di euro, 35 dei quali riconducibili a fatture emesse da moltissimo tempo. Una stima, tengono comunque a precisare i ricercatori di via Nazionale, caratterizzata da un grado di incertezza non trascurabile e, pertanto, poco attendibile”.

Ma non è tutto. Se, da una parte, lo strumento della fatturazione elettronica non riesce ad assolvere ai compiti cui è chiamato, dall’altro rimane ancora il nodo dei tempi di pagamento. Bankitalia ha infatti constatato che nel 2015 i tempi medi di pagamento della Pa sono stati pari a 115 giorni, a fronte di una Direttiva Ue che risale al 2013 e che impone tempi compresi tra 30 e 60 giorni.

Ritardi che costano allo Stato, dal momento che la procedura di infrazione dell’Ue scattata contro l’Italia a giugno 2014 per la violazione della direttiva europea sui ritardi di pagamento non è ancora stata chiusa.

Una situazione paradossale, forse più di quella della fatturazione elettronica, contro la quale tuona anche il segretario della Cgia, Renato Mason: “Oltre a non pagare entro i tempi stabiliti dalla direttiva Ue, Bruxelles ci ha comminato questa infrazione anche perché molti enti utilizzavano dei contratti dove venivano applicate delle cifre dovute agli interessi significativamente inferiori al limite imposto dalla direttiva, cioè il tasso di riferimento Bce aumentato dell’8%. In altri casi ancora, c’era il malcostume, spesso ricorrente ancora adesso, di posticipare i report d’avanzamento dei lavori e di conseguenza ritardare i pagamenti.

E sebbene gli ultimi 3 Esecutivi che si sono succeduti in questi ultimi anni abbiano messo a disposizione più di 56 miliardi di euro per abbassare lo stock, lo smaltimento dei debiti nel nostro Paese rimane ancora un problema irrisolto”.

Una situazione intollerabile che mette l’Italia in pessima luce in Europa. Nessun altro Paese Ue conta un ammontare complessivo del debito per acquisti di beni e servizi paragonabile a quello italiano. I dati Eurostat provvisori, relativi al 2015, indicano che in Italia i debiti commerciali della Pa riconducibili alla parte corrente, esclusa la quota in conto capitale, ammontano a 49 miliardi. Per dare un ordine di grandezza, in Germania sono 35,1, in Francia 26,4, in Spagna 14,6, in Olanda a 5,4.

Il lavoro me lo trova l’amico (o lo zio)

Un’altra conferma di come il mercato del lavoro in Italia abbia dinamiche e regole tutte sue. Secondo i dati Isfol-Plus da poco pubblicati, un terzo degli occupati nel nostro Paese afferma di aver trovato lavoro grazie all’intervento diretto di familiari, amici e conoscenti. Se si includono gli interventi indiretti, si arriva al 60%.

I canali istituzionali per la ricerca di un lavoro contano invece assai poco per una ricerca diretta. Solo il 3,4% di chi ha trovato un’occupazione lo ha fatto servendosi dei centri per l’impiego e il 5,6% delle agenzie di lavoro interinale. Sull’intermediazione indiretta, tuttavia, le percentuali salgono: il 33% degli occupati si è servito dei centri per l’impiego, il 30% delle agenzie. C’è poi un residuo 10% di chi ha trovato lavoro attraverso un concorso pubblico.

Un altro canale interessante è quello dell’autocandidatura verso le aziende, utilizzato dal 58% degli occupati nella fase di ricerca. Nel 20% dei casi ha consentito l’assunzione in via diretta.

Infine, un ruolo importante nell’intermediazione indiretta viene giocato dalle offerte di lavoro pubblicate su stampa e web e dai contatti nell’ambito lavorativo: utili nel 36% dei casi le prime, nel 44% i secondi. In quanto canali diretti, hanno giocato un ruolo importante rispettivamente nel 2,6% e nel 10% dei casi.

Non dissimili i dati ai quali è giunto anche l’Istat. Secondo il rapporto Il mercato del lavoro, redatto dall’Istituto nazionale di statistica e relativo al primo trimestre 2016, oltre 8 persone su 10 si affidano alle conoscenze per ottenere un impiego. Si tratta, per la maggior parte, di persone disoccupate da oltre un anno che non sono riuscite a trovare lavoro attraverso i canali istituzionali.

L’Istat ha infatti rilevato che le persone che si rivolgono a parenti e amici sono l’84,8% di chi cerca un impiego all’inizio del 2016, contro l’83,4% del 2015. Parallelamente, cala il numero di quanti utilizzano il web (55,4% dal 59% del 2015), mentre rimane stabile la percentuale di quanti si propongono attraverso un’autocandidatura: 69,2%.

Mercato del lavoro e povertà, quali connessioni?

Come è messo il mercato del lavoro in Italia? Quanta flessibilità c’è e quanta rigidità, invece, lo blocca ancora impedendone lo sviluppo e la modernizzazione? Sono solo alcune delle domande alle quali prova a rispondere il Rapporto di Monitoraggio del Mercato del Lavoro 2015 – L’Italia fra Jobs Act ed Europa 2020 pubblicato dall’Isfol.

Si tratta della quinta edizione dello studio Isfol, i cui risultati erano stati in parte anticipati lo scorso dicembre durante il convegno Lavoro e crisi economica. Nel rapporto, il mercato del lavoro italiano viene analizzato specialmente nei suoi addentellati con il Jobs Act e ne vengono messe in luce tanto le dinamiche occupazionali, quanto le evoluzioni delle tipologie di contratti di lavoro e le sfide – più perse che vinte – sul fronte della flessibilità.

Interessante, nel rapporto, l’analisi fatta della connessione tra mercato del lavoro, occupazione e povertà. Secondo i risultati, il 18% delle famiglie con occupati nel 2014 non riusciva ad affrontare una spesa imprevista di 300 euro, numero che cresce del 50% (al 27%) se il dato si estende alle famiglie con e senza occupati. Il dato è stato estrapolato utilizzando i dati Isfol-Plus.

Il rapporto sul mercato del lavoro evidenzia che il 18% di famiglie in difficoltà di fronte a una spesa imprevista di 300 euro vive, nel 46% dei casi, in un nucleo familiare monoreddito e nel 45% dei casi in famiglie con due redditi.

Lo studio evidenzia anche uno stretto rapporto tra mercato del lavoro, difficoltà economiche e diversi aspetti legati al contesto sociale delle famiglie con occupati prese in analisi. Risulta infatti che sono più esposti alle difficoltà (in più del 50% dei casi analizzati) i nuclei familiari con lavoratori con titolo di studio basso, un quadro sanitario non completamente soddisfacente e che vivono in contesti sociali e urbani caratterizzati da una bassa qualità dei servizi.

Un quadro generale che influisce negativamente non solo sul mercato del lavoro, ma anche sulla percezione della qualità che, di esso, hanno le famiglie interessate dal rapporto: in molte di esse, infatti, gli occupati o l’occupato non sono soddisfatti di molti aspetti legati al lavoro e, in generale, della propria vita.