Corte dei Conti boccia il Superbonus 110%: cosa succede?

Il Superbonus 110% continua a creare confusione e non poche polemiche. L’ultima a dire la sua è la Corte dei Conti che, impegnata nell’esame del rendiconto 2021, ha notato effetti distorsivi.

Tutte le critiche al Superbonus 110%: non solo la Corte dei Conti boccia l’agevolazione

Il primo ad essere sempre stato critico nei confronti del Superbonus 110% è stato il presidente del Consiglio Mario Draghi che ha più volte sottolineato come questa misura, voluta e sostenuta dal M5S, è fortemente distorsiva e soprattutto lascia molto spazio a truffe e manipolazioni. Non solo il Presidente del Consiglio, infatti anche il ministro dell’Economia Daniele Franco ha parlato di una delle truffe più grandi mai viste in Italia.

Naturalmente queste critiche sono suffragate dai riscontri che derivano dall’attività di indagine della Guardia di Finanza che ha di fatto scoperto molti abusi che hanno comunque portato degli “aggiustamenti “ alla normativa al fine di ridurre le possibilità di truffa. A questo deve aggiungersi la tegola dei fondi esauriti e i maggiori controlli già annunciati dall’ABI, Associazione Bancari Italiani. Ora arriva l’ultima tegola per coloro che sono interessati a usufruire delle agevolazioni del Superbonus 110%, si tratta della bocciatura da parte della Corte dei Conti.

Perché la Corte dei Conti boccia il Superbonus 110%

Ricordiamo che il Superbonus 110% consente di realizzare lavori di efficientamento energetico con la possibilità di ottenere una detrazione pari al 110%, oppure lo sconto in fattura o la cessione del credito. Secondo la Corte dei Conti questa misura ha un effetto distorsivo, in quanto pesa eccessivamente sulle casse dello Stato incidendo sul PIL per alcuni punti percentuali. Inoltre in molti casi configura benefici non giustificati per gruppi specifici di soggetti con effetti distributivi non sempre auspicabili. Si tratta inoltre di una misura non facilmente sostenibile dal punto di vista fiscale.

Il Procuratore generale della Corte dei Conti Angelo Canale ha sottolineato che questa misura va in realtà a danneggiare anche le imprese che si vorrebbero favorire, infatti il ritardo nel pagamento delle fatture commerciali sta creando problemi di liquidità. Ricordiamo che molti intermediari finanziari finora impegnati nell’acquisto dei crediti ceduti dalle imprese stanno limitando le possibilità di cessione del credito.

Per capire il volume delle agevolazioni basti rammentare che nel solo biennio 2020-2021 le cessioni del credito hanno portato sconti in fattura per 38,4 miliardi di euro.

Leggi anche: Sei un professionista del Superbonus 110%? Scarica l’ultima circolare AdE

Simulatore pensioni Inps: come funziona

Il sito istituzionale dell’Inps mette a disposizione un servizio gratuito per simulare quale sarà la propria pensione futura, ovvero quanto si andrà a prendere di pensione nel momento in cui terminerà la propria attività lavorativa. Il calcolo si fonda su tre elementi della normativa previdenziale, ovvero l’età, la storia lavorativa e la retribuzione (o reddito).

La mia pensione futura Inps: a chi è rivolto il servizio

Possono usufruire del servizio “La mia pensione futura”:

  • i lavoratori che abbiano contributi versati al Fondo pensione dei lavoratori dipendenti;
  • i lavoratori che abbiano contributi versati alla Gestione Separata Inps;
  • gli iscritti alla Gestione dirigenti di aziende industriali;
  • i lavoratori che abbiano versato contributi ad altri fondi amministrati dall’Inps.

Cosa permette di sapere il simulatore delle pensioni Inps

Il simulatore delle pensioni Inps permette di:

  • controllare i versamenti fatti all’Inps e di comunicare all’Istituto previdenziale eventuali periodi di contribuzione che mancano tramite la funzione di segnalazione contributiva;
  • conoscere la data nella quale presumibilmente maturi la pensione di vecchiaia o quella anticipata;
  • stimare l’importo della pensione futura senza tener conto dell’inflazione (funzione “a moneta costante”);
  • ottenere il tasso di sostituzione, ovvero il rapporto tra l’ultimo stipendio percepito e la prima rata di pensione.

Pensione futura, prevedere scenari di variazione della propria retribuzione

Con il servizio della futura pensione dell’Inps è possibile prevedere anche variazioni della propria situazione lavorativa futura o dell’economia nel medio e lungo termine. Le previsioni sono particolarmente indicate per i contribuenti più distanti dall’uscita da lavoro e si basano sulla possibilità:

  • di ipotizzare la sospensione del lavoro, ovvero di inserire la data nella quale si prevede di interrompere l’attività lavorativa;
  • di modificare le previsioni sul Prodotto interno lordo futuro. Ad esempio, modificare le previsioni dell’1,5% di Pil all’1% di incremento nel medio e lungo periodo;
  • di modificare l’andamento della propria retribuzione o del reddito annuale con valori da 0 a +5%;
  • di scegliere il fondo sul quale basare la propria simulazione.

Costruire la futura pensione confrontando diversi scenari

Per i contribuenti più indecisi sulla data del pensionamento, è possibile modificare i parametri della simulazione. Ad esempio, si può:

  • calcolare la futura pensione verificando l’incidenza di retribuzioni diverse. Si può, in altre parole, modificare la retribuzione dell’anno in cui si utilizza il servizio e verificare l’andamento percentuale annuo;
  • si può verificare cosa succede se si posticipa la data presunta del pensionamento (quanto si guadagna di pensione se si rimane ancora a lavoro?);
  • modificare entrambe le variabili, retribuzioni e data di uscita da lavoro, che possono essere combinate per verificare la soluzione più conveniente.

Come accedere e utilizzare il servizio Inps ‘La mia pensione’

Per poter utilizzare il servizio online La mia pensione è necessario andare sul sito dell’Inps nella sezione “Prestazioni e servizi – La mia pensione futura: simulazione della propria pensione” e scorrere alla voce “Accedi al servizio”. In alternativa, non appena si apre la pagina Inps, è possibile direttamente l’accesso dalla sezione “Vai a MyInps”. L’autenticazione è possibile combinando il codice fiscale con il Pin rilasciato dall’Istituto previdenziale, con l’identità Spid almeno di secondo livello, con la Carta di identità elettronica 3.0 (Cie) oppure con una Carta nazionale dei Servizi (Cns).

Come calcolare la pensione futura: caso concreto sul sito Inps

Dopo aver fatto l’accesso e confermato le informazioni sulla privacy, la prima pagina del servizio Inps per il calcolo della pensione futura riepiloga la posizione contributiva fino al giorno dell’accesso da parte del richiedente mediante l’estratto conto previdenziale. Per andare avanti, è necessario selezionare nella parte in basso la casella nella quale si dichiara di aver preso visione della propria situazione contributiva.

Come funziona il simulatore delle pensioni Inps?

La pagina successiva è quella di maggiore interesse per il calcolo della pensione futura. Infatti sono presenti due specchietti, corrispondenti alle presunte uscite da lavoro con la pensione di vecchiaia o con la pensione anticipata. In corrispondenza delle due colonne sono presenti anche gli importi mensili lordi delle pensioni previsti con il meccanismo di uscita prescelto (vecchiaia o anticipata). Ulteriore informazione presente per le due formule di pensione è quella dell’ultima retribuzione rispetto al reddito lordo stimato (pensione lorda futura). Dal rapporto di questi due valori il sistema restituisce il tasso di sostituzione, ovvero a quanto ammonta la pensione futura rispetto all’ultimo stipendio percepito a lavoro.

Quale sarà l’importo della pensione futura rispetto all’ultimo stipendio?

Il valore del tasso di sostituzione lordo indicato in corrispondenza della pensione di vecchiaia è normalmente più alto dello stesso valore iscritto nella pensione anticipata. Questo andamento si può spiegare con il meccanismo di calcolo delle pensioni che tiene conto sia degli anni di contributi versati che dell’età di uscita effettiva da lavoro. Infatti, con la pensione di vecchiaia, attualmente a 67 anni, si dovrebbe accumulare un numero di anni di contributi più alto della pensione anticipata.

Pensione di vecchiaia o pensione anticipata, quale conviene?

La pensione anticipata è maturabile, con le attuali regole previdenziali, per gli uomini con 42 anni e 10 mesi di contributi e per le donne con 41 anni e 10 mesi. Inoltre, il coefficiente di trasformazione è variabile in base all’anno di uscita: più è alta l’età, maggiore è l’indice di calcolo delle pensioni. Proprio il coefficiente concorre, insieme al Prodotto interno lordo, a trasformare il montante dei contributi versati in pensione futura.

Pensione futura: quanto incidono retribuzioni e Pil?

I valori indicati nella pagina della pensione futura, tuttavia, sono indicativi della situazione attuale proiettata nel futuro, ipotizzando crescite costanti della retribuzione e del Prodotto interno lordo. Un calcolo più realistico si può ottenere inserendo un valore del Pil più basso e, sicuramente, più in linea con l’andamento attuale dell’economia. Inoltre, si presume che il lavoro che si svolge abbia un andamento, in termini delle ultime retribuzioni percepite, di crescita fino alla pensione. Il valore, dunque, può essere modificato a seconda della propria situazione per renderlo più aderente al reale andamento retributivo.

Come modificare la retribuzione nel calcolo della pensione futura Inps?

Proprio in previsione di variazioni della retribuzione è possibile, nella parte bassa della pagina, modificare il reddito di partenza della simulazione. Dunque per migliorare la precisione della proiezione della futura pensione, si potrebbe inserire l’attuale retribuzione annuale lorda se diversa o in previsione differente rispetto a quella per la quale l’Inps ha già fatto la sua previsione. Le retribuzioni inerenti agli anni futuri verrebbero costruite a partire dal valore di retribuzione annuale indicato, con i consueti criteri di crescita delle retribuzioni stesse e dell’andamento del Prodotto interno lordo.

Pil italiano in rialzo, ma non ancora alla pari con l’Ue

Istat ha reso noto che, nel quarto trimestre 2018 il Pil italiano è salito dello 0,3% rispetto al terzo trimestre, e dell’1,6% rispetto all’anno precedente.

Questo aumento si spiega soprattutto con la diminuzione del valore aggiunto nel comparto dell’agricoltura e da un aumento nell’industria e nei servizi.
Per quanto riguarda la domanda, arriva un contributo positivo dalla componente nazionale ma anche da quella estera.

A fronte di questi risultati, la variazione acquisita per il 2018 è pari a +0,5%. Inoltre, considerando l’intero 2017, il Pil corretto è aumentato dell’1,5% e questo rappresenta un gran risultato, che non si verificava dal 2010.

Considerando l’Europa, il Pil si è rivelato in crescita dello 0,6%, nel quarto trimestre rispetto allo stesso periodo del 2016.
Nell’intero anno, il Pil è salito del 2,5% in entrambe le aree. Considerando le aree geografiche separate, la crescita è del 2,7% nell’area Euro e 2,6% nella Ue a 28 Paesi.
Nel quarto trimestre del 2017, riferisce Eurostat, il Pil destagionalizzato è aumentato dello 0,6% sia nell’area dell’euro che nell’Ue28 rispetto al trimestre precedente.

Questi dati fanno capire, comunque, che l’Italia rimane ancora piuttosto indietro rispetto all’Europa, come ha voluto sottolineare Paolo Zabeo, coordinatore dell’ufficio studi della CGIA: “Sebbene abbiamo toccato il record di crescita degli ultimi 7 anni, anche nel 2017 nessun altro Paese dell’Ue a 27, purtroppo, ha registrato un aumento del Pil inferiore al nostro”.

Purtroppo le stime per l’Italia, nonostante siano positive, non vedono un recupero nei confronti dell’Ue, almeno non nei prossimi due anni. Ma, per poter arrivare a risultati più consistenti, Renato Mason, segretario della CGIA, sostiene che servano meno tasse, meno burocrazia e più investimenti pubblici.

Vera MORETTI

Ripresa lenta per l’Italia e 2018 in calo

Se il 2017 era stato l’anno della ripresa, con un saldo positivo dell’1,5%, il 2018 non sarà in grado di ripetere né di aumentare questa performance.

La Cgia ha condotto un’indagine secondo cui il Pil italiano aumenterà dell’1,3% e che vedrà gli altri paesi Ue in rialzo rispetto a noi, Grecia compresa, che aumenterà la propria ricchezza del 2,5%, mentre la Francia segnerà il +1,7%, la Germania il +2,1% e la Spagna il +2,5%.
Aumenti quasi irrisori interesseranno anche le famiglie (+1,1%) e la Pubblica amministrazione (+0,3%). Note positive, invece, relative alle tasse, ma la situazione non è certamente delle più rosee.

Queste le parole di Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia: “Al netto di eventuali manovre correttive e degli effetti economici del cosiddetto bonus Renzi stimiamo che la pressione fiscale generale sia destinata a scendere al 42,1 per cento: 0,5 punti in meno rispetto al dato 2017. Prosegue, quindi, la discesa iniziata nel 2014. Il risultato del 2018, comunque, sarà ottenuto grazie al trend positivo del Pil nominale che aumenterà di oltre 3 punti percentuali e non a seguito di una contrazione del gettito fiscale che, invece, salirà del 2 per cento. Se il Governo Gentiloni non avesse fatto slittare sia l’introduzione dell’imposta sui redditi sulle società di persone e imprese individuali sia la cancellazione degli studi di settore, il carico fiscale generale avrebbe subito una contrazione decisamente superiore, soprattutto a vantaggio delle piccole e micro imprese”.

Considerando le previsioni attuali, per recuperare il livello di crescita antecedente alla crisi occorrerà aspettare fino al 2023. Per colmare i consumi delle famiglie e gli investimenti sia pubblici sia privati, bisognerà aspettare rispettivamente il 2019-20 e il 2030.

Sul fronte del lavoro, infine, la Commissione europea stima il tasso di disoccupazione in discesa al 10,9 per cento, mentre il numero degli occupati dovrebbe salire di 0,9 punti percentuali.

Renato Mason, segretario della Cgia, ha dichiarato: “A differenza di quanto è successo in questi ultimi anni speriamo che il nuovo esecutivo che uscirà dalle urne torni ad occuparsi dei temi strategici per il futuro di un paese: come, ad esempio, creare lavoro di qualità, quali politiche industriali e formative sviluppare, come affrontare le sfide che l’economia internazionale ci sottopone. Abbiamo bisogno di affrontare queste tematiche, altrimenti rischiamo di veder aumentare lo scollamento già molto preoccupante tra il mondo della politica e il paese reale”.

Per quanto riguarda la situazione a livello regionale, sarà il Veneto, nell’anno in corso, a registrare il più alto aumento di Pil, che arriverà all’1,6%. Al secondo posto l’Emilia Romagna e la Lombardia (+1,5%) e in quarta posizione il Friuli Venezia Giulia (+1,4%).

Tra le regioni più in ritardo in termini di recupero ci sono la Calabria (-11,2%), la Liguria (-11,4), la Sicilia (-12,5), l’Umbria (-14,9) e il Molise (-16,9).

Vera MORETTI

Imprese: in aumento i consumi di energia elettrica

I primi sette mesi del 2017 mostrano un aumento dell’1,2% della richiesta dell’energia elettrica da parte delle imprese, e al contempo si è registrato un aumento del Pil dell’1,4% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
In particolare, nel 2016 i consumi di energia elettrica delle imprese ammontano a 205.845 GWh e sono in aumento dello 0,4% rispetto all’anno precedente, consolidando la crescita dell’1,6% registrata nel 2015. In particolare i consumi aumentano dello 0,5% nel Manifatturiero, dello 0,4% nei Servizi Vendibili mentre si osserva una stazionarietà (-0,1%) nelle Costruzioni ed un calo dell’1,2% nell’Energia ed acqua.

Considerando, più nel dettaglio, i diversi settori, si osserva per il Manifatturiero di base (25,6% dei consumi delle imprese) un aumento dei consumi elettrici dell’1,0%, interamente sostenuto dalla Siderurgica (+4,7%). Nel Manifatturiero non di base (che addensa il 25,8% del consumo totale delle imprese) i consumi risultano stazionari (+0,1%); in quest’ultimo comparto registrano un aumento della domanda di energia elettrica le imprese nei settori dei Mezzi di Trasporto (+2,6%), Vestiario e abbigliamento (+1,9%), Meccanica (+0,9%), Alimentare e Pelli e cuoio (entrambi con +0,2%).

Dal punto di vista territoriale, nel 2016 i consumi di energia elettrica delle imprese sono aumentati maggiormente in Puglia (+3,8%), seguita da Valle d’Aosta (+2,8%), Molise (+2,6%), Veneto (+1,6%) e Trentino Alto Adige (+1,2%). Al contrario, i cali più accentuati si osservano in Calabria (-2,0%), Sicilia (-2,2%) e Lazio (-3,3%).

Relativamente alle province, la maggiore crescita dei consumi elettrici delle imprese si registra a Taranto (9,6%), seguita da Verona (5,4%), Massa Carrara (3,8%), Brindisi (3,7%), Isernia (3,1%) e Bolzano (3,0%). Seguono, con aumenti superiori od uguali ai due punti percentuali, Aosta e La Spezia (2,8%), Piacenza e Medio Campidano (2,6%), Campobasso (2,5%), Belluno e Viterbo (2,3%), Terni (2,2%), Sondrio e Modena (2,0%).

Considerando il comparto manifatturiero, escluso il siderurgico, il Molise è la regione in cui i consumi elettrici sono cresciuti maggiormente (+6,9%), seguita da Umbria (+2,3%), Trentino Alto Adige (+1,6%), Emilia Romagna (+1,3%), Puglia (+1,2%), Sardegna (+1,1%) e Piemonte (+1,0%); al contrario le regioni in cui sono diminuiti di più i consumi di energia elettrica sono Sicilia (-8,8%), Calabria (-3,2%), Valle d’Aosta (-2,2%) e Liguria (-2,1%).

Vera MORETTI

Pil italiano ancora in ritardo rispetto all’Ue

Angelo Buscema, presidente di coordinamento delle sanzioni riunite in sede di controllo della Corte dei Conti, in occasione della relazione sul rendiconto generale dello Stato, ha voluto commentare la crescita del Pil italiano ricordando che, purtroppo, si tratta di un recupero ancora modesto e insufficiente per poterci mettere in pari con gli altri Paesi Ue.

Queste le sue parole in proposito, su ciò che si dovrebbe fare per riportare il Pil a livelli ragionevoli: “L’elevato livello del debito pubblico, elemento di maggiore vulnerabilità dell’Italia, impone alla politica economica, ben di più di quanto non derivi dai vincoli fissati con le regole europei sui conti pubblici, di proseguire lungo un percorso di rientro molto rigoroso. La spending review non ha prodotto i risultati sperati. A consuntivo, le misure di riduzione, mentre sembrano aver salvaguardato l’operare di interventi a sostegno dei comparti produttivi, non hanno prodotto risultati di contenimento del livello complessivo della spesa. Resta, quindi, ancora attuale la necessità di una revisione attenta di quanto può, o non può più, essere a carico del bilancio dello Stato, in un processo di selezione della spesa attento a non incidere negativamente sul potenziale di crescita del Paese”.

Arturo Martucci di Scarfizi, presidente della Corte dei Conti, ha poi aggiunto: “I conti pubblici registrano nel 2016 una sostanziale tenuta, ma il rigore nella gestione della finanza pubblica resta una via obbligata. La valutazione è per vari aspetti positiva poiché si evidenzia una sostanziale tenuta dei conti entro un quadro d’assieme che vede progressivamente ricondotti all’equilibrio di bilancio alcuni principali comparti quali quelli riguardanti le amministrazioni locali, assegnandosi allo Stato centrale un ruolo strategico nel perseguimento degli obiettivi programmatici”.

Vera MORETTI

Pil in rialzo grazie alle performance di Nord Est e Sud

Il 2016 ha registrato cifre incoraggianti relative al Prodotto interno lordo, e non solo, questa volta, grazie alle performance del Nord, ma, al contrario, con un forte contributo del Sud, dove l’aumento del Pil, rispetto all’anno precedente, è dello 0,9%, mentre nel Nord ovest e nel Centro è leggermente inferiore, pari rispettivamente a 0,8 e 0,7%. Solo il Nord est ha saputo fare meglio, raggiungendo +1,2%.

Questi dati, resi noti da Istat, rappresentano una forte ripresa del meridione, che già nel 2015 aveva cominciato a dare segnali incoraggianti, concludendo l’anno in positivo.
Ma non è solo il Sud a volare, perché da considerare è il risultato in netto rialzo del Nord Est.

Queste percentuali si sono fatte sentire anche a livello di occupazione, visto che, considerando il territorio, la zona nord orientale si trova in vetta, mentre in sofferenza sono sicuramente le regioni centrali, dove il mercato del lavoro registra un aumento ma pari a meno della metà rispetto alla media nazionale.
L’occupazione in Italia è cresciuta, nel 2016, dell’1,3%, con l’aumento maggiore nel Nord-est (+1,8%), seguito dal Mezzogiorno (+1,6%). Nelle regioni del Centro invece la crescita non va oltre lo 0,6%.

Ovviamente, la crescita dell’occupazione ha influito sull’andamento del Pil a livello territoriale: anche in questo caso, il Nord Est rimane in vetta e il Centro in difficoltà, poiché è proprio in questa zona che il mercato del lavoro registra un aumento ma che non raggiunge neppure la metà della media nazionale.

Si legge da una nota Istat: “L’occupazione (misurata in termini di numero di occupati) è cresciuta, nel 2016, dell’1,3%. L’aumento maggiore si osserva nelle regioni del Nord-est (+1,8%), seguite da quelle del Mezzogiorno (+1,6%) e del Nord-ovest (+1,0%). Nelle regioni del Centro la crescita è inferiore alla media e risulta pari allo 0,6%”.

Vera MORETTI

Pil italiano sempre in ritardo rispetto al resto d’Europa

La crescita dell’Italia negli ultimi vent’anni è rimasta quasi al palo, e ciò ha influito sul Pil, rimasto piuttosto rigido anche a causa dalle performance ottenute dalle regioni del Sud, dove, purtroppo, il Prodotto interno lordo non ha accennato alcun progresso.

Si ritorna a parlare, dunque, di divario tra Nord e Sud, anche alla luce dell’analisi effettuata dall’Ufficio Studi di Confocommercio e presentata nell’ambito dell’Assemblea della Confederazione.
I dati emersi, infatti, puntano i riflettori su una divisione economica molto netta, e che, anzi, è addirittura peggiorata in termini di ricchezza prodotta e di consumi, che tra il 1995 e il 2016 sono aumentati del 18,8% nel Centro Nord e solo dell’1,4% nel Mezzogiorno.

Ovviamente, la situazione non è bella e deve essere risolta quanto prima perché se si pensa che, se il Sud fosse cresciuto tanto quanto il Nord, che comunque non ha ottenuto risultati particolarmente brillanti, nel 2016 il Pil nazionale sarebbe risultato più alto di circa 45 miliardi di euro, e i consumi di 47 miliardi.

Nonostante il gap sia esistente, però, ciò non basta a giustificare le basse performance dell’Italia nei confronti dell’Europa, perché, anche se il Sud avesse registrato risultati migliori, il Belpaese sarebbe comunque fanalino di coda nella graduatoria europea per la crescita del Pil 1995-2016.

Bisogna però dire che il Mezzogiorno sta dimostrando di avere una grande vitalità dal punto di vista imprenditoriale, ma che non riesce a manifestarsi con l’efficacia che meriterebbe, soprattutto per problemi strutturali.

Tra il 2009 e il 2016, ad esempio, importanti settori del terziario di mercato hanno saputo reagire alla crisi sviluppando nuove iniziative imprenditoriali ed offrendo opportunità di lavoro, registrando un considerevole +14,2% per gli alberghi, bar e ristoranti e +6,8% per altri servizi di mercato
Grazie all’intraprendenza di giovani imprenditori, che hanno deciso di buttarsi nella mischia e mettersi in proprio, alla faccia della crisi, il settore del turismo e dei servizi alle imprese è particolarmente dinamico, poiché basato su idee innovative e, quindi, vanno salvaguardati e adeguatamente sostenuti per poter superare la fase della startup ed essere competitivi.

Vera MORETTI

Italia senza rivali per il peso delle pmi sull’economia nazionale

Si è appena concluso il summit del G7 tenutosi a Taormina, dove l’Italia, insieme a Stati Uniti, Canada, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito, ha affrontato i temi di politica estera, commercio, clima, energia, sicurezza, innovazione e sviluppo in Africa.

Le sette maggiori economie avanzate detengono il 46,2% del PIL mondiale e presentano situazioni differenziate rispetto ad alcuni indicatori chiave.

Per quanto riguarda l’Italia, spicca per il numero di occupati e piccole imprese con meno di 50 addetti, che costituiscono una percentuale del 67,2% dell’occupazione del totale delle imprese, davanti alla Francia con il 47,9%, alla Germania con il 42,0%, al Regno Unito con il 37,3%, al Canada con il 35,6%, al Giappone con il 34,3% e agli Stati Uniti d’America con il 27,9%.

Nonostante questa buona performance, l’Italia rimane comunque all’ultimo posto, tra le sette economie, nella classifica del Fare impresa redatta dalla Banca Mondiale, e al 50esimo posto nel mondo, dietro al Giappone (34° posto nel mondo) e alla Francia (29° posto nel mondo).
E’ più facile fare impresa, invece, nel Regno Unito (7° nel mondo), negli Stati Uniti (8° posto), in Germania (17° nel mondo) e in Canada (22° nel mondo).

Tra le cause di questo scarso posizionamento c’è anche una maggiore tassazione d’impresa, poiché, ad esempio, il total tax rate, l’indicatore che sintetizza l’entità del prelievo fiscale sui profitti di impresa, è più basso in Canada (21,0%), seguito da Regno Unito (30,9%), Stati Uniti (44,0%), Germania e Giappone (entrambe con il 48,9%), mentre la tassazione più elevata si riscontra in Italia (62,0%) e Francia (62,8%).

Anche la burocrazia non ci aiuta, perché nonostante il notevole miglioramento di quest’anno, l’Italia è il paese in cui le imprese impiegano il maggior numero di ore per pagare le tasse (240 ore all’anno), 67 ore in più rispetto alla media G7 (174 ore all’anno) e 130 in più rispetto al Regno Unito (110 ore all’anno), il paese che ne utilizza meno fra le maggiori economie avanzate.

Criticità derivano anche dai tempi della giustizia civile, poiché in Italia un procedimento dura 1.120 giorni, peggio di Canada con 910 giorni e Germania con 499 giorni; al di sotto della media G7 (476 giorni) si posizionano Regno Unito (437 giorni), Stati Uniti (420 giorni), Francia (395 giorni) ed infine il Giappone (360 giorni). Le riforme in campo della giustizia civile appaiono essenziali per migliorare il ranking dell’Italia.

Bene Italia e Germania per quanto riguarda la finanza pubblica: le entrate fiscali nella media dei paesi del G7 è al 35,6% del PIL; sotto la media troviamo Stati Uniti (31,1%) e Giappone (32,6%) mentre all’opposto la maggior pressione fiscale si trova in Francia (53,3%) e Italia (46,6%) che mantiene un livello di undici punti superiore alla media G7.

Occorre evidenziare che sull’Italia, così come sul Giappone, grava un alto debito pubblico che compromette la crescita del PIL: il tasso medio di crescita 2017-2018 per l’Italia si ferma allo 0,8% e per il Giappone allo 0,9%; crescono maggiormente la Francia con 1,5%, la Germania con 1,6%, il Canada con 1,9%, il Regno Unito con 1,8% e gli Stati Uniti con il 2,4%.

Segnali positivi per l’economia italiana provengono dagli stimoli della domanda per investimenti contenuti in Industria 4.0 che collocano l’Italia al secondo posto tra le sette maggiori economie per crescita del rapporto investimenti/PIL tra 2016 e 2018, in salita di 0,6 punti, dietro solo al +0,9 punti degli Usa e davanti al +0,3 punti del Giappone, e al +0,1 punti della Germania. Nel lungo periodo – dal 2016 al 2022 – l’Italia diventa il primo Paese del G7 per crescita degli investimenti.

Infine, come evidenziato in nostre precedenti analisi l’Italia si posiziona meglio sul fronte della sostenibilità ambientale: l’Italia è il paese G7 con il più basso valore di emissioni di CO2 pro capite (7,65), meglio di Francia (7,74), Regno Unito (9,11), Giappone (10,70), Germania (11,43), Canada (20,62) e Stati Uniti (21,76).

Vera MORETTI

Pil italiano in crescita, ma non ancora in linea con l’Ue

In una nota mensile relativa all’andamento dell’economia italiana, l’Istat ha fatto sapere che nel 2017 si prevede un aumento del prodotto interno lordo pari all’1,0%, in termini reali. Ciò significa che il tasso di crescita è lievemente superiore a quello registrato nel 2016 e, rispetto a novembre, la previsione del tasso di crescita del Pil per l’anno in corso è stata rivista di un +0,1%.

Ma il rialzo potrebbe anche essere maggiore, perché, come si evince da una nota dell’Istat: “Nel primo trimestre del 2017 il Pil ha registrato un ulteriore miglioramento (+0,2% la variazione congiunturale, +0,5 quella dell’area euro), consolidando in tal modo la fase di recupero avviata agli inizi del 2015. La diversa intensità della crescita rispetto a quella dell’area euro costituisce una caratteristica dell’attuale ciclo economico. Prendendo come riferimento il primo trimestre del 2015, il livello del Pil italiano è cresciuto dell’1,9% nei primi tre mesi del 2017. Nello stesso periodo il Pil dell’area euro è aumentato del 3,5%. Tra i principali paesi europei solo la Francia ha mostrato miglioramenti simili a quelli italiani (+2,1%). Nel 2017 il Pil è previsto in aumento dell’1,0% supportato dal proseguimento della fase espansiva della domanda interna (1,1 punti percentuali il contributo al netto delle scorte). I consumi delle famiglie forniranno un apporto rilevante alla crescita seppure con una intensità meno accentuata di quella registrata nel biennio precedente. Anche gli investimenti contribuiranno in misura significativa al miglioramento del Pil con tassi di crescita in linea con quelli dell’anno precedente. La ripresa del commercio internazionale è attesa rafforzare la dinamica delle esportazioni e delle importazioni. Nel complesso nel 2017 il contributo estero risulterebbe lievemente negativo (-0,1 punti percentuali)”.

La dinamica positiva è avvenuta grazie all’aumento sostanziale del comparto dei mezzi di trasporto e a quello, seppur più contenuto in verità, degli impianti, macchinari e armamenti.
Aumento ancora più moderato per il settore delle costruzioni, 1,1%, anche se prosegue nella ripresa iniziata nel 2015.

Il 2017 dovrebbe segnare un consolidamento della ripresa del processo di accumulazione 8+3,0%9, grazie agli investimenti in macchine ed attrezzature ma anche alle costruzioni residenziali.

Nel 2016, poi, le esportazioni italiane di beni e hanno registrato una dinamica più debole di quella dell’anno precedente (+2,4%), ma comunque in linea con l’evoluzione degli altri paesi dell’area euro, in particolare Germania e Francia. Aumento più contenuto per le importazioni (+2,9%), sempre confrontato con i dati dell’area euro.

Dalla nota Istat: “Nel 2017 l’occupazione, espressa in termini di unità di lavoro, è prevista crescere (+0,7%) ma in decelerazione rispetto agli anni precedenti, mentre il tasso di disoccupazione è atteso in moderata diminuzione (11,5%), mantenendosi distante da quello della media dell’area euro. Nell’anno in corso, le retribuzioni per dipendente continueranno a mostrare una dinamica moderata ma superiore a quella dello scorso anno (+0,9%). La dinamica della produttività tornerebbe positiva. La riduzione della disoccupazione osservata negli ultimi anni proseguirebbe anche nel 2017, con un tasso previsto pari all’11,5%. Nel 2016, gli occupati sono aumentati di 293mila unità (+1,3%), mentre l’input di lavoro, è salito di 323mila unità di lavoro (+1,4%), con un ritmo superiore a quello del Pil. Anche in Germania si è registrata un’elevata reattività dell’occupazione alla crescita dell’output: all’aumento del Pil (+1,9%) si è associata un’accelerazione dell’occupazione (+2,9%). In Spagna la dinamica dell’occupazione (+2,7%) si è invece mantenuta su tassi inferiori alla crescita del Pil (+3,2%). L’espansione dell’occupazione in Italia ha interessato in particolare i servizi: l’aumento nel terziario ha costituito il 96,4% dell’incremento totale netto degli occupati, con tassi più significativi nei comparti dell’attività dei servizi di alloggio e ristorazione, di trasporto e magazzinaggio e dei servizi alle imprese. Nell’area euro tale quota è stata pari all’83,3%”.

Nonostante il miglioramento del PIL nel primo trimestre, comunque, il gap tra Italia e Ue non è ancora colmato. Se, infatti, il Pil italiano è aumentato dell’1,9%, nell’aera euro è cresciuto del 3,5%, quindi di strada da fare ce n’è ancora tanta.

La spesa delle famiglie e delle Isp in termini reali è stimata in aumento dell’1,%, ma in rallentamento rispetto al 2016. Tutte le componenti di spesa hanno contribuito in maniera diffusa al rallentamento ad eccezione dei beni non durevoli. In particolare, la spesa per servizi ha seguito una dinamica molto contenuta. Nel 2016 nel confronto con l’area euro la spesa per famiglie residenti e Isp ha evidenziato una dinamica più vivace (+2,0%). Tra i maggiori Paesi europei, la Spagna ha segnato il tasso di crescita più elevato della spesa per consumi (+3,2%) mentre Germania e Francia hanno registrato aumenti in linea con la media dell’area euro (rispettivamente +2,0% e +1,9%). Nel 2017, in Italia, la spesa delle famiglie residenti e Isp è attesa aumentare, seppure a un tasso più contenuto rispetto al biennio precedente (+1,0%) influenzata dai miglioramenti sul mercato del lavoro, dalla ripresa dell’inflazione e del conseguente contenimento del potere di acquisto”.

Vera MORETTI