Italia ultima nell’UE per tasso di crescita

Ancora una volta l’Italia è fanalino di cosa per quanto riguarda le previsioni 2017 del tasso di crescita. Pur trattandosi di una percentuale positiva, è comunque ferma allo 0,9%, molto al di sotto, dunque, della media Ue dell’1,9%.
Per il biennio 2017-2018 l’economia del Belpaese mostra il tasso di crescita più basso rispetto a tutti i 28 paesi dell’Unione Europea.

Ci si chiede, quindi, perché siamo sempre in fondo a queste classifiche, perché arranchiamo a confronto degli altri paesi europei.
Si tratta di fattori diversi, a cominciare dal PIL, su cui pesano fattori demografici quali natalità e immigrazione. Inoltre, nel 2016 la quota di anziani con 65 anni ed oltre è salita al 22,0% della popolazione, il valore più alto nell’Unione Europea, e in parallelo è salita al 10,7% la quota di occupati stranieri.

A sua volta il PIL pro capite è dato dal prodotto tra tasso di occupazione, ore lavorate per occupato e valore aggiunto per ora lavorata. Mentre il tasso di occupazione sintetizza le spinte della domanda e dell’offerta di lavoro, le ore lavorate per occupato sono tendenzialmente regolate da contratti di lavoro assume un ruolo specifico la terza variabile data dal PIL per ora lavorata, la tanto discussa produttività del lavoro, che nell’economia italiana ristagna da molti anni.

Ma non è tutto: nel 2016 il valore aggiunto per ora lavorata è pressoché uguale a quello del 2000, variando di un ridotto 0,6% in sedici anni; nello stesso arco di tempo la produttività nell’eurozona è salita del 15,8%. Inoltre la produttività presenta evoluzioni fortemente differenziate tra comparti.
Mentre il settore manifatturiero ha registrato una crescita del valore aggiunto per ora lavorata del 18,6% nel periodo in esame, quello dei servizi ha registrato una flessione del 3,1% e ha determinato la stagnazione della produttività dell’intera economia italiana per oltre tre lustri.

Questa analisi dimostra che gli interventi per supportare l’accumulazione di capitale contenuti nel Piano Industria 4.0 sono maggiormente necessari per i settori concentrati sul mercato interno quali costruzioni e servizi le cui imprese, intensificando gli investimenti digitali, potranno ridisegnare i processi produttivi in modo più efficiente.

Vera MORETTI

Le cifre da capogiro della manifattura italiana

Che l’Italia abbia una vocazione manifatturiera è ben noto, tanto che il suo settore ha registrato ottime performance e, negli ultimi due anni, ha saputo crescere ed aumentare la produzione con un incremento dell’1,9%, superiore addirittura alla media dell’Eurozona, ferma a 1,5%.
E non si tratta solo delle grandi aziende, perché la manifattura Made in Italy, anche per quanto riguarda le piccole imprese, si conferma ai massimi del 7% del PIL.

Questi risultati collocano l’Italia come secondo Paese europeo per valore aggiunto manifatturiero dietro alla Germania, ma si trova al primo posto nell’Unione europea per numero di occupati nel settore manifatturiero in micro e piccole imprese, quelle, per intenderci, che contano fino a 20 addetti. Il numero totale è arrivato a quasi 2 milioni di addetti.

Altra nota positiva è quella territoriale, poiché tra le prime 20 regioni dei principali Paesi dell’UE, che sono, oltre all’Italia, anche Germania, Francia, Spagna e Regno Unito, sei sono italiane.
La regione italiana con il più elevato peso dell’occupazione manifatturiera è quella delle Marche, che si posiziona al quarto posto tra le 145 regioni delle maggiori economie dell’Unione, con una quota di occupazione nel settore manifatturiero del 29,6%. Segue, in nona posizione, il Veneto con una quota del 28,0%, all’undicesimo posto si trova l’Emilia-Romagna con una quota del 26,7%, ed al dodicesimo posto si trova la Lombardia con una quota del 26,4%; seguono al quindicesimo posto il Piemonte con una quota di occupati manifatturieri del 25,7% e al diciottesimo posto il Friuli Venezia Giulia con una quota del 25,1%.

Vera MORETTI

Pil italiano in ascesa, ma non basta per essere alla pari con l’Ue

Sembrava una bella notizia e invece ahimè non lo è: Istat, alla luce dei dati raccolti, ha infatti presentato l’andamento del Pil registrato nel 2016 e, dopo le previsioni di un +0,7% della scorsa primavera, si è assestato allo 0,9%, superando addirittura le aspettative.

Ma, purtroppo, rispetto all’Europa, soprattutto quella che conta, si tratta di uno dei dati meno positivi.
Dei 28 paesi che compongono l’Ue, infatti, solo la Grecia l’anno scorso è riuscita a fare peggio di noi, con un risicato 0,3%, mentre il dato medio di incremento del Pil in Europa è stato del +1,9 per cento: più del doppio del nostro.

Considerando che la previsione presentata nelle settimane scorse dalla Commissione europea per il 2017 vede un aumento del Pil italiano dello 0,9%, se ciò si avvererà anche la Grecia ci supererà, con un incremento previsto del 2,7%, e l’Italia rimarrà fanalino di coda.

Probabilmente, potrebbe essere necessario rivedere la rigidità dei parametri di Maastricht che in questi anni di crisi hanno imposto a tutta Europa degli enormi vincoli alla crescita e allo sviluppo, contribuendo, per contro, a peggiorare la situazione dei conti pubblici di ciascun paese membro, ma finché ciò non avverrà, per l’Italia si prevedono tempi duri.

Vera MORETTI

La Cgia: pressione fiscale reale al 50,2%

La pressione fiscale sulle imprese e sulle famiglie è uno dei fattori che, in Italia, ostacolano maggiormente una vera ripresa. Ciò che più dà fastidio è che la pressione fiscale reale è molto diversa da quella “ufficiale”, che emerge molto spesso dalle stime governative. Questo perché la pressione fiscale reale è influenzata dall’economia sommersa.

Quest’ultima tra il 2011 e il 2013 è cresciuta di 4,85 miliardi di euro, a quota 207,3 miliardi di euro, il 12,9% del Pil, mentre quella al netto dell’economia non osservata è calata di 36,8 miliardi, sotto quota 1.400 miliardi.

Partendo da questi dati, l’Ufficio studi della Cgia ha stimato, in via molto prudenziale, che l’incidenza percentuale dell’economia non osservata sul Pil è rimasta la stessa anche dal 2013 al 2015, ed è arrivato a calcolare in quasi 211 miliardi di euro il peso dell’economia sommersa sul Pil nazionale lo scorso anno 2015, con rilevanti ricadute dal punto di vista fiscale.

Come ha commentato il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, “nel 2015 al lordo dell’operazione bonus Renzi, la pressione fiscale ufficiale in Italia è stata pari al 43,7%. Tuttavia, il peso complessivo che il contribuente onesto sopporta è di fatto superiore ed è arrivato a toccare la quota record del 50,2%”.

Secondo gli artigiani mestrini, la progressione della pressione fiscale ufficiale e ufficiosa negli ultimi 4 anni è stata costante: nel 2011 erano pari al 41,6% e al 47,4%, nel 2012 al 43,6% e al 49,9%, nel 2013 al 43,5% e al 49,9%, nel 2014 al 43,6% e al 50,0%, nel 2015 al 43,7% e al 50,2% (per il 2014 e il 2015 si tratta di stime).

Per avere un quadro di riferimento chiaro, la Cgia ricorda che “la pressione fiscale è data dal rapporto tra l’ammontare complessivo del prelievo (imposte, tasse, tributi e contributi previdenziali) e il Prodotto interno lordo (Pil) che si riferisce non solo alla ricchezza prodotta in un anno dalle attività regolari, ma anche da quella “generata” dalle attività sommerse (cioè non in regola con il fisco) e da quelle illegali che consistono in uno scambio volontario tra soggetti economici (contrabbando, prostituzione, traffico di sostanze stupefacenti)”.

Lapidario il commento del segretario della Cgia, Renato Mason: “E’ evidente che con un peso fiscale simile sarà difficile trovare lo slancio per ridare fiato all’economia del Paese in una fase dove la crescita rimane ancora molto debole e incerta”.

Pil e crisi, le cifre di un massacro

La crisi economica ha fatto strage del tessuto produttivo italiano e anche il Pil del nostro Paese ha subito un pesante colpo dal quale si riprenderà con moltissima fatica. È un dato di fatto certificato anche dai numeri, come ha rilevato l’Ufficio studi della Cgia.

Gli artigiani mestrini hanno infatti rilevato che dal 2007, anno di inizio della crisi, il Pil italiano è calato di oltre l’8%, trascinando a fondo anche i consumi delle famiglie (-6,5%) e gli investimenti, crollati di quasi il 27,5 %. Il rovescio della medaglia è dato dalla disoccupazione che, al contrario del Pil, ha subito un’impennata di quasi il doppio: dal 6,1% del 2007 al 12,1% atteso per il 2015.

Questo contraltare di Pil e disoccupazione è un trend ben presente agli artigiani mestrini, che vogliono sensibilizzare il governo sullo scenario italiano a medio e lungo termine. Secondo il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo ,“il Premier Renzi fa bene a trasmettere ottimismo e fiducia. La situazione, tuttavia, rimane ancora molto delicata. Per recuperare il terreno perso ci vorrà molto tempo. Se nel prossimo futuro il Pil crescerà di almeno 2 punti ogni anno, il nostro Paese tornerà alla situazione pre-crisi solo nel 2020”.

La Cgia ricorda che per far ripartire il Pil è necessario ridare vita agli investimenti che, come scritto sopra, negli anni della crisi sono calati di oltre un quarto rispetto ai livelli precedenti. In termini netti, il calo del 27,5% di cui sopra equivale a -109,4 miliardi, al netto dell’inflazione.

Gli investimenti – conclude Zabeosono una componente rilevante del Pil. Se non miglioriamo la qualità dei prodotti, dei servizi e dei processi produttivi siamo destinati a impoverirci. Senza investimenti questo paese non ha futuro. Ricordo, altresì, che le imprese contribuiscono per oltre il 60% del totale nazionale degli investimenti. Queste ultime, pertanto, saranno chiamate a giocare un ruolo determinante. Per fare ciò, il sistema creditizio, anche alla luce delle operazioni TLTRO e Quantitative Easing, dovrà sostenere le imprese con nuova liquidità: altrimenti, con quali risorse gli imprenditori potranno rilanciare gli investimenti?”.

La crisi mette in ginocchio l’artigianato

L’artigianato sta conoscendo un periodo di forte crisi.
I dati, a questo proposito, parlano chiaro: tra il 2009 e i primi nove mesi del 2014, infatti, più di 91mila imprese hanno dovuto alzare bandiera bianca.

Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, il cui Ufficio Studi ha effettuato questa indagine, ha commentato così questa situazione: “Nonostante la crisi economica abbia cancellato a livello nazionale ben 91.000 aziende artigiane, i giovani, soprattutto nel comparto casa, costituiscono la maggioranza degli addetti. E’ un segnale molto importante che squarcia un quadro generale molto critico. A nostro avviso ciò è dovuto a due motivi. Il primo: questi mestieri, legati al mondo dell’edilizia, impongono una forza e una tenuta fisica che difficilmente possono essere richiesti a dei lavoratori di una certa età. Il secondo: il forte aumento del numero dei diplomati avvenuto in questi ultimi anni nel settore edile, elettrico e termoidraulico ha favorito l’ingresso di molti ragazzi nel mercato del lavoro. In generale, malgrado le difficoltà e i problemi che sta vivendo il nostro settore, i giovani stanno ritornando all’artigianato, ma non ai vecchi mestieri. Dai nostri dati, ad esempio, gli artigiani che lavorano il vetro artistico, i calzolai, gli artigiani del cuoio, delle pelli e quelli e i sarti corrono il rischio, fra qualche decennio, di estinguersi”.

Per quanto riguarda l’ubicazione delle imprese che sono state costrette a chiudere, una su due si trovava al Nord, con picchi in Lombardia, dove all’appello mancano 12.496 aziende, seguita dall’Emilia Romagna (-11.719), il Veneto (- 10.944) e il Piemonte (-8.962).

Tra i settori che maggiormente hanno sofferto la contrazione numerica, ci sono sicuramente quello delle costruzioni/installazione impianti (-42.444), ma anche le attività manifatturiere (- 31.256), i carrozzieri e le autofficine (- 15.973).

Al contrario, in espansione ci sono i servizi alla persona (parrucchieri, estetiste, massaggiatori, etc.), con un saldo pari a + 1.405 attività, le gelaterie e le pasticcerie, con +5.579 imprese, e le attività di pulizia/giardinaggio, con + 10.497 aziende artigiane.

Ma quali sono le cause che hanno portato a questa crisi?
In primo luogo i costi, che hanno cominciato a lievitare tanto da registrare un picco del 21% dal 2008 al 2013 nell’energia, e del 23,5% per il gasolio.
Anche la Pubblica Amministrazione è colpevole di aver causato disagi alle imprese artigiane, poiché, nello stesso lasso di tempo, ha aumentato di 35 giorni i pagamenti ai suoi fornitori.

Le banche, ovviamente, ci hanno messo del loro, se consideriamo che in questi sei anni gli affidamenti bancari alle imprese con meno di 20 addetti sono diminuiti del 10%, con un taglio complessivo alle micro imprese di ben 17 miliardi di euro.

Infine, le tasse e la burocrazia: dopo la rivalutazione del Pil, nel 2013 la pressione fiscale in Italia si è stabilizzata al 43,3 per cento: picco massimo mai raggiunto in passato, anche se per le micro imprese il carico fiscale supera abbondantemente il 50 per cento.
La burocrazia costa al mondo delle imprese italiane 31 miliardi di euro all’anno. Ciò implica che su ogni impresa grava mediamente un costo annuo pari a 7 mila euro. A differenza di quelle più grandi, le piccolissime imprese non possiedono una struttura amministrativa al proprio interno, che quindi si vedono costrette ad avvalersi dei servizi di professionisti esterni, con una conseguente spesa ben più alta della media.

Vera MORETTI

Inversione di marcia per il Pil italiano

Le previsioni di crescita stimate nei mesi scorsi riguardanti l’Italia hanno subito un brusco arresto, e un conseguente aggiustamento per difetto da parte dell’Ocse.
Nel dettaglio, è stata pronosticata una recessione del Pil dello 0,4%, contro il +0,5% di pochi mesi fa, perciò si registra una diminuzione di 0,9 punti.

Ma le brutte notizie non sono arginate al solo anno in corso, poiché per il 2015 è previsto un calo di un intero punto percentuale, ovvero un aumento totale dello 0,1% a fronte del +1,1% del 6 maggio scorso.
Questi dati negativi ancorano il Belpaese all’ultimo posto delle grandi economie avanzate che fanno parte del G7.

Nessuno, ad eccezione di Regno Unito e Canada, ha saputo migliorare la propria condizione, tanto da persuadere l’Ocse a definire l’economia globale in crescita “a ritmi moderati e discontinui”.

Ciò, comunque, non sembra riguardare nemmeno gli Stati Uniti, che segnano ritmi di espansione solidi e in aumento del 2,1% nel 2014 e del 3,1% per il prossimo anno.
Congiuntura debole, al contrario, nel Vecchio Continente, dove si pensa ad un aumento dello 0,8% per il 2014 e dell’1,1% nel 2015.

Tra i Paesi del G7, la Germania si assesterà a +1,5% sia quest’anno che il prossimo, mentre in Francia si registrerà + 0,4% sul 2014 e +1% sul 2015.
In Giappone è atteso +0,9% quest’anno e +1,1% il prossimo, e in Gran Bretagna rispettivamente +3,1% e +2,8%.

Vera MORETTI

Le imprese friulane verso l’America Latina

Il 3 luglio avrà luogo a Udine, nella sede di UniCredit, un convegno organizzato da Profila in collaborazione con l’Associazione Piccole e Medie Industrie del Friuli Venezia GiuliaConfapi FVG, nel quale verranno illustrate alle imprese friulane le opportunità di sviluppo commerciale offerte dai Paesi dell’America Latina aderenti all’Alleanza del Pacifico.

I Paesi aderenti all’Alleanza sono Cile, Colombia, Messico e Perù e rappresentano per le aziende regionali una vera e propria opportunità commerciale, poiché offre la possibilità di avere a che fare con un mercato che ricopre oltre 200 milioni di abitanti con un PIL complessivo pari al 35% del PIL dell’intera America latina, con un commercio con l’estero che concentra il 50% di quello dell’America Latina con il resto del mondo e con tassi di crescita economica in costante espansione.

Il convegno è stato organizzato con il patrocinio di Unicredit, dell’Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti (UCID), di Assoretipmi e dell’Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’Azienda (AIDDA), e si propone di illustrare alle imprese del Friuli le caratteristiche del mercato latino-americano, ma anche gli aspetti legali legati all’instaurazione di relazioni commerciali nonché gli strumenti di sostegno utili ad attuarle, non ultime le reti d’impresa per l’internazionalizzazione.

Vera MORETTI

Watify, progetto per promuovere le startup digitali

Le startup che arrivano dall’Ue sono sostanzialmente in ribasso rispetto a quelle statunitensi: 6% contro 13%.
A mancare non sono però le idee, ma la possibilità di trasformarle in realtà, per timore, ma anche per carenza di mezzi.

Per questo motivo, la Commissione Europea ha lanciato Watify, iniziativa no profit che vuole promuovere l’imprenditorialità digitale, poiché si stima che l’Internet Economy nell’ambito dell’Unione Europea possa creare 1,5 milioni di nuovi posti di lavoro.

Il progetto avrà durata di due anni e cercherà di aiutare gli aspiranti imprenditori a superare le barriere che impediscono di creare la propria azienda, ma anche supportare le attività già avviate mostrando le opportunità disponibili per il business attraverso l’uso delle tecnologie digitali.

E’ stato anche istituito un tavolo di confronto sull’imprenditorialità composto da responsabili politici degli Stati membri competenti in questo settore, al fine di scambiare opinioni ed esperienze politiche coordinate per forgiare l’attuazione di una imprenditorialità digitale europea.

Il quadro di riferimento è estremamente positivo e le agenzie europee possono fare molto per incoraggiare l’imprenditorialità legata all’economia digitale. Essa, infatti, contribuisce per più dell’8% del PIL nelle economie dei paesi G20, alimentando la crescita e creando ulteriori posti di lavoro.

In Europa diverse ricerche hanno dimostrato che le pmi crescono 2-3 volte più veloce e creano nuove opportunità lavorative solo quando abbracciano tecnologie digitali innovative. Il matrimonio tra tecnologie e imprese, però, non si ferma solo alle startup ma può riguardare le imprese esistenti o quelle “tradizionali” al fine di trasformare tutte le aree di attività.

Le proposte per le imprese riguardano le soluzioni mobile e social, il cloud computing, l’analisi dei dati, la digitalizzazione della produzione, la prototipazione e i test di prodotti industriali, così come le tecnologie collaborative.
Si tratta, ahimè, di potenzialità poco sfruttate, almeno in Europa, se si considera che il 41% delle imprese non sono digitali e che solo il 2% trae pienamente profitto dalle opportunità digitali, con una variazione significativa per diversi settori.

Ma l’inversione di tendenza è alle porte, e si prevede che, entro il 2020, l’industria ICT genererà circa 4 mila miliardi di euro in tutto il mondo e circa il 40% del fatturato del settore e la quasi totalità della sua crescita sarà guidata dalle tecnologie digitali innovative che oggi rappresentano solo il 22% delle spese per ICT.

Vera MORETTI

Finanziamenti alle pmi da parte di Abi

A seguito dell’Accordo per il credito 2013, siglato tra Abi e le Associazioni di imprese, diventato operativo da gennaio 2013 nell’ambito dell’accordo “Nuove misure per il credito alle Pmi” stipulato nel 2012 tra l’associazione delle banche e tutte le organizzazioni rappresentative del mondo imprenditoriale, è ora stato presentato Progetti investimenti Italia, un’iniziativa focalizzata su un plafond complessivo di 10 miliardi di euro prorogato al 30 giugno 2014.

Alla fine del 2013 sono state accolte 9.850 domande di finanziamento per un controvalore di 3,3 miliardi di euro.
L’80,4% delle domande presentate riguarda investimenti in beni materiali, mentre le domande accolte “garantite” dal Fondo di garanzia per le Pmi, dall’Ismea o dalla Sace, nonché dai Confidi rappresentano il 17,8%.
Si tratta soprattutto di finanziamenti che hanno una durata superiore ai tre erogati e che rappresentano il 69% del totale.

Un’analisi effettuata relativa alla distribuzione dei finanziamenti erogati per attività economica dell’impresa richiedente rivela che il 44,8% dei finanziamenti è riferito ad imprese dell’industria, il 28,3% a commercio e alberghiero, il 5,2% è andato verso l’artigianato, il 4,9% all’edilizia e opere pubbliche”, il 4% dei finanziamenti è riferito a imprese dell’agricoltura e il restante 12,8% genericamente ad altri servizi.
La maggior parte dei finanziamenti è andata al Nord (72,7%), seguito da Centro (18,7%), Sud e isole (8,6%).

Sempre l’Abi informa che a partire dal 2009 sono state oltre quattrocentomila le piccole e medie imprese che hanno beneficiato delle iniziative messe in campo dalle banche per sostenere la disponibilità di credito.
Uno sforzo enorme in anni in cui l’economia italiana ha perso 9 punti percentuali di Pil, circa 27 punti di investimenti fissi lordi e quasi un quarto della produzione industriale.

L’azione di intervento si è sviluppata in quattro fasi che hanno visto il sistema creditizio fornire respiro finanziario alle imprese in difficoltà.
Inoltre, si è provveduto ad individuare nuove misure in favore delle imprese sane, e con prospettive di crescita, finalizzate al riequilibrio della struttura finanziaria e all’ampliamento dell’accesso al credito (e assicurare la disponibilità di adeguate risorse finanziarie alle Pmi.

Infine, con l’accordo per il credito del luglio 2013 è stata prevista anche la concessione di finanziamenti di ammontare proporzionale all’aumento dei mezzi propri realizzati dall’impresa.

Vera MORETTI