L’internazionalizzazione fa bene alle imprese

Una ricerca del Politecnico di Milano ha messo in evidenza che le imprese che scelgono la via dell’internazionalizzazione, anche quando si tratta di pmi, crescono di più, più velocemente e generano ricchezza e occupazione per il proprio paese.

Questa ricerca ha preso in considerazione le imprese che nel periodo 2006-2016 hanno ottenuto un finanziamento da Simest, la società del Gruppo Cdp che insieme a Sace costituisce il polo dell’internazionalizzazione e dell’export del Gruppo Cdp. Ebbene, i risultati relativi a numero di dipendenti, ricavi delle vendite, utile netto, Ebitda, esportazioni sono molto positivi.

Per quanto riguarda l’occupazione, in tutte le iniziative l’impatto sul numero di dipendenti per le imprese incentivate nei periodi di pre e post-incentivo, risulta aumentato del 15,25%, contro una media di settore di 0,46%.
L’incremento dei ricavi è pari al 32,43%, contro l’8,15% della media degli andamenti dei settori di appartenenza. Nel caso della variabile dell’utile netto, se si raffronta l’andamento delle imprese beneficiarie di Simest con l’andamento delle altre imprese appartenenti agli stessi settori, il risultato è + 21,09%.

Guardando all’Ebitda il parametro ha registrato una crescita del 28,02%, contro l’incremento medio di settore pari allo 0,14%. In particolare, si conforma una performance positiva per le iniziative chiuse, che registrano incrementi post-incentivo positivi pari a 60,66%. Analizzando, infine, l’andamento delle esportazioni delle imprese considerate, le imprese beneficiarie hanno mostrato nei 3 anni successivi alla erogazione dell’incentivo una crescita cumulata delle esportazioni del 33% rispetto ai rispettivi settori.

Vera MORETTI

La School of Management del Politecnico di Milano tra le migliori nel mondo

La School of Management del Politecnico di Milano è stata indicata dal Financial Times come tra le migliori scuole di business al mondo per quanto riguarda la formazione per le imprese.

Non è certo una novità, poiché è da sette anni consecutivi che la Scuola si conferma come una delle più internazionali ed innovative, e addirittura in cima alla classifica per quando riguarda i programmi custom, ovvero l’offerta formativa pensata sulle esigenze specifiche delle aziende ed erogata a manager, quadri e impiegati ad alto potenziale.

Questa volta, però, la School of Management del PoliMi si è fatta notare anche per i programmi open, rivolti a manager e professionisti di diverse imprese che scelgono individualmente il proprio percorso formativo, costruendolo rispetto all’offerta Management Academy di Mip.

I criteri che hanno contribuito a far rimanere la Scuola negli alti livelli della classifica sono: la collaborazione con le imprese nella progettazione dei corsi e la capacità di supportarle anche a conclusione del percorso formativo, l’applicazione nelle aziende dei nuovi metodi appresi durante i percorsi di formazione e la preparazione del corpo docente, l’aula e la faculty fortemente internazionali, la partnership con altre scuole di business di alto livello, i metodi di insegnamento innovativi, il ritorno economico in termini di avanzamento di carriera e livello di stipendio.

Andrea Sianesi, Dean di Mip Politecnico di Milano, e Alessandro Perego, direttore del Dipartimento di Ingegneria gestionale, hanno dichiarato: “Ancora una volta la nostra Scuola è stata premiata per la sua attenzione ai temi dell’imprenditorialità e della vicinanza alle imprese e per la scelta di permettere la fruizione a distanza secondo il modello dello smart learning. Una scelta effettuata grazie a una attenta analisi delle esigenze di manager e aziende, che ha fatto emergere come fattore cruciale la gestione del tempo. Essere entrati in graduatoria anche con l’offerta open dimostra inoltre come i programmi Executive siano allineati alle aspettative del mercato, sempre più alla ricerca di novità e di elementi formativi capaci di aprire la mente e gli occhi su nuove potenzialità, in particolare date dall’evoluzione delle tecnologie e dei modelli di business. La nostra offerta open si concentra infatti sulla frontiera tecnologica e manageriale, arricchita di esperienza concreta e pratica”.

Vera MORETTI

Mobile Enterprise tra luci e ombre

In una società in cui il lavoro in mobilità si sta diffondendo con sempre maggiore convinzione, è ormai un dato di fatto che, in azienda, il mobile è diventato sempre più non solo un valore strategico ma anche e soprattutto un valore economico.

Le aziende stanno pian piano prendendo consapevolezza di questo e della necessità di adottare sempre più, nel loro modello di business, strategie improntate alla cosiddetta Mobile Enterprise, come confermano i dati elaborati dall’Osservatorio Mobile Enterprise della School of Management del Politecnico di Milano.

Secondo questi dati, infatti, la dotazione di dispositivi mobili a supporto dei dipendenti si tradurrà, nel 2015, in un recupero di produttività pari a circa 10 miliardi di euro, proprio come conseguenza della diffusione della Mobile Enterprise.

Un processo che, nelle imprese italiane, è iniziato già lo scorso anno quando, per dotare i propri dipendenti di soluzioni di Mobile Enterprise, hanno speso circa 2,2 miliardi di euro (+18% rispetto al 2013). Secondo le stime del Politecnico, in questo 2015 il valore degli investimenti arriverà a 2,5 miliardi (+15%).

Investimenti sì, ma quali? Secondo le rilevazioni dell’Osservatorio Mobile Enterprise, la maggior parte degli investimenti che le aziende destinano al potenziamento della Mobile Enterprise va ai dispositivi: il 68% per l’acquisto di tablet, smartphone, notebook e device, il 25% per le applicazioni software, il 7% per le soluzioni di Enterprise Mobility Management.

Il lato meno brillante della situazione è però legato al divario di investimenti e di consapevolezza verso la Mobile Enterprise che c’è tra aziende medio-grandi e Pmi. Secondo quanto rileva l’Osservatorio, poco del 25% delle Pmi italiane assegna per il 2016 una priorità alta agli investimenti in progetti a supporto della Mobile Enterprise, quasi una Pmi su 4 non ha introdotto in azienda alcun dispositivo mobile- dato più preoccupante – e il 60% di loro afferma di non aver interesse all’introduzione di App a supporto del business.

Mobile economy, numeri da paura

Si chiama mobile economy, è l’economia generata dai dispositivi wireless collegati tra loro e, in Italia, è in decisa rampa. Merito soprattutto dell’enorme quantità di device circolanti nel nostro Paese che costituiscono un terreno fertilissimo per lo sviluppo della mobile economy: alla fine del 2014, infatti, in Italia erano attivi 35 milioni di smartphone (le previsioni per fine 2015 parlano di 40 milioni di pezzi) e 9,5 milioni di tablet (oltre 10 entro fine anno).

Non siamo noi a snocciolare queste cifre, bensì l’Osservatorio Mobile Economy del Politecnico di Milano, che le ha presentate nei giorni scorsi durante il convegno “Mobile Economy: la via per la digitalizzazione del Paese”.

Secondo l’Osservatorio, la mobile economy vale 25,7 miliardi di euro, cifra pari all’1,65% del Pil italiano, e le previsioni di crescita parlano di 37 miliardi (2,3% del Pil) al 2017. E, se i servizi tradizionali di telefonia mobile fanno segnare una frenata a due cifre (-16%), la mobile economy cresce invece a doppia cifra (+23%), spinta dal mobile commerce (+55%) e dagli investimenti effettuati dagli operatori sulle reti 3G e 4G (+39%).

E la mobile economy fa bene anche ad aziende e Pubblica amministrazione che, stando ai dati dell’Osservatorio aumentano i propri fondi destinati allo sviluppo di app a supporto dei processi aziendali (+24%) e dei servizi di marketing e comunicazione mobile (+41%).

Da sottolineare la crescita significativa del cosiddetto mobile commerce (+55%), che da solo costituisce il 10% dei consumi della mobile economy e il 18% dell’intero e-commerce in Italia. Tanto che gli estensori del rapporto dell’Osservatorio commentano: “Nello scenario macro-economico italiano che continua a essere negativo, la mobile economy è uno dei pochi comparti che cresce, generando valore economico e posti di lavoro. Coerentemente con lo scenario internazionale, infatti, anche in Italia, una componente via via più significativa dei consumi di famiglie, imprese e pubblica amministrazione e degli investimenti del settore pubblico e privato viene orientata verso il mondo mobile”.

Oltre alla diffusione dei device mobili e al miglioramento e allo sviluppo di infrastrutture e reti, alla base della crescita della mobile economy in Italia c’è anche un altro importante fattore: la concorrenza tra gli operatori che, nel tempo, ha fatto abbassare le tariffe per accedere ai servizi mobile.

Le tariffe di accesso al Mobile Internet sono oggi alla portata di tutti – commenta infatti l’Osservatorioe l’offerta di App ha superato i 3 milioni di unità dall’apertura degli store. Questo ha portato ad avere in un giorno medio quasi 18 milioni di utenti unici che navigano in Internet dai propri Smartphone e Tablet, contro meno di 13 milioni che navigano dal Pc”.

Professionisti sempre più digitali

I professionisti italiani sono sempre più 2.0.
Da un’indagine condotta dall’Osservatorio ICT e Professionisti della Business School del Politecnico di Milano, infatti, è emerso che gli studi professionali hanno saputo accogliere con maggiore facilità la rivoluzione digitale, tanto che si fa ampio ricorso alle nuove tecnologie.

Lo studio è stato condotto su 303.000 professionisti e 222.000 dipendenti per un totale di 525.000 occupati in 153.000 studi professionali.

A commentare i dati dell’infografica realizzata dall’Osservatorio è stata l’AdEPP, l’Associazione degli enti previdenziali privati, nel corso del convegno “Crescita, innovazione, competitività. I professionisti e le ICT”.

Andrea Camporese, presidente dell’AdEPP, ha però voluto sottolineare che, nel 73%, si tratta di una digitalizzazione obbligata, vista l’introduzione di nuove leggi che richiedevano l’utilizzo delle nuove tecnologie.

Nel campione preso in considerazione, che è composto da avvocati per il 48%, commercialisti per il 37%, consulenti del lavoro per il 5% e studi multidisciplinari per il 10%, risulta che essi posseggono:

  • nel 30% dei casi, di un proprio sito internet ma, secondo le intenzioni manifestate dai partecipanti all’indagine, la percentuale dovrebbe presto salire al 68%;
  • nel 25% dei casi di una gestione elettronica documentale (anche qui la percentuale dovrebbe salire al 68%);
  • il 25% utilizza la fatturazione elettronica, ma presto lo farà il 73% del campione.

Mentre gli studi professionali vorrebbero inserire in primis, nel proprio portafoglio, soluzioni innovative da offrire alle imprese clienti quali conservazione digitale e fatturazione elettronica, i 3 milioni e mezzo di aziende seguite da questi professionisti desidererebbero ricevere dagli studi, fra i nuovi servizi “non tradizionali”:

  • consulenza economica (39%);
  • attività di marketing e ricerca mercati (31%);
  • conformità normativa dei processi (29%);
  • gestione e recupero crediti (23%).

Vera MORETTI

Telelavoro sì, telelavoro no

Una delle parole d’ordine che, in questo nuovo decennio, le aziende sembrano fare propria per aumentare produttività e impegno da parte dei propri dipendenti è telelavoro. Qualcuno lo chiama, all’inglese, smart working o home working, ma la sostanza non cambia. Alla fin fine, il telelavoro consente di lavora da casa o da un altro luogo come se si fosse in ufficio.

Ma come si pone l’Italia di fronte al telelavoro? Secondo un’analisi elaborata dalla School of management del Politecnico di Milano, entro un paio d’anni il 20% delle aziende consentirà ai propri dipendenti di utilizzare lo smart working.

Secondo i ricercatori del Politecnico, che hanno effettuato un’indagine a campione su 211 aziende, il trend di valorizzazione del telelavoro era già iniziato lo scorso anno, quando il 67% delle imprese in Italia ha avviato un progetto di smart working. Un dato che però non deve trarre in inganno; secondo il Politecnico, le imprese che hanno davvero adottato un sistema di lavoro smart esteso a tutti i livelli dell’organigramma aziendale sono solo l’8% del campione oggetto dello studio.

Come si può facilmente immaginare, dallo studio del Politecnico emerge che le realtà più orientate al telelavoro sono le multinazionali o aziende con oltre 500 dipendenti. I settori nei quali il telelavoro trova più spazio sono quelli delle banche, delle telecomunicazioni e dell’IT (e ci mancherebbe altro…) e dell’alimentare, che scelgono di incentivarlo soprattutto perché, come detto all’inizio, gratifica il dipendente e ne aumenta la produttività.

La sorpresa nel rapporto del Politecnico sul telelavoro arriva però sul fronte dei dipendenti. Se, infatti, molte aziende considerano lo smart working un ottimo sistema per il dipendente per conciliare vita e lavoro, è proprio il dipendente a non volere questa impostazione: solo uno su 5, infatti, in base allo studio, aderirebbe al telelavoro. La spiegazione, secondo Fiorella Crespi, responsabile della ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico è soprattutto culturale: “Le radici di questo scetticismo sono da individuare nella diversa cultura aziendale presente nel nostro Paese. A differenza del Nord Europa, si tende a privilegiare la socialità e a sviluppare uno stile di gestione delle risorse incentrato sul controllo diretto del lavoro. C’è ancora la percezione diffusa che la qualità della propria produzione sia strettamente collegata alla presenza in ufficio. Per cambiare la cultura aziendale, c’è bisogno di formazione e di ripensare il modello di leadership”.

PoliHub, spazio dedicato alle startup hi-tech

E’ sorto a Milano, nel quartiere Bovisa, il nuovo PoliHub, che mira alla condivisione di esperienze tra startup hi-tech e realtà imprenditoriali consolidate, ma anche ad offrire ad esse i servizi del Politecnico e dalla Fondazione che lo gestisce, in collaborazione con il Comune di Milano.

Si tratta di uno spazio di oltre 300 mq, all’interno del quale vengono ospitate già 39 startup, ma che nei prossimi giorni aumenteranno in maniera esponenziale, fino a raggiungere quota 100. Ciò sarà possibile anche grazie all’apertura di due sedi situate presso ComoNext e il Campus di Cremona.

Obiettivo di PoliHub è supportare le startup altamente innovative a partire dalla fase di ideazione, favorendo lo scambio di esperienze e la condivisione di conoscenze tra gli imprenditori presenti.

Giampio Bracchi, presidente di Fondazione Politecnico e di PoliHub, lo definisce non solo acceleratore d’Impresa, ma anche struttura all’avanguardia per il supporto delle migliori startup innovative.

Cristina Tajani, assessore alle Politiche del Lavoro e Università, ha aggiunto: “Un luogo dove da oggi si possono confrontare imprese esistenti e nuove idee. Un distretto industriale capace non solo di produrre nuovi modelli di impresa ma soprattutto occupazione per quel vasto mondo lavorativo che nasce dalla contaminazione tra le discipline tecniche e creative: dalla green economy, ai new-media, passando dall’industrial design sino alla comunicazione“.

Vera MORETTI

Ict e professionisti: a che punto siamo?

Sono sempre di più i professionisti che, per le loro attività lavorative, utilizzano strumenti mobili e applicazioni per smartphone.
Nonostante la cautela e una diffidenza iniziale, il potenziale è molto alto, poiché ad oggi ben il 42% dei professionisti trascorre quasi metà del tempo lavorativo fuori dal proprio studio, percentuale che scende al 38% per i commercialisti e al 33% per i consulenti del lavoro, mentre sale a 46% per quanto riguarda gli avvocati.

A rendere noti questi dati è l’Osservatorio Ict & Professionisti della School of Management del Politecnico di Milano, che, a seguito di una ricerca, individua negli avvocati e nei professionisti di studi associati i più assidui mobile workers, che quindi ricorrono sempre di più a pc portatili, tablet e smartphone per svolgere il proprio lavoro anche all’esterno del proprio ufficio.

Le attività più frequenti sono la lettura dell’email (19%), la navigazione in Internet (17%), la lavorazione di documenti (10%) e la consultazione di dati dello studio (9%), mentre i dispositivi più utilizzati sono gli smartphone, seguiti dai Pc portatili e dai tablet: i primi usati prevalentemente per gestire le e-mail (26%), i secondi per lavorare su documenti (26%), mentre i tablet, invece, per navigare in Internet (19%).

Le app sono utilizzate e considerate meno, poiché solo il 26% dei professionisti utilizza applicazioni a contenuto professionale e, al contrario, il 45% di essi dimostra nei loro confronti un vero e proprio disinteresse, dovuto soprattutto alla poca mobilità della professione.
In questo caso, le categorie professionali più assidue sono gli avvocati (29%), seguiti dai consulenti del lavoro (23%) e, per finire, dai commercialisti (21%).
Gli studi multidisciplinari raggiungono la percentuale più alta, pari al 32%.

Nonostante, poi, i professionisti siano interessati all’Ict, la diffusione delle nuove tecnologie rimane piuttosto limitata.
Purtroppo non è ancora radicata la convinzione che, per sopravvivere alla crisi, tecnologia ed innovazione possono davvero fare la differenza, creando maggiore efficienza, ma anche riducendo il tempo dedicato alle pratiche amministrative, e donando, di conseguenza, più tempo agli affari e alla creatività.
Dove presenti, le tecnologie più diffuse sono la firma digitale (nel 78% dei casi) e l’home banking (76%), seguite dai software di gestione elettronica documentale (46%) e poi, in misura minore, il sito internet “vetrina” (21%), l’eLearing (20%) e il controllo di gestione per lo studio (19%).

Claudio Rorato, responsabile della Ricerca, ha dichiarato a proposito: “Oltre alle tecnologie già in uso per la dematerializzazione dei documenti e ai semplici applicativi, insomma, ancora oggi non entrano nell’attività lavorativa degli studi professionali soluzioni come Crm, portali e siti web, firma grafometrica, Workflow management. Il business delle professioni appare ancora tradizionale nei contenuti e nelle prassi di conduzione. La tecnologia potrebbe assistere invece l’apertura di nuove idee di business assistite dalle tecnologie o prassi lavorative più snelle”.

Ad impedire l’adozione di soluzioni Ict è spesso anche il budget, che rimarrà limitato anche nel prossimo biennio, perciò se l’83% degli studi professionali dichiara la disponibilità a investire in tecnologia nei prossimi due anni, l 27% di questi dedicherà un budget compreso tra mille e 3 mila euro, il 21% al massimo mille euro e solo il 16% tra 3 mila e 5 mila euro.

Chi sarà disposto ad investire, impiegherà il proprio denaro per l’acquisto di Pc più potenti e, a seguire, a server, stampanti e scanner (19%, 18% e 15% rispettivamente). Il 33%, invece, non investirà in hardware.

Alessandro Perego, responsabile Scientifico dell’Osservatorio Ict&Professionisti, ha commentato: “La natura di questi investimenti sottolinea come ci sia ancora una difficoltà a percepire concretamente la capacità di generare valore da parte delle Ict. Si privilegia la performance dello strumento, come i PC più potenti, e non quella di processo. Non emerge la volontà concreta di riorientare il business, prevalentemente ancora di natura tradizionale, verso nuove forme di servizio in grado di diversificare i rischi, proteggere la marginalità, sviluppare nuove opportunità. L’alfabetizzazione digitale, che impegni le istituzioni politiche e professionali, diventa allora cruciale per la diffusione di una cultura tecnologica presso i professionisti, per far percepire chiaramente perché una tecnologia può generare valore e, soprattutto, dove lo può creare”.

A prevalere, comunque, negli studi professionali, è la consapevolezza che la tecnologia può portare notevoli benefici, ed in particolare servizi sempre più efficienti, ma anche maggior reddito, anche se la diffidenza è ancora percepibile ed è quella che impedisce di fare il salto di qualità.

Emergono anche le difficoltà che condizionano la diffusione delle tecnologie presso gli studi.
In particolare, sono l’alfabetizzazione informatica dei titolari (42%), il livello dei costi dei software (30%), la difficoltà a conoscere realmente l’offerta del mercato (23%). Il 21%, invece, non ravvisa problemi particolari.
Analizzando le singole professioni, gli avvocati riconoscono più di tutti un valore elevato alla scarsa alfabetizzazione dei titolari di studio (49%), mentre i consulenti del lavoro individuano tra le cause più importanti la lentezza di Internet (21%). Per gli studi multidisciplinari, infine, la prima ragione è la lentezza di Internet (32%), seguita dalla scarsa alfabetizzazione dei titolari di studio (30%), dalla scarsa alfabetizzazione del personale (29%) e dai costi dei software (28%).

Per quanto riguarda l’attività svolta da avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro produce una grande mole di documenti cartacei che saturano gli archivi e impiegano tempo per la custodia, ma le prassi di “dematerializzazione” dei documenti e gli strumenti che possono aiutare a rendere più efficienti alcune attività non sono ancora diffusi.

Il 42% dei commercialisti, il 58% degli avvocati e il 35% dei consulenti del lavoro affronta la situazione con la scansione dei documenti cartacei, creando archivi elettronici, ma mantenendo ancora la carta o ricorrendo a fornitori esterni.
Solo il 26% dei commercialisti, il 17% degli avvocati e il 33% dei consulenti del lavoro pensa invece di ricorrere alla conservazione a norma dei documenti già in Pdf o trasformati in formato Pdf con la scansione dei documenti cartacei. Anche per i fax, il 62% dei commercialisti, l’80% degli avvocati e il 51% dei consulenti del lavoro ricorre alla fotocopia e all’archiviazione cartacea, mentre una minima parte prevede la scansione e l’archiviazione in cartelle elettroniche o l’archiviazione diretta nei server in digitale.

Per quanto riguarda le e-mail di interesse, il 69% dei commercialisti, l’87% degli avvocati e il 56% dei consulenti del lavoro le stampa e le archivia all’interno delle pratiche di competenza.

Vera MORETTI

A Milano l’Osservatorio ICT e professionisti

Appuntamento per il 4 marzo presso il Politecnico di Milano per la presentazione della ricerca svolta dall’Osservatorio ICT & Professionisti, che risponderà a molte delle domande che riguardano il settore, a cominciare da come vengono percepite le tecnologie dai professionisti e la posizione di questi ultimi nei confronti dell’ICT.

L’indagine è stata condotta partendo dalla constatazione che il mondo delle professioni e delle imprese, in particolare le micro imprese e le pmi, sono tra loro integrati e costituiscono un sistema che non bisogna ignorare.

Le tecnologie ICT si stanno rapidamente diffondendo negli studi professionali, così come la propensione ad investire in innovazione.

Lo studio, dunque, affronterà una vasta gamma di aspetti, ma sempre con l’obiettivo di:

  • valutare il grado di diffusione delle tecnologie informatiche nell’ambito degli Studi di avvocati, commercialisti e consulenti del Lavoro;
  • valutare la loro propensione a investire in tecnologie nei prossimi due anni;
  • far emergere le nuove aree di business e di servizio destinati ai professionisti o da questi proposti alla loro clientela;
  • individuare le difficoltà esistenti tra Studi e Vendor, per comprendere le cause che impediscono una più ampia diffusione delle tecnologie informatiche all’interno degli studi.

La partecipazione al convegno è gratuita previa iscrizione online.

Vera MORETTI

Imprese italiane sempre più verso l’e-commerce

Le imprese italiane stanno adottando sempre più frequentemente il canale dell’e-commerce per vendere i loro prodotti.
I dati, a questo proposito, testimoniano questo trend, poiché ogni anno si registra una crescita a due cifre., e un fatturato che si aggira attorno a 11,3 miliardi di euro.

Fanno da traino a questa tendenza anche la diffusione degli smartphone, attraverso i quali è possibile fare acquisti, senza necessariamente utilizzare il pc.
A questo proposito, sembra che le vendite online via smartphone registreranno a fine 2013 un incremento pari a +255% (per 500 milioni, ossia il 15% delle vendite online).

Questi risultati arrivano dal rapporto annuale dell’Osservatorio e-Commerce B2c della School of Management del Politecnico di Milano, in collaborazione con il consorzio Netcomm.

Alessandro Perego, responsabile scientifico dell’Osservatorio, ha dichiarato che sono molti i segnali che “dimostrano il crescente interesse del mondo Retail tradizionale e anche dei produttori per lo sviluppo del canale dell’e-Commerce ma ci sono ancora alcuni ostacoli, di tipo culturale oltre che logistico e organizzativo, che impediscono un decollo vero e proprio, con tassi di crescita a 3 cifre”.

In aumento è anche la percentuale degli stranieri che acquistano collegandosi a siti italiani, giunta ad oggi a +28% rispetto al 2012, superando la quota dei 2 miliardi di euro.

I settori che più interessano l’export sono il turismo (55%) e l’abbigliamento (32%).
L’Import è invece cresciuto del +13% raggiungendo quota 3,45 miliardi di euro, e a fare da traino sono soprattutto i servizi di biglietteria per i trasporti.
In generale gli Italiani, tra siti italiani ed esteri, oggi comprano più che nel 2012 (+15%), portando il fatturato dagli 11 miliardi di euro del 2012 agli oltre 12,6 miliardi.

Oltre a turismo ed abbigliamento, anche il settore dell’informatica ed elettronica va molto bene online, tanto da registrare una crescita del 20%, per un fatturato di 1,2 miliardi.

Non si può dire altrettanto invece i prodotti del settore Retail, la cui percentuale di vendite sul totale si assesta al 3%, che necessita ancora di una spinta: in questo senso può contribuire il moltiplicarsi di soluzioni ad hoc.

Vera MORETTI