Tasse da record, al 53,2% la pressione fiscale

 

Il 53,2% registrato dal solito ufficio studi della Confcommercio è un dato impressionante, da far rimanere senza parole. Non che non lo sapessimo, ma la valutazione della pressione fiscale sul Pil supera (abbondantemente) la soglia, già di per sé drammatica, del 50% raggiunta nei mesi scorsi. Ed ecco raggiunto, come se potessimo farcene un vanto, l’ambitissimo (si capirà l’ironia, suvvia…) primo posto della classifica Ocse per il carico fiscale. Secondo gli scientifici calcoli della Confcommercio, la cifra raggiunta si ottiene sommando al reale rapporto tasse/Pil (44,1%) la percentuale (in questo caso un altrettanto impressionante 17,3%) del settore «sommerso».

«Per liberare le ingenti risorse necessarie per far ripartire l’economia – ha dichiarato Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio – bisogna realizzare subito una poderosa operazione: meno tasse e meno spesa pubblica, più riforme e più lavoro. Tagliare le tasse per favorire la crescita è un passaggio ineludibile».

E, intanto, noi paghiamo…

Il 40% delle aziende chiude in rosso, una su otto per la pressione fiscale

 

Dei timidi segnali di ripresa di cui tutti parlano, nemmeno l’ombra. Uno studio di Cribis D&B rivela che nell’ultimo anno il 40,9% delle imprese ha chiuso in perdita e almeno una su otto ha registrato un passivo unicamente a causa della sempre più insostenibile pressione fiscale.

«Il fatto che ben l’11,07% delle imprese analizzate nel nostro studio – ha dichiarato Marco Preti, amministratore delegato di Cribis D&B – abbia chiuso il bilancio in rosso dal 2008 al 2012, senza aver mai raggiunto il pareggio, è un dato preoccupante, che conferma una volta di più le enormi difficoltá che in questi anni hanno fiaccato il tessuto economico del Paese. Una situazione resa ancor più grave dall’elevata pressione fiscale, che oggi non risparmia le attività in perdita e produce effetti molto negativi sul tessuto economico italiano, come dimostra il dato di un’impresa su otto, tra quelle con i bilanci perdita, che ha chiuso in rosso proprio a causa delle tasse»

Ricomincio dall’Austria

di Davide PASSONI

Lo abbiamo visto all’inizio della settimana: con le sue politiche fiscali e occupazionali e un tasso di burocrazia nettamente al di sotto del livello di guardia, la Carinzia è facilmente diventata la terra promessa per i piccoli imprenditori italiani strozzati da tasse e scartoffie.

Ora cerchiamo di capire direttamente da chi lavora nell’Entwicklungsagentur Kärnten (EAK), la società al governativa responsabile per la promozione della Business Location Carinzia, chi e quanti sono gli italiani che già hanno scavalcato le Alpi e che succede nella bassa Austria. Risponde Natascha Zmerzlikar, Investors Service Italia di EAK.

Come segue EAK le aziende italiane che vogliono investire in Carinzia?
EAK assiste e scorta le aziende italiane nel loro desiderio di internazionalizzazione verso i mercati esteri, nella fattispecie la Carinzia. Quest’ultima si trova a competere fianco a fianco con altre regioni austriache, come ad esempio il Tirolo, e ovviamente con altri paesi quali la Germania. Uno dei punti a suo favore è il fatto che la location e la regione sono già note a molti italiani, in particolare del Nord (Friuli, Veneto). A questo si aggiunge che la lingua italiana è ben introdotta nel sistema scolastico carinziano e che molti carinziani la parlano, una realtà straordinaria in Austria e decisiva, oltre ai fattori finanziari, nella scelta a favore della Carinzia.

Quanti sono gli imprenditori italiani, non solo veneti, che hanno già trasferito la loro attività in Carinzia?
Il numero di progetti totali realizzati da Entwicklungsagentur Kärnten dal 1999 è di circa 280, 90 dei quali italiani. Solo nel 2012, di italiani ne sono stati realizzati 21. Attualmente ce ne sono sul tavolo 288: 184 dall’Italia, 71 da Germania/Austria, 33 dal resto del mondo. I progetti italiani provengono da 13 regioni, quelle che ne contano il maggior numero sono il Veneto, 108, il Friuli, 28, la Lombardia, 20 e l’Emilia Romagna 10.

Quanto lavoro hanno creato?
I 90 progetti di insediamenti aziendali di provenienza italiana corrispondono a circa 800 nuovi posti di lavoro e 25 posti a rischio “salvati”.

Invece, quante nuove richieste di imprenditori state valutando?
Il totale delle prime richieste provenienti dall’Italia è di circa 450.

Quali sono le tipologie produttive più rappresentate?
Fra i settori produttivi più frequentemente insediati in Carinzia ci sono il metalmeccanico, l’ICT, le energie rinnovabili, carta e legname nonché le materie plastiche.

I progetti realizzati dal 1999 sono circa 280, ma da quando comincia il “boom” della Carinzia?
Una maggiore richiesta delle imprese italiane viene segnalata da 2004, data a partire dalla quale diventa ufficiale il fatto che dall’1 gennaio 2005 in Austria l’IRPEG/IRES è scesa dal 34% al 25%. In Austria, poi non esistono nemmeno studi di settore né l’IRAP. Rispetto all’Italia, poi, le procedure burocratiche per autorizzazione, permessi di costruzione etc. sono molto più brevi: in Austria, e soprattutto in Carinzia, la concessione edilizia è disponibile dopo soli 7 giorni, le autorizzazioni di impianti aziendali al massimo entro 79 giorni dalla richiesta.

Faccio le valigie e vado in Carinzia

 

Cinquanta imprenditori, tutti provenienti dalla Regione Veneto, pronti a fare le valigie e a trasferire la propria azienda oltreconfine, ma non troppo. Meta: la Carinzia. Provocazione o reale opportunità?

Mentre in Italia la pressione fiscale sale alle stelle, gli incentivi per piccola e media impresa si fanno sempre più ristretti, fare impresa all’estero può trasformarsi in una reale possibilità di crescita.

Ma l’Italia della piccola e media impresa è davvero come la descrivono? Si può fare qualcosa di più?

Infoiva lo ha chiesto a Alessandra Polin, imprenditrice veneta che insieme a Sandro Venzo, anima del movimento dei 50 imprenditori, in Carinzia a fare un sopralluogo ci è andata davvero.

Di che cosa si occupa la sua azienda? 
La mia azienda si occupa di produzione e vendita di filtri per l’aria (unità di trattamento aria, aziende ospedaliere, farmaceutiche, industrie) ed è nata nel 1963 dall’ingegno di mio nonno, di ritorno dagli Stati Uniti dove era emigrato. Ha iniziato il suo percorso imprenditoriale aprendo una ditta individuale e nel 1982 si è trasformata in Generalfilter Italia, mentre nel 1986 è diventata una Società per azioni. Nel 1990 abbiamo aperto la prima filiale estera, Generalfilter Iberica, in Spagna ad Arganda del Rey (Madrid) e più recentemente abbiamo installato un sito produttivo in Turchia , Generalfilter Havak (prevalentemente per il mercato del Medio Oriente) e una sede commerciale in Francia, Generalfilter France. In Italia la nostra azienda fattura circa 15.000.000 euro e dà lavoro a circa 110 collaboratori.

Che cosa spinge un imprenditore non più solo a delocalizzare la produzione ma a trasferire l’intera azienda fuori dall’Italia?
Il nostro intento non è quello di creare disoccupazione in Italia, vogliamo però che cambi in Italia il modo di percepire l’imprenditore e l’azienda, che devono essere considerati un valore aggiunto. Confesso che allo stato attuale delle cose, se dovessi pensare a investimenti futuri per la mia azienda, mi guarderei intorno perchè ci sono Paesi che offrono numerosi vantaggi per chi fa impresa. Al contrario dell’Italia, dove oggi un imprenditore è spinto ad andare all’estero dalla tassazione che ha raggiunto picchi elevatissimi (lo scorso anno l’84% del mio utile si è volatilizzato per il pagamento delle imposte), dall’IMU,  dalla burocrazia farraginosa, dalla mancanza di stabilità normativa, e ancora la difficoltà di accesso al credito, i rapporti sindacali che penalizzano gli imprenditori…insomma, per essere competitivi almeno in Europa, dobbiamo giocare tutti con le stesse regole!

Quali sono le tasse che gravano maggiormente sulle piccole e medie imprese in Italia? 
Le tasse che si pagano in Italia rispetto alla Carinzia, sono decisamente più rilevanti… L’Ires italiano è molto simile alla tassazione carinziana, ma lì non esiste l’Irap che grava in maniera pesante sulle imprese, soprattutto sulle imprese che decidono di assumere collaboratori, quindi, per assurdo è tassato di più chi crea occupazione.

Essere una piccola o media impresa in Italia è un vantaggio o uno svantaggio?
Essere una media impresa oggi nel nostro Paese è uno svantaggio a partire ad esempio, dall’articolo 18, applicabile per aziende oltre i 15 dipendenti: la riforma del lavoro sembra studiata ad hoc per disincentivare le assunzioni. Piccole imprese o start up si scontrano inoltre con il problema sempre più grave dell’accesso al credito e del supporto attivo in fase di avvio. Per non parlare della questione dei crediti incagliati, ovvero quando i clienti non pagano le fatture e il recupero di liquidità diventa difficoltoso.

La regione Veneto offre incentivi a chi vuole aprire una nuova attività imprenditoriale o per chi vuole puntare sulla ricerca e innovazione per la propria azienda?
Esistono dei bandi finanziati dalla Regione ma sono di difficile accesso e in ogni caso non coprono molte delle spese necessarie. In Carinzia al contrario è possibile usufruire di contributi fino al 60% per le aziende che fanno ricerca e sviluppo, e quindi è naturale che molti imprenditori sono incentivati a spostarsi…

Perché proprio l’Austria e la Carinzia?
Perchè è vicina e facilmente controllabile! Noi non vogliamo, come accaduto nel passato per alcuni imprenditori, andare alla ricerca del paradiso fiscale o della manodopera a basso costo (e spesso di scarsa qualità), noi vogliamo essere sostenuti nel fare impresa dal Paese. E’ questa la grande novità!

Che cosa vi aspettate dal nuovo Governo? Quali misure dovrebbe mettere in campo per evitare la fuga non solo di cervelli, ma di intere imprese?
Vogliamo una politica industriale diversa, meno burocrazia, poche regole e certe, un taglio dei costi dello Stato che possa tramutarsi in una diminuzione delle tasse per tutti, in grado di far ripartire i consumi, e ancora diversi rapporti sindacali… Dobbiamo partire dal presupposto che siamo tutti partner che servono a far andare avanti il Paese, non organismi in lotta tra loro.

Alessia CASIRAGHI

Fare business in Carinzia: gli incentivi alle imprese

di Davide PASSONI

Il governo della Carinzia e altre istituzioni prevedono un articolato piano di contributi e incentivi per le imprese che decidono di produrre sul territorio.

Per investimenti in industria/produzione la Carinzia può offrire fino al 25% del intera somma, per investimenti in turismo fino al 20%. Tutti i costi relativi all’insediamento aziendale sono sovvenzionabili, tranne il costo del terreno oppure il costo del’acquisto di un capannone già esistente. Macchinari, impianti, attrezzature, mobili, hardware, software, sono tutti sovvenzionabili, nel caso di un progetto turistico tutti gli arredi. La percentuale di sovvenzione da applicare al progetto dipende dal numero di posti di lavoro che vengono creati, dalla situazione dell’impresa, dal grado di innovazione, dalla somma globale dell’investimento, dalla zona dove si investe.

Per investimenti in Ricerca e sviluppo il finanziamento arriva fino a un massimo del 60%. Non importa, in questo caso, dove si investe: contributi per ricerca e sviluppo non si limitano a certe zone. Il programma di sovvenzionamento in tal caso accetta e sovvenziona anche il costo del personale e il costo del materiale coinvolto nella ricerca.

Ci sono anche programmi di sovvenzionamento per il personale, quindi per i posti di lavoro che vengono creati. Ogni persona registrata presso l’Ufficio di collocamento, quindi registrata come disoccupata, potrebbe dare diritto a sovvenzioni. In più, anche la Regione potrebbe dare un “aiuto” alla impresa, soprattutto se l’azienda decide di insediarsi in una zona dove recentemente sono state licenziate delle persone a causa del fallimento di un’azienda e dove la Regione tende a salvaguardare posti di lavoro.

Esistono anche agevolazioni fiscali per le spese di formazione e addestramento del personale: le spese oggetto di agevolazione sono quelle che direttamente sono imputabili a queste attività come seminari e corsi, spese per relatori, costi per l’acquisto di libri, letteratura e riviste specialistiche. Il meccanismo agevolativo è di due tipi, alternativo e non cumulabile: o viene riconosciuto un costo figurativo pari al 20% sulle spese sostenute, oppure viene riconosciuto un premio del 6% delle spese sostenute, liquidato sul conto fiscale e immediatamente rimborsabile. Normalmente è più conveniente il premio, in quanto viene corrisposto direttamente una volta presentata l’apposita dichiarazione allegata alla normale dichiarazione dei redditi.

Sognando la Carinzia…

di Davide PASSONI

Ormai, nel Nordest, il fenomeno dei tour di imprenditori che si recano in Carinzia per studiare “l’habitat” in previsione di un possibile trasferimento oltreconfine delle proprie attività esiste da tempo ed è consolidato. I media sembrano accorgersene solo quando esce il caso di qualcuno che davvero prende e se ne va, ma per chi abita e produce da quelle parti, questa migrazione non è più una novità.

Ma che cosa offre, nel concreto, quella regione austriaca in termini di agevolazione al business, tanto da far ingolosire i tartassati imprenditori nordestini? Di tutto e di più, come appare chiaro da quanto ci comunica l’Entwicklungsagentur Kärnten (EAK), società al 100% governativa responsabile per la promozione della Business Location Carinzia. Basta andare per punti, senza fare paragoni con l’Italia: le discrepanze compaiono da sole e appare chiaro perché in molti pensino da tempo alla “grande fuga“.

Tassazione per gli utili aziendali
Unica imposta sugli utili del 25%; non esiste l’IRAP, non esiste nessun’altra tassazione occulta, non esistono gli studi di settore. In Austria si possono dedurre ancora tutte le spese legate all’attività aziendale al 100% (carburante, telefonia, ecc), eccetto il costo di acquisto di automezzi (l’indeducibilità è parziale ed è solo per la parte che eccede il valore di acquisto di 40mila euro) e le spese di rappresentanza (nella misura del 50% al netto dell’IVA.

IVA
Se ci si avvale della rappresentanza di un commercialista, la dichiarazione dei redditi e la dichiarazione IVA devono essere presentate entro un anno e quattro mesi. Le liquidazioni periodiche IVA devono avvenire entro il 15 del secondo mese successivo al periodo cui si riferiscono. Entro tale termine deve essere versata anche l’imposta. Rimborso dell’IVA a credito, qualora ci fosse: entro massimo sei settimane dopo il mese di riferimento viene versata l’IVA a credito sul conto aziendale.

Salario
Livello equivalente a quello italiano ma, per via della tassazione più bassa, ai dipendenti resta più in netto in busta paga.

Tempi della burocrazia
Sarà pure Austria Felix, ma la burocrazia esiste anche là, anche se, rispetto all’Italia, è quasi inesistente. Per avere il permesso di costruzione di un capannone bisogna aspettare 10 giorni, anche se dipende dalla qualità della documentazione richiesta. Per avere l’autorizzazione all’utilizzo degli impianti, quindi per poter iniziare a produrre, servono al massimo 80 giorni. Di solito si avviano due processi paralleli: la richiesta del permesso della costruzione e l’autorizzazione dell’impianto. La costituzione di una società tipo la Srl (in Austria GmbH) dura 2 settimane. Il costo per la costituzione di una Srl ammonta a circa 3mila euro compreso avvocato, notaio, commercialista. Il capitale sociale da versare è di 35mila euro e, al momento della costituzione, basta anche il versamento della metà. Non c’è un periodo limitato entro il quale deve essere versata la seconda metà del capitale sociale. Si può costituire una società con un unico socio, che potrebbe essere italiano e avere la residenza in Italia.

Diritto del lavoro
Anche se i sindacati storceranno il naso, in Carinzia si consente il licenziamento del dipendente senza giusta causa: posto che siano stati stabiliti contrattualmente dei termini di preavviso più favorevoli al datore di lavoro, di norma questo non è tenuto a dare giustificazione del licenziamento, salvo eccezioni in caso di dipendenti considerabili socialmente da tutelare (per esempio dipendenti anziani, madri con figli a carico ecc.). Non è possibile obbligare il dipendente al consumo delle ferie non pagate. I termini di preavviso si allungano al maturare di anni di servizio.

Un discorso a parte merita il capitolo degli incentivi. Clicca qui per scoprirlo.

2013, la grande fuga? Dal Veneto alla Carinzia per continuare a fare impresa

di Davide PASSONI

Il fenomeno è salito alla ribalta delle cronache nello scorso autunno, ma in realtà esiste da tempo: in Veneto e in Friuli vengono regolarmente organizzati dei “tour” in Carinzia per imprenditori che vogliono trasferire là le proprie aziende, stanchi della burocrazia, della predatoria pressione fiscale e delle svariate trappole che l’amministrazione pubblica e quella tributaria quotidianamente allestiscono per far cadere chi vive d’impresa e produce ricchezza e occupazione in Italia. E tanti sono gli imprenditori che, da queste due regioni, sono già migrati in Austria.

Il fenomeno fa notizia perché stiamo parlando di una delle zone a più alta produttività italiana e perché mette clamorosamente in luce molte di quelle mancanze che, tanto lo Stato quanto le regioni (anche quelle “virtuose” come il Veneto), hanno nei confronti della piccola impresa italiana. La spina dorsale dell’economia italiana si sta sempre più piegando sotto il peso della burocrazia (6-8 mesi per avere i permessi per avviare un’attività) e della pressione fiscale (quella sulle piccole imprese è cresciuta di oltre il 22% dal 2011 al 2012) ed è comprensibile che chi d’impresa vive, pur di non vedersi costretto a chiudere bottega, complice anche la crisi, cerchi la soluzione migliore per salvare vita e azienda. Se questa soluzione, poi, è all’estero… chissenfrega, pensa: l’importante è continuare a dare lavoro e creare ricchezza.

E siccome in Italia e nel Nordest le eccellenze produttive e tecnologiche ci sono eccome, agli austriaci non sembra vero di vedersele offrire su un piatto d’argento da uno stato e da un fisco che, invece di salvaguardarne futuro e investimenti, fanno di tutto per metterle in fuga. Basta applicare una tassazione da fantascienza sugli utili (25%), eliminare imposte odiose come l’Irap, erogare incentivi con intelligenza, azzerare o quasi i tempi per l’avvio di un’impresa e tanti saluti ai Fratelli d’Italia e alla retorica dell’impresa tricolore.

Nei prossimi giorni cercheremo di conoscere qualche storia di chi ha preso questa decisione e di chi ci sta pensando, di vedere che cosa nel concreto offrono i nostri vicini di frontiera alle imprese e, soprattutto, per rispondere a chi riduce la questione a “è il mercato, bellezza…”, che cosa può fare l’Italia per non consegnare all’estero un patrimonio di qualità e “saper fare” che la rende unica nel mondo. Perché, d’accordo la globalizzazione, ma anche l’Italia fa parte del mercato globale: e allora perché da noi le imprese scappano, anziché investire?

Lavoriamo 165 giorni all’anno solo per pagare le tasse

di Davide PASSONI

Probabilmente l’ineffabile sottosegretario Polillo quando ha affermato che per aiutare il Pil dell’Italia a crescere sarebbe bene che rinunciassimo a una settimana di ferie all’anno, forse non aveva letto il risultato di un interessante studio. In sostanza, secondo questo studio, i contribuenti italiani stanno già regalando allo Stato oltre tre settimane lavorative… per pagare le imposte.

Tanto per cambiare, il dato viene dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre, secondo il quale rispetto al 2002 fa i contribuenti italiani lavorano 17 giorni in più per pagare imposte, tasse e contributi. Nessun slancio di amor patrio né magia contabile, solo matematica: negli ultimi 10 anni le tasse sono aumentate progressivamente e, parallelamente, è cresciuto il numero di giorni necessari per pagarle. Se nel 2002 la pressione fiscale era pari al 40,5%, nel 2012 arriverà al 45,1%, ovvero il 4,6% in più. E, a voler essere precisi, dallo scorso anno a questo il numero di giorni è aumentato di 10, 3 dei quali li dobbiamo all’arrivo dell’Imu.

Se 10 anni fa il povero contribuente impiegava ben 148 giorni lavorativi per raggiungere il giorno della cosiddetta “liberazione fiscale”, oggi ce ne vogliono 165. per arrivare a queste cifre illuminanti, la Cgia ha esaminato il dato di previsione del Pil nazionale dividendolo per i 365 giorni dell’anno. Fatto questo semplice calcolo matematico per individuare una media giornaliera, è stato poi considerato il gettito di imposte, tasse e contributi versati allo Stato e il totale è stato suddiviso per il Pil giornaliero: risultato, il sospirato “tax freedom day“, che per il 2012 è arrivato lo scorso 14 giugno.

La ricetta della Cgia di Mestre per fermare questo scandalo è piuttosto semplice e intuitiva e anche noi, nel nostro piccolo osservatorio di Infoiva, la andiamo ripetendo da mesi. La sintetizza bene il segretario dell’associazione mestrina, Giuseppe Bortolussi: “Contraendo in maniera strutturale la spesa pubblica improduttiva possiamo ridurre anche le tasse. Per far questo è necessario riprendere in mano il federalismo fiscale che, a mio avviso, è l’unica strada percorribile per raggiungere questo obbiettivo. Infatti, le esperienze europee ci dicono che gli stati federali hanno un livello di tassazione ed una spesa pubblica minore, una macchina statale più snella ed efficiente ed un livello dei servizi offerti di alta qualità“.

Capito Polillo? Capito professori? Vi preghiamo, non chiedeteci anche le ferie (ammesso che si riescano a fare…). Come vedete, stiamo dando a voi e all’Italia già tanto, molto più di quanto meritiate. Abbiate la decenza e l’intelligenza di capirlo a volo.

Tasse e spesa pubblica, ecco lo Stato bulimico

di Davide PASSONI

Gli artigiani italiani si ritrovano in assemblea e lanciano una pesante accusa allo Stato obeso, sprecone e bulimico di tasse: la pressione fiscale “effettiva” in Italia è al 53,7%, la spesa pubblica aumenta di 2 milioni ogni ora, le imprese “bruciano” in burocrazia 23 miliardi all’anno e ogni azienda butta dalla finestra 86 giorni all’anno in pratiche amministrative anziché concentrarsi a fare fatturato. Questi i punti essenziali del j’accuse lanciato dal presidente di Confartigianato Giorgio Guerrini nella sua relazione all’assemblea di Confartigianato.

Negli ultimi 18 anni – ha rincarato la dose Guerrinisi sono succedute 5 proposte di riforma fiscale ma, contemporaneamente, il peso delle tasse è cresciuto di oltre 4 punti, passando dal 40,8% del Pil nel 1994 al 45,1% nel 2012. E, al netto dell’economia sommersa, la pressione fiscale effettiva è lievitata al 53,7%“.

Numeri impressionanti – prosegue Guerrini -: basti pensare che quest’anno il Pil cresce di 8 miliardi, le entrate fiscali di 46″. Senza contare che, sul costo del lavoro, il fisco “pesa per il 47,6%. Le imprese italiane ‘bruciano’ in burocrazia 23 miliardi l’anno, pari a 1 punto e mezzo di Pil. Ogni azienda spreca 86 giorni l’anno in pratiche amministrative e soltanto in questa legislatura sono state varate 222 norme fiscali ad alto tasso di complicazione, 1 ogni 6 giorni“. E tra il 2000 e il 2012, segnala ancora Guerrini, la spesa pubblica italiana è aumentata di 250 miliardi, “alla straordinaria velocità di crescita di oltre 2 milioni di euro all’ora“.

Ma ce lo possiamo ancora permettere, chiediamo? Ce lo possiamo ancora permettere in un momento nel quale l’economia reale, quella fatta dalle nostre imprese e dai nostri artigiani, è messa sotto scacco dall’economia delle Borse, capace di bruciare in pochi giorni patrimoni costruiti in anni e che punta a far cadere come le tessere di un domino tutti i Paesi eurodeboli, uno dopo l’altro? Con l’Italia prossima della lista?

Possiamo ancora permetterci di continuare a far crescere la spesa pubblica, fingere di non avere altra soluzione per il risanamento dei conti se non nuove tasse, lasciare nelle mani della Ragioneria Generale dello Stato la gestione di partite chiave come quelle della crescita, ben sapendo che finirà per tutelare gli interessi e fomentare l’ingordigia di quello Stato di cui è parte integrante e solida guardiana?

Possiamo ancora permetterci di non ascoltare il grido delle imprese e degli artigiani quando dicono: “I nostri imprenditori, le persone che noi rappresentiamo e che rappresentano il Paese che combatte ogni giorno per ripartire e riprendere a crescere, dicono che la misura è colma, che dobbiamo reagire con forza alla ‘sindrome del declino’ che sta pervadendo la nostra Italia“?

Sveglia governo! Se lo spread torna a sfiorare i 500 punti e se l’Italia entra in una recessione preoccupante non è colpa della Germania e della sua politica del rigore a senso unico. Primo colpevole è uno Stato che per anni ha finto che tutto andasse bene, mentre la mancata crescita dell’Italia è cominciata ben prima che scoppiasse la crisi; di uno Stato che non ha capito che per uscire dal pantano è lui il primo a dover tagliare tanto, subito e senza guardare in faccia nessuno; di uno Stato che se aumenta le tasse e poi scopre che mancano dei soldi dalle entrate fiscali previste deve capire che, forse, la gente comincia davvero a non avere più soldi per pagarle.

E allora siamo con Guerrini quando dice: “Fiducia: ecco ciò di cui abbiamo più bisogno. L’Italia ce la può fare a riagganciare la ripresa se istituzioni, politica, società, economia condivideranno coraggio e responsabilità. I piccoli imprenditori ce la stanno mettendo tutta“. Sì, siamo con lui. Ma ci sentiamo sempre più soli.

La crescita ammazzata dalle tasse

di Davide PASSONI

La Corte dei Conti e l’acqua calda. Quando l’organo di controllo in materia di entrate e spese pubbliche parla o presenta rapporti è un po’ come quando parla il presidente della Repubblica e ci fa pensare: ma bisogna essere presidenti per dire una cosa tanto ovvia? Con tutto il rispetto che la carica merita. Ecco, ieri la Corte dei Conti, che pure si pronuncia dopo studi e analisi e deve comunque tradurre in termini comprensibili ai più quanto emerge dalle proprie ricerche, se n’è uscita con una ovvietà: nel suo Rapporto 2012 lamenta che il peso eccessivo della pressione fiscale rischia di comportare “impulsi recessivi” nell’economia reale. Insomma, troppe tasse fermano la crescita.

Un’ovvietà che, però, fa arrabbiare e non poco. Chiedetelo alle imprese che, grazie alla lungimirante politica fiscale dei professori ora e dei governi politici prima, si ritrovano con uno Stato che intermedia oltre il 70% del loro fatturato. Chiedetelo alle famiglie, che grazie alla crescente pressione fiscale (che non è solo Imu) si ritrovano con un potere d’acquisto ai minimi storici e con lo spauracchio di un aumento dell’Iva per il prossimo autunno che significherebbe la vera morte dei consumi. Chiedetelo ai giovani, sempre più senza lavoro e senza prospettive non tanto e non solo per colpa della crisi, quanto per le responsabilità di una classe dirigente che 30 anni a questa parte ha saputo solo far crescere la spesa corrente.

E non basta sentirsi dire dalla Corte che i margini per riequilibrare il “sistema di prelievo” fiscale conciliando “rigore, equità e crescita” sono esauriti e per questo “si rafforzano le ragioni per puntare” sull’ampliamento della base imponibile attraverso “la lotta all’evasione, all’elusione e al ridimensionamento dell’erosione“. No. Perché se la lotta all’evasione, all’elusione e ai furbetti dello scontrino sono sacrosante, la Corte è bene che faccia ricordare a chi di dovere che esistono altri metodi non tanto per aumentare un “gettito fiscale rimasto al di sotto delle previsioni, penalizzato dalla mancata ripresa dell’economia“, quanto per far risparmiare soldi a uno stato bulimico di tasse che pensa solo a ingrassare e mai a dimagrire. Questi metodi si chiamano privatizzazioni, dismissioni di asset pubblici, dismissione delle partecipazioni in società in perdita, razionalizzazione delle spese, lotta alla corruzione e all’improduttività.

Perché la crisi è la crisi, la crisi è globale ma le dinamiche che hanno portato l’Italia in questa situazione si sono innescate ben prima. E se troppe tasse frenano la crescita, perché il governo continua a metterne di nuove? Ah, i professori