Il nuovo organigramma di Confassociazioni

Angelo Deiana ha dato a tutti gli addetti ai lavori appuntamento per il prossimo 21 novembre presso l’Università Mercatorum di Roma.
In quell’ambito, infatti, ci sarà la Conferenza Stampa di presentazione del nuovo organigramma di Confassociazioni.
Queste le sue parole in proposito: “Nel DNA di una grande rete come CONFASSOCIAZIONI c’è il gene fondante del suo successo: la capacità di saper coniugare tradizione e valorizzazione delle competenze esistenti con la spinta verso l’orizzonte dell’innovazione. E’ per questo che, fin dai primi mesi del 2017, abbiamo lavorato per un grande rinnovamento della nostra struttura organizzativa. Un’operazione impegnativa perché, pur nella continuità degli obiettivi strategici (visione di lungo periodo, collaborazione competitiva e crescita costante), abbiamo rivisto le nostre priorità di sviluppo inserendo nuove, importanti, professionalità che arricchissero team centrali e territoriali”.

La giornata sarà suddivisa in due diversi appuntamenti:

La prima parte, dalle ore 10 alle 12.30 sarà riservata solo agli associati e si articolerà in una presentazione interna delle nuove cariche e dei processi di innovazione della struttura organizzativa.
Tra le principali novità, CONFASSOCIAZIONI Ambiente, CONFASSOCIAZIONI Infrastruttture, CONFASSOCIAZIONI New Deal e importanti Osservatori (Fiscalità, Infrastrutture, Reputazione, Sovraindebitamento), ma ovviamente senza dimenticare quelle già esistenti, che ad oggi contano la maggior presenza di iscritti, che sono 650mila, con 126mila imprese e 340 associazioni: CONFASSOCIAZIONI Immobiliare, CONFASSOCIAZIONI Banca e Finanza, CONFASSOCIAZIONI Digital.

La seconda parte, dalle ore 12.30 alle ore 13.30 sarà una Conferenza Stampa pubblica dove verrà presentato ai media il nuovo organigramma e gli obiettivi del 2018 di CONFASSOCIAZIONI.

Dopo pranzo, infine, chi lo desidera è invitato a fermarsi per partecipare all’evento organizzato da CONFASSOCIAZIONI Coaching sul tema “Mondo 4.0 e Coaching: scenari, prospettive, strumenti” che vedrà l’importante partecipazione del Prof. Enrico Giovannini, già Presidente Istat, già Ministro del Lavoro ed ora Portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile.

Vera MORETTI

Italiani in vacanza per il ponte di Ognissanti

Un ponte lungo cinque giorni aspetta gli italiani, che hanno intenzione di approfittarne e festeggiare l’1 novembre fuori porta.
Saranno più di 7 milioni gli italiani che partiranno, leggermente in aumento rispetto al 2016, e che, dunque, contribuiranno a rendere ulteriormente positivo il bilancio della stagione turistica targata 2017.

Ma, se da una parte i numeri si mostrano costantemente positivi, dall’altro si evidenziano gli aspetti che andrebbero migliorati per poter continuare il trend e proseguire dunque a creare reddito e posti di lavoro nel settore del turismo.

Questo è quanto auspica Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi, che ha presentato una ricerca realizzata dalla Federazione da lui presieduta in collaborazione con l’istituto ACS Marketing Solutions.
Secondo questa indagine, il 90,7% dei partenti sceglierà l’Italia, mentre il rimanente 8,1% andrà all’estero.

Nella media, i vacanzieri trascorreranno 3,2 notti fuori casa, con una spesa per ogni membro della famiglia che cresce dai 262 euro del 2016 ai 279 euro del 2017. Il giro di affari previsto per il ponte è di circa 1,96 miliardi di euro (1,81 miliardi nel 2016).

Coloro che rimangono in Italia, per la maggioranza andranno in montagna, 29%, seguita dalle città d’arte, 25,3%, poi località di mare, 17,5%, zone termali, 5,9%, e laghi, 3,6%.

Chi volerà all’estero, invece, ha scelto le capitali europee, 63%, ma anche extraeuropee, 7,4%, seguite dalle località di mare, 14,8%, sempre molto affascinanti per gli italiani.

Per scegliere la località di vacanza e per prenotare, si tende sempre più a collegarsi in rete, per reperire informazioni, contattare direttamente la struttura ricettiva e riservare la sistemazione.

Vera MORETTI

Successo in Cina per la moda Made in Italy

Non solo le grandi griffe, ma anche la tradizione artigiana della moda Made in Italy sta conquistando il mercato cinese. Da sempre attirata da tutto ciò che è tipicamente italiano, la Cina però sta cominciando ad affinare i suoi gusti e a far emergere le sue preferenze, senza più accontentarsi delle proposte delle grandi marche nella loro totalità.

Per fare emergere ancora di più la tradizione sartoriale e l’alta qualità dell’artigianato italiano, Confartigianato ha promosso e messo in atto un progetto molto ambizioso, che ha riscosso un sorprendente successo, direttamente in Cina, dove dal 13 al 15 ottobre si è svolta la Fashion Week di Shanghai, un appuntamento ormai irrinunciabile per il Paese del Sol Levante e per l’Asia più in generale.

In questi tre giorni, 56 medie e piccole imprese di moda contemporanea rigorosamente al 100% Made in Italy hanno avuto la possibilità di farsi conoscere e presentare le loro collezioni nell’ambito di Style Routes to Shanghai, una piattaforma realizzata da Confartigianato in collaborazione con il Salone della moda White e il sostegno di Ice Agenzia.

Giuseppe Mazzarella, delegato all’Internazionalizzazione di Confartigianato, ha potuto essere presente ed affiancare gli imprenditori presenti, potendo così fare un bilancio di questa importante iniziativa: “La manifestazione ha visto più di 2000 visitatori realmente interessati. Le nostre imprese sono state visitate da numerosi buyers e molte aziende hanno ricevuto ordinativi e stabilito contatti. Stiamo lavorando sui settori della moda, del complemento d’arredo e dei mobili, del food, della meccanica. Siamo impegnati nelle fiere, negli incoming, negli outgoing. Abbiamo fatto fiere sul complemento d’arredo a Miami negli Usa e a Dubai negli Emirati Arabi, a Parigi abbiamo partecipato a ‘Maison et Objet’. Ora stiamo lavorando per portare le nostre imprese a Londra, Parigi, in Cina, Giappone, su tutti i mercati che consideriamo appetibili per la tipologia e la dimensione d’impresa che presentiamo al mondo. Ma siamo anche impegnati sui servizi da offrire alle imprese, in particolare sulla formazione in materia di branding, per aiutare gli imprenditori a valorizzare la storia della sua impresa”.

Vera MORETTI

L’internazionalizzazione fa bene alle imprese

Una ricerca del Politecnico di Milano ha messo in evidenza che le imprese che scelgono la via dell’internazionalizzazione, anche quando si tratta di pmi, crescono di più, più velocemente e generano ricchezza e occupazione per il proprio paese.

Questa ricerca ha preso in considerazione le imprese che nel periodo 2006-2016 hanno ottenuto un finanziamento da Simest, la società del Gruppo Cdp che insieme a Sace costituisce il polo dell’internazionalizzazione e dell’export del Gruppo Cdp. Ebbene, i risultati relativi a numero di dipendenti, ricavi delle vendite, utile netto, Ebitda, esportazioni sono molto positivi.

Per quanto riguarda l’occupazione, in tutte le iniziative l’impatto sul numero di dipendenti per le imprese incentivate nei periodi di pre e post-incentivo, risulta aumentato del 15,25%, contro una media di settore di 0,46%.
L’incremento dei ricavi è pari al 32,43%, contro l’8,15% della media degli andamenti dei settori di appartenenza. Nel caso della variabile dell’utile netto, se si raffronta l’andamento delle imprese beneficiarie di Simest con l’andamento delle altre imprese appartenenti agli stessi settori, il risultato è + 21,09%.

Guardando all’Ebitda il parametro ha registrato una crescita del 28,02%, contro l’incremento medio di settore pari allo 0,14%. In particolare, si conforma una performance positiva per le iniziative chiuse, che registrano incrementi post-incentivo positivi pari a 60,66%. Analizzando, infine, l’andamento delle esportazioni delle imprese considerate, le imprese beneficiarie hanno mostrato nei 3 anni successivi alla erogazione dell’incentivo una crescita cumulata delle esportazioni del 33% rispetto ai rispettivi settori.

Vera MORETTI

Made in Italy da record, ma il falso prolifica

Coldiretti, in una sua analisi basata sui dati Istat relativi al commercio estero di agosto 2017, ha confermato che il Made in Italy alimentare, tra prodotti agroalimentari e bevande, ha registrato un aumento del 9,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
Considerando che l’anno scorso l’export aveva raggiunto 38,1 miliardi, se il trend positivo si manterrà stabile fino a fine 2017 si supererà quota 40 miliardi, un record assoluto per l’agroalimentare Made in Italy.

Questo exploit è stato ottenuto grazie alle performance positive nei Paesi dell’Unione (+9,5%) e di quelli fuori dell’Europa (+8,6%).

Tra i Paesi più affezionati ai prodotti italiani ci sono Germania, Francia e Stati Uniti, che dimostrano di apprezzare particolarmente il vino e l’ortofrutta fresca.

Ovviamente, occorre tenere gli occhi aperti sull’agropirateria, che all’estero propone prodotti taroccati due volte su tre, a cominciare dai formaggi, con Parmigiano e Grana Padano in testa, ma anche salumi e olio d’oliva sono particolarmente colpiti dal mercato del falso.

A preoccupare, inoltre, anche gli effetti del Trattato di libero scambio con il Canada (CETA) in corso di ratifica in Italia in cui per la prima volta nella storia l’Unione Europea si legittima in un trattato internazionale la pirateria alimentare a danno dei prodotti Made in Italy più prestigiosi, accordando esplicitamente il via libera alle imitazioni che sfruttano i nomi delle tipicità nazionali, dall’Asiago alla Fontina dal Gorgonzola ai Prosciutti di Parma e San Daniele.

Il danno non è limitato al solo Canada, dove viene venduto un formaggio chiamato Parmesan, falso clone del Parmigiano Reggiano, poiché anche altri Paesi emergenti potrebbero arrivare a chiedere le stesse concessioni, e questo non farebbe altro che diffondere ancora di più prodotti che di italiano non hanno nulla.

Vera MORETTI

Green economy, motore anti-crisi

Una delle più efficaci risposte alla crisi di questi ultimi anni è stata sicuramente la green economy, che ha saputo sensibilizzare nei confronti di innovazione, ma anche all’utilizzo consapevole di energia e materia, e che viene abbracciata sempre più frequentemente da aziende grandi e piccole.
A confermarlo sono i dati di GreenItaly 2017, rapporto realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere.

Ad oggi, sono 355mila le aziende italiane, pari al 27,1% del totale, ad aver deciso di investire in tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale, risparmiare energia e contenere le emissioni di CO2.
Questa percentuale aumenta se si considera l’industria manifatturiera, con punte del 33,8%, tanto da rendere il Made in Italy ancora più competitivo e quindi in grado di garantire una costante crescita delle esportazioni e del fatturato.

Ovviamente, l’avvento della green economy ha portato alla creazione di nuovi posti di lavoro “verdi” che, ad oggi, sono 2 milioni 972mila, che corrispondono al 13,1% dell’occupazione complessiva nazionale, destinata a salire ancora entro dicembre, poiché sono in arrivo altri 320 mila green jobs e, considerando anche le assunzioni per le quali sono richieste competenze green, si aggiungono altri 863 mila occupati.
La green economy genera anche ricchezza, poiché i green jobs hanno contribuito, e continueranno a farlo, alla formazione di 195,8 miliardi di euro di valore aggiunto, pari al 13,1% del totale complessivo.

Ermete Realacci, presidente di Fondazione Symbola, ha commentato così questi risultati: “Emerge con sempre maggiore forza, la necessità di un’economia più sostenibile e a misura d’uomo e per questo più forte e competitiva. Lo si evince anche dal Nobel nuovamente dato ad un economista atipico che riflette sulle persone e sulle comunità: quest’anno a Richard Thaler che, con le sue teorie, ha spiegato come i tratti umani incidono le decisioni individuali e gli esiti del mercato. Per andare in questa direzione occorre un’economia che incroci innovazione e qualità con valori e coesione sociale; ricerca e tecnologia con design e bellezza, industria 4.0 e antichi saperi. La green economy è la frontiera più avanzata per cogliere queste opportunità. È l’Italia che fa l’Italia, che non dimentica il passato ma che è insieme innovativa e promettente oltre i luoghi comuni, in grado di affrontare le sfide del futuro, un Paese di cui andare fieri e cui dare credito”.

Ha aggiunto Ivan Lo Bello, presidente di Unioncamere: “Questo rapporto che sviluppiamo insieme a Symbola conferma che la green economy è da anni sinonimo di competitività. Perché è capace di coniugare tradizione e innovazione, qualità e bellezza, coesione e cura dei dettagli, rispetto dell’ambiente e crescita sostenibile. E questo connubio si traduce per le imprese che abbracciano la scelta “verde” in migliori performance in termini di ordinativi, presenza all’estero e propensione ad assumere, in particolare nell’area “R&S. Per questo conviene seguire la strada green per accelerare una crescita sostenibile, moderna e innovativa, del sistema Paese. Un tema strettamente legato al Piano Nazionale Impresa 4.0, al quale le Camere di commercio daranno il proprio contributo attraverso la costituzione di 77 Punti di impresa digitale (Pid) per diffondere la conoscenza di base sulle tecnologie”.

Le imprese green sono anche più propense ad investire in ricerca, tanto che nell’anno in corso la diffusione della divisione ricerca e sviluppo tra le medie imprese manifatturiere che hanno investito in prodotti e tecnologie green nel triennio 2014-2016 è a quota 27%, contro il 18% delle non investitrici.
E questo porta inevitabilmente ad un consistente incremento dell’export, aumentato nel 49% dei casi, rispetto al 33% di quelle che non investono nel verde.
Le imprese green dunque hanno visto il loro fatturato aumentare, tra il 2015 e il 2016, nel 58% dei casi, contro il 53% degli altri casi.

Le aziende green, inoltre, si dimostrano più propense non solo ad assumere ma anche ad investire in formazione, poiché è ancora difficile reperire sul mercato le figure ricercate, trattandosi di professionisti con esperienza ed un livello di qualificazione più elevato.
A livello contrattuale, si tratta nel 46% dei casi di assunzioni a tempo indeterminato.

Per quanto riguarda la diffusione in Italia delle imprese green, la Lombardia è la prima per numero di aziende che investono nel settore, e per la precisione sono 63.170. Seguono il Veneto con 35.370 unità, il Lazio con 30.020 imprese green, l’Emilia-Romagna a quota 29.480 e la Toscana con 29.340. Quindi troviamo il Piemonte con 24.470, la Campania (24.230), la Sicilia (23.940), la Puglia (22.070) e Marche (9.820).
A livello provinciale, in termini assoluti, Milano e Roma guidano la graduatoria staccando nettamente le altre province italiane grazie alla presenza, rispettivamente, di 22.300 e 20.700 imprese che investono in tecnologie green. In terza, quarta e quinta posizione, con oltre 10.000 imprese eco-investitrici si collocano Napoli, Torino e Bari.

La Lombardia è prima anche per assunzioni programmate di green jobs e se ne contano in tutti 81.620, pari a poco più di un quarto del totale nazionale (25,7%), seguita a distanza dal Lazio, con 35.080 assunzioni (11% del totale nazionale), dall’Emilia Romagna con 32.960 di green jobs (10,4%), quindi da Veneto a quota 30.940 e Piemonte con 24.340. Troviamo quindi la Campania (17.680), la Toscana (16.470), la Puglia (14.300), la Sicilia (12.250) e la Liguria (9.300).
In questo caso, le prime province sono Milano, con 42.910 assunzioni, e Roma, con 29.480. In terza posizione c’è Torino, dove la domanda di green jobs è di 15.070 unità, quarta Napoli con 9.670 assunzioni, quinta Brescia con 9.110 assunzioni.

Vera MORETTI

Sgravi assunzione giovani validi anche se si cambia lavoro

Per chi avesse dei dubbi, ecco un importante chiarimento: se il lavoratore assunto utilizzando lo sgravio contributivo previsto dalla Legge di Bilancio 2018 per le assunzioni di giovani cambia lavoro, l’agevolazione viene riconosciuta al nuovo datore di lavoro, per il periodo residuo, indipendentemente dall’età anagrafica del lavoratore alla data dell’assunzione.

Nella Legge di Bilancio è previsto che solo per il 2018 le assunzioni agevolate riguardino giovani fino al compimento del 35esimo anno di età, mentre dal 2019 il beneficio si applicherà fino ai 29 anni. Si tratta di uno sconto del 50% sui contributi, per un periodo di 36 mesi (tre anni), fino a un importo massimo fra i 3mila e i 4mila euro).
Per poter beneficiare degli sgravi, l’assunzione deve essere a tempo indeterminato, ed è applicabile anche in caso di stabilizzazione dei contratti termine, ovviamente se il lavoratore ha ancora l’età anagrafica richiesta, e anche in caso di trasformazione di contratto di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.
In questo ultimo caso l’età del lavoratore al momento della prosecuzione non conta. Inoltre, il lavoratore deve essere disoccupato e non può essere già stato occupato con contratto a tempo indeterminato.

Esiste una clausola anti-licenziamento, per cui se il lavoratore assunto con i benefici, o un collega impiegato nella stessa unità produttiva, viene licenziato nei sei mesi successivi per giustificato motivo oggettivo, l’impresa perde il beneficio e deve pagare i contributi non versati.
Nel caso in cui il lavoratore licenziato venga assunto da un altro datore di lavoro, quest’ultimo può invece utilizzare l’esonero contributivo. L’agevolazione non può essere applicata se nei sei mesi precedenti l’impresa ha effettuato licenziamenti per giustificato motivo oggettivo oppure licenziamenti collettivi nella medesima unità produttiva.

L’esonero contributivo sale al 100% nei seguenti casi:

  • studenti che hanno svolto presso il medesimo datore di lavoro un periodo di alternanza scuola lavoro pari ad almeno il 30% delle ore;
  • lavoratori che hanno svolto periodi di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore, il certificato di specializzazione tecnica superiore o periodi di apprendistato in alta formazione.

Vera MORETTI

In Italia i lavoratori più anziani

Altro record negativo per l’Italia, che questa volta riguarda la popolazione lavorativa, la più anziana d’Europa con una media di 44 anni, contro la media Ue di 42.
Questo significa che negli ultimi 20 anni l’età media dei lavoratori italiani è salita di ben 5 anni, e si tratta sicuramente di un incremento considerevole, registrato finora da nessun altro Paese.

Ciò sta accadendo a causa del calo demografico, ovviamente, ma anche dell’allungamento dell’età media e di conseguenza di quella lavorativa, che porta negli uffici pochi giovani e fa rimanere moltissimi over 50.
Se, infatti, nel nostro paese l’incidenza dei giovani (15-29 anni) sul totale degli occupati è pari al 12%, in Spagna è al 13,2, in Francia al 18,6, in Germania al 19,5 e nel Regno Unito al 23,7%.
Inoltre, l’incidenza degli ultra 50enni sul totale degli occupati è, nel nostro Paese, del 34,1%, dato superato solo dalla Germania, che raggiunge il 35,9% e che in Spagna è del 28,8, in Francia del 30 e nel Regno Unito del 30,9%.

Paolo Zabeo ha detto in proposito: “Con pochi giovani e tante persone di una certa età ancora presenti nei luoghi di lavoro le nostre maestranze possono contare su una grande esperienza ed un’elevata professionalità, tuttavia stanno riemergendo una serie di problemi che credevamo aver definitivamente superato. In primo luogo, sono tornati a crescere, soprattutto nei mestieri più pesanti e pericolosi, gli incidenti e la diffusione delle malattie professionali. In secondo luogo, il numero di attività caratterizzato da mansioni di routine è molto superiore al dato medio europeo. Con l’avvento dei nuovi processi di automazione e di robotica industriale rischiamo una riduzione di un’ampia fetta di lavoratori di una certa età con un livello di scolarizzazione medio basso che, successivamente, sarà difficile reinserire nel mercato del lavoro”.

Questo trend è in atto da molti anni, e ora sta mostrando i segnali più rilevanti: Tra il 1996 e il 2016, sebbene lo stock complessivo dei lavoratori occupati in Italia sia aumentato, i giovani presenti negli uffici o in fabbrica sono diminuiti di quasi 1.860.000: in termini percentuali nella fascia di età 15-29 anni la variazione è stata pari al -40,5%, contro una media dei principali Paesi Ue del -9,3%. Sempre in questo arco temporale, tra gli over 50 gli occupati sono aumentati di oltre 3.600.000 unità, facendo incrementare questa coorte dell’89,8%. Un boom che, comunque, ha interessato tutti i principali paesi dell’Ue presi in esame in questa analisi, con punte che in Spagna hanno toccato il +103,8% e in Francia il +105,1%.

Renato MasonCgia, segretario della , ha aggiunto: “Se oggi la discussione tra gli addetti ai lavori si concentra quasi esclusivamente sulle conseguenze immediate che l’avvento della tecnologia e dell’automazione ha sull’occupazione tuttavia devono essere considerati anche i cambiamenti di medio e lungo periodo indotti dalla combinazione dell’innovazione con gli andamenti demografici, segnati da una speranza di vita più lunga e dal calo delle nascite”.

Analizzando la situazione dal punto di vista territoriale, la media degli occupati più alta si trova in Liguria (45,4), in Sardegna (45,3) e in Calabria (44,7). Al contrario, quelle più “giovani” sono il Veneto, la Lombardia (entrambe con 43,5) e il Trentino Alto Adige (43,2) e sono infatti le regioni che, insieme all’Emilia Romagna, registrano il maggior numero di giovani assunti con contratto di apprendistato.

Vera MORETTI

Made in Italy in continua crescita grazie a Brics ed Europa

Il Made in Italy gode di ottima salute, tanto che, ad agosto, l’export mostrava segno positivo dell’8,4%, di oltre quattro punti superiore al mese precedente.
Le performance positive riguardano sia i mercati extra Ue sia quelli intercontinentali, con i Bric’s che segnalano aumenti in doppia cifra in Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Austria e Paesi Bassi.
Bene anche Francia e Spagna, con crescite di poco inferiori a 10 punti, mentre la Germania rimane indietro, pur incrementando gli acquisti di merci italiane del 3,8%.
Per quanto riguarda i settori, quelli che registrano i migliori dati sono l’energia, ma anche i beni di consumo durevole e intermedi.

Male, invece, i settori delle auto, le cui vendite estere sono in contrazione del 13,8%, e pongono fine ad un lungo periodo positivo che, nel bilancio degli ultimi otto mesi, rimane comunque un guadagno di circa 16 punti.

Ma si tratta comunque di una goccia nel mare, poichè segni positivi appartengono a tutti gli altri settori, dalla farmaceutica alla chimica, fino all’elettronica e ai macchinari e i prodotti in metallo.

Non solo l’export sta marciando bene, ma anche le importazioni stanno crescendo, e precisamente dell’8,2%, grazie ad energia, beni intermedi, strumentali e prodotti di consumo durevole.

Vera MORETTI

Investimenti pubblici in picchiata

Gli investimenti pubblici hanno subito un vero e proprio crollo, e precisamente del 20%, tra il 2005 e il 2017. E, se si pensa che, dal 2009, la riduzione è stata del 35%, si tratta davvero di una situazione critica.
Passando dalle percentuali alle cifre, significa che in otto anni si sono persi 18,6 miliardi di investimenti.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia, ha dichiarato in proposito: “Gli investimenti pubblici sono una componente del Pil poco rilevante in termini assoluti, ma fondamentale per la creazione di ricchezza. Se non miglioriamo la qualità e la quantità delle nostre infrastrutture materiali, immateriali e dei servizi pubblici, questo Paese è destinato al declino. Senza investimenti non si creano posti di lavoro stabili e duraturi in grado di migliorare la produttività del sistema e, conseguentemente, di far crescere il livello delle retribuzioni medie. Ricordo, altresì, che il crollo avvenuto in questi ultimi anni è stato dovuto alla crisi, ma anche ai vincoli sull’indebitamento netto che ci sono stati imposti da Bruxelles che, comunque, possiamo superare, se, come prevedono i trattati europei, ricorriamo alla golden rule. Ovvero alla possibilità che gli investimenti pubblici in conto capitale siano scorporati dal computo del deficit ai fini del rispetto del patto di stabilità fra gli stati membri”.

Se tra il 2005 e il 2015 gli investimenti del Settore pubblico allargato in conto capitale sono diminuiti a livello nazionale del 23% (pari a -13,3 miliardi di euro), la ripartizione territoriale che ha registrato la contrazione più importante è stata il Nordest che ha subito un taglio pari a 5,3 miliardi di euro (-37,4%). Friuli Venezia Giulia (-51,1%), Piemonte (-44,9%) ed Emilia Romagna (-41,9%) sono state le regioni più colpite.
Ma anche il Nordovest e il Centro registrano percentuali negative, a differenza del Sud, dove c’è un aumento di 419 milioni di euro, pari a +2,7%.
Tra le regioni del Sud spicca il risultato positivo ottenuto dalla Puglia (+20,3%), dalla Basilicata (+24,3%), dalla Calabria (+38,1%) e dall’Abruzzo (+57%) che ha potuto beneficiare degli interventi pubblici riconducibili alla ricostruzione post terremoto.

Renato Mason, segretario della Cgia, ha voluto parlare anche degli investimenti privati: “Pur essendo uno strumento intelligente, il piano impresa 4.0 rimane tarato sulle esigenze delle medie e delle grandi aziende. Non è un caso, infatti, che fino a ora la stragrande maggioranza degli incentivi sia stata utilizzata da queste ultime. E’ necessario, inoltre, che nella rivoluzione digitale che dovremo affrontare nei prossimi anni non siano coinvolte solo le aziende, ma anche la Pubblica amministrazione, la scuola e le maestranze. Questa sfida si vince se, tutti assieme, saremo in grado di fare squadra, giocando questa partita con la consapevolezza che chi rimarrà indietro avrà poche possibilità di stare al passo con le principali potenze economiche del mondo”.

I settori maggiormente interessati sono stati la mobilità (-5,2 miliardi pari a -24,9%), la cultura e la ricerca (-4,1 miliardi pari a -47,6%), l’amministrazione generale (- miliardi di euro pari a -41,8%), le attività produttive e le opere pubbliche (-2,2 miliardi pari a -13,3%).
Al contrario, le reti infrastrutturali, in particolare grazie alla rete ferroviaria ad alta velocità, sono aumentate del 76,5%.

Vera MORETTI