Come vedere la visura camerale gratis?

La visura camerale è volta all’accertamento dell’effettiva iscrizione dell’impresa nell’omonimo Registro. Si tratta di un documento d’informazione che contiene i dettagli delle imprese iscritte, vedremo in seguito quali sono i dati.

La visura camerale può essere ordinaria o storica. Il primo tipo contiene le informazioni più importanti sull’azienda, il secondo tipo riguarda le modifiche effettuate a partire dalla costituzione dell’impresa fino alla data di richiesta della visura. E’ possibile anche richiedere visure camerali che riguardano specifici dettagli informativi sull’impresa per settori.

Chi può chiedere la visura camerale online gratis

La visura camerale online può essere richiesta gratuitamente dagli imprenditori, dai legali rappresentanti della società, dai soci. Per ottenerla, tali soggetti possono accedere al servizio online cassetto digitale dell’imprenditore che consente di consultare dei documenti al fine di monitorare lo stato delle pratiche presentate. La relativa visura camerale gratis, oltre ad essere visualizzata può anche essere stampata.

La piattaforma online può essere consultata dal portale web impresa.italia.it. Per l’accesso è necessario utilizzare lo SPID di II livello le credenziali della CNS, entrambi rilasciati gratuitamente dalle Camere di Commercio. Essa è messa disposizione da InfoCamere per il sistema delle Camere di Commercio volto a migliorare la digitalizzazione delle imprese e alla semplificazione del rapporto tra imprenditori e Pubblica Amministrazione.

Quali informazioni si possono consultare nel cassetto digitale?

Il cassetto digitale dell’imprenditore permette di consultare dati, informazioni e documenti aggiornati. Qui di seguito, vediamo quali sono i servizi fruibili dal legale rappresentante dell’impresa:

  • Consultazione dei documenti presenti nei Registri pubblici, visure camerali gratis online aggiornate e ultimi bilanci depositati;
  • fascicolo d’impresa contenente le informazioni generiche sulla stessa e sulla relativa attività (visura camerale gratis);
  • controllo delle pratiche presentate al Registro delle Imprese e al Comune, con la possibilità di scaricare le ricevute di protocollo;
  • controllo sullo stato dei pagamenti dei Diritti annuali dovuti alla Camera di Commercio, con la possibilità di effettuare la simulazione del calcolo di quanto deve essere pagato;
  • dati sintetici sulle attività di imprese che operano nel medesimo settore;
  • informazioni riguardanti le piccole e medie imprese innovative e le startup, al fine di agevolare i canali di contatto con le altre realtà che appartengono allo stesso settore.

Nel caso l’accesso al cassetto digitale venga effettuato da un utente diverso dal legale rappresentante dell’impresa, le informazioni a cui può accedere sono ridotte, quindi, sono disponibili solo i seguenti documenti:

  • Informazioni sintetiche sull’impresa e il Fascicolo (visura sintetica gratuita);
  • documenti e pratiche depositate al Registro delle imprese e ai SUAP;
  • informazioni su PMI e start-up innovative sul territorio italiano.

Visura camerale con specifiche informazioni: chi e cosa riguardano

Abbiamo detto che è possibile ottenere delle visure camerali anche per informazioni specifiche su qualcuno o su qualcosa:

  • Amministratori;
  • titolari di altre cariche o qualifiche;
  • sede e unità locali;
  • scioglimento, procedure concorsuali e cancellazione;
  • sindaci, membri organi di controllo;
  • informazioni da statuto, ultimo statuto depositato;
  • trasferimenti d’azienda, fusioni, scissioni, subentri;
  • attività, albi ruoli e licenze;
  • società o enti controllanti;
  • pratiche in istruttoria;
  • partecipazioni in altre società;
  • soci e titolari di diritti su quote e azioni;
  • informazioni patrimoniali.

A cosa serve la misura camerale

La visura camerale può essere utile soprattutto per:

  • le compravendite, cessioni o affitti d’azienda, finanziamenti ipotecari, rinegoziazione di mutui, cancellazione di ipoteche, questo ed altri atti redatti da un notaio;
  • la verifica dello stato di attività di un’azienda (cessata, attiva, inattiva, sospesa o procedure concorsuali)
  • l’identificazione dei componenti dell’organo amministrativo e dei legali rappresentati;
  • la verifica delle sedi e delle unità locali;
  • la conoscenza dei poteri degli amministratori, procure e deleghe, poteri di firma e di operatività dei responsabili aziendali;
  • la verifica dell’attività esercitata dall’impresa sulla base del codice ATECO utilizzato e l’eventuale possesso di determinate certificazioni: attestazioni SOA, operatori del biologico, accreditamenti ODC, rating di legalità, certificazioni di qualità, ambientali, energia, salute e sicurezza sul lavoro, sicurezza delle informazioni, servizi informatici, sicurezza alimentare;
  • l’acquisizione di informazioni relative a nuovi clienti, partner commerciali, fornitori, nuovo conduttore per un contratto di locazione commerciale e, più in generale, quando occorre valutare lo storico di un’impresa con cui si deve intrattenere o meno un rapporto commerciale.

Partita Iva comunitaria: cos’è e come attivarla

La partita IVA comunitaria consente a chi esercita un’attività d’impresa o di lavoro autonomo di intrattenere rapporti commerciali, quindi di fatturare, con gli altri Stati dell’Unione Europea. Questa tipologia di partita IVA è iscritta al VIES, che è una banca dati elettronica che contiene tutte le partite IVA autorizzate ad operare nell’ambito dell’UE.

Senza effettuare la suddetta iscrizione, la fatturazione derivante da vendite e acquisti fuori dall’Italia è considerata irregolare, di conseguenza è soggetta a sanzioni.

Come aprire una partita IVA comunitaria

Per procedere all’apertura di una partita IVA comunitaria si deve fare richiesta all’Agenzia delle Entrate o, in alternativa, utilizzare in via esclusivamente telematica la procedura Comunica.

Nel primo caso, vanno scaricati e compilati i moduli messi a disposizione dall’Agenzia. Il modello AA7 viene utilizzato da tutti i soggetti diversi dalle persone fisiche. Il modello AA9 viene usato dai lavoratori autonomi, ditte individuali e liberi professionisti.  Ciò che si deve fare è specificare che saranno effettuate anche operazioni con gli altri Paesi dell’Unione Europea.

La procedura prevede l’obbligo di scegliere il Codice ATECO che identifica il settore in cui l’attività viene svolta e la scelta del regime fiscale IVA. Al termine dell’iter per l’iscrizione della partita IVA comunitaria, se la compilazione è stata effettuata correttamente, avviene l’iscrizione al VIES. L’autorizzazione può avvenire contestualmente all’inizio dell’attività o in un momento successivo. In ogni caso si può procedere online.

Se il soggetto è già titolare di una partita IVA italiana, deve fare richiesta di sola iscrizione al VIES tramite il portale dell’Agenzia delle Entrate o incaricare un intermediario.

La cancellazione al VIES si può effettuare in qualsiasi momento, con le stessa modalità utilizzata per l’iscrizione.

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Attivare una partita IVA europea: i requisiti

Possono procedere all’attivazione di una partita IVA comunitaria tutte le persone fisiche e tutte le società che vogliono intraprendere rapporti commerciali anche con gli altri Stati dell’Unione Europea. E’ necessario avere la residenza o una stabile organizzazione nel territorio italiano. Ossia, svolgere l’attività in modo abituale e continuativo in Italia.

Tuttavia, possono richiedere la partita IVA comunitaria, anche i soggetti non residenti in Italia, ma a precise condizioni:

  • Devono identificarsi attraverso la nomina di un rappresentante fiscale che per effettuare transazioni rilevanti ai fini IVA deve assolvere agli obblighi fiscali per loro conto. E’ il caso delle imprese estere che vogliono operare anche nel territorio italiano senza un’organizzazione stabile. Il rappresentante fiscale è co-responsabile per gli obblighi relativi al pagamento dell’IVA.
  • Sono tenuti alla presentazione di una richiesta di identificazione ai fini IVA utilizzando il modello ANR. E’ il caso delle aziende estere che fanno commercio elettronico in Italia.

Adempimenti fiscali per la partita IVA comunitaria

Le imprese o i lavoratori autonomi che operano con i Paesi esteri hanno l’obbligo di presentare il modello Intrastat all’Agenzia delle Dogane. Codesto, deve comprendere l’elenco degli acquisti e quello delle vendite effettuate negli altri Stati.

Il periodo di riferimento di tali transazioni è mensile, se le operazioni effettuate nei quattro trimestri precedenti o nel corso del trimestre superano il limite di 50.000 euro. E’ invece trimestrale, se l’importo totale delle operazioni è inferiore a 50.000 euro.

Qualora venissero meno all’obbligo richiesto per quattro trimestri consecutivi a seguito di un controllo effettuato dall’Agenzia delle Entrate, tali soggetti verrebbero esclusi dal VIES. L’esclusione effettiva avviene dal 60° giorno successivo all’informativa effettuata nei confronti dei contribuenti.

Verifica della partita IVA comunitaria

Per accertare la validità di una partita IVA va effettuato un controllo tramite il servizio dell’Agenzia delle Entrate che permette di interpellare online l’anagrafe tributaria. Altresì, è possibile verificare se una partita IVA è autorizzata a operare nell’UE, attraverso la consultazione dell’archivio VIES della Commissione Europea.

Nel caso si abbia intenzione di verificare la validità di una partita IVA senza conoscerne il numero, basta indicare il nome della società o della ditta individuale di interesse utilizzando la visura sul registro delle imprese. Scoprire il numero di partita IVA intestato a persone fisiche, quindi, lavoratori autonomi e professionisti non è possibile.

Partita IVA comunitaria non iscritta al VIES

I titolari di partita IVA europea non iscritti al VIES possono continuare la loro attività, in quanto si configura una violazione di forma e non di sostanza, salvo che per comportamenti fraudolenti. Ad ogni modo, la violazione è punita con una multa di 250 euro.

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Modello RLI: istruzioni per compilarlo e quando serve

ll Modello Rli è un modulo utilizzato principalmente per la registrazioni di contratti di locazioni. Ecco come si compila ed in quali altri casi usarlo.

Modello Rli: la registrazione dei contratti di locazione

Il modello Rli denominato Registrazione Locazioni Immobili (RLI) serve per richiedere all’Agenzia delle entrate la registrazione dei contratti di locazione ed affitti di immobili. Ma il modulo serve anche per comunicarne eventuali proroghe, risoluzioni, cessioni o subentri. Inoltre è possibile utilizzarlo anche per l’applicazione o il recesso dal regime di tassazione agevolato della cedolare secca. Ed infine per comunicare i dati catastali degli immobili oggetto di contratto. Può essere presentato sia telematicamente che presso gli uffici dell’agenzia delle entrate.

Modello Rli: il Quadro A

Il modello Rli è diviso in quadri. Il quadro A sono indicati i dati generali. La tipologia di contratto: ad uso locativo, locazione agevolata, affitto ad uso diverso dall’abitativo, affitto di fondo rustico, solo per citarne alcuni. A titolo di esempio nella categoria L1 rientrano le seguenti tipologie di contratti di locazione di immobile ad uso abitativo:

• a canone libero, durata 4 anni più 4 (stipulati ai sensi dell’art. 2, c. 1 della legge 431/98);
• a canone concordato, durata 3 anni più 2 (stipulati ai sensi dell’art. 2, c. 3 della legge 431/98);
• di natura transitoria, durata massima 18 mesi (stipulati ai sensi dell’art. 5, c. 1 della legge 431/98);
• di natura transitoria per studenti universitari (stipulati ai sensi dell’art. 5, cc. 2 e 3 della legge 431/98);
• di durata non superiore a 30 giorni, soggetti a registrazione in caso d’uso (tariffa parte II, art. 2 bis, del DPR 131/86).

Sempre in questo quadro va indicata la data di inizio e di fine del contratto e l’importo del canone annuale. Nel contratti di locazione può anche essere richiesta la figura del garante. Il garante è colui che adempie a tutte le condizioni contrattuali, qualora non lo faccia l’intestatario o conduttore. Il codice fiscale del o dei garanti va inserito anche, insieme all’importo a garanzia. Di solito questo valore con quello dell’importo del canone annuale coincidono.

Le sezioni del quadro A

Nella sezione I, del quadro A del modello Rli vi son i dati specifici riferenti alla registrazione o rinegoziazione del canone di locazione. Occorre indicare l’Ufficio territoriale di competenza, la data di stipula del contratto, le pagine, il numero di copie e se vi è la presenza di soggetto IVA.  Nella Sezione II l’attenzione è posta sugli adempimenti successivi. Per comunicare lo specifico adempimento che si intende effettuare è possibile utilizzare i seguenti codici:
• 1: annualità successiva;
• 2: proroga;
• 3: cessione;
• 4: risoluzione;
• 5: conguaglio d’imposta (il presente codice può essere utilizzato solo per chi si avvale della procedura telematica);
• 6: subentro;
• 7: risoluzione con pagamento contestuale del corrispettivo;
• 8: rinegoziazione del canone.

Vanno riportati gli elementi identificativi del contratto su cui apportare gli adempimenti successivi. Inoltre la sezione III è dedicata al Richiedente (Nome, cognome e codice fiscale), il legale rappresentante e l’eventuale delega. La parte finale è riservata alla presentazione telematica del modulo.

Modello Rli: il quadro B

Il quadro B contiene i dati del locatore. In un contratto di locazione possono essere presenti anche più soggetti. Ebbene vanno inseriti tutti mantenendo un semplice ordine progressivo. Se il numero di locatori è superiore alle righe previste nel modulo, basta utilizzare più moduli, avendo cura di far proseguire la numerazione in maniera progressiva. Per ogni soggetto deve essere indicato il Codice Fiscale, il nome, cognome, luogo e data di nascita. Tuttavia, chi è nato all’estero deve indicare, al posto del comune, lo stato di nascita riportando nello spazio relativo alla provincia, la sigla EE.

Il quadro C: i dati relativi agli immobili

Il quadro C è dedicato ai dati relativi degli immobili. Si tratta dei dati che possono essere estrapolati dalla Visura catastale: foglio, particella, subalteno, categoria e rendita. Se nel contratto sono incluse pertinenze, come ad esempio un garage, vanno espressamente indicati anche i dati di quest’ultimo. Ed ancora da inserire il Codice del Comune in cui si trova, se si tratta di un immobile intero o di una porzione e l’indirizzo completo di numero civico.

Il quadro D: il regime di tassazione

Questo riquadro va compilato in caso di registrazione di contratti di locazione a uso abitativo, nonché in sede di adempimento successivo qualora sia stata compilata la casella “Cedolare Secca”. A questo punto indicare il numero d’ordine dell’immobile, il locatore e la quota di possesso che si detiene. Per ogni immobile è da compilare un numero di righi pari al numero dei proprietari dell’immobile che figurano come locatari. Tuttavia l’opzione per la cedolare secca può essere esercitata dal locatore, persona fisica, proprietario o titolare di diritto reale di godimento di unità immobiliari abitative, che non agisce nell’esercizio di attività d’impresa  di arti e professioni. L’opzione può essere esercitata, non solo in sede di registrazione, ma anche in caso di proroga o rinnovo di annualità successive. Tuttavia rimane al locatore la possibilità di revoca l’opzione, dandone comunicazione per iscritto al conduttore.

Il quadro E: la locazione con canoni annuali differenti

Il modello Rli si conclude con il quadro E che si compila se nel contratto di locazione è previsto, per una o più annualità, valori di canone differenti. Così facendo occorre per ogni annualità indicare l’importo che il conduttore deve versare al locatore. Una volta compilato in tutte le sue parti il modello Rli va firmato e presentato agli uffici dell’agenzia delle entrate, oppure telematicamente. Per ogni dubbio nella compilazione è sempre opportuno leggere con attenzione le istruzioni disposte. Sono molto semplici da seguire, ma in ogni caso ci sono sempre i professionisti del settore commercialisti, agenti immobiliari, caf, pronti a dare una mano.

Precompilata IVA al via dal 1 luglio 2021 in via sperimentale: cosa cambia per i contribuenti?

Dal prossimo 1 luglio 2021 andrà in partenza la precompilata IVA, in una forma sperimentale, ma molti si chiedono cosa andrà a cambiare per i contribuenti. Scopriamolo assieme, in questa rapida guida sulla questione.

Precompilata IVA, di cosa si tratta

Quando si parla di precompilata, si fa riferimento ad una dichiarazione che è appunto precompilata dall’Agenzia delle entrate, in cui vengono inseriti i dati su redditi, ritenute, versamenti e spese detraibili o deducibili, le quali interessano i contribuenti.

Ma come si potrà accedere alla precompilata IVA?

Presto detto, per chi dovrà precompilare il proprio reddito da partita IVA, dovrà farlo attraverso il sito dell’Agenzia delle entrate. I documenti precompilati saranno resi disponibili, infatti, nell’Area Riservata del sito dell’Agenzia delle Entrate. Il soggetto IVA passivo vi potrà accedere inserendo il proprio Spid, le credenziali personali, la Carta d’identità elettronica o la Carta nazionale dei servizi.

Dunque, le Partite IVA interessate (artigiani, commercianti, coloro che applicano il regime IVA ordinario e coloro che hanno optato per la liquidazione trimestrale dell’IVA, ovvero i soggetti di ridotte dimensioni) in via sperimentale potranno accettare senza modifiche oppure integrare. In questo modo, a regime, si verrà esentati dagli adempimenti manuali.

Precompilata IVA, scadenze

Ma quali sono le date per prepararsi a fare la precompilata e cosa bisogna rispettare, andiamo a vederlo nei prossimi passaggi.

Dunque, dal prossimo 1 luglio 2021, dunque, i contribuenti troveranno i documenti nell’area riservata del sito web dell’Agenzia delle Entrate, precompilati mediante fatture elettroniche, comunicazioni delle operazioni transfrontaliere e trasmissioni telematiche dei dati dei corrispettivi. Le Partite IVA coinvolte avranno a che fare con i seguenti fattori:

  • bozze di registri fatture emesse e di acquisti effettuati,
  • comunicazioni delle liquidazioni periodiche,
  • da gennaio 2022 anche la dichiarazione annuale IVA.

Novità e cambiamenti, quali saranno?

La domanda che più batte i pensieri dei contribuenti è se ci saranno novità e cambiamenti in merito al sistema di precompilazione. Andiamo a scoprire le dovute risposte.

In buona sostanza, l’Agenzia delle Entrate, utilizzando i dati provenienti dalle fatture elettroniche che transitano dal Sistema di Interscambio (SdI), dalle operazioni transfrontaliere e dai corrispettivi telematici, metterà a disposizione sul proprio portale web, le bozze dei registri IVA e le bozze delle comunicazioni delle liquidazioni periodiche IVA (le cosiddette LIPE).

Quindi, coloro che sono soggetti titolari di partita IVA o i loro intermediari delegati ai servizi di fatturazione elettronica avranno accesso alle bozze dei registri IVA mensili e, qualora ritenute complete, potranno convalidare i registri che verranno memorizzati e acquisiti dall’Agenzia delle Entrate.

Se ritenute incomplete, invece, il contribuente (o comunque il suo consulente) dovrà annotare e integrare negli stessi le operazioni mancanti effettuate nel periodo, utilizzando sempre il portale web dell’Agenzia delle Entrate.

Per quanto concerne la comunicazione delle liquidazioni periodiche IVA (LIPE), invece i contribuenti troveranno, nella propria area riservata del sito dell’Agenzia delle Entrate, le precompilate delle liquidazioni periodiche IVA.

Chi sarà soggetto alla precompilata IVA?

In ultimo, ma non ultimo, andiamo a vedere chi saranno quei possessori di partita IVA che si vedranno soggetti a passare al metodo della precompilazione.

I soggetti coinvolti al regime di semplificazione Iva, sono individuati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, identificabili come imprese di minori dimensioni.

Sostanzialmente, la precompilata andrà a interessare le imprese di piccole dimensioni, come nel caso dei commercianti, gli artigiani, gli imprenditori individuali e professionisti (che nel nostro paese rappresentano la maggioranza dei contribuenti). Il sistema nuovo non andrà a riguardare, invece, le grandi società in quanto più strutturate e caratterizzate da una contabilità più complessa.

Dunque, questo è quanto vi fosse di più necessario ed essenziale da conoscere, in merito alla sperimentazione della precompilata IVA che partirà dal 1 luglio 2021.

Dimissioni volontarie e NASpI in maternità: come funziona?

Dimissioni volontarie e NASpI sono due istituti generalmente incompatibili, cioè il lavoratore che si licenzia volontariamente non ha diritto a percepire l’indennità di disoccupazione, vi sono però alcune eccezioni e in particolare le dimissioni volontarie in maternità.

Cos’è la NASpI

La NASpI è l’indennità di disoccupazione che spetta a coloro che senza loro volontà hanno perso il lavoro. La sigla indica Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’​Impiego  e viene riconosciuta ai lavoratori dipendenti, apprendisti e soci di cooperativa. Restano esclusi dal diritto di percepire la NASpI i dipendenti pubblici con contratto a tempo indeterminato e i lavoratori agricoli. Per poter accedere a questo diritto è necessario che il lavoratore abbia maturato 13 settimane contributive nei 4 anni antecedenti e almeno 30 giorni di lavoro effettivo nei 12 mesi antecedenti rispetto alla data di risoluzione del contratto.

Per poter accedere all’indennità è necessario anche aver dichiarato al Centro per l’Impiego competente per territorio la propria disponibilità immediata all’assunzione e la disponibilità a partecipare a misure di politiche attive per il lavoro, ad esempio partecipare a corsi di formazione gratuiti il cui obiettivo è favorire il ricollocamento nel mondo del lavoro.

Dimissioni volontarie: quando si percepisce la NASpI

Si è detto che la normativa riconosce la tutela della NASpI solo a coloro che hanno perso involontariamente il lavoro, questa limitazione è dovuta al tentativo del legislatore di evitare che le persone possano decidere di dimettersi con lo scopo di percepire l’indennità di disoccupazione senza lavorare. Vi sono però delle eccezioni che portano al riconoscimento anche in caso di dimissioni volontarie. Tra queste vi sono il caso di dimissioni per giusta causa e le dimissioni avvenute in sede conciliativa, inoltre non sono incompatibili le dimissioni volontarie e NASpI in maternità.

Dimissioni volontarie e NASpI in maternità

La prima cosa da dire è che le dimissioni volontarie della lavoratrice in maternità (periodo compreso tra i 300 giorni precedenti alla data presunta del parto e il compimento di un ano di vita del bambino) non devono essere date con la procedura ordinaria, cioè comunicazione scritta al datore di lavoro e conferma con modulo telematico sul sito ClicLavoro, ma hanno una loro procedura peculiare. Le donne in stato interessante e fino ad un anno di vita del bambino possono dimettersi senza dare preavviso e le dimissioni devono essere convalidate dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

La lavoratrice deve presentarsi personalmente presso la Direzione Provinciale del Lavoro con i propri documenti di riconoscimento, copia del contratto di lavoro e tessera sanitaria, qui deve confermare la volontà di dare le dimissioni, ma soprattutto deve confermare che si tratta di una libera scelta e non di dimissioni indotte dal datore di lavoro. Deve di conseguenza specificare perché ha deciso di lasciare il lavoro, tra i motivi che si ritiene possano essere sufficienti ad ottenere al convalida vi è il desiderio di ricongiungersi con il coniuge/compagno o con la propria famiglia di origine.  Se tutto è in ordine si procede alla convalida delle dimissioni.

La donna riceve due copie della convalida delle dimissioni: una deve conservarla, mentre l’altra deve essere consegnata al datore di lavoro. In questo caso i requisiti per accedere alla NASpI sono gli stessi visti in precedenza.

Occorre sottolineare che le dimissioni volontarie in maternità durante l’emergenza Covid hanno avuto un cambio di procedura, infatti in questo periodo è stato possibile procedere alla conferma telematica.

A quanto corrisponde l’importo della NASpI 2021?

Il calcolo della NASpI deve essere fatto tenendo in considerazione la storia contributiva del lavoratore. L’importo massimo della NASpI 2021 è di 1.335,40 euro, questo va rivalutato annualmente, mentre la durata massima di percezione è di 24 mesi. Il calcolo dell’assegno è basato sul 75% dell’imponibile medio degli ultimi 4 anni.

Detrazioni lavoro autonomo occasionale e dichiarazione dei redditi

Quando si parla di detrazioni fiscali su redditi di lavoro, è lapalissiano che ciò sia correlato alla dichiarazione dei redditi.

Dico questo, perché nel caso di prestazioni effettuate di lavoro autonomo occasionale con corrispettivo economico ricevuto dal committente, non sempre si deve fare la dichiarazione dei redditi.

Prima di addentrarci nel capitolo detrazioni è bene capire cos’è il lavoro autonomo occasionale, sulla cui identificazione, spesso regna un po’ di confusione.

Lavoro autonomo occasionale: la giusta interpretazione

Per prima cosa, non esiste un limite di reddito, superato il quale le prestazioni lavorative debbano essere effettuate con partita IVA. Ciò che conta, è l’esercizio abituale e ripetuto di un’attività che determina l’obbligo di operare con partita IVA. Ossia, quando viene svolta più volte durante l’anno. In tal caso, le prestazioni non rientrano nel lavoro autonomo occasionale.

Inoltre, occorre precisare che il lavoro occasionale riguarda l’attività intellettuale in via prevalente, rispetto al capitale e ai mezzi impiegati per svolgerla, ed è caratterizzata da un’attività professionale esercitata in modo sporadico, per cui non è necessario operare con una partita IVA.

Lavoro autonomo occasionale e dichiarazione dei redditi

I compensi ricevuti in cambio di prestazioni occasionali rientrano nei “Redditi diversi”. Quindi, ricorre l’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi?

Premettendo che la dichiarazione dei redditi viene effettuata tramite il modello 730 in caso di presenza di un sostituto d’imposta e qualora si avesse bisogno di chiedere un rimborso, mentre, si utilizza il modello Redditi PF in assenza di sostituto d’imposta e se non si ha da chiedere alcun rimborso, esistono dei casi che prevedono l’obbligatorietà di presentare la dichiarazione dei redditi per prestazione occasionali effettuate.

La dichiarazione dei redditi è obbligatoria se i compensi derivanti da lavoro autonomo occasionale, superano i 4.800 euro lordi annui, ma questo limite viene preso in considerazione solo se non si conseguono altri redditi nel corso dell’anno.

La detrazione d’imposta

L’art. 13 DPR n. 917 del 1986 prevede una particolare detrazione d’imposta per i redditi da lavoro autonomo occasionale che diminuisce all’aumentare del reddito (fino a 4.800 euro). Essa non è cumulabile con altre detrazioni e non deve essere rapportata al periodo di lavoro.

La detrazione d’imposta massima è pari a 1.104 euro fino a 4.800 euro di compensi lordi annui, comprendo l’ammontare dell’IRPEF dovuto per la prestazione occasionale. Per questo motivo, vige l’esonero dalla presentazione della dichiarazione dei redditi, a condizione che non vengano conseguiti altri redditi derivanti da lavoro dipendente, redditi di capitale, altri redditi diversi (es. diritto d’autore) o assegni dal coniuge a seguito di una legale separazione.

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La ritenuta d’acconto

Se la prestazione da lavoro autonomo occasionale viene effettuata per un sostituto d’imposta, si applica la ritenuta d’acconto nella ricevuta di pagamento.

Il Sostituto d’imposta può essere rappresentato da un professionista o da un imprenditore individuale, da società di persone o di capitali, da associazioni ed enti associativi muniti di codice fiscale.

Tali soggetti trattengono una somma dal compenso lordo che viene poi versata per conto del prestatore occasionale all’Erario. Si tratta di un acconto IRPEF che nella maggior parte dei casi è pari al 20% del reddito imponibile.

La ritenuta d’acconto si può recuperare tramite la presentazione della dichiarazione dei redditi, trasformandosi in credito d’imposta. Questi, può essere usato in compensazione con il modello F24 per il pagamento di altre imposte. Oppure, sotto forma di rimborso. Nel primo caso la fruizione è immediata, nel secondo caso l’attesa è di circa un anno.

Nella dichiarazione dei redditi deve essere indicato il reddito conseguito ma anche la ritenuta d’acconto subita che concorre alla determinazione dell’imposta IRPEF che consente l’emersione del credito d’imposta.

Spese detraibili con il lavoro autonomo occasionale

Nella dichiarazione dei redditi effettuata per lavoro autonomo occasionale che, ricordiamo avviene tramite il modello 730 o il modello Redditi PF a seconda della presenza o meno del Sostituto d’imposta, possono essere indicate le spese sostenute per la produzione del reddito. Ad esempio, i costi per il carburante, i ristoranti, i treni.

Se le spese sono tante e relativamente alte, scatta quasi sempre un controllo dall’Agenzia delle Entrate, in quanto, viene il sospetto che si stia esercitando un’attività in modo abituale e non sporadico, quest’ultima, peculiarità della prestazione occasionale.

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Detrazioni carichi familiari: lavoro autonomo e dipendente a confronto

Ogni anno, prima di trasmettere al Fisco la dichiarazione dei redditi, il contribuente ha la possibilità di fruire di benefici fiscali, attraverso il meccanismo della detrazione di imposta, se ci sono familiari a carico. In particolare, se il reddito del familiare nell’anno non ha superato la soglia dei 2.840,51 euro, allora questo sarà considerato fiscalmente a carico. E lo sono pure tutti i figli che, aventi un’età non superiore ai 24 anni, non superano il limite di reddito dei 4.000 euro. Ma detto questo, sempre in materia di detrazioni carichi familiari, quali sono le differenze nella fruizione tra il lavoratore autonomo ed il lavoratore dipendente?

Lavoro autonomo e dipendente a confronto sulle detrazioni fiscali per familiari a carico

Al riguardo la prima cosa da dire è che la prima differenza tra il lavoratore dipendente e quello autonomo, per quel che riguarda le detrazioni sui carichi di famiglia, sta nel modello dichiarativo da andare ad utilizzare. Se per le detrazioni carichi familiari, infatti, il lavoratore autonomo utilizza il modello 730, il lavoratore autonomo, invece, deve indicare il codice fiscale dei familiari a carico andando a compilare il modello Redditi.

Inoltre, se in genere il lavoratore dipendente non ha difficoltà a sfruttare a pieno le detrazioni per i familiari a carico, lo stesso non vale spesso per il lavoratore autonomo nel caso in cui questo dichiari al Fisco un reddito basso. In tal caso, infatti, potrebbe non avere capienza fiscale sufficiente per fruire totalmente, per esempio, delle detrazioni fiscale per il coniuge e per il figlio a carico.

Proprio per i figli a carico, nel rigo corrispondente del modello dichiarativo, bisogna inoltre indicare ‘100’ se la detrazione per il figlio fiscalmente a carico è richiesta per intero. Bisogna indicare ‘50’ se la detrazione è ripartita tra i genitori, mentre bisogna riportare ‘0’ se la detrazione, invece, è richiesta per intero dall’altro genitore.

Come funzionano le detrazioni fiscali per i familiari a carico per gli autonomi ed i lavoratori dipendenti dipendenti

Per il resto, il meccanismo per le detrazioni fiscali per i familiari a carico per lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti è lo stesso a partire dalle soglie sopra indicate affinché, in base al reddito personale, un familiare sia o meno fiscalmente a carico.

Inoltre, tanto per gli autonomi quanto per i lavoratori dipendenti, l’ammontare delle detrazione fiscale per ogni familiare a carico parte da una base, che è rappresentata dal valore massimo fruibile per pagare meno tasse, o per maturare un credito di imposta, per poi decrescere fino ad azzerarsi all’aumentare del reddito che sarà dichiarato al Fisco.

Non a caso, nelle istruzioni che sono allegate ai modelli dichiarativi, è proprio l’Agenzia delle Entrate a far presente che, a seconda di quella che è la situazione reddituale del contribuente, le detrazioni fiscali per i carichi di famiglia possono spettare per intero, possono spettare solo in parte, oppure non possono spettare. Per esempio, in base alla normativa fiscale vigente, la detrazione fiscale per il coniuge a carico, che parte da una base massima di 800 euro, si azzera per i redditi dichiarati oltre la soglia di 80.000 euro.

Reato penale di evasione fiscale: quando si verifica?

Il reato penale di evasione fiscale è una particolare fattispecie che si verifica quando vi sono situazioni di particolare gravità che portano un grave danno all’erario. Naturalmente questa valutazione sulla gravità viene fatta a priori attraverso l’indicazione di soglie. In seguito una guida sul reato penale di evasione fiscale.

L’evasione fiscale: quando diventa reato penale

Il contrasto all’evasione fiscale è sempre stato uno degli obiettivi del Paese, ma di fatto non è semplice rincorrere i contribuenti e neanche i provvedimenti come il Saldo E Stralcio sono riusciti a migliorare la situazione. Naturalmente questo fenomeno può avere diverse portate, infatti spesso si tratta di piccole somme che l’erario tenta di recuperare in diversi modi, ma di fatto si tratta di eventi che per la loro tenuità non sono considerati reati. Quando, invece, il debito con l’erario, a causa di condotte volte ad occultare parte dell’imponibile, ha una rilevanza elevata, si è di fronte a un vero e proprio reato penale che come tale prevede anche la possibilità di applicare la sanzione detentiva.

Le soglie che tracciano la linea di demarcazione tra l’illecito amministrativo e il reato penale sono diverse, le stesse sono indicate nel decreto legislativo 74 del 2000Reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto” come modificato dalla legge di Bilancio 2020.

La prima cosa da dire è che esistono due tipologie di evasione:

  • quella di chi non effettua le dichiarazioni, oppure effettua dichiarazioni mendaci occultando parte dell’attivo oppure dichiarando spese superiori a quelle realmente sostenute con l’obiettivo di ridurre la base imponibile. In questo caso l’evasione diventa reato al raggiungimento delle soglie previste dalla legge;
  • quella di chi esegue le corrette dichiarazioni, ma poi non versa le somme dovute o le versa solo in parte. In questo caso siamo di fronte a reato solo in caso di omesso versamento dell’IVA e delle ritenute e al superamento delle soglie, mentre se il mancato versamento riguarda IRES, IRAP e IRPEF  il fatto non ha rilevanza penale.

Reato penale di evasione fiscale: quando si può contestare

Gli illeciti penali che possono essere contestati sono diversi:

Dichiarazione infedele

La dichiarazione infedele è contemplata nell’articolo 4 del decreto legislativo 74 del 2000 e prevede che commette il reato chiunque nelle dichiarazioni indica elementi passivi fittizi o elementi attivi per un ammontare inferiore a quello reale . La soglia per la configurazione del reato penale è un’evasione reale superiore a 50.000 euro, quando l’ammontare complessivo dell’attivo occultato è superiore al 10% rispetto a quanto effettivamente dichiarato o è superiore a 3 milioni di euro ( in passato la soglia era di 2 milioni di euro). Affinché si configuri il reato queste due condizioni devono essere entrambe presenti e la pena prevista è la detenzione da 2 a 4 anni e 6 mesi.

Dichiarazione fraudolenta

E’ prevista dall’articolo 2 del decreto 74/2000 e consiste nella falsificazione dei documenti attraverso la dichiarazione di spese non effettivamente sostenute o l’occultamento di parte dell’attivo alterando le scritture contabili. Naturalmente in tali operazioni vi deve essere un intento fraudolento e si tratta di una fattispecie di gravità superiore rispetto alla precedente.

In questo caso le soglie stabilite affinché si possa parlare di reato penale sono diverse, in particolare si ha reato penale se l’imposta evasa superi la soglia di 30.000 euro, oppure nel caso in cui il discostamento tra quanto dichiarato e l’attivo superi il 5%, quando le voci sottratte sono superiori a 1,5 milioni di euro; quando i crediti e le ritenute fittizie superano il 5% dell’attivo o superino i 30.000 euro. Per questa tipologia di reato è prevista la pena della reclusione da 4 a 8 anni. Ridotta da 1 anno a sei anni nel caso in cui l’ammontare dell’evasione sia inferiore a 100.000 euro.

Omessa dichiarazione

L’omessa dichiarazione è contemplata nell’articolo 5 del decreto si ha quando il contribuente entro i termini di scadenza previsti non ottemperi all’obbligo di effettuare la dichiarazione; è prevista una tolleranza di 90 giorni dal termine della scadenza. In questo caso la soglia del reato penale è di 50.000 euro di evasione e la sanzione è la reclusione da un minimo di 2 anni a un massimo di 5 anni.

Omesso versamento dell’IVA o delle ritenute

In questo caso la soglia oltre la quale si configura il reato penale è di 150.000 euro per ciascun periodo di imposta e la reclusione è da 6 mesi a 2 anni.

Emissione di false fatture

Il reato consiste nell’emettere fatture false al fine di ridurre la base imponibile e di conseguenza anche gli importi dovuti all’erario. In questo caso il reato è considerato di grave entità proprio per questo non sono previste soglie, basta anche una sola fattura relativa ad operazioni non compiute effettivamente per far scattare l’illecito penale. La sanzione prevista è la reclusione da 4 anni a 8 anni (art 8 d.lgs 74/2000).

Occultamento e distruzione di documenti

Anche nel caso di occultamento e distruzione di documenti che il contribuente ha l’obbligo di conservare  al fine di consentire la ricostruzione del volume di affari o del reddito, non si applica alcuna soglia. Di conseguenza basta la distruzione anche di uno dei libri contabili per avere la configurazione del reato penale punibile con la reclusione da 6 mesi a 5 anni.

Reato penale di evasione fiscale: note finali

Tra le note finali occorre ricordare che i reati penali sono di tipo personale, quindi la pena deve essere inflitta alla persona fisica, ciò implica che nel caso di società o altri enti collettivi la sanzione viene applicata alla persona fisica che ha la rappresentanza legale dell’ente stesso o alla persona a cui è imputabile il reato.

Fin qui abbiamo visto in generale quando l’evasione fiscale si tramuta in un reato penale. Ora vedremo che vi sono comunque delle esimenti. Anche in questo caso infatti è esclusa la punibilità del fatto in alcuni casi. In particolare la Corte di Cassazione ha escluso la reclusione nel caso in cui il discostamento dalle soglie viste sia di lieve entità. Naturalmente nei confronti del fisco è necessario comunque sanare la propria posizione.

Non solo, vi sono dei fatti che portano alla non punibilità del fatto, si tratta in linea generale di fatti che fanno propondere per l’assenza di intento fraudolento da parte del contribuente. In particolare non è punibile il reato di evasione fiscale quando il mancato pagamento è addebitabile a terzi che secondo l’ordinaria diligenza potevano essere ritenuti affidabili da parte del contribuente. Il reato non è punibile quando dovuto a forza maggiore; obiettiva incertezza riguardo alle disposizione inerenti un determinato tributo; ignoranza della legge tributaria non addebitabile al contribuente.

L’articolo 6 del decreto 74 stabilisce anche che non è punibile il tentativo di reato.

Infine, anche l’evasione fiscale, come altri reati penali, è sottoposto a prescrizione. I termini della stessa dipendono dal singolo reato.

Come si sospende una Partita Iva ordinaria o forfettaria?

Se sei titolare di una partita IVA e hai intenzione di sospenderla, sappi che non ti è consentito farlo. Ciò che puoi fare, invece, è decidere se mantenere il regime fiscale cui hai aderito o interromperlo.

Ad esempio, può accadere di voler accettare una proposta che prevede l’assunzione con un contratto da lavoro dipendente a tempo indeterminato o determinato, oppure se vuoi o devi sospendere la tua attività per un lungo periodo a prescindere dalle motivazioni.

Nei casi suddetti è lecito pensare di sospendere la partita IVA, soprattutto se sei un professionista con Cassa, quindi, obbligato al pagamento dei contributi previdenziali minimi. Analizziamo nel dettaglio quali sono le tue opzioni.

Sospensione partita IVA, cosa fare

Come appena accennato, che si tratti di una partita IVA aderente al regime ordinario piuttosto a quello forfettario, sospenderla non è possibile. A questo punto, tu, lavoratore autonomo puoi scegliere se mantenere attivo il regime fiscale attuale o se interromperlo.

Qualora decidessi di interrompere il regime fiscale ordinario o forfettario di una partita IVA, non avresti degli oneri da sostenere, ma solo una procedura burocratica da seguire.

E’ da considerare anche l’idea di chiudere la partita IVA, per poi aprirne una nuova che ovviamente avrà un numero differente alla precedente.

Tuttavia, esiste un caso particolare in cui è permesso sospendere la partita IVA. Si tratta della ditta individuale che affitta l’unica azienda.

Ad ogni modo, anche senza aver conseguito alcun fatturato nel corso dell’anno d’imposta, da titolare di partita IVA devi presentare la dichiarazione dei redditi e gli adempimenti amministrativi previsti, i quali sono più onerosi se hai aderito al regime ordinario.

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Affitto d’azienda: aspetti fiscali

A proposito dell’unico caso che prevede la sospensione della partita IVA, è bene precisare di cosa si tratta dal punto vista fiscale.

Il contratto di fitto d’azienda è assoggettato all’IVA ordinaria, pari al 22%. Tuttavia, nel caso in cui un imprenditore individuale cede l’unica azienda di cui è in possesso, tale operazione non è soggetta ad IVA. Il motivo è che la cessione dell’unica azienda non ha più una posizione IVA aperta.

C’è da tenere presente che i canoni di locazione ricevuti per l’azienda affittata, sono soggetti all’IRPEF, ma non all’IRAP in quanto l’affitto non è inerente allo svolgimento di un’attività commerciale.

Conviene chiudere la partita IVA se non puoi sospenderla?

In base a quanto sopra detto, eccetto nel caso unico in cui e’ possibile una sospensione della partita IVA, puoi solo decidere di mantenerla attiva o chiuderla. Nel primo caso, se sei nel regime forfettario puoi anche pensare di tenerla attiva nonostante non la utilizzi per un periodo anche non breve, in quanto se non fatturi non paghi le tasse.

Tuttavia, sei sempre tenuto (o quasi) al versamento dei contributi anche quando non percepisci alcun compenso:

  • Commerciante e artigiano: obbligo di pagamento dei soli contributi fissi, nella misura di circa 3.850 euro l’anno, ma con la possibilità di chiedere la riduzione del 35% sul totale contributivo;
  • Libero professionista senza Cassa (copywriter, social media manager, consulente SEO, sviluppatore app, web designer etc.): obbligo di versamento nella Gestione Separata INPS solo per i contributi variabili. Motivo per cui, zero guadagno, zero contributi.
  • Libero professionista iscritto all’Albo: versamento contributi nella Cassa previdenziale obbligatoria di categoria.

Detto ciò, tocca a te fare due calcoli, tenendo conto del tempo in cui la partita IVA forfettaria resterà inattiva, e non dimenticando che esiste la chiusura d’ufficio effettuata dall’Agenzia delle Entrate, nel caso la partita IVA dovesse restare inattiva per almeno tre anni.

Come mantenere l’IVA nel regime forfettario

E’ palese che a prescindere dall’inattività o meno della partita IVA, a meno che non ci siano elevati oneri detraibili e deducibili, mantenere il regime fiscale forfettario è importante. Per questo motivo, vediamo in quali i casi è prevista la sua esclusione che avviene l’anno successivo (a volte anche nell’anno in corso) a quello in cui si sono verificate le cause:

  • Esercizio di regimi speciali IVA e di determinazione forfettaria del reddito;
  • assenza di residenza in Italia o residenza in un altro Paese UE/SEE ma se meno del 75% del reddito complessivo è prodotto nel territorio italiano;
  • cessioni di fabbricati o relative porzioni, di terreni edificabili o di mezzi di trasporto nuovi in via esclusiva o prevalente;
  • partecipazione contemporanea in società di persone, associazioni professionali o SRL che svolgono la stessa attività economica;
  • esercizio di attività lavorativa prevalentemente nei confronti del datore di lavoro con cui è in corso un’attività lavorativa, o con cui sono intercorsi rapporti di lavoro negli ultimi due anni;
  • Spese sostenute per lavoratori dipendenti e collaboratori superiori, per un ammontare totale di 20.000 euro lordi;
  • Percepiti redditi di lavoro dipendente e assimilati superiori a 30.000 euro. Qualora questo importo sia stato superato, si potrà comunque restare nel regime se, nell’anno precedente si è verificata la cessazione del rapporto di lavoro senza che ne siano stati instaurati dei nuovi, oppure percepiti redditi di pensione.

Le cause sopra indicate di esclusione del regime fiscale forfettario IVA devono fare riferimento al momento di applicazione del regime. Pertanto, se una delle cause di esclusione si verifica nell’anno precedente l’accesso, non è d’impedimento all’applicazione del regime, a patto che la causa medesima sia venuta meno prima dell’inizio dell’anno successivo.

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Quali documenti è obbligato a tenere chi opera nel regime contabile semplificato?

Tra i regimi fiscali in Italia, per chi apre una partita Iva, c’è quello semplificato che, nel rispetto di opportune condizioni, permette di portare avanti e di gestire la propria attività sempre in maniera più semplice da un lato, e meno onerosa dall’altro in termini di costi e di risparmio di tempo. Rispettata una soglia massima di volume d’affari, infatti, con il regime semplificato gli obblighi di contabilità sono decisamente più ridotti rispetto al regime fiscale ordinario. Ed allora, detto questo, quali documenti è obbligato a tenere chi opera nel regime contabile semplificato?

Quali sono i requisiti di accesso al regime contabile semplificato e chi può aderire

Al riguardo c’è da dire, prima di tutto, che per rientrare nel regime contabile semplificato l’impresa deve avere un fatturato annuo non superiore ai 400.000 euro se opera nella prestazione di servizi. Mentre il limite sale a 700.000 euro per tutte le altre attività. Rispettato il requisito dei ricavi, possono avvalersi del regime contabile semplificato non solo le ditte individuali ed i liberi professionisti, ma anche le società di persone e gli enti non commerciali.

Nel caso in cui l’impresa eserciti più attività, per il rispetto della soglia massima di ricavi, ai fini del possesso o meno dei requisiti di accesso al regime contabile semplificato, si prenderà a riferimento l’attività economica che è prevalente, ovverosia quella che presenta il maggior volume d’affari calcolato sempre su base annua.

Pur tuttavia, se per le varie attività economiche esercitate l’impresa non effettua la registrazione separata, allora il requisito di accesso o meno al regime contabile semplificato sarà dato da una soglia di ricavi annui complessivi non superiore ai 700.000 euro. E quindi in questo caso il limite massimo del volume d’affari, per l’accesso al regime contabile semplificato, corrisponde sempre a quello delle imprese che esercitano attività diverse dalla prestazione di servizi.

Per le imprese che avviano l’attività, con la conseguente richiesta di attribuzione del numero di partita Iva, inoltre, il requisito di accesso al regime contabile semplificato è basato invece, per il primo anno, sulla dichiarazione del volume d’affari presunto.

Ecco quali documenti è obbligato a tenere chi opera nel regime contabile semplificato

Rispettati i requisiti sopra indicati, chi rientra nel regime contabile semplificato è esonerato, prima di tutto, dall’obbligo di redigere il bilancio. E di conseguenza non c’è nemmeno l’obbligo di tenuta del libro giornale, del libro degli inventari e delle scritture ausiliarie di magazzino.

Nel regime contabile semplificato, per le scritture contabili, l’obbligo di tenuta dei libri si riduce così ai seguenti quattro registri obbligatori: i registri Iva, il registro dei beni ammortizzabili, il registro incassi e pagamenti ed il LUL, ovverosia il Libro unico del lavoro nel caso in cui l’impresa abbia dei dipendenti.

La normativa di riferimento, per l’accesso o meno da parte di un’impresa al regime contabile semplificato, è rappresentata dagli articoli numero 57 e numero 85 del TUIR che è il Testo Unico delle imposte sui redditi. E dall’articolo numero 18 del Decreto del Presidente della Repubblica (DPR) n° 600/1973.