PostePay Evolution: come richiedere la carta prepagata con IBAN

In questa rapida guida andremo a vedere come richiedere una PostePay Evolution, la carta prepagata con IBAN, fiore all’occhiello delle transizioni economiche delle poste. Tutto ciò che c’è da sapere in merito alla carta prepagata, di seguito nei paragrafi.

PostePay Evolution, la carta prepagata con IBAN

Per rispondere brevemente alla domanda su cosa sia la PostePay Evolution, la risposta è semplice. Trattasi di una carta prepagata dotata di codice IBAN che si differenzia dalle ricaricabili tradizionali, perché presenta tutte quelle caratteristiche basilari di un conto corrente. Non a caso, la cosiddetta “carta evoluta” è paragonata ad un conto bancario.

Di fatto, la PostePay Evolution funziona esattamente come una normalissima carta di credito prepagata: quindi con essa puoi effettuare pagamenti per acquisti fatti online oppure in un negozio fisico; puoi prelevare denaro contante presso un qualsiasi ATM – sia delle Poste, ovvero i Postamat, che di qualsiasi istituto di credito.

Andiamo a vedere, successivamente, come richiedere una PostePay Evolution

Come richiedere PostePay Evolution

Veniamo, dunque, al nocciolo della questione, ovvero come richiedere PostePay Evolution ed ottenere, quindi, la nostra carta di credito prepagata, con IBAN.

Per ottenere la carta Postepay Evolution occorre recarsi presso un Ufficio Postale, prendere il necessario ticket per i servizi finanziari. Bisogna avere con se la propria carta di identità (o altro documento di identità valido) ed il proprio codice fiscale. L’impiegato vi farà compilare dei moduli, dunque vi chiederà alcune informazioni.

Nulla di trascendentale, giusto alcune formalità per poter aprire il vostro conto.

Ma quanto costa aprire un conto con PostePay Evolution?

A differenza della carta del conto Standard, la PostePay Evolution ha un canone annuale di 12 euro – i primi due euro sono sottratti come bollettino annuale, ad ogni mese di gennaio, mentre i 10 euro scattano alla scadenza di ogni anno contrattuale – mentre il costo di emissione è di 5 euro più 15 euro di ricarica minima sulla carta.

Quindi, pagherete 20 euro per poter ottenere la vostra carta prepagata con IBAN, alle poste, più un pagamento annuale di 12 euro, scalati sul vostro conto della carta.

PostePay Evolution, come richiederla online

Se invece volessimo aprire un conto PostePay Evolution online, senza l’incombenza di recarci all’ufficio postale, è possibile?

La risposta a questa domanda è semplice.

Per poter richiedere la MyPostepay è necessario effettuare la procedura completamente per via telematica. Perciò occorre collegarsi al sito ufficiale di Poste Italiane (www.posteitaliane.it) e registrarsi per poter accedere all’Area Personale. Oppure, scaricare l’App di PostePay e saranno necessari i seguenti passaggi:

  • Scarica App Postepay e inizia la tua richiesta.
  • Compila e firma i contratti.
  • Paga e fai il riconoscimento.
  • Ricevi Carta e SIM a casa.

Attraverso la App apposita sarà poi possibile controllare il proprio saldo e le proprie transazioni, quindi la propria lista movimenti di danaro, dal vostro stesso smartphone, quindi eseguire pagamenti, anche tramite PayToPay, cioè verso altri possessori di PosetPay, che appariranno nella vostra lista dei contatti. La commissione per una transazione PtoP, dalla velocità quasi istantanea ha il costo di 1 euro.

Questo, dunque è quanto vi fosse di più utile, sostanziale e necessario da sapere in merito alle modalità per richiedere ed ottenere la PostePay Evolution, la carta prepagata con il codice IBAN, che funge perfettamente da conto corrente.

Nuova Irpef 2022: novità per aliquote, detrazioni e bonus

La riforma fiscale, con le nuove aliquote Irpef in vigore dal 2022 e le novità sulle detrazioni e sui bonus, comporta una rivoluzione nelle buste paghe dei lavoratori dipendenti, autonomi e per i pensionati. È ciò che si prospetta con i provvedimenti del governo di fine anno scorso destinati a cambiare la tassazione sui redditi. In linea generale, i maggiori vantaggi li avranno i redditi medi e alti. Ma anche per gli altri la busta paga cambierà in maniera significativa.

Nuova Irpef 2022, cosa cambia nella busta paga di lavoratori e pensionati?

Già a partire da gennaio 2022 entreranno in vigore le nuove disposizione della riforma del Fisco con la modifica degli scaglioni, delle aliquote Irpef ai fini della tassazione. Le novità sull’Irpef comporteranno, in ogni modo, anche una nuova modalità di calcolo delle detrazioni fiscali a favore dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, ma anche dei redditi assimilati a quelli dei lavoratori. E, infine, anche nel modo di calcolare l’ex bonus Renzi di 80 euro in vigore dal 2014, poi salito di importo a 100 euro.

Riforma fiscale e Irpef, le novità per i redditi medi e alti

Una ulteriore novità nella risistemazione delle aliquote Irpef è rappresentata dall’eliminazione della detrazione fiscale per i redditi da lavoro dipendenti a partire dai 28 mila euro e fino a 40 mila euro. Contrariamente, la riforma fiscale riconosce l’esonero parziale ai lavoratori dipendenti con reddito fino a 34.996 euro. Tutte le novità fiscali avranno un impatto diverso sulle buste paga e determineranno un differente impatto per bonus e ritenute fiscali.

Riforma fiscale, come cambiano gli scaglioni e le aliquote Irpef?

Con la riforma fiscale cambiano le aliquote Irpef e gli scaglioni. Infatti:

  • la prima aliquota del 23% (rimasta invariata) viene applicata allo scaglione di redditi fino a 15 mila euro;
  • la seconda aliquota invece subisce delle modifiche. La percentuale scende dal 27% al 25% per i redditi da 15.001 a 25 mila euro e dal 38% al 35% per i redditi da 28.001 euro a 50 mila euro;
  • il quarto e il quinto scaglione vengono unificati con l’applicazione di un’unica aliquota del 43% per i redditi di oltre 50 mila euro.

Bonus e detrazioni nella riforma fiscale dell’Irpef, quali sono le novità del 2022?

La riforma fiscale del 2022 conferma anche i bonus per chi percepisce i redditi da lavoro dipendente fino a 15 mila euro. Nei casi di incapienza, quando la somma delle detrazioni risulta più elevata dell’imposta netta, la soglia può essere aumentata fino ai redditi di 28 mila euro. Tuttavia, il maggiore incremento delle detrazioni spetta ai lavoratori dipendenti con redditi a partire dai 15 mila euro. Infine, viene riconosciuta una detrazione aggiuntiva di 65 euro per i lavoratori dipendenti con redditi tra 25 mila euro e 35 mila euro. Tale detrazione è necessaria per non penalizzare chi percepisce redditi compresi in questi due estremi rispetto alle misure previste per i redditi meno elevati.

Riforma delle aliquote Irpef, detrazioni e bonus: chi si avvantaggia maggiormente nel 2022?

Il nuovo sistema delle aliquote Irpef, delle detrazioni e dei bonus permette ad alcuni di avere maggiori vantaggi fiscali in busta paga rispetto al 2021. Per chi ha redditi fiscali di 10 mila euro, il beneficio può essere quantificato in 158 euro all’anno; per i redditi di 15 mila euro annui, il vantaggio fiscale sarà di 422 euro rispetto all’anno scorso. La classe che maggiormente si avvantaggerà della riforma del Fisco sarà quella dei redditi da lavoro dipendenti per 40 mila euro l’anno. Il vantaggio sarà di 1.143 euro, mentre a 50 mila euro il vantaggio è quantificabile in 990 euro. Per i lavoratori autonomi il maggiore vantaggio fiscale risulta in corrispondenza di redditi annui pari a 50 mila euro. Il taglio dell’Irpef è pari a 810 euro all’anno (inclusa la mancata applicazione dell’Irap per le persone fisiche).

Riforma fiscale Irpef, detrazioni e assegni familiari: da quando si avranno gli effetti?

I primi effetti della riforma fiscale, delle detrazioni per i figli a carico e degli assegni familiari si avranno a partire dal mese di marzo 2022. Nelle simulazioni relative alla tassazione dei redditi non è da escludere il vantaggio che avranno i lavoratori con l’introduzione dell’Assegno unico per i figli a carico. L’assegno andrà a stravolgere anche l’insieme delle regole relative agli assegni familiari versati nelle buste paga dai datori di lavoro. Con un’ulteriore novità: l’Assegno unico universale non transiterà nelle buste paga dei lavoratori ma verrà pagato direttamente dall’Inps.

 

Obbligo di repechage: i principi a cui deve attenersi il datore di lavoro

Tra datore di lavoro e lavoratore si instaura un rapporto di buona fede e correttezza, lo stesso si esplica in diversi obblighi per il datore di lavoro e per il lavoratore. Tra questi vi è il c.d obbligo di repechage, o ripescaggio, che prevede che il datore di lavoro prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve cercare un’altra collocazione al lavoratore, solo nel caso in cui ciò sia impossibile si potrà procedere al licenziamento.

Disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo

L’obbligo di repechage è strettamente connesso all’articolo 3 della legge 604 del 1996 che consente al datore di lavoro di licenziare i dipendenti “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Il datore di lavoro per esigenze economiche oppure di riorganizzazione dell’attività lavorativa può licenziare del personale (tra le esigenze di riorganizzazione viene riconosciuta rilevanza anche alla possibilità di esternalizzare alcune attività che prima erano gestite in modo diretto dall’azienda, ad esempio i servizi di pulizia, ma non solo), ma deve essere tutelato l’interesse del lavoratore a conservare il posto di lavoro.

In quest’ottica il licenziamento appare possibile nel caso in cui:

  • le ragioni del datore di lavoro siano reali e non pretestuose (ecco perché spesso i giudici esaminano i bilanci per verificare la sussistenza di ragioni eocnomiche);
  • ci sia un nesso causale tra le ragioni addotte dal datore di lavoro e il licenziamento del lavoratore;
  • non sia possibile il repechage, cioè impiegare il lavoratore in mansioni diverse per le quali abbia comunque le giuste competenze al fine di proseguire il rapporto di lavoro.

Obbligo di repechage anche con demansionamento

Occorre ricordare che in questo caso è possibile anche il demansionamento. Noi sappiamo che non è possibile in azienda collocare il lavoratore in mansioni inferiori rispetto all’inquadramento raggiunto. Vi è un unico caso in cui questo è possibile ed è proprio quello che ci interessa, cioè la necessità per l’azienda di sopprimere delle posizioni per una nuova organizzazione o per difficoltà economiche. In questo caso l’azienda può offrire al dipendente un lavoro di inquadramento diverso. Resta però la libertà del lavoratore di accettare o meno il demansionamento, l’alternativa è il licenziamento.

Il datore di lavoro per poter procedere in tal modo è tenuto a dimostrare di non poter offrire una posizione equivalente e di aver ottenuto un rifiuto al demansionamento.

Tra l’altro vi sono ipotesi in cui il demansionamento può essere unilaterale, si tratta del caso in cui dalla riorganizzazione aziendale emergano delle posizioni con mansioni appartenenti a un livello di inquadramento inferiore che però rientrano nella medesima categoria legale di appartenenza. Negli altri casi, occorre invece un accordo tra le parti.

Non vi è obbligo di repechage se per il datore di lavoro questo rappresenta un costo

Il Tribunale di Roma nella sentenza del 24 luglio 2017 ha sottolineato che non vi è obbligo di repechage nel caso in cui il datore di lavoro per poter ottemperare a ciò debba sostenere costi di formazione eccessivi. Tale obbligo non può trasformarsi in un onere economico per il datore di lavoro. Quindi devono essere tenute in considerazione le posizioni presenti in azienda che richiedono le stesse competenze professionali del lavoratore che in teoria sarebbe in esubero. Tale orientamento è confermato dalla sentenza 31521 della Corte di Cassazione del 2019.

C’è obbligo di repechage anche tra aziende appartenenti allo stesso Gruppo?

La risposta è negativa o meglio solo in alcuni limitati casi il datore di lavoro ha l’obbligo di proporre al lavoratore il trasferimento in un’altra azienda del Gruppo. Si tratta delle ipotesi in cui vi sia un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Si verifica ciò nei casi:

  • vi sia un’unica struttura organizzativa e produttiva;
  • si verifichi integrazione tra le attività svolte dalle varie aziende del gruppo e il correlativo interesse comune;
  • sia possibile individuare un unico soggetto direttivo in virtù di un profondo collegamento tecnico e amministrativo-finanziario tra le varie parti del Gruppo;
  • infine, vi sia un’utilizzazione contemporanea delle prestazioni del lavoratore da parte delle aziende del gruppo.

In base alla sentenza 1656 del 2020 della Corte di Cassazione in questi specifici casi il repechage si applica anche tra le aziende del Gruppo. La prova della presenza di questi requisiti deve essere fornita dal lavoratore.

C’è sempre divieto del datore di lavoro di assumere altre persone?

Dalla giurisprudenza emergono note interessanti inerenti il caso in cui il datore di lavoro assuma altri dipendenti. Il primo caso è contenuto nella sentenza della Corte di Appello di Milano n° 909 del 2017, in questo caso il datore di lavoro successivamente aveva assunto con contratto a tempo determinato un altro lavoratore con le stesse mansioni/inquadramento. Tale assunzione non è stata ritenuta in violazione dell’obbligo di ripescaggio perché fatta al fine di sostituire un altro dipendente assente, ma con diritto alla conservazione del posto di lavoro. Si trattava quindi di un posto di lavoro “diverso”.

Un altro caso particolare è invece trattato dall’Ordinanza del Tribunale di Roma del 27 ottobre 2014, in questo caso vi era stata prima un’assunzione a tempo determinato e in un secondo momento il licenziamento del lavoratore con contratto a tempo indeterminato. Nella ordinanza si sottolinea che tale tipologia di contratto esclude l’obbligo per il datore di lavoro di proporre tale posizione come alternativa al licenziamento.

La sentenza 1508 del 2021 della Corte di Cassazione invece sottolinea che in caso di licenziamento del lavoratore per motivi economici, cioè l’azienda era nella necessità di tagliare i costi, l’obbligo di repechage viene meno proprio perché in contrasto con tale necessità.

Sanzioni per il datore di lavoro

Il datore di lavoro che attua un licenziamento per giustificato motivo oggettivo senza impegnarsi nel ripescaccio può essere sanzionato in diversi modi  a seconda della data del contratto di lavoro. Naturalmente la sanzione è prevista laddove il giudice ritenga che vi fossero le condizioni per il repechage del lavoratore. Per i rapporti di lavoro nati prima del 7 marzo 2015 si applica l’articolo 18 dello Statuto del Lavoratori. Se vi è una manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo c’è il diritto al reintegro nel posto di lavoro, dove non vi sia tale manifesta insussistenza invece c’è solo il risarcimento nella misura massima di 12 mensilità.

Per i rapporti di lavoro stipulati dopo il 7 marzo 2015 invece non è previsto il reintegro obbligatorio nel posto di lavoro ma una tutela risarcitoria di importo pari a due mensilità per ogni anno di servizio e comunque non inferiore a 6 mensilità e non superiore a 36 mensilità.

Residenza falsa, cosa si rischia?

In questa rapida guida andremo a scandagliare quali sono i rischi che si corrono nel caso di residenza falsa dichiarata. Scopriamolo assieme nei prossimi paragrafi.

Residenza falsa, in quali casi

Possono essere vai e svariati i casi in cui si dichiara residenza falsa, per esempio può capitare di fornire la residenza al controllore dell’autobus nel momento in cui chiede le generalità del passeggero beccato senza biglietto; oppure si possono fornire dati falsi al poliziotto nel corso di un controllo; od ancora si può dichiarare una falsa residenza all’ufficio dell’anagrafe comunale allo scopo di ottenere benefici o agevolazioni fiscali.

E quindi, cosa si rischia in questi casi? Scopriamolo nei prossimi paragrafi della guida.

Rischi in caso di falsa residenza dichiarata

Innanzitutto, partiamo col dire che il luogo di residenza è quel luogo dove il soggetto dimora abitualmente, quindi dove esso vive per gran parte dell’anno. Pertanto non si può dichiarare al Comune o al pubblico ufficiale una residenza in un luogo dove non si abita o si abita solo durante limitati periodi temporali (come per esempio la casa delle vacanze). 

Ogni cittadino è libero di fissare la propria residenza dove vuole a patto però che quella costituisca anche la sua dimora abituale. 

La falsa residenza è pertanto quella fissata in un immobile, anche se non di proprietà del soggetto in questione, ove non si è reperibili. 

Possiamo dire che non si è obbligati a dare il proprio indirizzo di residenza ai privati e che non si rischia nulla se si fornisce un indirizzo non veritiero, ma è necessario fornire i propri dati ufficiali al proprio datore di lavoro, ad esempio.

Residenza falsa, quando è reato

Per quanto è vero che dare una falsa residenza a un privato non integra un reato, ciò potrebbe però costituire un elemento per ravvisare gli estremi di una truffa contrattuale.

Ad esempio, se pensiamo ad un venditore sul web che, prima di concludere il contratto, fornisce all’acquirente un indirizzo di residenza falso, allo scopo di rendersi difficilmente rintracciabile. Tale comportamento è votato alla non rintracciabilità e quindi di non adempiere al proprio obbligo.

Ancora, altrettanto grave è quando si dà una falsa residenza al controllore dell’autobus che debba identificare il passeggero senza biglietto o ad un carabiniere o un poliziotto che abbia fatto esplicita domanda al cittadino. In questi casi si commette reato di falso. C’è quindi il rischio di subire una denuncia penale e di poter essere punito con la reclusione da 3 mesi a 2 anni. 

In ultimo, ma non ultima, vi è ancora una ipotesi di falsa indicazione di residenza, ed è quella che può essere fornita in un’autocertificazione diretta ad un ufficio pubblico (come ad esempio la Motorizzazione o il Pra). Pure in questo specifico caso, il reato contestato potrà essere quello di falso ideologico in atto pubblico. 

Invece, ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno, la falsa dichiarazione del luogo di residenza non va a costituire irregolarità formale, ma è da ritenersi circostanza assolutamente dirimente nel senso di imporre il rigetto dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno, non andando a rilevare, in quanto successive alla adozione del permesso, eventuali sopravvenienze.

Questo, dunque è quanto vi fosse di più utile e necessario da sapere in merito ai rischi e alla casistica del dichiarare una falsa residenza.

 

Partita IVA comunitaria, quanto costa aprirla?

Molti si chiedono come funziona aprire una partita IVA comunitaria e che costi può comportare per aprirla. Andiamo a scoprire le risposte a queste domande nella guida di seguito.

Partita IVA comunitaria, di cosa si tratta

Innanzitutto, è bene partire dalle basi della questione, ovvero definire cosa si intende per partita IVA comunitaria.

La partita IVA comunitaria è una tipologia di partita IVA inserita per agevolare e controllare gli scambi effettuati all’interno dell’Unione Europea.

Un soggetto passiva IVA che va ad effettuare degli scambi commerciali con soggetti UE dovrà essere iscritto, infatti, al registro VIES (acronimo di VAT Information Exchange System). Di fatti, con l‘iscrizione al Vies il soggetto passivo è autorizzato a compiere operazioni commerciali con altri soggetti residenti negli stati membri dell’Unione Europea.

La partita IVA comunitaria ha come sigla a precedere quella del Paese che l’ha rilasciata e da un certo numero di cifre che cambia da Paese a Paese.

Per poter verificare la validità di un partita Iva Comunitaria è dunque possibile utilizzare il servizio dell’Agenzia delle Entrate verifica partita iva – ricerca partita iva, andando a cliccare di seguito su controllo partite Iva comunitarie.

Come si apre una partita IVA comunitaria?

Dunque, per poter aprire una partita iva comunitaria, non occorre altro che compilare il modulo di Dichiarazione di inizio attività dell’impresa, andando a specificare di voler effettuare operazioni intra comunitarie, compilando uno dei due modelli che seguono:

  • modello AA7 (quadro I), quando trattasi di un soggetto diverso dalle persone fisiche
  • modello AA9 (quadro I), per lavoratori autonomi, liberi professionisti e ditte individuali.

Ultimata e completata la procedura di apertura della partita IVA comunitaria, se compilato correttamente il modulo, si otterrà l’avvenuta iscrizione al registro VIES.

Quanto costa aprire partita IVA comunitaria?

Aprire qualunque tipo di partita IVA non ha costi.

Quindi, si può, tranquillamente asserire che aprire una partita IVA comunitaria è assolutamente a titolo gratuito. Tuttavia, vi sono, per ogni partita IVA degli adempimenti a cui tenere conto.

I contribuenti che vanno ad effettuare operazioni UE sono tenuti a presentare il modello Intrastat all’Agenzia delle Dogane. In questo suddetto modello occorre riepilogare tutte le transazioni intracomunitarie relative ad un determinato periodo ovvero:

  • mensile se le operazioni nei 4 trimestri precedenti o effettuate nel corso del trimestre sono superiori alla soglia di 50.000€;
  • trimestrale qualora l’ammontare delle operazioni fosse inferiore a 50.000€.

Successivamente andiamo ad analizzare nel dettaglio quali sono le regole da seguire a seconda del tipo di regime fiscale adottato dalla partita iva comunitaria e del tipo di operazioni UE poste in essere (acquisti di beni, cessioni di beni o prestazioni di servizio).

Le regole di fatturazione per quelle operazioni con soggetti UE andranno, dunque, a variare a seconda del tipo di operazione effettuata, cioè a seconda che si tratta di una cessione di un bene o di una prestazione di servizio.

Gli acquisti di beni intracomunitari avranno una importanza IVA nel nostro paese. A tale fine occorrerà integrare la fattura di acquisto UE ed annotarla sia sul registro IVA vendite che sul registro IVA acquisti.

Fattura per prestazioni di servizi a soggetti UE

Nel caso, invece di fatture di vendita per prestazioni di servizio sarà necessario fare una distinzione tra operazioni:

  • B2B – business to business, ovvero le prestazioni rese a soggetti passivi IVA in altri Stati UE;
  • B2C – business to consumer, ovvero le prestazioni rese verso privati.

Questo, dunque è quanto di più essenziale e necessario da sapere in merito ai costi e alle funzioni di una partita IVA comunitaria.

Guida acquisto prima casa, tra agevolazioni ed imposte

La guida acquisto prima casa è online sul sito dell’Agenzia delle entrate, ecco tutte le indicazioni in merito ad imposte e agevolazioni fiscali.

Guida acquisto prima casa, le imposte da pagare

Quando si compra un immobile, in merito alle imposte da pagare, ci sono vari fattori da valutare. Ad esempio se si compra da un’impresa costruttrice, oppure da un privato. Ma anche se si compra un immobile come prima casa oppure per uso investimento. Tuttavia in ogni caso ci sono delle imposte da pagare.

Se il venditore è un’impresa, la regola generale è che la cessione è esente da Iva. Ma l’acquirente dovrà pagare:

  • l’imposta di registro in misura del 9%;
  • imposta catastale fissa di 50 euro;
  • imposta ipotecaria fissa di 50 euro.

Però l’imposta per la cessione si paga:

  • alle cessioni effettuate dalle imprese costruttrici o di ripristino dei fabbricati entro 5 anni dall’ultimazione della costruzione o dell’intervento oppure anche dopo i 5 anni, se il venditore sceglie di assoggettare l’operazione a Iva (la scelta va espressa nell’atto di vendita o nel contratto preliminare);
  • alle cessioni di fabbricati abitativi destinati ad alloggi sociali, per le quali il venditore sceglie di sottoporre l’operazione a Iva (anche in questo caso, la scelta va espressa nell’atto di vendita o nel contratto preliminare).

In questi casi l’Iva è al 10% con tre imposte del valore ciascuna di 200 euro: registro, catastale e ipotecaria.

Acquisto casa da un privato, quali sono le imposte da pagare

Quando si compra casa da un privato ci sono due casi, se si sta comprando con agevolazioni prima casa oppure no. Prendiamo in esame questa seconda ipotesi. Le imposte da pagare sono pari a :

  • registro pari al 9%;
  • ipotecaria fissa di 50 euro;
  • catastale fissa pari a 50 euro.

Mentre se si compra la prima casa, sono previste una serie di agevolazioni, che rendono meno costoso il costo di cessione. In linea generale queste si applicano quando:

  • l’immobile che si acquista appartiene a determinate categorie catastali;
  • il fabbricato si trova nel comune in cui l’acquirente ha residenza o lavora;
  • l’acquirente ha determinati requisiti.

Guida acquisto prima casa, le imposte da pagare

Possiamo così riassumere le imposte da pagare quando si compra con i “benefici prima casa”:

  • se il venditore è un privato o un’impresa che vende in esenzione Iva si paga l’imposta di registro pari al 2%, imposta ipotecaria fissa di 50 euro e imposta catastale di 50 euro;
  • se il venditore è un’impresa, con vendita soggetta a Iva, quest’ultima sarà ridotta al 4% e le tre imposte  saranno fisse a 200 euro ciascuna.

Per poter avere le agevolazioni relativi all’acquisto della prima casa, occorre la presenza di alcuni requisiti. Ma senza dubbio un importante è quello che l’immobile deve appartenere ad una delle seguenti categorie:

• A/2 (abitazioni di tipo civile)
• A/3 (abitazioni di tipo economico)
• A/4 (abitazioni di tipo popolare)
• A/5 (abitazioni di tipo ultra popolare)
• A/6 (abitazioni di tipo rurale)
• A/7 (abitazioni in villini)
• A/11 (abitazioni e alloggi tipici dei luoghi).

Il caso dell’acquisto per gli under 36

Ulteriori agevolazioni fiscali sono previste per tutti coloro che vogliono comprare casa e sono under 36. Per favorire l’autonomia abitativa dei giovani di età inferiore a 36 anni, il decreto legge n.73 del 2021 (Decreto sostegni bis) ha introdotto nuove agevolazioni fiscali in materia di imposta indirette per l’acquisto della prima casa. Oltre al limite dell’età occorre anche avere un ISEE non superiore a 40.000 euro.

La norma prevede i seguenti benefici:

  • per le compravendite non soggette a Iva, esenzione dal pagamento dell’imposta di registro, catastale e ipotecaria;
  • per gli acquisti soggetti ad Iva, oltre all’esenzione delle imposte, vi è un riconoscimento del credito d’imposta pari all’Iva corrisposta al venditore;
  • esenzione dall’imposta sostitutiva per i finanziamenti erogati per l’acquisto, la costruzione e la ristrutturazione di immobili a uso abitativo.

Pertanto quando si acquista un immobile è opportuno stare attenti alle giuste imposte da pagare o alle eventuali agevolazioni. Ma per fortuna ci sono i notai che hanno anche il compito di consigliare le soluzioni migliori per acquisti immobiliari sicuri e quando si può anche convenienti.

 

 

Cartelle esattoriali 2022: proroga e decadenza dopo 5 rate, resta da pagare l’aggio

Si amplia l’arco temporale di pagamento delle cartelle esattoriali notificate fino al 31 marzo 2022. I contribuenti avranno più tempo per pagarle, fino a 180 giorni dalla data della notifica. La decadenza invece torna a scattare dopo cinque rate non pagate. A procedere con l’estensione dei termini di pagamento è stata la legge di Bilancio 2022 (legge numero 234 del 2021) che ha confermato e prolungato quanto già previsto dal decreto Fisco Lavoro all’articolo 2 del decreto legge numero 146 del 2021.

Cartelle esattoriali, entro quando bisogna pagarle?

L’estensione della scadenza di pagamento è prevista per le cartelle esattoriali che vengono notificate tra il 1° gennaio e il 31 marzo del 2022. I contribuenti avranno 180 giorni di tempo per procedere con il versamento a partire dalla data della notifica. Le ultime scadenze di pagamento saranno fissate a fine settembre prossimo. Già il decreto legge Fisco Lavoro aveva esteso i termini di pagamento delle cartelle esattoriali da 60 a 180 giorni. In particolare, il provvedimento si riferiva alle cartelle notificate tra il 1° settembre e il 31 dicembre 2021.

Cartelle esattoriali, termine di pagamento a 180 giorni: sono dovuti gli interessi o procedure cautelari o pignoramento?

La legge di Bilancio 2022 ha provveduto a prolungare i termini di pagamento delle cartelle relative al primo trimestre dell’anno. All’interno della scadenza dei sei mesi per il pagamento non sono dovuti gli interessi di mora. Analogamente, nello stesso periodo non si possono attuare procedure cautelari o avviato il pignoramento. Rimane invariato, invece, il termine per presentare il ricorso fissato in 60 giorni dalla data di notifica della cartella.

Cartelle esattoriali a 180 giorni, va pagato l’aggio? Ecco la risposta dell’Agenzia delle entrate

Sulle cartelle esattoriali che rientrano nel prolungamento della scadenza di pagamento a 180 giorni, deve essere pagato l’aggio? A questa domanda ha risposto l’Agenzia delle entrate riportando la regola consueta che vuole l’applicazione dell’aggio dal 3% al 6% quando il pagamento viene effettuato dopo i consueti 60 giorni. Con la maggiore concessione di tempo per il pagamento delle cartelle esattoriali ricevute fino a marzo prossimo, l’Agenzia delle entrate ha chiarito che non si può procedere con il raddoppio dell’aggio. Pertanto, per tutte le cartelle rientranti nei termini dei 180 giorni, l’aggio rimane invariato al 3%, senza raddoppiare.

Cartelle esattoriali, cosa cambia per gli accertamenti esecutivi o a seguito di sentenza della Cpt

Non risultano esserci novità dalla legge di Bilancio 2022 per quanto concerne i pagamenti derivanti dagli accertamenti esecutivi e quelli emessi in seguito alle sentenze dei Consulenti tecnici di Ctp. Nel primo caso, i pagamenti devono essere effettuati entro i termini ordinari. Se si tratta di un atto impoesattivo originario, la scadenza coincide con la data entro la quale sia possibile presentare ricorso. Se si tratta, invece, di atto impoesattivo secondario (dopo sentenza dei Ctp), la scadenza di pagamento è fissata in 60 giorni.

Cartelle esattoriali e domanda di rateazione di quanto dovuto: torna la decadenza con 5 rate non pagate

Per le cartelle notificate nel 2022, i contribuenti potranno chiedere la rateazione all’agente della riscossione. La rateazione torna a essere applicata con le misure consuete. Ciò vuol dire che non dovranno essere più applicate le agevolazioni vigenti durante il periodo di emergenza sanitaria ed economica. La causa di decadenza della rateazione, dal 1° gennaio 2022, è tornata a essere quella del mancato pagamento di cinque rate.

Cartelle esattoriali, quali notifiche non rientrano nel beneficio di pagamento di 180 giorni?

Infine, tra le cartelle che i contribuenti possono ricevere, non rientrano nel beneficio del prolungamento della scadenza a 180 giorni:

  • le ingiunzioni fiscali pervenute dai comuni;
  • quelle arrivate da concessionari privati che non si avvalgono dell’Agenzia delle entrate Riscossioni.

I termini di pagamento, in tutti questi casi, rimangono fissati a 60 giorni dalla data di notifica della cartella.

Caro-colazione, sarà più costoso prendere anche il caffè

Il caro-colazione scoppia in Italia, come se non bastasse sarà più costoso anche prendere un caffè un bar, ecco il perché.

Caro-colazione, la denuncia degli esercenti

Gli esercenti d’Italia cominciano a trovarsi in difficoltà. Non bastavano i rincari sulla bolletta energetica che sta portando molte aziende a ridurre la loro capacità produttiva. Ma l’impatto negativo sarà soprattutto sulle realtà imprenditoriali più piccole e lo sanno bene i bar. Anche per le famiglie si rischia una frenata sui consumi e adesso prendere un caffè potrebbe avere un costo fuori dal normale.

Un costo energia che potrebbe anche pesare proprio sul caro-colazione. Ma non solo aumentano anche il prezzo molte materie prima. Infatti si stanno registrando degli aumenti nei listini di caffè, cappuccino e cornetti al bar. L’associazione Assoutenti segnala che le quotazioni del caffè sono cresciute dell’81% nel 2021 e quelle del latte del 60%. Ma stanno aumentando anche lo zucchero ed il cacao di circa il 30%.

Quanto potrebbe costare un caffè al bar?

Gli esercenti denuncia una somma di variabili che potrebbe portare a considerare il caffè al bar un bene quasi di lusso. Ecco prendere un caffè potrebbe costare anche 1.50 euro con un rincaro del 37.6%. La classica bevanda scura potrebbe pesare sulle tasche degli italiani, nonostante sia alla base della colazione di molte persone in tutto il mondo.

Secondo confesercenti la miscela tra la variente Omicron e le maggiorazioni delle bollette, potrebbero portar indietro di sei mesi le lancette della ripresa. La quarta ondata e l’aumento dei prezzi dei beni energetici potrebbero portare a una maggiore spesa. Situazione che si ribalta sulle famiglie, con una contrazione dei consumi, di circa 6.4 milioni di euro.

Caro-colazione, cosa potrebbe fare il Governo

Il governo fa il punto sulla situazione che stiamo vivendo, per scngiurare un lockdown economico. Ma sembra che il governo sia pronto ad intervenire, con provvedimenti sia di breve che di lungo periodo. Ebbene il piano potrebbe essere quello di utilizzare gli extraprofitti delle imprese energetiche registrati in questi ultimi mesi e utilizzarli per fronteggiare i rincari.

Anche se si trattano anche altre idee, come intervenire già sul prossimo decreto ristori o la diminuzione dell’Iva. Ma si tratta di un provvedimento di cui si è molto parlato, ma che non trova mai applicazione. Anche perché non ci sarebbero i fondi necessari. Per adesso ci si ferma a confermare i rincari dei prezzi anche nella colazione. A dicembre si è registrato, nel comparto bar, un incremento medio dei listini del +2.8%.

 

 

Accertamento fiscale, cosa è?

In questa rapida guida andremo a scoprire cosa è un accertamento fiscale e sostanzialmente come ci si difende da esso e quali rischi può comportare.

Che cosa è un accertamento fiscale

Una domanda piuttosto frequente per il contribuente è quali siano le possibili contestazioni che si possono sollevare contro un atto dell’Agenzia delle Entrate, del Comune o della Regione? Od anche quando può essere fatto un accertamento fiscale? Scopriamo insieme di cosa si tratta e come dare risposta a queste domante.

Sostanzialmente, quando si parla di «accertamento» si fa riferimento, in linea di massima, al provvedimento con cui il Fisco (sia quello Statale che degli enti locali, come i Comuni e le Regioni) chiede il pagamento di ulteriori tributi rispetto a quelli già versati o non versati affatto dal contribuente. Quindi si parla anche di provvedimento impositivo o, ancora, di recupero a tassazione. 

Nello specifico, un atto di accertamento può essere emanato solo da un ente pubblico: canonicamente, l’Agenzia delle Entrate per i tributi dovuti allo Stato; ma esso può anche essere emesso da un ente locale (come ad esempio il Comune che potrebbe contestare il mancato pagamento dell’Imu o della Tari, l’imposta sui rifiuti; o alla Regione che potrebbe richiedere il bollo auto non versato dall’automobilista). 

Al di fuori delle diverse denominazioni che l’atto può assumere (avviso di accertamento, avviso di liquidazione, atto impositivo, atto di recupero a tassazione, ecc.), tale atto ha comunque sempre lo stesso contenuto e le medesime caratteristiche di base. Scopriamo di più di seguito.

Impugnazione dell’accertamento fiscale

Va sempre aggiunto, a quanto detto sopra, che l’accertamento fiscale deve essere motivato: deve pertanto, cioè, spiegare in una modalità chiara e comprensibile le ragioni che si pongono alla base della richiesta di maggiori pagamenti, indicando sia i fatti rilevanti, sia le norme di diritto che si ritengono violate.

Tutto ciò a garanzia del contribuente, nella maniera di consentirgli di contestare la pretesa impositiva e poter presentare eventualmente ricorso al giudice, in modo da potersi difendere in merito al ragionamento fatto dal Fisco. E qualora l’accertamento andasse a richiamare altri atti o documenti, che ne integrano la motivazione, questi dovranno essere necessariamente allegati. 

Occorre specificare che qualunque accertamento fiscale può essere impugnato dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale in primo grado e, successivamente dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale in appello.

Il termine fissato per l’impugnazione è di 60 giorni che scattano dalla avvenuta notifica, una volta scaduto l’atto, seppur illegittimo, assume forma definitiva ed immediatamente esecutiva, consentendo così l’iscrizione a ruolo del tributo e l’avvio delle pratiche di riscossione che avviene attraverso l’Agente per la riscossione (con la notifica della cartella esattoriale). 

Ad ogni modo, lo Statuto dei contribuenti impone che l’accertamento fiscale debba contenere tutte le informazioni necessarie all’impugnazione, dovendo indicare sia il giudice innanzi al quale il ricorso può essere presentato, sia i termini entro cui va effettuato, sia il nominativo del responsabile del procedimento. Pena la nullità dell’atto.

Come pagare in forma ridotta

Qualora il contribuente non intendesse fare ricorso contro l’accertamento, ritenendosi pertanto d’accordo con la pretesa impositiva dell’amministrazione finanziaria, andando a pagare nei termini può definire le sanzioni in via ridotta. Quindi, ottenendo così una riduzione dell’imposta sull’ accertamento fiscale.

Questo, dunque è quanto vi fosse di più necessario da sapere in merito ad una situazione di accertamento fiscale.

Bonus investimenti, come funziona il credito di imposta beni Industria 4.0?

Si amplia il credito di imposta sul bonus investimento per i beni Industria 4.0 secondo quanto dispone la legge di Bilancio 2022. L’agevolazione durerà fino a tutto il 2025, ma occorre prestare attenzione al fatto che il bonus rientra anche nel Piano nazionale per la ripresa e la resilienza (Pnrr): potrebbero nascere incompatibilità con altre agevolazioni fiscali. I beni oggetto di credito di imposta sono quelli materiali e immateriali 4.0, ai quali vanno aggiunte le disposizioni relative ai beni ordinari. Ovvero fuori dalle tabelle A e B di applicazione del bonus investimenti.

Credito fiscale del bonus investimenti su beni Industria 4.0: le scadenze della misura

Le agevolazioni fiscali del bonus investimenti in beni Industria 4.0 sono state modificate dalla legge di Bilancio 2022 al comma 44. Infatti le imprese, nell’applicare le detrazioni del credito di imposta relative al bonus investimenti, dovranno verificare che le agevolazioni non contrastino con le misure previste dal Pnrr. Il bonus investimenti rimarrà in vigore fino al 31 dicembre 2025. La proroga al 30 giugno 2026 avverrà con la prenotazione che deve essere confermata dal venditore di beni. Risulta necessario l’acconto di minimo il 20%. La regola del primo semestre dell’anno successivo vale per la maggior parte dei bonus.

Bonus investimenti su beni materiali 4.0: quali sono?

Le agevolazioni del bonus investimenti su beni materiali dell’Industria 4.0 risultano dalla tabella A allegata alla legge 232 del 2016. In particolare i beni che sono stati prenotati entro il 31 dicembre 2021 e che vengano consegnati entro il 30 giugno prossimo, prevedono il credito di imposta del:

  • 50% fino al valore di 2,5 milioni di euro;
  • 30% tra 2,5 e 10 milioni di euro;
  • 10% tra 10 e 20 milioni di euro;
  • il massimale risulta fissato a 20 milioni di euro.

Credito di imposta su beni materiali 4.0 dal 2022 al 1° semestre 2026

Per i beni materiali 4.0 acquistati nel 2022 e per quelli prenotati entro il 1° semestre del 2023 le percentuali si riducono, rispettivamente, al 40%, al 20% e al 10% con massimale di 20 milioni di euro. I beni acquistati nel 2023, 2024, 2025 e prenotati entro il 30 giugno 2026 hanno le percentuali di credito di imposta rispettivamente: del 20%, del 10% e del 5% con massimale di 20 milioni di euro.

Credito di imposta su acquisto software 4.0 rientranti nel bonus investimenti: quali sono le percentuali dal 2022 al 2026?

Per i beni immateriali e, in particolare, per l’acquisto di software è necessario consultare la tabella B della legge 232 del 2016. In particolare, la legge di Bilancio 2022 ha stabilito le percentuali di credito di imposta sull’acquisto di questi beni nel per i beni acquistati entro il 31 dicembre 2023 e per quelli prenotati entro il primo semestre del 2024 del 20%. Il massimale di acquisto è fissato in un milione di euro. Per i beni acquistati nel 2024 e prenotati entro il 30 giugno 2025 il credito di imposta si riduce al 15%; per i beni acquistati nel 2025 e per quelli prenotati entro il 30 giugno 2026 il credito di imposta è del 10%. Il massimale di spesa rimane fissato a un milione di euro.

Credito di imposta su altri beni rientranti nel bonus investimenti ma non 4.0

Per quanto concerne il credito di imposta ordinario applicato per l’acquisto di beni materiali non rientranti nelle tabelle A e B – e dunque non rientranti nell’Industria 4.0 – con beneficio anche per i liberi professionisti, le percentuali (in riduzione) sono le seguenti:

  • il 6% del credito di imposta per i beni acquistati nel 2022 e prenotati nel 1° semestre del 2023. La percentuale fino al 31 dicembre 2021 (e valida per i beni consegnati o ultimati entro il 30 giugno 2022) è del 10%. Si applica il 15% per i dispositivi utili al lavoro agile;
  • per gli anni 2023, 2024 e 2025 non è previsto alcun credito di imposta su questi beni Industria 4.0;
  • i limiti di spesa sono fissati a 2 milioni di euro per gli acquisti sia del 2022 che del 2023.

Acquisto di beni immateriali ordinari non rientranti nell’Industria 4.0: quale credito di imposta dal bonus investimenti?

Per l’acquisto di beni immateriali ordinari, non rientranti tra quelli Industria 4.0, l’applicazione del bonus investimenti permette i seguenti crediti di imposta:

  • per i beni immateriali ordinari del 2021 e prenotati entro il 30 giugno 2022, il credito di imposta è del 10% con un massimale di un milione di euro;
  • l’acquisto dei beni nel 2022 e fino e prenotati entro il 30 giugno 2023 la percentuale si riduce al 6% con massimale di spesa di un milione;
  • per gli acquisti degli anni 2023, 2024 e 2025 non è previsto alcun credito di imposta per l’acquisto di questi beni.

Cumulabilità bonus investimenti dei beni Industria 4.0 con altri benefici fiscali

Sulla cumulabilità dell’acquisto dei beni rientranti nel bonus investimenti dell’Industria 4.0 con altri benefici fiscali vale la regola generale fissata dalla legge di Bilancio 2021 (ultimo comma dell’articolo 1059). Nel dettaglio, il beneficio del credito di imposta del bonus investimenti risulta cumulabile con altri benefici fiscali sugli stati costi purché tale cumulo rientri all’interno del limite del costo sostenuto.

Cumulabilità bonus investimenti dei beni Industria 4.0 con le misure del Pnrr

Per quanto concerne la cumulabilità del credito di imposta del bonus investimenti dei beni Industria 4.0 con le misure del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza (Pnrr) è necessario rifarsi alla circolare del ministero dell’Economia e delle Finanze numero 21 del 2021 che recepisce il Regolamento Ue numero 241 del 2021. In particolare, l’articolo 9 del Regolamento comunitario prevede il divieto di cumulo delle misure del Pnrr con le risorse ordinario del bilancio statale.

Cumulabilità credito di imposta beni 4.0 con le disposizioni del Pnrr: i codici tributo da utilizzare

Nel dettaglio, la cumulabilità del credito di imposta del bonus investimenti deve integrarsi con le disposizioni contenute nella misura “Investimento 1, Transizione 4.0 del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza (M1 C1-1). Tale misura prevede il credito di imposta per l’acquisto di beni materiali e immateriali 4.0 e di quelli standard da non cumulare con il credito di imposta del bonus investimenti. Nella compilazione del quadro RU, in particolare, è necessario prestare attenzione agli errori o alle omissioni di difficile risoluzione. I codici tributo da utilizzare sono contenuti nella risoluzione numero 68/E del 2021.

Cumulabilità beni materiali e immateriali bonus ordinario con beni immateriali Pnrr

Sulla cumulabilità del bonus ordinario sul credito di imposta per l’acquisto di beni materiali e immateriali previsti dal codice tributo 6935 (ovvero i beni non rientranti nelle tabelle A e B, perciò ordinari), la quota finanziata dal Piano nazionale per la ripresa e la resilienza è unicamente quella relativa ai beni immateriali ordinari. Tuttavia, quanto descritto deve integrarsi con la circolare del ministero dell’Economia e delle finanze numero 33 di fine 2021. Tale comunicazione ha chiarito che le diverse misure, quella comunitaria e quella nazionale, possono finanziare l’acquisto di uno stesso bene purché i due incentivi non si sovrappongano e riguardino quote diverse di costi senza superare il 100% del costo relativo all’acquisto stesso.