Lo Stato può ingrassare, i comuni devono tagliare

Tasse e imposte allo Stato, lacrime e sangue agli enti locali. Questo emerge, in sostanza, da un’analisi della Cgia di Mestre secondo la quale i Governi Berlusconi e Monti hanno imposto, per l’anno in corso, manovre correttive pari a 48,9 miliardi: 40,2 di nuove entrate e 8,7 di tagli alla spesa. Però, se sul totale delle nuove entrate previste l’84,4% finirà nelle casse dell’Erario, sul fronte tagli, invece, la situazione si “ribalterà”. All’Amministrazione centrale sarà richiesta una riduzione netta della spesa del 20,1% del totale, mentre gli enti locali subiranno un taglio pari al 51,4% del totale della spesa prevista e gli enti previdenziali il restante 28,6%. Un altro esempio scandaloso dell’asimmetria che lo Stato utilizza nei confronti non solo dei contribuenti ma anche degli enti non di primo livello.

L’analisi della Cgia si è poi spinta oltre e ha preso in esame alcuni dati sulla ripartizione del debito pubblico italiano per livello di governo. Lo stock di debito pubblico al 30 aprile 2012 è risultato pari a 1.948 miliardi di euro, dei quali solo il 2,6% è imputabile alle Amministrazioni comunali (50,5 miliardi). In totale, le Amministrazioni locali incidono appena per il 5,7% sul debito pubblico, mentre il 94,3% rimanente è in capo alle Amministrazioni centrali.

Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia di Mestre: “Se l’enorme gettito fiscale aggiuntivo imposto dagli ultimi due Esecutivi finirà quasi tutto nelle casse dell’Erario i tagli alla spesa saranno però in capo quasi esclusivamente agli Enti previdenziali e agli Enti locali. Se i primi raggiungeranno l’obiettivo grazie alla riforma previdenziale attuata dal Governo Monti, i secondi, vista la difficile situazione di bilancio, dovranno, molto probabilmente, ritoccare all’insù le tasse locali, con un evidente appesantimento fiscale in capo ai contribuenti italiani. Insomma, comprovato che la messa in sicurezza dei nostri conti pubblici avverrà agendo quasi esclusivamente sulla leva fiscale erariale, i pochi tagli previsti ricadranno quasi tutti sulle spalle degli Enti locali e di quelli previdenziali. Con buona pace di chi attende l’arrivo del tanto agognato federalismo fiscale“. Come dargli torto?

Siamo in guerra? E allora combattiamo!

di Davide PASSONI

C’è chi ancora confonde l’essere pessimisti con l’essere realisti. Brutto segno, specialmente in un periodo come questo. Di sicuro, notizie positive dai mercati e per le piccole imprese ne arrivano pochine, anche da Confindustria. Di solito Viale dell’Astronomia non è solito usare toni allarmistici o catastrofici, ma quanto emerge dal Centro studi di Confindustria non lascia spazio alla poesia: per il prossimo biennio il Pil è visto in calo del 2,4% (2012) e dello 0,3% (2013), con un ritocco al ribasso di quanto previsto nel dicembre dello scorso anno (-1,6% per il 2012, +0,6% nel 2013). “Siamo in piena recessione e non ne usciremo tanto rapidamente“, ha detto il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi.

Il 90% dell’arretramento di quest’anno è già acquisito nel secondo trimestre 2012 (-2,1)“, scrivono gli economisti del Csc, ricordando non solo le conseguenze innescate dall’esito incerto delle elezioni in Grecia, la crisi delle banche spagnole ma anche il fatto che “le istituzioni europee non sono riuscite a trovare una soluzione praticabile e credibile a causa della conyrapposizione degli interessi nazionali dei singoli stati“.

E qui arrivano le parole pesanti. Per il Centro studi di Confindustrianon siamo in guerra: ma i danni economici fin qui provocati dalla crisi sono equivalenti a quelli di un conflitto“. Come in un conflitto, sono colpite a morte “le parti più vitali e preziose del sistema Italia“: industria manifatturiera e giovani. “L’aumento e il livello dei debiti pubblici sono analoghi in quasi tutte le economie avanzate a quelli che si sono presentati al termine degli scontri bellici mondiali“, proseguono, tanto per chiarire come siamo messi.

L’occupazione è il fronte più colpito dal “conflitto”: si prevede che il 2013 chiuderà con 1 milione e 482mila posti di lavoro in meno rispettp a inizio 2008. La disoccupazione prosegue a galoppare e a fine 2013 potrebbe toccare il 12,4% dal 10,9% di fine 2012.

Anche sul lato dei consumi siamo messi maluccio: -2,8% nel 2012 e -0,8% nel 2013 con i consumi reali a -4,5% rispetto alla media 2007. Tradotto in soldini, nel 2013 il livello di benessere degli italiani sarà del 10% più basso rispetto alla media 2007, quasi 2.500 euro in meno a prezzi costanti.

L’inflazione nel 2012 dovrebbe salire dal 2,8% del 2011 al 3,1% (opinabile…) per tornare al 2,6% nel 2013 mentre, sempre nel 2013, il deficit pubblico scenderà dal 2,6% del 2012 all’1,6% del Pil, ben lontano dal pareggio di bilancio, come richiesto dal “fiscal compact” e dalla modifica dell’articolo 81 della Costituzione: 1,1% del Pil nel 2012 e 0,4% nel 2013.

Insomma, trovateci una bella notizia, se ci riuscite. Noi ci proviamo e proviamo a guardare dentro quell’Italia produttiva che fa i miracoli soprattutto con l’export, nonostante uno stato miope e rapace; dentro a quella piccola impresa strozzata da tasse e burocrazia che, però, alza la saracinesca ogni mattina convinta di essere se stessa la prima risposta alla crisi; dentro a tutte le realtà produttive che non si rassegnano all’idea di morire per colpe non loro e che ce la vogliono fare. Insomma, cara Confindustria, siamo in guerra? E allora combattiamo. Non per morire con onore ma per vincere, con orgoglio.

E l’Imu fu. Oggi il termine per l’acconto

E alla fine è arrivata. La prima, temutissima scadenza per l’Imu. Oggi è infatti il termine per pagare l’acconto dell’imposta, ma se siete dei ritardatari cronici o dei pigri che sono arrivati all’ultimo senza avere ancora un’idea di che cosa fare, non preoccupatevi. Le cose da sapere sono poche e basilari: eccole.

Hanno l’obbligo di pagare l’Imu tutti i proprietari di immobili che si trovano nel territorio italiano, secondo un meccanismo di calcolo analogo a quello dell’Ici. Analogo, non uguale, perché, qui c’è il trucco, i coefficienti moltiplicatori sono più alti e variano in base alla tipologia di immobile. L’Imu va pagata tramite modello F24.

Per non sbagliare, è necessario fare riferimento al rogito o a una visura catastale recente. Per il calcolo dell’Imu, infatti, si parte sempre dalla rendita catastale attribuita all’immobile al 1° gennaio dell’anno. Tale rendita, come in passato, deve essere rivalutata del 5% e il risultato della rivalutazione va moltiplicato, come per l’Ici, per una serie di coefficienti variabili a seconda della tipologia dell’immobile.

Importantissimo ricordare che l’F24 va presentato anche se l’imposta è pari a zero per effetto delle detrazioni, così come ha precisato l’Agenzia delle Entrate. Non bisogna poi dimenticare di comunicare al Fisco l’eventuale decisione di pagare in acconto. E se la pigrizia, le mille cose da fare o un imprevisto non vi consentono di rispettare il termine di oggi, per pagare c’è ancora tempo ma con la sanzione: per i primi 14 giorni è dello 0,2%, entro 30 giorni del 3% (su quanto non ancora versato). Dopo i 30 giorni scatta il 3,75% sull’importo non pagato ma il rischio è che venga dato avvio a un’attività di accertamento che può portare a una sanzione del 30%.

Insomma, per pagare e per morire c’è sempre tempo. Ma è meglio rispettare i termini (almeno per pagare…)

Terremoto, in ginocchio l’economia emiliana

Il terremoto piega le vite, piega i paesi dell’Emilia e piega l’economia. Non li spezza, ma li piega eccome. E con loro, l’intera economia nazionale. Lo ha confermato il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi: “Ho letto anch’io sui giornali di oggi che nella zona dove è localizzato l’epicentro si produce circa l’1% del Pil del nostro Paese. E’ chiaro che in quest’area probabilmente assisteremo ad un fermo delle attività produttive di alcuni mesi. Credo che indicare tre-quattro mesi non sia lontano dalla realtà“. Ovvero, una catastrofe. I distretti colpiti sono quelli dell’eccellenza italiana: meccanica, biomedicale, ceramica, agroalimentare.

Quest’ultimo è stato travolto, dai caseifici agli stabilimenti di lavorazione della frutta, dalle cantine alle acetaie dell’aceto balsamico ai magazzini di stagionatura di Grana e Parmigiano: Coldiretti ha stilato la mappa del disastro. Cinquecento milioni di danni provocati dal terremoto tra le province di Modena, Ferrara, Piacenza, Mantova e Bologna; senza dimenticare Rovigo e Reggio Emilia.

Oltre ai tristemente noti capannoni, sono crollate anche case rurali, stalle, fienili, sono andati distrutti macchinari e sono morti centinaia di animali. Un distretto dove si produce oltre il 10% del Pil agricolo e da dove partono verso l’Italia e il mondo le più eccelse produzioni agroalimentari nazionali, dal Parmigiano Reggiano all’aceto balsamico di Modena, dal prosciutto di Parma al Lambrusco.

Ferme le attività di cantine e macelli dove si ottiene la materia prima per il prosciutto di Parma e l’aceto balsamico per il quale, secondo Coldiretti, si stimano danni per 15 milioni mentre sono circa 1 milione le forme di Parmigiano Reggiano e Grana Padano cadute a terra dopo le scosse di martedì.

Coldiretti è poi entrata nelle varie realtà industriali. Nell’azienda di Mauro Galavotti sono collassati i magazzini di fieno con impianto fotovoltaico, i centri aziendali sono lesionati e sono in crisi gli animali nella stalla con le mucche che producono latte per il Parmigiano. A Mirandola nella stalla di Davide Pinchelli sono crollati i centri aziendali. Crollati capannoni, fienili e magazzini nell’allevamento di Alessandro Truzzi a Novi di Modena. i mangimi sono sepolti dalle macerie e le bestie rischiano di morire di fame.

E avanti così, con il settore dell’agriturismo sfregiato nel Mantovano: ‘Zibramonda’ di Quistello, ‘Corte Guantara’ di San Giovanni del Dosso, ‘Rocchetta’ di Moglia sono in ginocchio. In quest’ultimo è crollata la stalla vecchia mentre quella nuova ha avuto danni che hanno costretto i titolari a spostare i 15 cavalli che vengono usati per l’ippoterapia.

Ma non basta. Secondo Coldiretti, il terremoto ha provocato anche un rischio idrogeologico nei territori colpiti con danni agli impianti idraulici e frane che pregiudicano il regolare deflusso delle acque. Conseguenza: sospeso il servizio di irrigazione per un’area della provincia modenese di 26mila ettari, che va da Novi di Modena a Carpi, Campogalliano e Soliera. Un territorio dove forte è la specializzazione per la frutticoltura, il Parmigiano Reggiano e numerose risaie. Ossia: la morte dell’agricoltura.

E a tutta questa gente interessa capire di chi è la colpa se cadono i capannoni? Interessa solo superare lo choc, rimboccarsi le maniche e sperare che lo stato non la lasci sola. Scusate se è poco.

Terremoto, Emilia in ginocchio: morti e dispersi, strage di operai

La terra trema ancora in Emilia Romagna, gli edifici crollano e ci sono nuove vittime tra gli operai al lavoro nelle numerose aziende della zona. Diverse vittime accertate nel Modenese (almeno 16) tra cui almeno 3 operai morti al lavoro nella zona e un centinaio i feriti sempre nella bassa Modenese, mentre si temono altri morti nelle zone già colpite dal terremoto del 20 maggio: molti sono i capannoni crollati e le abitazioni collassate. Oltre 14mila gli sfollati. Un altro colpo durissimo per l’economia locale, fatta di piccole e piccolissime imprese, spesso dell’eccellenza italiana.

Dal Veneto alla Lombardia, fin giù in Toscana e sul levante ligure di Ponente la terra non smette di tremare: una forte scossa di terremoto di magnitudo 5,8 della scala Richter, secondo l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, con epicentro a Medolla nel modenese ha terrorizzato alle 9 del mattino la popolazione già in ginocchio. Poi alle 12.56 un’altra lunghissima e violenta scossa.

Evacuati negozi, uffici e scuole a Milano, Padova, Bologna e in molte città del settentrione per motivi di sicurezza. Nuovi crolli sono stati registrati a San Felice, Mirandola e Finale Emilia, paesi già messi a dura prova dal forte sisma del 20 maggio. Linee interrotte nel modenese e nel ferrarese, intasate le linee telefoniche di vigili del fuoco e polizia urbana.

La scossa è stata avvertita in tutto il Nord Italia, da Aosta a Torino, passando per la Liguria – a Sestri Levante e a Genova sono state evacuate scuole e uffici- fino a Viareggio, Pesaro, Lucca. La scossa è stata sentita anche in Austria per non parlare delle provincie di Pordenone, Padova, Treviso. A Venezia una statua dei giardini di Papadopoli, accanto a Piazzale Roma, la piazza della Stazione di Santa Lucia della Laguna, è crollata. Danni anche nel mantovano.

A Cavezzo, Modena, i 3/4 del paese non ci sono più. Crollato anche il castello di Finale Emilia.

Danni a tutto il patrimonio artistico del modenese. Crollano il Duomo e la Chiesa di San Francesco a Mirandola. E’ crollata la Chiesa di San Possidonio (MO), il Teatro Comunale di Cento, la chiesa Poggio Renatico.

Ancora una volta il terremoto dell’Emilia scuote i social network. Secondo un account di Twitter sarebbe crollata la scuola di Ostiglia. Il cantante bolognese Cesare Cremonini avvisa che le donne e i bambini degli ospedali locali sarebbero in via di trasferimento. Internauti comunicano che nelle prime ore di questa mattina i cellulari della zona di Bologna erano fuori uso.

Sempre su Twitter, Ferrovie dello Stato comunica la ’Circolazione interrotta ambito stazione Bologna C.le per accertamenti infrastruttura a seguito scossa tellurica”.  Sullo stesso profilo Fs ha spiegato che la circolazione è sospesa sulle linee tra Bologna e Padova, tra Bologna e Verona, tra Milano e Bologna e sulla Verona – Mantova – Modena. I treni subiranno cancellazioni e ritardi.

La Protezione Civile di Modena ha messo a disposizione il suo numero: 059200200

La grappa italiana piace all’estero

Un settore di nicchia per quanto riguarda il vino italiano sta prendendo sempre più piede, soprattutto in chiave export.
Si tratta dei distillati italiani che, come ha ben illustrato AssoDistil, vanno bene all’estero ma registrano un calo nella produzione e nei consumi interni del 10%.
Questa diminuzione sostanziale è derivata da una vendemmia, lo scorso anno, molto scarsa, seguita da un’altrettanto scarsa produzione.

Antonio Emaldi, presidente di AssoDistil, ha dichiarato: “Il mondo è cambiato, soprattutto negli ultimi anni e oggi l’industria dei distillati deve confrontarsi con un sistema globale aggressivo, che non perdona chi stenta ad adeguarsi“.
Questa situazione riguarda in particolare il comparto degli alcoli e acquaviti di origine vinica mentre al contrario aumenta, come in tutta Europa, l’alcol da cereali.

In realtà, questa non è una novità, dal momento che è da qualche anno che la prima voce di produzione deriva dal cereale, seguita dagli alcoli di origine vitivinicola. Nel complesso, nel 2011 in Italia sono stati prodotti 833.00 ettanidri di alcol, -16% sul 2010 e 192.800 ettanidri di acquaviti, il 16% in meno rispetto all’anno precedente.

Nel dettaglio, l’acquavite di vino rappresenta il segmento nel quale l’Italia è leader europeo insieme alla Spagna e si conferma quindi la prima voce in termini di export e volume, anche se in calo di circa il 30% rispetto al 2010. Bene, invece, le acquaviti di frutta che hanno registrato un incremento del 67%.

E la grappa? Questo distillato assoluto simbolo del Made in Italy è diventato ormai un prodotto super raffinato, una presenza fissa nell’agroalimentare e nella ristorazione, ma solo per palati colti ed esigenti.
A dimostrazione di ciò ci sono i dati dell’export, che indicano le esportazioni di grappa in bottiglia del 18% nel 2011, mentre il prodotto sfuso è cresciuto del 37% rispetto allo scorso anno. Tra i mercati più interessanti, si segnalano Stati Uniti, Brasile, Cina e, in minor misura, la Russia.

Per quanto riguarda la produzione, il 10% delle aziende si occupa del 64% della produzione e sono le prime dieci aziende per volumi di vendita a vantare oltre il 60% delle quote di mercato. La grande maggioranza delle imprese è costituita da micro e piccole realtà che, al di là dei ridotti di produzione al di sotto dei 1.000 ettanidri, rappresentano la storia e l’emblema di questo settore.

Per salvaguardare qualità e produzione dei distillati, Antonio Emaldi ha affermato: “E’ fondamentale che la Ue garantisca regole uguali per tutti. E’ importante che la distillazione dei sottoprodotti della vinificazione sia stata mantenuta nell’ambito dei Piani nazionali di sostegno, secondo le modalità ora in vigore, e cioè con un aiuto per la produzione di alcol destinato ad usi industriali“.

Vera MORETTI

C’è la crisi? La combatto con il franchising

In tempo di crisi non c’è solo il modo di inventarsi un lavoro aprendo una partita Iva. Una buona soluzione è offerta dal franchising, una realtà che, in Italia, sta riscoprendo un vero boom, grazie all’offerta ampia del mercato e a un lavoro che, nelle sue forme storiche, è sempre più in via di precarizzazione.

Non a caso, il 26 e 27 maggio si svolge a Piacenza Expo la fiera “Franchising Nord”, nella quale 50 aziende del franchising sono a disposizione di chiunque necessiti di maggiori informazioni su come aderire ad un’attività nel settore.

Nel 2012 aumenta infatti il numero delle persone che si avvicinano al franchising per aprire un’attività: secondo l’Osservatorio del portale BeTheBoss.it, il primo trimestre ha fatto registrare un +8% rispetto alle stesso trimestre del 2011 di tutti coloro che hanno contattato i siti specializzati, gli esperti e le aziende del settore per chiedere informazioni su come entrare nel mondo del franchising. Il sito prevede, in proiezione, un aumento del 6% sull’intero 2012.

Cresce dunque il numero delle persone che progettano di mettersi in proprio, aderendo ad una attività in franchising. Qual è il loro identikit? Nella media, i potenziali franchisee sono giovani, ma non giovanissimi: il 70% di essi appartiene alla fascia d’età 30-49 anni. Si avvicinano al franchising soprattutto persone che hanno già avuto esperienze di lavoro, ma desiderano mettersi in proprio (le donne sono il 35%), oltre a manager espulsi dalle aziende, ex commercianti in cerca di nuove opportunità, e via dicendo.

Insomma, come diciamo noi di Infoiva: il lavoro c’è, basta cercarlo. E se non si trova, lo si può inventare.

Piccole imprese, l’e-commerce per crescere

di Davide PASSONI

Crisi, crisi, crisi. C’è, è inutile negarlo, e per le piccole imprese italiane è ancora più dura. Ma piangersi addosso non serve, gli strumenti per combatterla ci sono, specialmente se si guarda alle potenzialità del digital e dell’e-commerce in particolare.

Se n’è parlato al recente E-commerce Forum di Milano dove tanti esperti del settore si sono trovati d’accordo su un punto base: è necessario che le piccole imprese siano attive nell’e-commerce, altrimenti l’economia non cresce.

Un’operazione non facile, visto che spesso mancano tempo e cultura, oltre alla possibilità di investire in una logistica nuova e in un nuovo modello di business. Siamo ancora indietro rispetto a Paesi europei come la Germania, dove la penetrazione dell’e-commerce sia verso il consumatore che da parte delle imprese è molto più alta della nostra. Eppure il passaggio alla digitalizzazione dell’esperienza di vendita può essere vincente, a costi relativamente contenuti e necessario. Nei prossimi 5 anni l’80% dei clienti del made in italy verrà da fuori Usa ed Europa: la necessità di aggredire i mercati con l’e-commerce c’è ed è forte. In Italia, Netcomm, il consorzio del commercio elettronico italiano, sta portando avanti questo messaggio da tempo, come testimonia il suo presidente, Roberto Liscia.

Che ruolo può giocare Netcomm in un periodo così difficile per aiutare le aziende italiane a spingere sull’acceleratore dell’e-commerce?
Netcomm oggi si muove su tre direzioni fondamantali. La prima: definire nuove regole legislative e iniziative con il governo per supportare a livello finanziario lo svliuppo dell’e-commerce per le piccole imprese e il finanziamento all’export. La seconda: abbiamo sviluppato un sigillo che consente alle imprese che entrano in Netcomm di avere una certificazione di qualità che dia fiducia al cliente. La terza: abbiamo creato una società, Netcomm Services, che ha lo scopo di mettere tutte le competenze presenti in Netcomm a disposizione delle piccole imprese per il loro processo di trasformazione digitale. Sono tre ambiti che riteniamo fondamentali per aiutare le piccole imprese a maturare nel campo dell’e-commerce.

Il governo ha orecchie e voglia di ascoltare queste istanze?
Sì, ma ha poche leve finanziarie per poter intervenire in modo rapido.

Ce la facciamo, come Italia, a uscire da questo momentaccio anche con l’e-commerce?
Dobbiamo, non ci sono alternative. L’economia italiana è fatta dalle piccole imprese, il mercato interno non drena, quello che drena è il mercato internazionale che non può essere accessibile alle piccole imprese con i canali di vecchia maniera. Devono per forza pensare di aggredire i potenziali 500 milioni di clienti nel mondo attraverso l’e-commerce. In questo senso, stiamo anche lavorando con la Cina e Union Pay per sviluppare dei flussi di commercio online con quel Paese, dove ci sono 153 milioni di potenziali consumatori per i prodotti del nostro made in Italy.

Un messaggio di ottimismo a chi opera in questo campo?
L’e-commerce a livello planetario cresce, in Italia cresce del 20%, i clienti a livello globale sono potenzialmente 1,5 miliardi, dei quali comprano in 500 milioni ma connessi alla rete sono appunto 1,5 miliardi: le piccole imprese devono sapere rischiare, organizzarsi per conquistare questo potenziale straordinario di clienti, innescando crescita per sé e per tutta l’economia.

Il gran ballo dell’Imu

Se pian piano si dirada la nebbia su tempi e modi per il pagamento dell’Imu, ora ci si mettono i comuni a fare casino. L’Anci ha infatti lanciato l’allarme: il gettito Imu sarà inferiore rispetto alle stime del Mef “e questo sarà un problema” per i cittadini che “dovranno pagare molto di più“. Virgolettati del presidente dell’Anci, Graziano Delrio, che chiede al governo di correggere la rotta: “c’è urgenza di sedersi intorno a un tavolo e modificare l’attuale situazione o rischiamo una grande tensione sociale al pagamento della prima rata“.

Allarmismo? Ci pensa il governo a smorzare i toni, prima nella persona del sottosegretario al ministero dell’Economia, Vieri Ceriani, che assicura che Palazzo Chigi “è fiducioso” sull’incasso e che sarà possibile non alzare l’aliquota; prima di lanciare l’allarme, occorre attendere il pagamento della prima tranche dell’imposta. Secondo i calcoli del ministero, i comuni incasseranno dall’Imu tre miliardi in più nel 2012, rispetto all’Ici del 2011. Dei 21 miliardi di gettito previsto dall’Imu, 9 andranno allo stato e 12 ai Comuni, mentre nel 2011 questi ne avevano incassati 9. Dalla nuova imposta sulla casa, dunque, il guadagno è di circa 3 miliardi mentre, dice Ceriani, “la carenza di risorse” lamentata dai Comuni deriva dai trasferimenti dello Stato che hanno subito “un taglio forte“.

Infine, museruola definitiva all’Anci dal Governo, che in una nota conferma il gettito complessivo di circa 21 miliardi di euro e dice che la notizia di un ammanco di 2,5 miliardi di euro, diffusa attraverso le stime elaborate dall’Ifel, l’Istituto per la finanza e l’economia locale dell’Anci, sulla base delle previsioni di gettito formulate dai Comuni “non deve generare allarmismo“. Insomma, zitti e mosca, i soldi arriveranno. Come al solito… intanto pagate, poi si vedrà.

I giovani si danno all’agricoltura

La crisi si affronta anche tornando alle proprie origini, o, ancora meglio tornando alla terra.

Dopo un fuggi-fuggi generale, da parte delle nuove generazioni, dai lavori legati all’agricoltura, ora, causa la profonda crisi che sta causando un pauroso aumento della disoccupazione giovanile, oggi al 36%, sono molti i ragazzi che fanno dietrofront.

Non si tratta solo di continuare l’attività di famiglia, inizialmente evitata con tanto di smorfia, ma anche di vere e proprie new entry che cercano, e trovano, un opportunità concreta di lavoro nel lavoro dei campi.
Ciò emerge dall’aumento sensibile dell’apertura di nuove partite Iva legate all’agricoltura e riguardanti gli under 35.

Non si tratta, comunque, solo delle produzioni classiche, ma anche di fattorie sociali e didattiche, oltre alla vendita diretta, produzione di energia da biomasse e valorizzazione del territorio.
Insomma, se di ritorno alla terra si tratta, è anche vero che multifunzionalità ed innovazione la fanno da padrone.

Le nuove leve, dunque, non si limitano ad imparare il mestiere dei padri ma, anzi, portano modernità e freschezza in un settore dalle molte potenzialità, grazie ad una nuova ed attenta sensibilità alle problematiche ambientali e sociali.
E se da una parte gli agriturismi attraggono molto le aspirazioni dei giovani, dall’altro si sta assistendo ad un vero e proprio boom delle fattorie didattiche, che in Italia sono, per il 4,7%, condotte da under 35.

Un’altra risorsa importante è la vendita diretta, appannaggio del 22,6 per cento degli “under 35” contro il 15 per cento degli “over”, con un occhio sempre più attento ai servizi per l‘ambiente e alla produzione di energia alternativa, una prerogativa aziendale per il 7,2 per cento dei giovani contro il 4 per cento dei colleghi più maturi.

Vera MORETTI