Cosa significa mettere una società in liquidazione?

Oggi andremo ad occuparci di una annosa questione, nel mondo del lavoro. Ovvero la cessazione di una attività intesa come società e quindi vedremo cosa significa mettere una società in liquidazione.

Cos’è una società a responsabilità limitata?

Innanzitutto, cominciamo col dire cosa sia una società srl, sebbene molto probabilmente chi è qui a leggere saprà già di cosa stiamo parlando.

Quando parliamo di srl, parliamo di società a responsabilità limitata, quindi una società che consente di costituirsi con altre persone, sia fisiche che giuridiche (ovvero altre società), con le quali si diventa soci. Le quote societarie affidate a ciascun socio possono essere trasferite e cedute come regolato nello statuto della società.

Molti, dunque si chiedono cosa accade mettendo in liquidazione una società. Non ci resta che andare a scoprirlo insieme.

Cosa si intende per liquidare un’ azienda o società

Dunque, dichiarasi la liquidazione nel caso in cui una società di capitali, una società di persone o un’impresa individuale deve essere sciolta. Attraverso tale procedura l’obiettivo è quello di rendere liquidi i beni residui dell’impresa (come gli edifici, i macchinari, i veicoli) per far fronte a tutte le passività, ovvero per convertirle completamente in contanti o in altri fondi facilmente scambiabili.

Le tipologie di liquidazioni si distinguono in diversi casi, come i seguenti:

  • volontaria o ordinaria cioè disciplinata dal Codice civile; prevede tre fasi (scioglimento, liquidazione, estinzione). È quella su cui ci soffermeremo nel nostro articolo.
  • forzata o giudiziale o concorsuale che è conseguente alla dichiarazione di fallimento.
  • coatta amministrativa quando è disposta dall’autorità giudiziaria e applicata ad alcuni enti e categorie d’impresa quali imprese bancarie e assicurative, società partecipate da enti pubblici, società cooperative e alcuni enti dell’amministrazione italiana.

Ma quando viene determinata la liquidazione di una società?

Dunque, questa liquidazione con scioglimento societario può determinarsi in diversi modi, secondo motivi differenti:

  • previa accordi dei soci che lo hanno deliberato
  • si sono verificate le cause di scioglimento previste dalla legge
  • a verifica di cause di scioglimento previste dal contratto sociale o dall’atto costitutivo

Una volta che si è messo fine alla fase produttiva, una società in liquidazione vive quindi la sua ultima fase di vita, in cui realizza le attività e paga le passività. Nel caso dovesse rimanere un attivo dopo aver ultimato le precedenti operazioni avrà esso possibili due destinazioni:

  • qualora si tratti di un’impresa individuale finisce nel patrimonio privato dell’imprenditore;
  • se si tratta, invece di una società tornerà ai soci in proporzione al capitale conferito da ognuno di essi al momento della costituzione della società.

Vediamo, inoltre cosa ancora comporta determinare la liquidazione di una società. Il principale cambiamento in un’azienda in fase di liquidazione non interessa l’oggetto sociale che resta immutato, ma lo scopo sociale. L’obbiettivo diviene infatti quello di estinguere ogni rapporto giuridico, attivo o passivo che sia, caratterizzante la vita dell’ azienda liquidata.

Nel caso, ad esempio di una società di persone le cause contenute nell’articolo 2272 del Codice civile che portano al determinare lo stato di liquidazione di una società di persone sono quelle che seguono:

  • decorso del termine
  • conseguimento dell’oggetto sociale o impossibilità di conseguirlo
  • volontà di tutti i soci
  • mancanza della pluralità dei soci
  • altre cause previste dal contratto sociale o atto costitutivo

Responsabilità dei soci e revoca della liquidazione

In ultimo, ma non ultimo, andiamo a vedere quali sono le responsabilità dei soci nello scioglimento di una società. Al conseguimento della cancellazione di una società di persone dal Registro delle Imprese possono essere rimasti dei crediti non soddisfatti. In tal caso, i creditori sociali potranno procedere nei confronti dei soci ed eventualmente anche dei liquidatori, qualora essi siano la causa del mancato pagamento.

Per quanto riguarda la revoca della liquidazione, invece, vi è infine la possibilità di revocare lo stato di liquidazione. Per poterlo fare si dovrà rimuovere le cause di scioglimento, con il consenso di tutti i soci, quindi si potrà riprendere la normale attività sociale.

Ora che la questione “liquidazione” è appurata, non ci resta che liquidarci e darci appuntamento alle prossime notizie sul mondo delle imprese e del lavoro.

Come chiudere una ditta individuale e quanto costa

Oggi ci addentreremo in questo periglioso e articolato mondo della Partita IVA e del lavoro individuale, specialmente nel 2021, tra montagne russe di crisi economiche e sociali. Scopriremo assieme come chiudere una ditta individuale e quanto costa poterlo fare.

Come chiudere Partita IVA?

Partiamo subito col dire che fare impresa in Italia diventa sempre più difficile, potremmo dire che è diventato un’ impresa. Soprattutto nel 2021 dopo la Legge di Bilancio e il Decreto Fiscale.

Non a caso, molti professionisti decidono di cessare la loro attività e chiudere la Partita IVA.

Per una questione di comodità di tasse, contributi e conguagli, una ditta individuale preferisce chiudere la propria Partita IVA al termine dell’anno. Più specificamente, indipendentemente dal periodo, deve essere chiusa entro 30 giorni dalla cessazione della propria attività. La stessa procedura avviene anche nel caso si effettui una variazione di proprietà o ragione sociale, altra praticamente molto richiesta di recente.

Procedure per chiudere una ditta individuale e Partita IVA

La procedura per chiudere una ditta individuale cambia a seconda delle categorie professionali in questione e quindi dei moduli utilizzati. Ovvero il Modulo AA9/12 per persone fisiche, ditte individuali, artigiani, autonomi, professionisti, artisti ed il Modulo AA7/10 per società, s.r.l., s.p.a., s.a.s., associazioni.

Dunque, per poter avviare la chiusura di Partita IVA, che sia destinata essa a persone fisiche, società o associazioni, entrambi i moduli vanno consegnati entro 30 giorni dalla cessazione dell’attività in 3 modalità, ovvero le seguenti:

  • Telematicamente sulla piattaforma Entratel dell’agenzia
  • Personalmente o con delega in un ufficio dell’agenzia
  • Con raccomandata A/R indirizzata a un ufficio dell’agenzia, allegando copia del documento di riconoscimento

C’è un’ulteriore sottolineatura da fare nella compilazione del modulo, ovvero il codice ATECO della propria attività. Tali dichiarazioni verranno ritenute consegnate direttamente nel giorno in cui risulteranno spedite. In seguito, si comunicherà la chiusura della Partita IVA alla Camera di Commercio, attraverso differenti modalità a seguito della ragione sociale:

  • Ditte individuali e liberi professionisti avranno da compilare il modello I2 specificando la cessazione dell’attività, ponendo in allegato eventuali certificazioni e autorizzazioni comunali o da altri enti
  • Artigiani e commercianti avranno la stessa procedura  delle ditte individuali, rivolgendosi inoltre al comune in cui si è dichiarato l’inizio dell’attività
  • Società e associazioni avranno l’obbligo di liquidare beni aziendali e risolvere rapporti pendenti, mentre i soci dovranno compilare e presentare il modulo AA7/11

Quanto costa chiudere una ditta individuale?

In ultimo, ma non affatto ultimo, andiamo a vedere quali possono essere i costi di una chiusura della propria ditta individuale.

Sostanzialmente possiamo dire che la chiusura di una Partita IVA non comporta costi aggiuntivi rispetto a quelli regolarmente sostenuti per la propria attività professionale. Mentre per le attività iscritte al Registro delle Imprese, sarà necessario sostenere le spese per la cancellazione:

  • costo di segreteria, 90,00 euro
  • costo Modelli UL e S5 telematici, 30,00 euro
  • costo Modelli su supporto digitale informatico, 50,00 euro
  • costo dichiarazione società semplice, 18,00 euro (solo società semplici)
  • costo marca da bollo, per ditte individuali 17,50 euro 
  • Modello R cartaceo, 23,00 euro 

Dunque, i professionisti che saranno tenuti ad affrontare queste spese per la chiusura della “propria baracca”, saranno i consorzi, le società, gli imprenditori commerciali, gli enti pubblici alla fine dell’attività commerciale e società estere con sede legale in Italia.

Ci saranno in tutto questo marasma, invece, soggetti esentati dalle spese di cui sopra. Ovvero si tratta di coloro, possessori di partita IVA, non obbligati all’iscrizione, come liberi professionisti, venditori porta a porta, collaboratori coordinati, imprese agricole con basso fatturato e enti non commerciali, od anche le società di mutuo soccorso.

Va, inoltre precisato che da Decreto legge fiscale del 2017, sono avviate le procedure per la chiusura d’ufficio delle partite IVA inattive da un tempo di 3 anni.

Dunque, questo è quanto vi era da sapere in merito alla chiusura di una partita IVA per la propria ditta individuale, nel novero di questo 2021.

Quali sono le caratteristiche del fallimento aziendale?

Oggi andremo a scoprire, nell’intrepido mondo del lavoro, cosa vuol dire rischiare con la propria azienda e, soprattutto cosa accade nel caso di fallimento aziendale. Una breve e rapida guida per comprendere le caratteristiche di un fallimento aziendale. Una possibilità, di questi tempi non poi difficile per gli imprenditori.

Cos’è un fallimento aziendale?

Partiamo subito col dire, in breve, che il fallimento è quel procedimento giudiziario concorsuale liquidatorio che ha inizio in seguito ad una sentenza del Tribunale e che dichiara, quindi, fallito l’imprenditore in stato di insolvenza, ovvero impossibilitato a pagare i debiti.

Dichiarare il fallimento ha lo scopo di soddisfare i creditori dell’azienda fallita, previa la liquidazione, ovvero la vendita dei beni aziendali o personali.

Quindi, sostanzialmente la richiesta di fallimento aziendale è una sorta di “liberazione” per il titolare di impresa, nel momento in cui il proprio fondo monetario è al rosso. Ma, anche una sorta di nuovo calvario che può portare a conseguenze ben poco piacevoli per chi dichiara o ottiene il fallimento.

Ma chi può chiedere o subire il fallimento aziendale?

Tenendo fede all’ articolo 1 della Legge Fallimentare non tutti possono fallire. Il fallimento dell’azienda, di fatto, è possibile solo per le imprese private che esercitano un’attività commerciale, sia che si tratti di aziende di tipo individuale o siano esse di tipo societario. Possiamo dunque asserire che sono escluse da tale procedura le imprese pubbliche, le imprese non commerciali e le imprese agricole. Ma troviamo fuori da questa procedura pure i piccoli imprenditori, come i coltivatori diretti, gli artigiani, chi esercita un’attività professionale organizzata prevalentemente con il proprio lavoro o quello dei propri familiari.

Dunque, la Legge prevede che solo i soggetti legittimati possano chiedere il fallimento aziendale, come nei seguenti casi:

1) il debitore, ovvero l’imprenditore che dimostra di essere inadempiente di pagamenti
2) i creditori, che devono dimostrare di essere in credito non risolto, nei confronti dell’imprenditore previa lo stato di insolvenza di quest’ultimo
3) il Pubblico Ministero, qualora l’insolvenza dell’impresa risulti nel corso di un procedimento penale od anche in seguito ad una segnalazione proveniente da un giudice nel corso di un procedimento civile o fallimentare, od ancora se si presentasse la latitanza del debitore.

Ora, non ci resta che scoprire cosa può accadere come conseguenza di un fallimento aziendale.

Le conseguenze del fallimento aziendale

Andiamo in ultimo, ma non ultimo a vedere quali possono essere le conseguenze di un fallimento aziendale. Una filiera di conseguenze non proprio idilliache che si parano dinnanzi all’imprenditore in disarmo.

A seguito della ottenuta procedura di fallimento, l’imprenditore subisce lo spossessamento. Ciò vorrà dire che l’imprenditore non perde la proprietà dei suoi beni, ma non può né gestirli né amministrarli. I seguenti beni sono sottoposti allo spossessamento:

  • beni mobili e immobili
  • diritti patrimoniali e potestativi
  • beni di proprietà del fallito in via provvisoria
  • beni che appartengono a terzi soggetti che vantano un diritto inopponibile alla procedura
  • beni ottenuti dopo la dichiarazione di fallimento

Non possono, invece essere soggetti a spossessamento i beni personali, come la pensione, gli alimenti, gli stipendi, perquanto sono ritenuti necessari al mantenimento dell’imprenditore (o ex imprenditore) e della propria famiglia. Inoltre, l’imprenditore fallito dovrà depositare i bilanci e le scritture contabili e fiscali obbligatoriel’elenco dei creditori e consegnare tutta la corrispondenza relativa all’impresa al Curatore fallimentare.

Dovrà, inoltre, comunicare anche ogni eventuale cambio di residenza o di domicilio e presentarsi personalmente di fronte agli organi preposti alla procedura di fallimento ogni volta che sia richiesto. Insomma, una condizione non proprio idilliaca, quasi alla stregua di un criminale, quella che si prospetta agli occhi di un imprenditore che dichiara (o riceve) il fallimento aziendale.

Ora che avete avuto una breve sintesi di cosa comporta un fallimento aziendale non vi resta che rimboccarvi le maniche, tenervi tranquilli i creditori, qualora già ve ne siano in vista ed evitare di barcamenarvi in una situazione di bilancio in rosso. Sebbene, di questi tempi di crisi economica e sociale diviene tutto ancor più complicato da gestire. Sempre che voi siate degli imprenditori o abbiate intenzione di diventarlo a breve.

Contratto di apprendistato, quando si può fare e per chi?

Oggi ci abbarbicheremo in uno dei mondi che popolano la giungla del lavoro, ovvero quello dell’apprendistato. Scopriremo assieme quando si può ottenere un contratto di apprendistato e chi può farlo.

Cos’è l’ apprendistato

Iniziamo col chiarificare di cosa parliamo quando usiamo il termine apprendistato. L’apprendistato non è altro che quel periodo di tempo lavorativo in cui vieni assunto con un contratto di lavoro a tempo indeterminato ma con l’obbligo di formazione, secondo il Testo Unico sull’Apprendistato. Una soluzione contrattuale che ha lo scopo di agevolare l’occupazione lavorativa dei giovani.

Potremmo ben dire che troviamo tre tipologie di forme di contratto che si differenziano tra loro per l’obiettivo finale di formazione:

  • Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale
    E’ quel tipo di percorso per i giovani tra i 15 e i 25 anni, ovvero tutti coloro che devono ancora completare un percorso di studi. Il caso più frequente è quello degli studenti degli istituti professionali che alternano il dualismo scuola-lavoro.
  • Apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere
    È un tipo di contratto rivolto a coloro che hanno un’età compresa tra i 18 e i 29 anni assumibili con il vincolo di formazione per conseguire una specializzazione. In tal caso l’attività lavorativa è svolta seguendo le regole del Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro (CCNL) e deve necessariamente essere affiancata dalla formazione in azienda.
  • Apprendistato di alta formazione e ricerca
    Questo è probabilmente il più elevato livello di contratto di apprendistato. Esso è dedicato a chi ha un’età compresa tra i 18 e i 29 anni ed è volto ad incentivare il conseguimento di titoli di studio, dal diploma di maturità al dottorato di ricerca. Possiamo trovare tali termini anche nel praticantato.

Durata di un contratto di apprendistato

Molti si chiedono quale tempo durerà il suddetto apprendistato, prima di potersi definire non più apprendisti del lavoro, ma lavoratori a tutti gli effetti.

Ebbene, possiamo dire che ogni contratto di apprendistato prevede una differente durata.

Ad esempio,  in caso del contratto per Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, esso non può durare per un tempo superiore ai 3 anni. Soltanto quando il diploma è quadriennale si potrà arrivare ai 4 anni di contratto. Ad ogni modo, questa categoria di apprendistato dipende dal conseguimento della qualifica formativa e si adatta ad essa.

Nel caso, invece, del contratto di Apprendistato professionalizzante, avremo ancora una durata massima triennale. Però pur non potendo superare i 3 anni di durata, per questo contratto esistono dei casi particolari in cui esso può arrivare fino ai 5 anni, in alcuni lavori del settore artigianato.

Nel terzo ed ultimo caso contrattuale, quella di alta formazione e ricerca che è legata a una formazione esterna, quindi ad istituti, enti o università, anche la sua durata dipende dal titolo di studio che andiamo a conseguire. Avremo dunque una validità periodica del contratto che sarà decisa dalle Regioni o dalle Province autonome e dagli enti di formazione preposti.

Ovviamente, troviamo sempre la possibilità di recedere il contratto da ambo le parti lavorative, sia del datore di lavoro che dell’apprendista. Mentre, il licenziamento nel caso di contratto di apprendistato è possibile per giusta causa e con preavviso, solo dopo il completamento delle attività formative previste.

licenziamento in apprendistato

In ultimo, vediamo in breve come e quando è possibile essere licenziati, quando si è in contratto di apprendistato.

E’ bene sottolineare che in contratto di apprendistato puoi essere licenziato ma solo per giusta causa o per “giustificato motivo”. Tale motivazione o causa può avere due nature:

  • soggettiva, ottenuta dal comportamento diretto del lavoratore, causa inadempimenti, violazioni o danni;
  • oggettiva, legata cioè a motivi inerenti alla produzione aziendale e all’organizzazione del lavoro.

Qualora, invece si appartiene all’Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale si può essere licenziati per il non raggiungimento degli obiettivi formativi. Poiché, la formazione potrebbe non avere più motivo di esistere.

Quando scatta obbligo di assunzione a tempo indeterminato?

Oggi andiamo a scandagliare quel misterioso mondo del lavoro e la chimera della assunzione a tempo indeterminato. Quando, un lavoratore può avere il diritto e di fare lo scatto di assunzione e quindi quando scatta l’obbligo di assunzione a tempo indeterminato. Scopriamolo assieme.

Lavoro a tempo indeterminato, cosa è?

Innanzitutto, partiamo col dire di cosa si tratta, quando parliamo di lavoro a tempo indeterminato. Con tale tipologia di lavoro, si intende il contratto con cui il lavoratore si impegna, a seguito di una paga retribuita, a prestare la propria attività lavorativa per il datore di lavoro, a tempo indeterminato, cioè senza vincolo di durata. A differenza dei più usuali contratti di lavoro subordinati, ovvero con una durata periodica di scadenza, chiamati lavoro a tempo determinato.

Obbligo di assunzione a tempo indeterminato, quando e come scatta

Dunque, questo infausto mondo del lavoro offre, come detto due tipologie di contratto, con una diversa tipologia di contratto. Sempre che nella peggiore delle ipotesi non vi ritroviate assunti da un datore di lavoro che vi offra danaro in nero, quindi senza una regolare contribuzione e quindi senza alcun contratto a norma. Ad ogni modo, a causa della scarsa tutela che offre al lavoratore il contratto a tempo determinato, col tempo sono entrate in vigore diverse norme per scoraggiare il ricorso a questo contratto. Ultima, ma non ultima, la norma che ha inciso profondamente sulla disciplina di questo istituto, è il decreto Dignità.

Va comunque ricordato e precisato che il lavoratore con contratto di lavoro a tempo determinato ha diritto allo stesso trattamento economico e normativo in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili.

Ma, quando, dunque scatta l’obbligo di assunzione a tempo indeterminato per chi è stato assunto in maniera subordinata?

Potremmo, in breve dire che quando il rapporto di lavoro va ad oltrepassare il periodo di prosecuzione di fatto, il contratto si considera trasformato da tempo determinato a tempo indeterminato, tenendo fede alla data dal superamento dei 30 o dei 50 giorni.

Partiamo col dire che la fissazione del termine dovrà risultare dal contratto di lavoro o dalla lettera di assunzione, a pena di nullità della clausola. Per cui deve essere redatta per iscritto. Fanno invece eccezione i rapporti di durata inferiore ai 12 giorni.

Qualora, invece, dal contratto non risultasse il termine, esso si rivelerà inefficace solo nella parte in cui risulta essere a tempo determinato. Pertanto, si considera il contratto valido, ma a tempo indeterminato. Stessa cosa che accade qualora il termine del contratto è apposto successivamente. In tal caso manca comunque l’inserimento del termine nel contratto di lavoro, che dunque verrà considerato a tempo indeterminato.

Inoltre vi sono delle ipotesi in cui la durata massima complessiva del contratto può essere superiore alla durata di 24 mesi al di fuori della prosecuzione di fatto. Per passare indenni i 24 mesi complessivi, potrà essere stipulato un nuovo contratto a termine, presso l’Ispettorato territoriale del lavoro competente. Diversamente, il nuovo contratto determina la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato.

Superamento delle proroghe di un contratto a tempo determinato

In ultimo ma non ultimo, va ricordato che un contratto a tempo determinato, stando alle previsioni del decreto dignità, può essere prorogato fino ad un massimo di 4 volte.

Superando tale numero di proroghe, scatta l’obbligo al tempo indeterminato.

Per essere ritenuta valida, la proroga deve essere accettata e firmata dal lavoratore, oltre che comunicata per via telematica ai servizi per l’impiego del proprio territorio, con modello Unilav.

Rinnovi contrattuali, vi sono limiti?

In ultimo, ma assolutamente non ultimo, andiamo a vedere se ci sono limiti massimi, inerenti al numero di possibili rinnovi contrattuali.

Va subito detto che, a differenza del numero limite imposto sulle proroghe, non troviamo invece un limite massimo di rinnovi contrattuali.

Tuttavia, deve essere comunque rispettata la durata massima complessiva stabilita nel contratto di lavoro. Occorre in fine ricordare che per ogni rinnovo è obbligatoria l’indicazione di una valida causale e che tra un contratto e l’altro occorre che venga rispettato un periodo di pausa.

Dunque, ora che avete saputo il necessario su questa meravigliosa favola dei contratti di lavoro, potete rinnovare la vostra promessa contrattuale (se ne avete uno di contratto di lavoro) e lavorare felici e contenti, finché pensione non vi separi.

 

Detrazioni Agente di Commercio: per quali spese di rappresentanza?

Oggi andiamo a vedere come funzionano le detrazioni per gli agenti di commercio. Nello specifico, nel novero della questione, andremo a scandagliare per quali spese di rappresentanza avvengono tali detrazioni. Scopriamolo assieme.

Quali sono le spese di rappresentanza

Dunque, le spese di rappresentanza per un agente di commercio appartengono, sostanzialmente alle tre seguenti tipologie:

  • omaggi alla clientela (o ai funzionari della casa mandante)
  • pasti offerti alla clientela (o quindi ai funzionari della casa mandante)
  • soggiorni alberghieri offerti alla clientela (o, ancora ai funzionari della casa mandante)

Dunque, appurato ciò, occorre precisare che in tutti i casi di queste tipologie di spesa, sopra elencate, ai fini fiscali, si fa sempre riferimento al valore unitario al netto dell’Iva e quindi si potrà dedurre il costo sostenuto in maniera integrale e detrarre (sempre integralmente) l’Iva, qualora il valore unitario sia inferiore a € 25,82. Nel caso in cui, invece, il costo del bene/servizio dovesse essere superiore ai € 25,82 ed inferiore ai € 50,00, si potrà esclusivamente detrarre il valore unitario del bene/servizio e non si potrà sottrarre l’Iva.

Dunque, per un breve riepilogo esplicativo, potremmo dire che se spendi fino a 25,82 euro (al netto dell’Iva), deduci integralmente il costo del bene/servizio, detrai integralmente l’Iva. Qualora, invece spendi fino più di 25,82 euro e meno di  50,00 euro (al netto dell’Iva), deduci integralmente il costo del bene/servizio ma non detrai l’Iva.

Ulteriori ragguagli sulle spese di rappresentanza per Agente di Commercio

Una volta appurato quali sono le tipologie, dobbiamo precisare ulteriori ragguagli sulla questione delle spese di rappresentanza. Quindi, occorre dire che per tutte le spese di rappresentanza che hanno un valore unitario superiore ai 50,00 euro sarà riconosciuta un’eccedenza in deduzione nel periodo d’imposta di sostenimento solo se in presenza dei requisiti di inerenza e congruità definiti nel D.M. 19/11/2008 che potrà consentire la deducibilità delle spese di rappresentanza nella misura integrale.

Va ricordato e precisato che vengono ritenute inerenti le spese di rappresentanza sostenute per le seguenti tipologie:

  • viaggi turistici con sostanziose attività promozionali su beni e servizi legati all’attività caratteristica dell’impresa;
  • feste, eventi di intrattenimento e ricevimenti, qualora siano organizzati per ricorrenze aziendali, per festività nazionali o per occasioni religiose, oppure per inaugurare nuove sedi;
  • beni e servizi distribuiti ovvero erogati in maniera gratuita dall’impresa con i requisiti normativamente previsti.

Per chiudere il quadro completo della situazione va aggiunto che la deducibilità fiscale opera sempre, univocamente, nel periodo d’imposta in cui sono state sostenute le spese di rappresentanza, le quali vengono comunque commisurate all’ammontare dei ricavi e dei proventi della gestione caratteristica dell’impresa. I quali risulteranno tali dalla dichiarazione dei redditi, con una struttura esclusivamente e sistematicamente a scaglioni. Il tetto di deducibilità di tutto ciò sarà pari a:

  • 1,3% dei ricavi e di altri proventi fino a un tetto di 10 milioni di euro;
  • 0,5% per la parte eccedente i 10 milioni di euro e fino ad un tetto di 50 milioni di euro;
  • 0,1% dei ricavi e altri proventi nel caso in cui avremo una parte eccedente i 50 milioni di euro.

Differenze tra deducibilità e detraibilità

In ultimo, ma non ultimo, un punto di chiarezza tra le differenze tra spese deducibili e spese detraibili. Quindi un breve riepilogo delle differenze tra deducibilità e detraibilità. Va subito, quindi detto che deducibilità e detraibilità non sono la stessa cosa.

La prima delle due, quindi la deducibilità è inerente alla percentuale del costo che può essere portato in deduzione (appunto) dai ricavi ammontati per la determinazione del reddito imponibile, quando faremo la dichiarazione dei redditi. La detraibilità dell’IVA, invece consiste nella percentuale dell’IVA assolta sulle fatture di acquisto ed essa può essere detratta dall’IVA addebitata alle fatture di vendita all’atto del calcolo dell’ammontare di debito IVA verso l’Erario.

Dunque, questo è quanto vi era di più necessario da sapere. Ora, in qualità di agenti di commercio, non vi resta che tenere meglio d’occhio il vostro portafogli aziendale e le vostre spese di rappresentanza.

Assunzione obbligatoria, cosa significa?

Oggi entreremo nel novero della questione delle categorie protette nel mondo del lavoro e vedremo insieme cosa si intende quando si parla di assunzione obbligatoria. Quali sono i requisiti per richiederla e cosa le aziende devono tenere conto.

Categorie protette ed obbligo di assunzione

Nel mondo del lavoro, in questa fauna della contribuzione, bisogna sapere che ci sono alcune categorie protette. Parliamo, sostanzialmente di alcune persone che partono da condizioni svantaggiate di lavoro. Ma, quali sono e cosa comporta rientrare in tali categorie?

Dunque, con questa espressione di “categoria protetta”, si fa riferimento ad un gruppo di persone che hanno diritto a determinate agevolazioni, al fine di compensare gli svantaggi che derivano da una riduzione della capacità lavorativa. Ad ogni modo, chiunque rientri in tale categoria ha diritto al collocamento obbligatorio o mirato. Questo vuol dire che un lavoratore che presenti ad esempio una disabilità dovrà ricevere proposte lavorative da aziende che rispecchino le sue capacità e competenze.

Chi appartiene alle categorie protette: requisiti

Senza girarci troppo intorno, andiamo a vedere chi ha i requisiti per rientrare in suddetta categoria protetta del mondo del lavoro.

Fanno parte delle categorie protette i lavoratori che risultano tutelati dalla Legge 68. Ovvero, una legge che prevede il collocamento mirato di soggetti con disabilità, facilitati nell’inserimento nel mercato del lavoro. Vi rientra chi possiede i requisiti riportati nell’ elenco di seguito:

  • nel caso si presenti un grado di invalidità superiore al 33%,
  • essere affetti da minorazioni fisiche, sensoriali o psichiche;
  • avere un’età tra i 18 e i 67 anni;
  • essere portatori di handicap intellettivo;
  • essere in possesso di una riduzione delle abilità lavorative superiore al 45%;
  • essere sordomuti, ovvero affetti da sordità dalla nascita o prima dell’apprendimento della parola;
  • presentare cecità assoluta o con un residuo visivo che non superi 1/10 in entrambi gli occhi;
  • essere invalidi di guerra, invalidi per servizio o civili di guerra, così come presentare minorazioni dalla prima all’ottava categoria;
  • percepire l’assegno di invalidità civile, previo accertamento dell’Inps di una riduzione permanente inferiore a 1/3 della capacità lavorativa.

Ovviamente, per poter rientrare nel novero non occorre esclusivamente essere disabili, ma possono rientrarvi anche i familiari delle vittime della criminalità organizzata e/o del terrorismo, i coniugi o gli orfani superstiti di lavoratori periti sul lavoro, in servizio, in guerra. L’elenco prevede inoltre profughi italiani rimpatriati e figli o coniugi di grandi invalidi di guerra, lavoro o servizio. Occorre, inoltre essere disoccupati, naturalmente per potersi iscrivere all’ elenco di categoria protetta.

Obbligo di assunzione per le aziende

Andiamo, quindi a vedere quali sono gli obblighi di assunzione per le aziende, verso queste categorie protette.

Sia nell’ ambito pubblico che in quello privato, i datori di lavoro sono tenuti per legge a garantire una quota delle assunzioni dedicata a lavoratori con disabilità. Vediamo in che modo sono portate a svolgersi tali obblighi di assunzione:

  • se un’azienda presenta da 15 a 35 dipendenti, la legge impone soltanto una assunzione obbligatoria;
  • avere una quota obbligatoria pari a 2 lavoratori qualora vi siano presenti in azienda da 36 a 50 dipendenti;
  • obbligo del 7% degli occupanti, se l’azienda presenta oltre i 50 dipendenti al suo interno;

La cosa cambia un bel po’ in termini di proporzioni per quanto riguarda, invece, la categoria protetta che non presenta disabilità. In tal caso, il datore di lavoro è tenuto a riservare l’1% nella propria azienda, qualora questi superi quota 50 dipendenti occupati. Se l’azienda, invece supera il numero di 150 dipendenti, la legge prevede l’obbligo di assunzione a un unico lavoratore della categoria protetta.

Ma come funziona l’assunzione obbligatoria?

Andiamo a vedere, in breve, cosa comporta per le aziende che devono assumere, questa situazione di obbligo.

Partiamo col dire, per rispondere a tale domanda che dal momento in cui si rientra all’interno delle soglie previste, la legge garantisce un tempo massimo di 60 giorni per provvedere all’inserimento di questi lavoratori protetti. Sarà, ad ogni modo, per l’azienda, possibile optare per tre vie.

La prima soluzione di assunzione prevede una richiesta nominativa. In questo caso il datore di lavoro potrà assumere la persona con disabilità che ritiene più adatta, al di là della sua posizione in graduatoria.

La seconda opzione, invece è attraverso una richiesta numerica. In tal caso l’avvio al lavoro è d’ufficio, secondo graduatoria da tenere conto.

Mentre, nel terzo caso, quindi l’ultima delle tre opzioni, si prevede un accordo tra l’azienda e gli uffici competenti.

Dunque, questo è quanto vi sia da sapere per quanto riguarda le assunzioni obbligatorie. Ora, non vi resta che assumere o candidarvi per farvi assumere, qualora ne possediate i requisiti. In entrambi i casi, buona fortuna e buon lavoro.

Assunzione disabile, quali agevolazioni per il datore di lavoro?

Negli ultimi tempi sono cambiati gli incentivi per il datore di lavoro ad assumere disabili. Tutto ciò, grazie alle modifiche all’art. 13 della legge n. 68/99. Andiamo a vedere nel dettaglio quali agevolazioni per il datore di lavoro, spettano nell’assumere un disabile.

Contributi e disabilità: come funziona la retribuzione

Dunque, le aziende avranno modo di usufruire per un periodo di 36 mesi, di un contributo del 70% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali per ognuno dei lavoratori disabili che essa abbia assunto, con un contratto a tempo indeterminato e che abbia una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79% o con minorazioni ascritte dalla I alla III categoria di cui alle tabelle annesse al DPR 915/1978.
Ci sarà un incentivo del 35% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, invece in caso di riduzione della capacità lavorativa del disabile compresa tra il 67% e il 79% oppure con minorazioni inserite nella quinta o nella sesta categoria, di cui alle tabelle annesse al DPR 915/1978. Ancora in questo caso ci sarà una durata effettiva di 36 mesi di tempo.

Avremo, tuttavia, delle disposizioni sugli incentivi ancora più proficui qualora saranno assunti lavoratori con disabilità intellettiva e psichica, per i quali è prevista la concessione di un contributo del 70% della retribuzione mensile lorda, sempre imponibile ai fini previdenziali, ma stavolta per la durata di 60 mesi per ognuno dei lavoratori con disabilità che abbia capacità lavorativa superiore al 45% e che sia assunto a tempo indeterminato o anche a tempo determinato, purché sia per un periodo non inferiore ai dodici mesi e per tutta la durata del contratto.

Come fare domanda per le agevolazioni

Anche la procedura di concessione dell’incentivo è stata decisamente cambiata. Di fatto, l’incentivo (o agevolazione che dir si voglia) non sarà più emesso dalle Regioni, bensì verrà corrisposto direttamente dall’Inps previa conguaglio nelle denunce contributive mensili, ai datori di lavoro.
Va precisato che tali contributi potranno essere richiesti anche dai datori di lavoro privati che abbiano assunto a tempo indeterminato dei lavoratori disabili.
Tale domanda per poter ottenere il suddetto incentivo viene trasmessa, previa apposita procedura telematica, all’INPS. Quindi, quest’ultimo provvederà, in un tempo di cinque giorni, a fornire comunicazione telematica sulla disponibilità effettiva di risorse per ottenere o meno l’incentivo.

Quali sono i contributi per l’adattamento del posto di lavoro?

Stando all’ articolo 11 del DL 151/2015 che ha modificato l’art. 14 della legge n. 68/99, andando a sostituire la lettera b del comma 4, si prevede che il Fondo regionale alimentato dalle sanzioni amministrative debba erogare contributi per un rimborso forfettario parziale delle seguenti spese necessarie:

  • per adozione di accomodamenti ragionevoli in favore dei lavoratori disabili, che abbiano una della capacità lavorativa superiore al 50%, compreso l’apprestamento di tecnologie di telelavoro o la rimozione delle barriere architettoniche che ne possano limitare la possibilità d’inclusione al lavoro;
  • per l’istituzione del responsabile all’inserimento lavorativo nei luoghi di lavoro.

Dunque, a tali specifiche, il rimborso parziale delle spese sostenute per l’adattamento del posto di lavoro non sarà reso valido sul Fondo nazionale per il diritto al lavoro dei disabili di cui all’art. 13 della Legge n. 68/99, bensì sui singoli Fondi regionali che siano inerenti all’occupazione dei lavoratori disabili. Dunque, la domanda per ottenere questo tipo di incentivo, non sarà più presentata all’INPS, da parte del datore di lavoro, ma ad un centro impiego di riferimento.

Dunque, questo è quanto c’è da sapere per quanto riguarda le possibili agevolazioni per un datore di lavoro all’assunzione di personale disabile.

Assunzione donne, quali agevolazioni a chi assume?

Oggi andiamo ad occuparci di una categoria di lavoratore (o lavoratrice, per dirla meno genericamente) che in passato è stata alquanto bistrattata. Il lavoratore donna che, però negli ultimi anni ha conquistato più indipendenza e rispetto sociale. Andiamo, a vedere tuttavia quali agevolazioni vi sono per chi assume una donna al lavoro.

Assunzioni donne, nel 2021 vi sono agevolazioni?

Nonostante la premessa fatta, in un mondo che vede la donna molto più al centro dell’attenzione, rispetto a trenta anni fa, ci si chiede ancora se vi sono o meno delle agevolazioni e quindi degli incentivi per il datore di lavoro nell’assumere una donna al lavoro. Come se si stesse assumendo una “categoria di lavoratore” speciale. Ebbene, sì, esiste il Bonus donne per chi assume lavoratori (o lavoratrici) del gentil sesso. Ma, dopo andremo a vedere nello specifico in cosa consiste, il bonus donna. Ora, rapidamente occupiamoci di specificare cosa si intende per incentivo o agevolazione all’assunzione, per il datore di lavoro.

Incentivo e agevolazioni per il datore di lavoro: cosa vuol dire?

Quando parliamo di agevolazioni per il datore di lavoro, si intendono dei benefici normativi o economici, i quali vengono riconosciuti ai datori di lavoro (appunto) che decidono di assumere, senza essere obbligati per legge o tenuti in base a quanto previsto dalla contrattazione collettiva, determinate categorie di persone, soprattutto lavoratori svantaggiati. Ecco, dunque, che sembrerebbe che la donna, per il mondo del lavoro, sia ancora spesso e volentieri considerata “svantaggiata”. Con l’agevolazione si parla, dunque, di contributi pubblici che serviranno a sostenere la parte a carico del datore di lavoro del costo dei nuovi assunti. Quindi, in sostanza, chi assume tali “soggetti lavorativi”, usufruendo di queste agevolazioni previste avrà diritto ad una riduzione, parziale o totale, per un determinato periodo di tempo, dei costi del lavoro (contributi) che avrà da sostenere.

Bonus donne: in cosa consiste

Dunque, per incentivare i datori di lavoro ad assumere donne avremo il suddetto Bonus Donne. Ma, in cosa consiste tale incentivo o agevolazione?

Questa agevolazione (o incentivo per il datore di lavoro) consiste, sostanzialmente, nella riduzione dei contributi pari al 50% per i datori di lavoro che assumono, sia tempo indeterminato che a tempo determinato, lavoratrici prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 24 mesi, o da 6 mesi se esse hanno residenza in aree svantaggiate. La nuova legge di Bilancio ha incrementato il bonus assunzioni donne, portando la decontribuzione al 100% per le assunzioni effettuate nel biennio 2021-2022. Tutto ciò è valido anche per quanto riguarda le assunzioni di donne che lavorano in una professione o in un settore economico caratterizzati da un’accentuata disparità occupazionale di genere. In tal caso vi è il decreto interministeriale, atto ad individuare i settori specifici e le professioni caratterizzate da un maggior tasso di disparità uomo-donna per il 2021, ai fini del riconoscimento dell’incentivo.

Alcuni di questi settori che presentano la disparità uomo-donna, sono di seguito elencati:

  •  Artigiani ed operai metalmeccanici e manutentori di attrezzature elettriche ed elettroniche
  •  Artigiani e operai specializzati dell’industria estrattiva, dell’edilizia
  • Professioni tecniche in campo scientifico, ingegneristico e della produzione
  • Agricoltori e operai zootecnia,
  • Imprenditori, amministratori e direttori di grandi aziende
  • Ingegneri, architetti
  • Professioni non qualificate nella manifattura,
  • Artigiani ed operai specializzati della meccanica di precisione, dell’artigianato artistico, della stampa ed assimilati

Va aggiunto che molto spesso l’inserimento nel mondo del lavoro per una donna diviene ostracizzato e poco ben visto dai datori di lavoro per le difficoltà che vi si possono presentare nei casi di maternità. Con tutte le sospensioni di attività fisiche che tale periodo comporta. In quel caso, l’INPS non si è fatto mancare di offrire il Bonus maternità, ma questa è un’altra storia.

Modello Redditi PF correttivo, quando si usa ed entro quando?

Molti si chiedono quando si usa il modello reddito PF correttivo, ma soprattutto quali sono i tempi per effettuarlo, a rimedio del Modello Redditi precedente. Oggi, andremo a scoprire insieme come dare risposta a queste e ad altre domande inerenti il Modello Redditi PF correttivo.

Modello Redditi PF correttivo: che cosa è

Innanzitutto iniziamo doverosamente col precisare che il modello redditi PF (ovvero Persone Fisiche) correttivo serve a sostituire e quindi correggere un modello redditi precedentemente inviato. Quindi un qualcosa che serve anche ad annullare il 730 inviato e presentare una nuova dichiarazione tramite applicazione web.

Come ben sappiamo, ogni anno un lavoratore dipendente o chi recepisce la pensione utilizza il modello 730 per la propria dichiarazione dei redditi, riferendosi alle entrate economiche percepite l’anno precedente. Tuttavia coloro che posseggono partita IVA, dovranno compilare queste informazioni attraverso il Modello Redditi PF.

Con il suddetto Modello Redditi PF si specificano i contributi previdenziali, e si mettono in chiaro anche gli eventuali investimenti effettuati all’estero. In alcuni casi questo sistema di dichiarazione reddituale si applica anche ai lavoratori dipendenti.

Ma quando occorre presentare un Modello Redditi PF correttivo? E, soprattutto entro quali termini?

Dunque, i contribuenti che si accorgono di aver commesso degli errori nella propria dichiarazione dei redditi (quindi anche nel modello 730), o di aver mancato di inserire alcuni elementi utili, hanno diverse soluzioni per rimediare a ciò. Tali soluzioni sono vincolate, ovviamente, a specifiche tempistiche e determinate procedure.

La data di scadenza in questa annata 2021, per poter presentare il Modello Redditi PF correttivo è fissata al 25 maggio 2021. Mentre, per quanto riguarda il poter annullare il 730 già inviato e presentare quindi una nuova dichiarazione tramite l’applicazione web lo si può fare solo una volta fino al prossimo 22 giugno 2021.

Cosa deve fare il contribuente per verificare il suo Modello Redditi inviato in precedenza?

Il contribuente, per accertarsi che non vi siano problemi col modello inviato, dovrà verificare se i dati inseriti sono corretti, e a seconda dei casi, a partire dal 19 maggio 2021, potrà:

  • accettare la dichiarazione (solo se si sceglie il modello 730) senza apportarvi modifica alcuna,
  • rettificare i dati non corretti precedentemente compilati
  • integrare la dichiarazione per inserire nuovi dati, come altre spese deducibili o detraibili non elencate
  • inviare la dichiarazione all’Agenzia delle entrate direttamente

Cosa succede se si sbaglia la dichiarazione dei redditi?

Molti si chiedono cosa possa accadere se si compila in maniera errata la dichiarazione dei redditi, senza riuscire, poi a presentare un modello correttivo.

In breve i principali rischi prevedono sanzioni da 258 euro fino ad un massimo di 1.032 euro, solo per quanto riguarda l’Iva, sanzione fino a 2.065 euro. Mentre, nel caso in cui il contribuente presenti la dichiarazione entro il termine di quella dell’anno successivo, le sanzioni vanno da 150 euro a 500 euro, poiché le sanzioni si riducono in questo caso, dal 60% al 120%.

Dunque, è bene non sbagliare quanto vi è da dichiarare nel proprio modello redditi o nel proprio 730 e porre, nel caso, tempestivamente rimedio, attraverso il Modello Redditi correttivo, prima di ritrovarsi a pagare sanzioni decisamente salate, talmente salate da mettere tanta sete (di danaro) alla Agenzia delle entrate.