Cosa significa partita Iva movimentata?

Nel mondo frenetico e inquieto delle partite IVA e quindi dei lavoratori indipendente, c’è un modo di definire alcune partita IVA. Stiamo parlando della partita IVA movimentata. Ma, di cosa si tratta, cosa vuol dire questa definizione?

Partita IVA movimentata: cosa vuol dire?

Precisiamo subito col dire che con il termine partita IVA movimentata, non si intende una partita IVA irrequieta e che inizierà a fare baccano o a dimenarsi sulla nostra scrivania o nel nostro cassetto. O, per dirla in breve, una partita IVA con cui di certo non ci si annoia. Piuttosto è una colorita definizione per identificare una partita IVA attiva. A differenza, invece di una partita IVA definita dormiente. Quindi passata ad uno stato inattivo.

La partita IVA viene definita inattiva quando non è stata chiusa ma al contempo non è più movimentata da diverso tempo. Avere una partita IVA “inattiva”, difatti, significa che essa non viene più movimentata, nel senso che non sono più effettuate vendite e/o non sono più effettuati acquisti per questa partita IVA.

Perché avere una partita IVA dormiente (o inattiva)?

Partiamo col dire che da regola chi decide di chiudere la propria attività deve provvedere alla chiusura della partita IVA, presentando all’Agenzia delle Entrate il Modello AA9/12, in un tempo di 30 giorni dalla data dalla quale decorre la cessazione dell’attività.

Tuttavia, in genere chi lascia una partita IVA aperta, pure se la stessa non è più movimentata, è qualcuno che usa la stessa in modo sporadico. Ad esempio, il lavoratore dipendente che svolge in proprio anche delle consulenze esterne, presso soggetti diversi dall’azienda per cui lavora e per le quali è ugualmente richiesta partita IVA.

Nei casi di quelle partite IVA che registrano pochi movimenti durante un intero anno, potremmo ben parlare di una partita IVA poco movimentata. Ed anche qui, non facciamo riferimento allo status energico della stessa, che sia poco vivace.

Quali conseguenze per partita IVA inattiva?

Ora, però è anche bene capire se e quali conseguenze ci sono nei casi di una partita IVA inattiva.

Prima di tutto precisiamo che quando si apre una partita Iva e non si riesce a fatturare da un punto di vista fiscale non ci sono particolari conseguenze, non essendoci ricavi tassabili non potranno esserci imposte da pagare. Quindi, in breve questa è la primaria conseguenza dell’ avere una partita IVA sonnecchiante.

Quindi con una partita IVA che non fattura non ci sono particolari conseguenze se non il fatto che è obbligatorio presentare ogni anno il modello Redditi Persone Fisiche, anche per il semplice fatto di avere una partita Iva aperta, a prescindere dal volume di fatturato generato. Quindi, se essa sia vivace, sonnecchiante, movimentata, attiva o inattiva.

Tuttavia si prefigura la possibilità possibilità di generare una “perdita fiscale“, a cui si aggiunge che ci sono alcuni costi che si devono sostenere anche quando la partita Iva non genera fatturato.

Insomma, avere una partita IVA che non genera fatturato e quindi non ci fa battere cassa, non è esattamente un qualcosa di utile al contribuente. Quindi, sebbene a livello fiscale nulla è illecito, nel tenere una partita IVA dormiente, potrebbe essere più saggio che essa venga chiusa.

Partita IVA, come chiuderla?

Per dirla senza troppi fronzoli e quindi senza dare informazioni ne dormienti ne troppo movimentate, possiamo rispondere in breve a questa domanda.

La chiusura della partita IVA va effettuata entro 30 giorni dalla cessione dell’attività tramite modello AA9/11. Ci sono inoltre situazioni di chiusura d’ufficio di partite IVA inattive o quando non si presenta la dichiarazione dei redditi per tre anni. Quindi, se per tre anni la vostra partita IVA è preda di sonno profondo, c’è spazio per la chiusura d’ufficio della stessa.

Cosa fare per cambiare il beneficiario della legge 104?

Molti si chiedono cosa accade quando il caregiver non può attenzionare un familiare disabile e come poter cambiare il beneficiario della legge 104. Oggi, andremo assieme a scoprire come si può sostituire l’assistenza per un disabile.

Assistenza legge 104: come cambiare il beneficiario

Andiamo a fare un piccolo esempio di caso possibile in cui occorre chiedere un cambio beneficiario per la legge 104. Se, ad esempio, hai chiesto ed ottenuto di essere beneficiario della legge 104 e quindi poter usufruire dei permessi che ti consentono di prenderti cura del tuo familiare disabile. Ma, ora qualcosa nella tua vita è cambiato e non puoi sostenere più questa pratica di caregiver (prendersi cura). Quindi, magari non puoi permetterti circa tre giorni al mese di assenza dal lavoro, durante i quali devi dedicarti solo al familiare che, in questo momento della sua vita, ha più bisogno che mai di te.

Ora, dunque, una nuova posizione lavorativa, ti richiede maggiore impegno e più presenza in ufficio. Quindi hai necessariamente bisogno di rivedere l’assistenza al tuo familiare. Occorre dunque capire se è possibile e come fare a cambiare il beneficiario della legge 104.

In tal senso, occorre sapere che oggi la legge 104 è stata parzialmente modificata. E tra le novità che essa presenta, hai la possibilità di avere una persona al tuo fianco con la quale condividere l’assistenza al tuo familiare disabile. In poche parole, puoi non solo cambiare il beneficiario della legge 104 ma addirittura «raddoppiarlo». Ovviamente, solo in talune condizioni da tenere conto. Ma, intanto, puoi avere l’aiuto da un’altra persona, colui che farà da sostituto caregiver, che potrà, dunque, sostituirti quando tu non ci sarai ed usufruire come te delle agevolazioni della 104 grazie alla cosiddetta assistenza saltuaria.

Cosa fare per effettuare sostituzione del beneficiario?

Andiamo in breve a vedere cosa occorre fare, dunque, per sostituire il beneficiario della legge 104.

Il beneficiario della legge 104, comunemente chiamato caregiver familiare, è quella persona che si prende cura di un parente affetto da handicap grave e che necessità di costante assistenza. Come detto, questa figura assistenziale (solitamente un parente del disabile) può essere sostituita.

Chi vorrà subentrare nell’assistenza deve semplicemente presentare domanda all’Inps e al proprio datore di lavoro. Dovrà, inoltre, allegare un documento in cui dichiara sotto la propria responsabilità:

  • di essere imparentato con la persona con disabilità grave e specificare il grado di parentela;
  • sottolineare e palesare il periodo in cui presterà l’assistenza al posto del caregiver familiare;
  • enunziare il motivo per cui andrà a sostituire il precedente beneficiario.

Tuttavia, potrebbe succedere che il nuovo caregiver sostituto debba prestare assistenza alla persona malata in modo continuativo, cioè con una certa continuità nel tempo. Che non si tratti, quindi, di una sostituzione isolata e sporadica, ma duratura. In questo caso, sia il beneficiario principale (quindi quello già beneficiario in precedenza) sia il suo sostituto possono usufruire dei permessi della legge 104, anche se con modalità diverse rispetto a quelle previste quando il beneficiario è uno solo.

In sostanza, entrambi i caregiver avranno diritto ad 1 giorno di permesso al mese anziché i soliti 3 giorni, ogni 10 di assistenza in maniera continuativa. E potranno, così alternarsi nell’impegno di assistenza al proprio familiare disabile.

Mentre, per quei genitori, lavoratori, che hanno un figlio disabile, la cosa cambia. Di fatto, i genitori con figlio disabile, gravemente, possono beneficiare in modo alternativo dei permessi della legge 104. Inoltre, il disabile in questione può chiedere per sé i permessi ed avere, al tempo stesso, un beneficiario unico da lui stesso scelto. Questo familiare scelto su misura potrà chiedere i 3 giorni di permesso al mese per assistere il disabile in questione.

Beneficiario legge 104, con lavoro part time: è possibile esserlo?

Molti si chiedono se sia possibile effettuare questo tipo di assistenza e beneficiare della legge 104 in caso di lavoro part time.

La risposta è sì. La Cassazione, infatti con una sentenza recente, ha stabilito che anche un dipendente che non lavora a tempo pieno (quindi un lavoratore part time) può assistere un parente con handicap grave grazie ai permessi della legge 104. Poiché, secondo la Suprema Corte, il diritto ad usufruire di quest’agevolazione non è comprimibile.

Aggiungiamo inoltre, che nel caso del part time orizzontale, si avrà diritto ad un permesso giornaliero ridotto proporzionato alle rispettive ore lavorate e ad un permesso di 3 giorni al mese. Chi, invece, ha un contratto part time verticale potrà beneficiare di un permesso di 3 giorni al mese se lavora per più della metà dei giorni settimanali e ai permessi giornalieri di 2 ore distribuiti in base ai gironi effettivi in cui si lavora.

Dunque, ora che abbiamo apposto una luce chiarificatrice sulla questione, potete stabilire in che modo beneficiare della legge 104. E in che modo assistere al meglio, secondo le vostre priorità, il vostro familiare disabile e sostenerne il benessere e le esigenze.

Partita Iva, pro e contro 2021

Oggi andremo a scandagliare in maniera esaustiva in cosa consiste aprire una partita IVA nel 2021. In poche parole, quali sono i pro e i contro nell’ aprire una partita IVA in un’annata così nefasta come quella che stiamo vivendo, sul piano sociale e economico, negli ultimi mesi.

Partita IVA: aprirne una nel 2021

Per chi decide di aprire partita IVA è già di per sé un incognita, ma in tempi assai sciagurati e incerti come quelli del 2021, i dubbi aumentano. Quindi, per coloro che decidessero di aprire una partita IVA nel 2021, soprattutto da freelance, da professionisti, artigiani o commercianti, si deve valutare attentamente se optare per il regime forfettario o meno. Diciamo subito che la risposta è sì.

Di fatto, l’opzione di regime forfettario consente, come accadeva anche in passato di risparmiare in buona dose. Quindi, il risparmio fiscale che ne consegue è dovuto ad un tipo di tassazione più bassa che, durante l’anno, comporta meno spese o comunque di contenerle maggiormente.

Partita IVA in regime forfettario, di cosa si tratta?

Iniziamo, innanzitutto col dire cosa intendiamo quando parliamo di partita IVA in regime forfettario.

Il regime forfettario non è altro che un regime fiscale ideato per le partite IVA individuali e che porterà ad un considerevole risparmio fiscale ed anche contabile. Attualmente, possiamo dire che esso è l’unico regime che permette di avere agevolazioni rispetto al regime ordinario.

Alcuni anni fa erano pochi i soggetti che potevano avere i requisiti giusti per poter rientrare in questo particolare regime fiscale in quanto esso prevedeva limiti di ricavo compresi tra i 15.000 e i 40.000 euro e inoltre veniva escluso:

  • chi avevano speso più di 5.000 euro lordi per collaboratori o lavoratori dipendenti;
  • chi per ammortamento di beni strumentali avevano speso più di 20.000 euro.

Ma, in questo ultimo periodo la cosa è abbastanza cambiata. Nello specifico, in questo 2021 troviamo la situazione che segue.

Per coloro che oggi svolgono, infatti, attività di freelance, soprattutto nel campo del digitale, come ad esempio chi vuole aprire una start up, ma anche chi è un professionista o un artigiano, aprire una partita IVA con regime forfettario non solo conviene ma è la scelta più adatta da fare in questo preciso momento storico che stiamo vivendo.

La partita IVA in regime forfettario è l’ideale per tutti coloro che vogliano dare una svolta alla propria attività lavorativa o che vogliono intraprendere un nuovo percorso, potendosi adeguare alle nuove realtà e prospettive di lavoro.

Va, inoltre detto che nel 2021 non ci sarà l’obbligo di emettere fattura elettronica la quale resterà una scelta a discrezione del possessore di partita IVA.

Quali sono i pro e i contro di una partita IVA in regime forfettario?

Detto ciò, come ogni cosa vi possiamo trovare dei pro e dei contro. Andiamo a vedere, in questo caso quali possono essere vantaggi e svantaggi, nell’ aprire partita IVA in regime forfettario.

Volendo considerare i pro di tale apertura, andremo a vedere che essi consistono nel non avere paletti o limiti di età e non c’è alcun obbligo di fatturazione elettronica. Inoltre, qualora si iniziasse una nuova attività o una start up, per i primi 5 anni l’imposta sarà del 5% per poi passare successivamente al 15% dal sesto anno in poi e in ultimo non va inserita l’IVA in fattura.

Tuttavia, come detto ci possono essere anche degli svantaggi. O, per meglio dire dei contro. Ad esempio, non si possono scaricare tutte le spese, ma solo alcune di esse che verranno ricavate dal coefficiente di redditività. Troviamo, poi, vari paletti, come per il tetto massimo di 65,000 euro di fatturato e 20,000 euro di spese massime per i collaboratori.

Aprire una partita IVA con regime ordinario semplificato

Abbiamo, ad ogni modo un’ altra opzione per aprire partita IVA, diversa dal sistema ordinario. Si tratta della partita IVA con regime semplificato.

La partita IVA con regime semplificato, è un tipo di regime ordinario che si applica però a tutti quei lavoratori autonomi o alle società di persone, il cui reddito non dovrà superare i 400.000 euro, se si ha un’impresa di servizi o i 700.000 euro, per le attività di cessione di beni.

In questo tipo di regime il reddito si determina, diversamente da come accade con quello ordinario, in cui il reddito è determinato in base al regime di competenza, in base al principio di cassa.

Pertanto, qualora nel regime di competenza venissero incluse nel calcolo del reddito tutte le entrate e le uscite riferite a quel determinato anno fiscale senza tener conto del momento preciso in cui avviene l’incasso o il pagamento, nel principio di cassa verranno oltremodo considerati solo ed esclusivamente quei costi e quei ricavi che avranno avuto una manifestazione finanziaria in quell’anno. 

Dunque, ora che per dettaglio, sapete come regolarvi, non vi resta che stabilire, quale partita IVA aprire nel 2021. Non vi resta che augurarvi buona fortuna, rimboccarvi le maniche e avviare la vostra nuova attività col regime che preferite. Sperando di uscire, quanto prima, dal regime sanitario che ha determinato e oppresso questo biennio 2020 e 2021.

Noleggio a lungo termine, che fine fa l’anticipo?

Molti si chiedono, si interrogano, si arrovellano in merito alla questione del noleggio auto e le sue funzionalità. Oggi, andremo a vedere nello specifico cosa accade nel caso di noleggio a lungo termine e che fine fa l’anticipo che si versa.

Cos’è e come funziona l’anticipo per il noleggio a lungo termine?

Dunque, veniamo rapidamente a dire che l’anticipo per il noleggio può essere un’opportunità per abbassare il canone mensile, sia per quanto riguarda i privati sia per partite IVA. Come possiamo capire se dare un anticipo è la scelta più conveniente per noleggiare un auto? Vediamo tutto ciò che c’è da sapere in merito.

Molti si chiedono se prima di procedere ad un noleggio, sia obbligatorio dare un anticipo. Ebbene, partiamo col dire che l’anticipo non è obbligatorio. Come detto poco sopra, l’anticipo serve per abbassare la rata mensile ed è una quota di denaro che viene versata preventivamente, con l’obiettivo di ammortizzare parte del canone.

Tuttavia, trattasi di un aspetto completamente facoltativo, di fatto al momento del calcolo del preventivo del noleggio a lungo termine, si avrà una proposta con anticipo per un canone più basso e una proposta senza anticipo, in cui andremo a pagare un canone mensile più alto.

Come si calcola il valore dell’anticipo per il noleggio a lungo termine?

Andiamo a vedere come si stabilisce l’ammontare del valore dell’anticipo sul noleggio a lungo termine. Dunque, tale ammontare dipenderà da diversi fattori. I principali fattori del caso saranno:

  • La scelta dell’auto. Quindi, il valore commerciale dell’auto e il costo del noleggio a lungo termine andranno ad influire sulla valutazione della quota di anticipo;
  • La durata del contratto di noleggio;
  • Il chilometraggio previsto;
  • I servizi extra inclusi nel noleggio stesso.

Andiamo in breve a vedere anche quali sono i servizi inclusi in un noleggio a lungo termine.

Quando ci apprestiamo ad un canone mensile del noleggio a lungo termine troveremo inevitabilmente una serie di servizi inclusi. Questi servizi costituiscono il vero e proprio punto di forza di questa formula. Il noleggio, infatti è un’opzione scelta, in un unico canone, perché si ha a disposizione tutto quello che serve per guidare.

I servizi che troveremo sempre inclusi in un noleggio a lungo termine sono i seguenti:

  • Utilizzo dell’auto (ovviamente)
  • Gestione dei sinistri e uso del soccorso stradale
  • Assicurazione auto
  • Tasse incluse
  • Manutenzione ordinaria
  • Manutenzione straordinaria

C’è modo di veder restituito l’anticipo?

Quindi, una volta appurati i vantaggi di un noleggio a lungo termine della nostra auto e quindi appurato che l’anticipo non è obbligatorio, vediamo se c’è possibilità di aver restituito il nostro esborso preventivo. La risposta alla domanda se ci verrà restituito o meno il nostro anticipo versato è No. Ciò perché non si tratta di una “caparra”, ma di un pagamento anticipato di un servizio dovuto. Avremo già beneficiato e quindi “scalato” il nostro anticipo sulla paga del canone mensile. E quindi, trattasi di una somma di denaro che andrà ad ammortizzare il valore del canone, “spalmandosi” su tutta la durata contrattuale del nostro noleggio a lungo termine.

In ultimo andiamo a vedere altri piccoli dettagli e curiosità in merito alla questione.

Noleggio a lungo termine con l’anticipo conviene?

Possiamo dire che formula con anticipo è quella probabilmente più “antica”. Di fatto, inizialmente era previsto sempre un anticipo, poiché il noleggio di qualche anno fa era pensato quasi esclusivamente per le aziende. Oggi non è più così, infatti questa soluzione di mobilità a noleggio si adatta sia ai privati che alle aziende ed è estremamente flessibile dal punto di vista dei pagamenti.

In breve, quindi possiamo dire che l’anticipo è una scelta conveniente nei seguenti casi:

  • Se possiedi una quota a disposizione da immobilizzare e preferisci evitare di pagare nel tempo una rata mensile più alta
  • Se vuoi contenere il canone mensile anche del 10-20%, senza gravare troppo sul tuo stipendio o sulla pensione pensione che percepisci

Tuttavia, l’opzione senza anticipo potrebbe essere conveniente nei seguenti casi

  • Se si è un privato che non possiede un capitale da immobilizzare e che preferisce sottoscrivere una rata un po’ più alta per diluire la quota nel tempo
  • Alle aziende che desiderano una flotta aziendale e non vogliono intaccare troppo la liquidità

Dunque, ora che avete letto il necessario, non vi resta che sceglie la vostra opzione preferibile, in caso vogliate eseguire un noleggio a lungo termine per ottenere un automobile.

Chi ha partita Iva può fare prestazioni occasionali?

Molti possessori di partita IVA o coloro che ancora sono in procinto di aprirla si chiedono qualcosa che oggi andremo tempestivamente a scandagliare, ovvero se chi ha partita Iva può fare prestazioni occasionali? Scopriamolo assieme.

Partita IVA compatibile con le prestazioni occasionali?

Partiamo subito col dire che se si è titolari di Partita Iva spesso ci si trova nella situazione di dover compiere prestazioni occasionali con la propria Partita Iva. Dunque, innanzitutto bisogna precisare che è possibile svolgere prestazioni occasionali anche se si è in possesso di Partita Iva, ma bisogna apporre delle opportune precisazioni. Dunque, è bene sapere come poter svolgere delle prestazioni occasionali con Partita Iva è necessario innanzitutto verificare se tale prestazione occasionale rientra o meno nello stesso ambito professionale di quella esercitata con Partita Iva oppure no.

Esempio di attività occasionale diversa dall’ ambito di partita IVA

Andiamo a prendere come esempio una casistica che riguarda lo svolgimento di attività occasionale in ambito diverso rispetto all’attività professionale abituale.

Prendiamo il caso di un medico che oltre alla sua attività professionale abituale ha effettuato, ad esempio una consulenza informatica.

Per i parametri dell’Amministrazione finanziaria in una situazione come questa, ovvero quando non vi è estrinsecazione dell’attività occasionale rispetto all’attività economica abituale, si rimane fuori dal campo di applicazione dell’IVA e dal requisito del lavoro autonomo.

Quindi, si può tranquillamente dichiarare che quando un’attività professionale occasionale è svolta in ambito non congruo, indi differenziato, dall’attività professionale abituale, non si rientra nel campo di applicazione dell’IVA. Tutto ciò sta a significare che non vi sono obblighi di fatturare tale operazione. Da un punto di vista strettamente operativo sarà sufficiente per il soggetto che ha svolto l’operazione rilasciare una normale ricevuta per lavoro autonomo occasionale.

Altre particolarità sulla partita IVA

Qualora il possessore di partita IVA rientrasse nel Regime forfettario con la propria attività professionale, esso potrà svolgere prestazioni occasionali in un ambito diverso da quello con Partita Iva forfettaria, ma nello specifico caso, tali prestazioni occasionali, saranno tassate diversamente rispetto a quelle svolte con Partita Iva forfettaria.

Essendo tali attività considerate separate, i relativi ricavi da essa provenienti (quindi dalla “abituale” attività) saranno assoggettati alla disciplina del Regime forfettario, per cui soggetti ad imposta sostitutiva. Mentre, per quanto riguarda i redditi che derivano dalle diverse prestazioni occasionali (non potendo rientrare nel Regime forfettario per le stesse tipologie di attività) saranno soggetti ad Irpef. 

Dunque, qualora il contribuente e professionista rientri nel Regime forfettario e svolge attività “occasionali” in un ambito di attività differente da quello in cui esso possiede Partita Iva forfettaria, dovrà quindi assoggettare ad Irpef i redditi derivanti da tali prestazioni occasionali.

In ultimo, ma non ultimo, qualora invece, l’attività che è oggetto di prestazione occasionale sia un’attività svolta in un ambito che sia analogo e coerente con l’attività professionale (anche se avviene in Regime forfettario), non è esattamente corretto parlare di prestazioni “occasionali”, in quanto tali prestazioni rientrano a tutti gli effetti nella stessa Partita Iva ed anche nello stesso codice di attività previsto per svolgere l’attività professionale “abituale”.

Tutto ciò, quindi, non comporterà alcuna differenza in ambito fiscale, in quanto, le prestazioni occasionali, potendo rientrare all’interno della Partita Iva forfettaria, saranno assoggettate a tutti gli effetti ad imposta sostitutiva e alle regole riguardanti il Regime forfettario, proprio come l’attività abitualmente svolta dal professionista.

Dunque, questo è quanto vi era da sapere per l’approfondimento in merito alla domanda frequente tra i professionisti, se fosse possibile o meno, per possessori di partita IVA, fare prestazioni occasionali.

Ditta individuale e lavoro autonomo a confronto: pro e contro

Spesso ci si chiede cosa comporta aprire una partita IVA e ancor più spesso ci si chiede se sia meglio aprirne una come ditta individuale o come lavoro autonomo. Andiamo, quest oggi a scoprire, in questo esaustivo articolo, le differenze tra le due opzioni e i pro e i contro di entrambe le soluzioni.

Partita IVA, confrontare le opzioni tra ditta individuale e autonomo

Iniziamo col dire che una partita Iva permette di avere un inquadramento sia da un punto di vista fiscale che da quello previdenziale. Occorre conoscere che operare con partita Iva, non è facoltativo, ma bensì un obbligo imposto a tutti i soggetti che svolgono attività non etero-determinateprofessionali ed abituali.

Sapere ciò è molto importante, in quanto è opinione diffusa che si debba aprire partita Iva solo al superamento di determinate soglie reddituali. In verità e in verità vi dico che per l’Amministrazione finanziaria ogni attività economica abituale dovrà essere svolta con partita Iva, indipendentemente dal fatturato che si riesce ad ottenere.

Ora, però andiamo a confrontare le differenze tra una partita IVA per ditta individuale ed una aperta per lavoro autonomo.

E’ necessario chiarire che non trattasi di una scelta libera tra queste due opzioni. L’appartenenza ad una categoria piuttosto che all’ altra comporta un diverso inquadramento sia fiscale che previdenziale.

Cos’è una ditta individuale?

In maniera generalistica potremmo ben dire che appartengono alla categoria degli imprenditori individuali (quindi ad una ditta individuale) gli artigiani e i commercianti. Ovvero le due categorie di partite Iva  che sono obbligate all’iscrizione all’interno del Registro delle Imprese, istituito all’interno della Camera di Commercio provinciale.

Chi sono i lavoratori autonomi?

D’altro canto invece, rientrano nella categoria dei lavoratori autonomi tutti quei soggetti che svolgono un’attività per la quale il lavoro intellettuale è predominante sul resto dell’attività. Quindi, sono lavoratori autonomi tutti i professionisti iscritti in un Alboordine professionale, come ad esempio avvocati, notai, i consulenti del lavoro, i medici, i commercialisti, i giornalisti, gli architetti, geometri, psicologi e tanti altri ancora considerati liberi professionisti.

Aprire partita IVA, differenze sostanziali tra le due categorie

Dunque, coloro che intendono aprire partita Iva dovranno prestare attenzione alla propria categoria di appartenenza, in quanto le differenze da un punto di vista fiscale e previdenziale sono piuttosto importanti. Ad ogni modo, indipendentemente dalla categoria (ditta individuale o autonomo) si rientra sempre nella più grande categoria dei lavoratori che operano con partita Iva, in forma individuale.

Una delle differenze sostanziali per una ditta individuale, sia essa di artigiani o commercianti, è l’obbligo ad iscriversi all’Inps, nella gestione IVS artigiani o commercianti.

Si tratta di una gestione previdenziale che prevede il versamento di contributi previdenziali fissi, a prescindere dal fatturato, da pagare per ogni trimestre dell’anno. Oltre a questi contributi è necessario poi effettuare un conguaglio per chi supera determinate sogli di reddito derivante dall’attività imprenditoriale.

Di controparte, i lavoratori autonomi, da un punto di vista contributivo si differenziano tra quelli obbligati ad iscriversi ad una cassa professionale di riferimento e quelli cosiddetti “senza cassa“.

Differenze previdenziali tra ditta individuale e lavoratore autonomo

E’ bene sapere che aprire una partita Iva come ditta individuale o come lavoratore autonomo ha dei riflessi abbastanza sostanziali ai fini fiscali. L’Amministrazione finanziaria prevede, di fatto, l’applicazione di regimi fiscali differenziati, con diverse modalità di determinazione del reddito imponibile soggetto a tassazione ai fini Irpef.

Per quanto riguarda le imposte dirette, nel caso dei lavoratori autonomi vengono tassati soltanto in base ai compensi e ai costi effettivamente percepiti nel periodo d’imposta, stando al “principio di cassa“.

Di norma, il reddito dei lavoratori autonomi viene tassato sulla base del reddito imponibile che consegue dalla differenza tra i compensi incassati e i costi deducibili. Quando stilerà il modello Redditi P.F. il lavoratore autonomo dovrà compilare Il quadro RE, se adottano il regime di contabilità semplificata o il quadro LM qualora adottassero il regime dei contribuenti minimi.

Nel caso di una ditta individuale, invece, avremo una tassazione ai fini Irpef, sul proprio reddito imponibile annuale, che determinerà il reddito sempre con un principio di cassa, anche se alcune voci seguono il criterio di competenza economica.

L’imprenditore di una ditta individuale nella compilazione del modello Redditi P.F. è chiamato a completare il quadro RF qualora utilizzasse la contabilità ordinaria (registrazione di fatture attive/passive, incassi e pagamenti), od anche il quadro RG se è in contabilità semplificata (registra solo fatture attive/passive), in ultimo, il quadro LM qualora stesse adottando un regime dei contribuenti minimi.

Dunque, questo era il necessario da conoscere per differenziare un’apertura di partita IVA tra ditta individuale e lavoratore autonomo. Ora, non vi resta che passare all’apertura, qualora rientraste in una delle due categorie e rimboccarvi le maniche.

 

Imposta di bollo assolta in maniera virtuale, che significa?

Oggi andremo a scandagliare l’uso della marca da bollo o imposta di bollo, assolta in maniera virtuale e non solo. In un tempo di fatturazione elettronica, anche l’uso della marca da bollo diventa spesso virtuale, scopriamone insieme come essa viene assolta e quale è la sua effettiva funzione fiscale.

Imposta di bollo virtuale, cosa è?

Innanzitutto, partiamo col precisare cosa sia un’ imposta di bollo o marca da bollo virtuale. La marca da bollo virtuale (o imposta di bollo) serve ad assolvere l’imposta sostitutiva all’IVA, qualora questa non sia esigibile. Essendo virtuale la marca da bollo, sarà utilizzata solo previa uso telematico, quindi per dirla in breve, in modalità online. Al contrario della marca da bollo cartacea che si compra canonicamente in tabaccheria, la marca da bollo virtuale può essere acquistata online.

Come acquistare una marca da bollo virtuale?

Per poter acquistare la marca da bollo virtuale e pagare l’importo dovuto sarà necessario utilizzare il servizio @e. bollo dell’Agenzia delle Entrate, attraverso il quale sarà consentito acquistare un contrassegno digitale, con addebito sul proprio conto corrente, su una carta di debito o su una prepagata, tramite il sistema di pagamento PagoPa.

Ma come funziona la marca da bollo virtuale?

L’imposta di bollo o marca da bollo virtuale va “consumata” in questo modo. Scopriamo nel dettaglio, come viene assolta.

I contribuenti che avranno scelto di pagare la marca da bollo in modo virtuale dovranno presentare una dichiarazione consuntiva che contenga il numero degli atti e documenti emessi nell’anno solare precedente, separati per voce di tariffa, utilizzando l’apposito modello.

La relativa dichiarazione dovrà essere trasmessa necessariamente in via telematica all’Agenzia delle Entrate, direttamente in modalità online o tramite intermediario, entro il mese di gennaio dell’anno successivo a quello di riferimento.

In ultimo, va specificato che il modello dovrà essere utilizzato anche per la presentazione delle dichiarazioni nei seguenti casi:

  • in caso di rinunzia all’autorizzazione,
  • in caso di operazioni straordinarie
  • per rettificare e/o integrare una dichiarazione già presentata della stessa tipologia.

Appurato ciò, una volta effettuati i controlli necessari, l’Agenzia delle Entrate provvederà dunque a liquidare in maniera definitiva a consuntivo l’imposta dovuta per l’anno precedente e, quindi liquidare in maniera provvisoria l’imposta per l’anno in corso. Il contribuente riceverà, dunque, un avviso di liquidazione della sua imposta di bollo dovuta, andando a pagare il totale con cadenza bimestrale, in una tempistica pari a quanto segue:

28 febbraio, 30 aprile, 30 giugno, 31 agosto, 31 ottobre e 31 dicembre.

Andiamo in ultimo, ma non ultimo a scoprire il punto focale per l’uso o meno della marca da bollo su una fattura o ricevuta fiscale che sia.

Ma quando è necessario presentare marca di bollo?

Indipendentemente, dalla modalità di uso della marca da bollo (o imposta di bollo) sia essa cartacea che virtuale, esiste uno standard obbligato da tenere conto per l’ applicazione della stessa.

Precisiamo col dire, quindi, che l’ applicazione di una marca da bollo (cartacea o virtuale che sia) si rivela necessaria su di una fattura o su una ricevuta fiscale in taluni casi, senza esclusione di sorta. I casi specifici sono quattro e tutti prevedono l’apposizione di una marca da bollo da 2 euro in caso di importi superiori ai 77.47 euro:

  • Fuori campo IVA nel caso delle fatture emesse dai professionisti che operano nel regime forfettario o nel regime dei minimi
  • Esenti IVA
  • Escluse da IVA
  • Non imponibili ai fini IVA

Dunque, dopo questa rapida guida all’uso e consumo dell’ imposta di bollo, non vi resta che scegliere la modalità di applicazione della marca da bollo (o imposta di bollo) per le vostre fatturazioni.

Pensione, quale mi spetta se non ho versato contributi?

In un mondo in cui la pensione è un’eterna battaglia ed un’eterna incognita, andiamo a scoprire le risposte ad una delle domande più frequenti. Quale pensione spetta se non ho versato i contributi? Scopriamolo insieme in questa rapida essenziale spiegazione.

Pensione senza contributi: cosa mi spetta?

Partiamo subito col dire che non esiste pensione senza contributi. Tuttavia, in questo caso parliamo di una pensione assistenziale e non previdenziale. Un sostegno erogato dal servizio INPS.

In tal caso, di fatto, l’Inps eroga prestazioni assistenziali a chi non ha mai lavorato se vengono rispettati determinati requisiti.

Dunque, esistono delle prestazioni di assistenza che permettono di ricevere dei soldi ogni mese anche se nella vostra vita non avete mai lavorato, oppure lo avete fatto sibillinamente in nero il che, naturalmente, non sarebbe propriamente legale.

Come funziona il pensionamento senza contributi?

Coloro che al raggiungimento dell’età pensionabile (al momento ammonta all’età di 67 anni) non avrà maturato i contributi necessari all’accesso alla pensione, o quindi non ha lavorato per gli anni necessari a rispettare i requisiti previsti dalla normativa, non ha diritto ad alcun trattamento previdenziale. Quindi, non ha diritto alla comune pensione.

Tuttavia, coloro che hanno sempre lavorato in nero, oppure coloro che non hanno avuto un impiego stabile e sono riusciti a mantenersi facendo qualche lavoretto saltuario ed occasionale, se la pensione non si può ottenere senza aver versato i contributi necessari, come faranno a mantenersi una volta che diventeranno anziani? A questa domanda esistenziale e previdenziale daremo risposta.

Esistono, infatti dei trattamenti che l’INPS riconosce alle persone anziane che non hanno maturato abbastanza contributi per la pensione. Una sorta di pensione assistenziale e non previdenziale. Per ottenere la quale non occorre versare contributi. Come ad esempio, l’assegno sociale. Attualmente, nel 2021 l’importo dell’assegno sociale è di 460,28€ versato per ben 13 mensilità, corrispondenti dunque a 5,983,64€ annui. Vi sono casi, tuttavia, in cui l’importo dell’assegno sociale è soggetto ad una maggiorazione, con un valore che a seconda dei casi può raggiungere anche i 651,51 euro.

Ma vi sono anche casi in cui l’assegno sociale non spetta affatto. Il beneficio, infatti, è legato al reddito non solo del richiedente ma anche dell’eventuale coniuge. Chiariamo subito, in ogni caso, che l’assegno sociale ad importo intero spetta solo quando il richiedente ha reddito pari a zero e l’eventuale reddito del partner è nei limiti stabiliti dalla legge.

Per reddito personale fino 5.983,64 euro annui e 11.967,28 euro, se il soggetto è coniugato, spetta invece l’assegno sociale in misura parziale.

Quanti contributi occorrono per maturare la pensione?

L’età pensionabile, come detto ammonta attualmente ai 67 anni, mentre per quanto riguarda la maturazione dei contributi ne occorrono 20 di anni di attività, per potere ottenere la pensione ordinaria. Poi abbiamo la pensione anticipata, quella che non dipende dall’età di pensionamento del contribuente ma dai contributi versati in anni di lavoro. A questa forma di pensione possono accedere, infatti, solo i lavoratori che pur non avendo ancora raggiunto l’età pensionabile hanno lavorato per tanti anni. Per la pensione anticipata sono necessari 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne.

Dunque, ricapitolando, andando a chiudere il quesito iniziale, se non avrete in vita vostra mai versato dei contributi non siete esattamente una botte di ferro. La pensione non è altro che un fondo dal quale attingere, dai vostri stessi versamenti, nel corso degli anni del vostro lavoro. Se non versate, non potrete attingere. Ad ogni modo, come visto vi verrà incontro un servizio assistenziale, dalla paga minima mensile, erogata dall’INPS, al compimento dei 67 anni (che un tempo era invece fissata ai 65 anni). Questa è la piaga del lavoro in nero, una piccola boccata d’ossigeno (spesso sottopagata) per costruire il presente ma che non costituisce costruzione per il futuro. In pratica non vi garantisce una vecchiaia serena, anzi quasi tutt’altro.

 

Partita Iva o ritenuta d’acconto: quando scegliere una e quando l’altra

Oggi andiamo ad addentrarci nel mondo più recondito dei contribuenti, quello dei compensi e delle relative decurtazioni, di partita IVA e ritenuta d’acconto. Oggi scopriremo quali differenze intercorrono tra l’una e l’altra e quando utilizzarle nel mondo dei professionisti.

Differenze tra Partita IVA e ritenuta d’acconto

Partiamo, innanzitutto con definire le differenze tra partita IVA e ritenuta d’acconto. Va presto detto che un professionista o un freelance che utilizza la prestazione occasionale vedrà i propri compensi decurtati del 20% dalla ritenuta d’acconto. Coloro che invece scelgono di utilizzare la partita Iva in Regime Forfettario non avranno alcuna decurtazione. In questo secondo caso, otterrà infatti il 100% dei propri compensi senza alcuna trattenuta (Anche se poi il professionista sarà a chiamato a pagare le tasse con la dichiarazione dei redditi e a versare i contributi, onere che il free lance con ritenuta d’acconto non è obbligato a fare=

Questa, dunque è la sostanziale e non banale differenza tra chi presta lavoro occasionale con ritenuta d’acconto e chi applica il regime forfettario in partita IVA.

Un possessore di partita IVA può fare prestazione occasionale?

La risposta a questa domanda è indubbiamente sì, tuttavia va da considerarsi se l’attività occasionale del soggetto esula o meno dall’attività svolta abitualmente in modo professionale con partita IVA.

Attraverso questa variabile di fatto sarà necessario operare la scelta corretta tra le due seguenti opzioni:

  • Emettere una ricevuta legata alla prestazione occasionale effettuata
  • Fatturare la prestazione con la partita IVA.

Va da se, comunque che un professionista (sia esso avvocato, medico o ingegnere) è tenuto a fatturare tutti i compensi che derivano dallo svolgimento della sua attività, inevitabilmente.

Ulteriori differenze tra chi sceglie partita IVA o ritenuta d’acconto

Potremmo dire che tra le due opzioni disponibili, ovvero tra la partita IVA e l’emissione di ritenuta d’acconto, sia più vantaggiosa la prima opzione. Vediamo il perché.

In tal caso, aprire la partita Iva porterà a scegliere il Regime Fiscale Forfettario. Il Regime Forfettario è infatti ideale per tutti quei contribuenti che hanno dei compensi annui che non superino i 65mila euro in base alla propria attività svolta.

Uno dei principali vantaggi vede il professionista o freelance che sceglierà di utilizzare la partita Iva nel Regime Forfettario non avrà invece alcuna decurtazione, come detto già in precedenza. Esso riceverà infatti il 100% dei propri compensi senza alcuna trattenuta. Resta tuttavia il bollo sulle fatture, se di importo superiore ad euro 77,47. Ovvero, la canonica marca da bollo da 2 euro da applicare su fattura.

Inoltre, con il Regime Forfettario in partita IVA, avremo un regime fiscale con la percentuale di tassazione più bassa in Italia. Infatti, la tassazione IRPEF, detta Imposta Sostitutiva, sarà infatti pari al 5% per i primi 5 anni, per passare al 15% successivamente. I professionisti che invece utilizzeranno la prestazione occasionale saranno tassati secondo gli scaglioni IRPEF. La percentuale di tassazione nel primo scaglione IRPEF (compreso dagli 0 ai 18.000 euro di reddito) in questo caso sarà pari al 23%. Sembra ovvio da quale parte propenda il vantaggio anche se con la partita IVA si è tenuti al versamento dei contributi alla cassa professionale o alla Gestione Separata INPS, ma questi, ovviamente daranno un ritorno in termini di pensione.

Ma quali sono gli obblighi da rispettare per il regime forfettario?

Per aprire in regime forfettario una partita IVA, bisogna rispettare alcuni obblighi. Ovvero, i seguenti:

  • un limite di ricavi compreso fino a 65mila Euro a seconda della attività economica esercitata
  • spese per collaboratori o lavoratori dipendenti non superiori a 5.000 euro all’anno
  • limite sui redditi da lavoro dipendente inferiori a 30.000 euro nel precedente anno
  • acquisto di beni strumentali inferiore a 20.000 euro nel precedente anno

Ci sono costi iniziali per aprire una partita IVA?

Una domanda assai frequente e un bel po’ importante che si pone il contribuente è quella relativa ad eventuali costi iniziali, per aprire una partita IVA.

Ebbene, l’apertura di una partita IVA, non prevede il sostenimento di costi iniziali. Di fatto in completa autonomia si può individuare il proprio codice Ateco, scaricare il modello, compilarlo e presentarlo all’agenzia delle entrate di competenza senza sostenere alcun costo. In alternativa, ci si può affidare ad un commercialista iscritto all’albo che predisporrà per voi il modulo secondo le relative indicazioni e provvederà all’invio telematico. In questo secondo caso, il costo di apertura della partita Iva dipenderà molto dal commercialista scelto dal professionista. Potreste, infatti, trovare il commercialista che opta per un forfait per l’apertura e la gestione annuale e chi vi farà pagare le due cose separatamente.

 

Cosa significa partita Iva attiva?

Oggi, in un mondo che si torce e contorce tra crisi economiche e partite IVA che rischiano il collasso, andremo a vedere cosa significa avere partita IVA attiva. E, quindi, capiremo come verificare se è attiva o inattiva.

Partita IVA attiva, cos’è?

Innanzitutto, partiamo col dire che cosa è una partita IVA, per coloro che sono agli inizi con l’argomento e magari ancora non ne hanno aperto una. La partita IVA non è altro che una sequenza di 11 cifre utile ad identificare in maniera univoca un soggetto che esercita un’attività, di impresa e non, rilevante ai fini dell’imposizione fiscale indiretta.

Scomponendo dettagliatamente questa sequenza numerica, possiamo dire che le prime 7 che la compongono identificano il contribuente, mentre le successive 3 cifre servono ad individuare l’ufficio provinciale che attribuisce la Partita Iva. In ultimo, la restante cifra serve al controllo formale.

Una volta appurato ciò che è di base, andiamo a vedere cosa è una partita IVA attiva e soprattutto cosa è una partita IVA inattiva.

Cosa significa partita IVA attiva

Per sapere se una partita IVA è attiva o meno bisogna fare una piccola verifica. Andiamo, in breve a vedere come si può verificare l’attività o meno di una partita IVA.

Per effettuare un controllo sulla Partita Iva in Italia sarà semplicemente sufficiente accedere al sito dell’Agenzia delle Entrate. Qui, una volta acceduto, si dovrà inserire nel box apposito il numero ad 11 cifre della Partita Iva che intendiamo verificare. Se questa è correttamente registrata all’anagrafe tributaria, allora vedremo apparire un messaggio con i seguenti dati:

  • lo stato della Partita Iva, se attiva, cessata o sospesa;
  • la denominazione sociale nel caso si tratti di una Partita Iva di società;
  • la data indicativa dell’inizio dell’attività o data della cessazione o della sospensione.

Una volta effettuata tale verifica, riusciremo a capire se la Partita Iva è effettivamente attiva. Nel caso in cui la Partita Iva sulla quale si intende effettuare il controllo appartenga ad uno stato della comunità europea, allora si deve procedere con il servizio di ricerca Vies

Quindi cosa vuol dire partita IVA inattiva?

Dunque, avere una partita IVA inattiva, sta a significare che essa non viene più movimentata, ovvero si intende che non sono più effettuate vendite e/o non sono più effettuati acquisti per questa partita IVA. Quindi essa non è chiusa, quindi non è cessata, ma semplicemente non utilizzata. A differenza di una partita IVA attiva che è quella che è in uso del professionista o dell’attività che la utilizza.

Di norma, si prevede che chi decide di chiudere attività debba provvedere alla chiusura della partita IVA, presentando all’Agenzia delle Entrate il Modello AA9/12, in un tempo di 30 giorni dalla data dalla quale decorre la cessazione dell’attività. Di solito chi lascia una partita IVA comunque aperta pur non tenendola attiva, la utilizza per svolgere qualche attività secondaria e sporadica. Per esempio, un lavoratore dipendente che svolge in proprio anche delle consulenze esterne presso dei soggetti diversi dall’azienda per cui lavora e per le quali è richiesta partita IVA.

Come chiudere una partita IVA inattiva?

Va da se che chi possiede una partita IVA inattiva dovrà, comunque, sempre e comunque fare i conti con la possibilità di chiusura d’ufficio da parte dell’Agenzia delle Entrate.

In tale caso, è bene sapere che il contribuente interessato riceverà una comunicazione da parte della Amministrazione finanziaria stessa, con la quale sarà informato della chiusura d’ufficio della partita Iva, da lui lasciata inattiva. Tuttavia, nella eventualità in cui il contribuente non ritenga corretta la contestazione potrà far valere le proprie ragioni.

In che modo il contribuente potrà far valere le proprie ragioni e contestare la chiusura d’ufficio?

La risposta a questa domanda è presto detta. Il contribuente potrà farlo, semplicemente rivolgendosi ad un ufficio delle Entrate, al quale dovrà necessariamente fornire la prova della propria qualificazione di soggetto passivo ai fini Iva. Ad ogni modo, come detto anche poco sopra, chi vorrà chiuderla di propria volontà non dovrà fare altro che inviare il modulo AA9 o AA7 all’Agenzia delle Entrate entro 30 giorni dalla data di cessazione dell’attività.

Dunque, questo è quanto vi era di necessario da conoscere sul significato della partita IVA attiva e inattiva.