L’ agroalimentare italiano “punta” la Cina

Che cosa amano i cinesi del made in Italy? Di sicuro la moda, le auto e il lifestyle, ma non dimentichiamoci dell’ agroalimentare. Di sicuro non se ne dimentica Sace, gruppo assicurativo-finanziario attivo, tra l’altro, nell’export credit e nell’assicurazione del credito. Secondo Sace, infatti, l’export agroalimentare italiano in Cina potrebbe passare dai circa 320 milioni del 2014 a 410 milioni nel 2018.

Questa impennata dell’export agroalimentare è dovuta in gran parte, secondo Sace, al fatto che la Cina, dopo anni di crescita ininterrotta sta indirizzando la propria economia su binari più equilibrati. Una maggiore stabilità che porterà con sé maggiori stimoli ai consumi interni, produzione di beni di qualità più elevata, sviluppo dei servizi, maggior utilizzo delle rinnovabili per la produzione di energia (a oggi la Cina è uno dei maggiori utilizzatori di combustibili fossili e uno dei Paesi maggiormente inquinanti).

Secondo Sace “Il ribilanciamento cinese può rappresentare un vantaggio per i Paesi esportatori”, che hanno settori di pregio come, per esempio, quello agroalimentare. Lo studio di Sace evidenzia come la parte di popolazione più abbiente delle grandi città cinesi sia in proporzione molto numerosa, tanto che anche una piccola élite di persone ha un elevato potenziale di consumo.

Sace sottolinea anche il forte processo di occidentalizzazione dei consumi, anche nel settore agroalimentare, che si è innescato in Cina negli ultimi anni, grazie anche al fatto che i flussi turistici cinesi hanno sostenuto e sosterranno la domanda di prodotti esteri al loro rientro in patria.

A tutto questo, a vantaggio di settori come quello dell’ agroalimentare italiano, si aggiunge il fatto che il mercato continua a crescere e che la legislazione locale sarà via via semplificata, rendendo più facile l’ingresso sul mercato cinese di nuovi importatori e distributori. E l’Italia, si spera, sarà in prima fila.

L’ agricoltura italiana produce ricchezza

Che l’Italia sia diventata, oltre che un Paese di santi, poeti e navigatori, anche un Paese di contadini è raccontato dalla realtà dei numeri. Secondo un’analisi di Coldiretti, infatti, è stata l’ agricoltura a far registrare il più elevato incremento del Pil nel quarto trimestre dello scorso anno, con il valore aggiunto che è salito dell’8,4% rispetto allo stesso periodo del 2014.

L’analisi di Coldiretti sull’andamento dell’ agricoltura è stata elaborata su dati Istat relativi al Pil, che hanno visto il settore agricolo registrare la maggiore crescita anche su base annuale. Con alcune zone d’ombra che, però, preoccupano l’associazione dei produttori agricoli.

Nello specifico, il settore italiano dell’ agricoltura soffrendo il crollo dei prezzi pagati ai produttori, crollo che sta portando alcuni settori alla deflazione: si va dal -60% dei pomodori, al -30% per il grano duro, al -21% per le arance rispetto al 2015.

Per non parlare, ricorda Coldiretti, di quanto sta accadendo al settore della zootecnia e degli allevamenti di animali da macello. Oltre all’annosa questione europea delle quote latte, Coldiretti ricorda il caso delle quotazioni per i maiali nazionali destinati ai circuiti a denominazione di origine, scese ben sotto quota 1 euro e 20 centesimi al chilo o dei bovini da carne, pagati su valori di 20 anni addietro.

In un quadro, dunque, nel quale i progressi dell’ agricoltura rischiano di essere vanificati da altri settori in maggiore difficoltà, Coldiretti chiede una moratoria sui debiti degli allevamenti da latte e da carne bovina e suina: continuasse così la situazione, queste aziende sarebbero costrette a chiudere, obbligate come sono a lavorare con prezzi di vendita ben inferiori ai costi di produzione.

Servono misure nazionali di rapida attuazione con una moratoria su mutui e prestiti agli allevamenti di 24/36 mesi – afferma Coldiretti -, oltre a un riposizionamento debitorio dal breve al medio lungo termine ed un impegno straordinario sui fondi di garanzia. Una necessità che può accompagnare il position paper che l’Italia presenterà alla Commissione europea, che prevede anche l’obbligo di etichettatura di origine per fermare le importazioni dall’estero da spacciare come Made in Italy”.

Insomma, se l’agricoltura italiana è sotto attacco, non sembra certo voler soccombere senza combattere.

Festa delle donne in agricoltura

La Festa delle donne è il momento per fare analisi e trarre bilanci anche sulla situazione delle donne nel mondo del lavoro. Scopriamo così che, in Italia, c’è un settore nelle quale vanno particolarmente forte. Le donne in agricoltura, infatti, lo scorso sono aumentate del 76% nella fascia di età under 34 anni.

Si tratta di dati che emergono da un’analisi di Coldiretti riferita a donne in agricoltura che hanno scelto di lavorare come imprenditrici agricole, socie di cooperative agricole o coadiuvanti familiari. Un incremento di donne in agricoltura 3 volte superiore a quello degli uomini, cresciuti del 27% nei primi 9 mesi del 2015 rispetto allo stesso periodo del 2014.

Dall’analisi di Coldiretti emerge che sono sempre di più i giovani e le donne in agricoltura che decidono di portare avanti l’azienda di famiglia, con l’appoggio, almeno morale, della famiglia stessa e degli amici nel 57% dei casi.

Un trend importante da favorire in ogni modo, tanto che i giovani della confederazione degli agricoltori hanno ritenuto opportuno costituire una apposita task force per sostenere i giovani e le donne in agricoltura interessati a sviluppare la propria attività. Le iniziative della task force vanno dal passaggio di informazioni ai servizi di tutoraggio, dai corsi di formazione ai consigli per l’accesso al credito.

Il commento di Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti è significativo: “Il risultato è che le aziende agricole dei giovani possiedono una superficie superiore di oltre il 54% della media, un fatturato più elevato del 75% della media ed il 50% in più di occupati per azienda”.

Sempre secondo Coldiretti, fino al 2020 ci sarà posto in Italia per circa 20mila persone tra giovani e donne in agricoltura, principalmente grazie all’approvazione dei diversi piani di sviluppo rurale presentati dal nostro Paese da parte della Commissione europea.

Agroalimentare tra export e deflazione

Sono passati ormai quattro mesi dalla fine di Expo 2015, evento che ha acceso un faro di dimensioni mondiali sul comparto agroalimentare italiano. Ma come è messo, oggi, quello che è uno dei capifila dell’eccellenza italiana all’estero?

All’apparenza bene. Secondo i dati Istat riferiti al 2015, il Pil italiano è cresciuto dello 0,8% su base annua rispetto al 2014, anche e soprattutto grazie all’agricoltura, che ha fatto registrare lo scorso anno il più elevato aumento di valore aggiunto, +3,8%, accompagnato al record per l’export agroalimentare, che ha raggiunto quota 36,8 miliardi di euro (+7,5% sul 2014). Una nuova giovinezza per l’agricoltura e l’agroalimentare, che si accompagna al +16% giovani occupati nel comparto, pari a oltre 20mila unità.

Dati buoni, dei quali si è accorto anche il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina: “Le nostre tre priorità assolute sono tutelare il reddito di chi vive di agroalimentare, favorire il ricambio generazionale e organizzare su basi nuove le nostre filiere eccellenti. Non è un caso che nella Legge di Stabilità l’agroalimentare abbia avuto una centralità assoluta: infatti da quest’anno tagliamo del 25% la pressione tributaria sulle aziende, cancellando Irap e Imu sui terreni, per un valore di 600 milioni di euro. Con lo stesso obiettivo abbiamo proposto una riforma della nostra organizzazione per approdare a un vero e proprio ministero dell’ Agroalimentare italiano in grado di dare unità e forza al settore”.

La ripresa di un ruolo centrale nell’economia da parte dell’ agroalimentare italiano è sottolineata anche da Coldiretti. Secondo l’organizzazione degli agricoltori, “il valore aggiunto agricolo cresce grazie all’export e alla ripresa dei consumi alimentari delle famiglie, che tornano positivi dopo sette anni di flessione. Tuttavia destano preoccupazione i segnali di deflazione provenienti dalle campagne italiane a causa del crollo dei prezzi pagati ai produttori, dal -60% per i pomodori al -30% per il grano duro fino al -21% delle arance rispetto all’anno scorso. La situazione sta assumendo toni drammatici anche per gli allevamenti, con le quotazioni per i maiali nazionali destinati ai circuiti Dop, ben al di sotto del livello per la copertura dei costi di produzione. La situazione non è facile nemmeno per i bovini da carne e per il settore lattiero-casario”.

In sostanza, quindi, se da un lato il settore dell’ agroalimentare si dimostra trainante per l’economia, specialmente nel rapporto con i mercati esteri, dall’altro la politica dei prezzi praticati nei confronti dei produttori rischia di minare alla base le buone performance del settore. Un rischio da evitare, anche alla luce di quanto di buono ha portato all’ agroalimentare italiano Expo 2015.

Cibus 2016 scalda i motori

Se il 2015 è stato il grande anno dell’alimentazione grazie a Expo 2015, quest’anno i temi del cibo e dell’alimentazione sostenibile rimangono comunque al centro dell’attenzione grazie a manifestazioni come Cibus, giunta ormai alla sua 18esima edizione.

Cibus 2016, Salone Internazionale dell’Alimentazione organizzato da Fiere di Parma e Federalimentare, si terrà a Parma dal 9 al 12 maggio. Anche in questa edizione saranno presidiati tutti i settori: carni e salumi, formaggi e latticini, gastronomia, ultrafresco e surgelati, pasta, conserve, condimenti, prodotti dolciari e da forno, la Quarta Gamma, le bevande, prodotti tipici e regionali, e altro ancora. Grande spazio avranno i prodotti vegetariani e vegani, ma anche prodotti biologici e prodotti con meno grassi, meno sodio, senza glutine e via dicendo.

A Cibus 2016 saranno presidiati quattro ambiti di interesse: Sezioni Speciali, Convegni & Workshop, Incoming ed Eventi in Città. Non mancherà un particolare focus sul retail, con un convegno che si concentrerà sul ruolo della Marca del Distributore nello sviluppo dell’export italiano.

Altro spazio dedicato all’approfondimento dei temi legati al retail sarà un’area workshop all’interno del padiglione 7 dove saranno organizzati incontri pomeridiani dedicati all’analisi degli scaffali all’estero e a come vengono presentati i prodotti made in Italy nei principali mercati obiettivo.

L’attività incoming realizzata in collaborazione con ICE/Italian Trade Agency, che svolge da sempre un ruolo chiave nella strategia di Cibus, quest’anno si rafforza con un investimento di oltre 2 milioni di euro, stanziati nell’ambito delle azioni di promozione a sostegno dell’agroalimentare italiano promosse sotto il segno distintivo “The Extraordinary Italian Taste”, per ospitare buyers e importatori internazionali.

Il piano prevede un’offerta che aggiunge alla visita della fiera anche retail tour, gala dinner e post show tour presso alcuni stabilimenti produttivi sul territorio. L’attività di incoming è coadiuvata da un’attività di roadshow internazionale, che ha portato gli organizzatori di Cibus a incontrare professionisti del settore a San Francisco in gennaio per il Winter Fancy Food e continua con una partecipazione al Gulfood a Dubai in febbraio e al Foodex di Tokyo in marzo.

Commenta Elda Ghiretti, Cibus Brand Manager: “Cibus 2016 si conferma la fiera alimentare più conosciuta e rilevante in Italia e nel mondo. L’adesione delle aziende alimentari è fin qui numerosa ed entusiasta. Sanno di trovare una piattaforma che si modella in tempo reale alla domanda del mercato, sia in termini di innovazione che di tipicità. Gioca a nostro favore anche l’incredibile esperienza dei 6 mesi in Expo, col padiglione Cibus è Italia che ha ospitato centinaia di buyer esteri”.

Sanzioni Ue alla Russia? Perde solo il made in Italy

Se con le sanzioni economiche alla Russia l’Ue ha voluto colpire il Paese di Putin, in realtà chi sta soffrendo di più sono le imprese e i comparti che in quel mercato trovavano uno sbocco privilegiato. In molti casi si tratta di interi settori del made in Italy che sono stati penalizzati dall’embargo voluto dalla comunità internazionale dopo la guerra con l’Ucraina.

A calcolare le perdite che questo sta causando al made in Italy, ci ha pensato Coldiretti, che in un proprio studio effettuato su dati Istat ha rilevato, le esportazioni del made in Italy in Russia hanno toccato il minimo da 10 anni a questa parte. Basti dire che a gennaio 2016, il nostro export verso il Paese degli zar è calato del 24% rispetto a gennaio 2015.

In termini complessivi, sottolinea Coldiretti nel proprio studio, il controvalore delle esportazioni italiane in Russia nel 2015 è stato pari a 7,1 miliardi, -3,7 miliardi rispetto al 2013, ultimo anno prima dell’introduzione delle sanzioni internazionali.

Come era prevedibile, il comparto più penalizzato per il made in Italy, e quello che più sta a cuore a Coldiretti, è quello dell’agroalimentare. L’associazione dei coltivatori diretti ricorda infatti i danni causati “dall’embargo totale in Russia per una importante lista di prodotti agroalimentari con il divieto all’ingresso di frutta e verdura, formaggi, carne e salumi ma anche pesce, provenienti da UE, Usa, Canada, Norvegia ed Australia con decreto n. 778 del 7 agosto 2014 e rinnovato per un ulteriore anno con nuova scadenza il 5 agosto 2016”.

Al di fuori del burocratese, questo blocco significa che a essere penalizzati sono soprattutto, ricorda Coldiretti, frutta, verdura, formaggi, latticini, carni e frattaglie e i settori collegati con il relativo indotto. Il tutto per una mazzata sull’agroalimentare che, si legge nello studio, “è costata direttamente all’Italia 240 milioni di euro nel 2015 per il solo settore agroalimentare”.

Il pecorino è la star dei formaggi italiani

Chi lo avrebbe mai detto? Nella variegata galassia dei formaggi italiani, la stella che brilla di più è quella del pecorino, almeno stando ai dati di export diffusi da Coldiretti. Nel 2015, infatti, è stato il re dei formaggi italiani con un +23% di esportazioni.

Il principale mercato per il pecorino italiano è stato quello americano (+28%), seguito dal Regno Unito (+22%) e dalla Francia (+16%), dove la concorrenza locale verso i formaggi italiani è spietata. Fa storia a sé il +500% di pecorino esportato in Cina, perché i numeri di partenza erano troppo bassi e le quantità esportate ancora ridotte.

Nel sottolineare la performance positiva del pecorino rispetto agli altri formaggi italiani, Coldiretti ricorda anche i numeri della produzione che stanno dietro a questo fenomeno: 6,2 milioni di pecore e circa 700mila capre, divise principalmente tra Sardegna (3,2 milioni di pecore), Sicilia (770mila), Lazio (630mila) e Toscana (420mila).

L’Italia produce annualmente 400mila tonnellate di latte ovino e 28mila di quello caprino e i formaggi italiani di pecora prodotti ammontano a 67mila tonnellate. Cifre importanti, che solo per il Pecorino Romano Dop sono di circa 25mila tonnellate, il 60% delle quali esportate.

Se, dunque, il 2015 è stato un anno importante per l’export dell’agroalimentare italiano (36 miliardi di euro a valore, +7% anno su anno) anche grazie al traino e alla vetrina di Expo 2015, lo si deve anche al boom delle esportazioni di pecorino. Oltre ai formaggi italiani, sono andati forte l’export di ortofrutta (+11%), di olio di oliva (+10%), di pasta (+9%) e di vino (+6%).

La dieta mediterranea fa bene all’economia

Se c’è un’eccellenza del made in Italy nel mondo che, oltre a far star bene la nostra economia, fa star bene anche chi se ne serve, è la dieta mediterranea. Osannata ma spesso sottovalutata, la dieta mediterranea, secondo Coldiretti, sta vivendo in Italia una seconda giovinezza.

L’associazione dei coltivatori diretti rileva infatti, nel proprio bilancio sui consumi alimentari nel nostro Paese “un aumento che va dal 4% negli acquisti di frutta al 17% per quelli di olio di oliva ma cresce anche la spesa anche per il pesce (+5%), per gli ortaggi freschi e per la pasta secca (+1%), in netta controtendenza rispetto agli anni della crisi dove si era registrato un drastico crollo”.

In sostanza, gli italiani scoprono che la dieta mediterranea, oltre alla salute, fa bene anche al portafogli. Coldiretti sottolinea come lo scorso anno, i consumi di alimenti mediterranei “dopo sette anni di calo tornano a salire debolmente dello 0,3%” e come, questa ripresa, sia “una storica inversione di tendenza dopo anni di tagli progressivi che avevano portato il consumi dei prodotti base della dieta mediterranea su valori da minimo storico”.

Coldiretti rileva come, nel nostro Paese, grazie anche al contributo del focus di Expo 2015 sull’alimentazione sana ed equilibrata, oltre a una ripresa dei consumi nel mangiare sano si è verificata una “svolta green nel carrello, dal biologico al chilometro zero fino alle denominazioni di origine. Se gli acquisti di prodotti biologici confezionati fanno registrare un incremento record del 20% degli acquisti, sono state quindici milioni le persone che hanno scelto prodotti locali a chilometri zero che non devono percorrere lunghe distanza con mezzi di trasporto inquinanti, mentre ad acquistare regolarmente prodotti tipici legati sono ben 2 italiani su tre secondo l’indagine Doxa per Coop”.

Fin qui tutto bene per la salute fisica degli italiani. Ma per la salute economica dell’Italia? Buone notizie anche su questo fronte, perché i dati di Coldiretti indicano che la dieta mediterranea italiana “si è però affermata anche all’estero, con aumenti che vanno dall’11% per l’ortofrutta al 10% per l’olio di oliva, dal +9% per la pasta al +6% per il vino, che ha realizzato il record con un preconsuntivo di 5,4 miliardi di fatturato realizzati oltre i confini nazionali, secondo elaborazioni Coldiretti su dati Istat relativi ai primi 10 mesi del 2015”.

Dati che, aggregati e letti insieme su tutto l’arco dell’anno, fanno della dieta mediterranea un impressionante volano economico per il nostro Paese. Come conclude Coldiretti nel proprio bilancio, “non si è mai speso così tanto per il made in Italy alimentare nel mondo, dove nel corso del 2015 è stato raggiunto il record delle esportazioni pari a circa 36 miliardi di euro (+7%)”.

Mipaaf e Intesa Sanpaolo per le imprese dell’ agroalimentare italiano

Le grandi realtà del credito del Paese si muovono a sostegno delle imprese dell’ agroalimentare italiano. Proprio guardando al periodo per nulla facile in Borsa per le banche italiane, il protocollo di intesa siglato tra il ministero delle politiche Agricole alimentari e forestali e Intesa Sanpaolo sull’ agroalimentare italiano assume un’importanza strategica.

L’accordo, firmato nei giorni scorsi dal ministro Maurizio Martina e dal consigliere delegato di Intesa Sanpaolo Carlo Messina, prevede l’attivazione di un plafond di investimenti da 6 miliardi di euro in 3 anni per finanziare imprese e filiere produttive, oltre che per sostenere servizi finanziari dedicati alle esigenze dell’attività agroalimentare. Con questa intesa, i firmatari stimano possibile la creazione di almeno 70mila nuovi posti di lavoro e 10 miliardi di investimenti.

Il protocollo potenzia anche gli strumenti di garanzia e istituisce un programma formativo destinato agli imprenditori dell’ agroalimentare italiano. Toccherà a un team centrale e a una rete di specialisti territoriali di Intesa Sanpaolo, garantire supporto finanziario e consulenza alle imprese agricole, con la supervisione e il sostegno del ministero, delle associazioni e degli enti locali.

Altra priorità che i firmatari del protocollo di intesa si sono dati, è quella di rendere più agevole l’accesso al credito per le imprese dell’ agroalimentare italiano. Con una maggiore e più facile disponibilità finanziaria, queste aziende potranno impegnarsi in maniera più decisa nella propria opera di internazionalizzazione, effettuare investimenti maggiori e più mirati nelle rispettive filiere produttive, favorire l’innovazione tecnologica, la digitalizzazione e l’e-commerce, fondamentali per l’ agroalimentare italiano per crescere sempre di più all’estero.

Spumante o champagne, chi l’ha spuntata?

Come ogni anno, prima e dopo le Feste, si tirano le somme di vincitori e vinti nella annosa lotta tra spumante e champagne. E anche per il 2015, pare che lo spumante l’abbia spuntata sulle blasonate bollicine dei cugini d’Oltralpe, almeno stando ai risultati di vendite del sito Tannico.it, la più grande enoteca online in Italia.

Secondo i dati di Tannico.it, lo spumante ha totalizzato 35% del totale delle oltre 20mila vendite effettuate tra novembre e dicembre, lo champagne il 32%, il Franciacorta il 24%, il Trento DOC il 4,4%.

Interessante notare come lo scontrino medio per l’acquisto di bollicine si è posizionato in una fascia medio-alta: 103 euro, con una media di 5 bottiglie acquistate. La distribuzione geografica degli acquisti di spumante e champagne effettuati nei due mesi analizzati parla di Vicenza come città più amante delle bollicine, +40% dei consumi rispetto alla media, seguita da Modena (+31%) e Lecco (+27%).

Estendendo invece lo sguardo ai consumi annuali del 2015, la regione del Nord che più apprezza spumante, champagne e dintorni è la Valle D’Aosta (33,70%), seguita da Emilia-Romagna (28,74%) e Veneto (26,27%). Al Centro vincono le Marche (30,58%), seguite da Umbria (28,46%) e Abruzzo (25,82%). Al Sud vince la Basilicata (29,51%), seguita da Puglia (24,36%) e Calabria (23,87%).

Il commento di Marco Magnocavallo, fondatore di Tannico.it: “Abbiamo venduto 38mila litri di bollicine in tutto il 2015. Se impilassimo tutte le bottiglie vendute in questo periodo pre natalizio arriveremmo alla stratosfera. Dallo champagne al prosecco abbiamo raccolto i migliori spumanti italiani e stranieri andando a comporre uno dei cataloghi di bollicine più completi disponibili online e offline. La risposta dei nostri clienti è stata al di sopra delle aspettative: il nostro miglior cliente in un anno ha acquistato bottiglie per un ammontare pari a 17.500 euro”.