La cassetta di sicurezza in banca si può pignorare? Come procedere

Molti decidono di richiedere una cassetta di sicurezza in banca non solo perché in questo modo possono proteggere valori che a casa non sarebbero al sicuro, ma anche perché il contenuto dovrebbe essere coperto della privacy e di conseguenza alcuni cercano n questo modo di occultare dei valori. Nonostante questo deve essere ricordato che le somme ivi contenute sono pignorabili. Ecco cosa succede se un creditore vuole ottenere il proprio credito attraverso la cassetta in banca.

Nell’espropriazione dei beni del debitore rientra la cassetta di sicurezza

L’articolo 2910 del codice civile consente al creditore, utilizzando le procedure previste nel codice di procedura civile di procedere all’espropriazione dei beni del debitore al fine di conseguire quanto gli è dovuto. La normativa in oggetto consente l’esecuzione forzata non solo sui beni in possesso del debitore principale, ma anche sui beni e sui crediti da questo vantati presso terzi. Può così capitare che ci sia l’esecuzione su una porzione di stipendio, su una porzione di pensione, su conti corrente. Molti però si chiedono: visto il vincolo della privacy ricadente sulla cassetta di sicurezza in banca, è possibile effettuare il pignoramento sulla cassetta di sicurezza in banca?

Per conoscere i limiti al pignoramento della pensione, leggi l’articolo: limiti al pignoramento della pensione 2022: importi e modalità

Senza il titolo di credito esecutivo non si può pignorare nessun bene

La prima cosa da dire è che qualunque sia la forma del pignoramento presso terzi o presso il debitore, per poter procedere è necessario avere un titolo di credito, ad esempio un decreto ingiuntivo, una sentenza di condanna, un assegno protestato. Solo in presenza di un valido ed efficace titolo è possibile procedere. Per arrivare ad ottenere questo titolo in alcuni casi possono essere richiesti tempi molto lunghi, proprio per tale motivo il creditore ha un’arma a sua disposizione cioè può chiedere al giudice dei provvedimenti cautelari, come il sequestro delle somme presenti su conto corrente o conto deposito.

Naturalmente il creditore potrebbe essere all’oscuro delle sostanze in possesso del debitore, ecco perché l’articolo 492 bis del codice di procedura civile prevede la possibilità per qualunque creditore ( anche privato) che abbia un valido titolo esecutivo di chiedere al giudice di disporre l’accesso alle banche dati dell’Agenzia delle Entrate e del territorio. A sua volta l’Agenzia delle Entrate ha accesso a tutte le banche dati, ad esempio quelle delle banche. Fatta questa premessa cerchiamo di capire se è possibile effettuare il pignoramento della cassetta di sicurezza in banca.

Cos’è la cassetta di sicurezza in banca e come funziona

La cassetta di sicurezza è uno strumento molto particolare, infatti nel caveau delle banche vi sono specifici spazi messi a disposizione dei clienti per conservare beni. Viene utilizzata per depositare documenti che si vogliono tenere nascosti, ma anche gioielli, e spesso soldi che non si vogliono dichiarare al fisco. In teoria su questo strumento c’è l’anonimato, ma pensare che la banca non sappia cosa contenga è un po’ difficile da credere perché è solitamente previsto il pagamento di un canone annuo che viene stabilito spesso anche in base al valore del contenuto, inoltre superati i 5.000 euro di valore del contenuto, cosa che capita spesso, è necessario pagare anche una copertura assicurativa e la stessa è calcolata in base al valore del contenuto, quindi la banca non conosce i beni ( soldi, titoli, gioielli) che sono presenti nella cassetta, ma ne conosce il valore.

Altra cosa, molti non lo sanno, ma la cassetta di sicurezza deve essere indicata nel caso in cui si intenda richiedere un modello Isee.

Fatta questa premessa, deve essere ricordato che è vero che la banca deve assicurare la privacy al proprietario della cassetta di sicurezza, ma questo obbligo cade nei confronti del Fisco, cioè quando a chiedere i dati è l’Agenzia delle Entrate. La banca però non deve fornire i dati su ciò che contiene al Fisco, ma deve semplicemente dire che Tizio presso la banca detiene una cassetta di sicurezza.

Questo implica che quando l’Agenzia delle Entrate interroga la banca su tutti i rapporti intrattenuti con una determinata persona, avrà soltanto l’indicazione della presenza di una cassetta di sicurezza, che in teoria potrebbe anche contenere beni il cui valore è effimero, ad esempio potrebbe contenere una foto di nessun valore, documenti che non hanno un valore economico…

Come avviene il pignoramento della cassetta di sicurezza?

A questo punto abbiamo capito che anche la cassetta di sicurezza può essere oggetto di pignoramento ma che prima dell’apertura della cassetta  il creditore non sa se effettivamente all’interno siano presenti beni di interesse per la sua causa.

Vista però la particolarità del rapporto tra titolare della cassetta e la banca, cambiano anche le procedure attraverso le quali si può procedere al pignoramento. Questo infatti non viene considerato alla stregua di un pignoramento presso terzi, ma come pignoramento mobiliare diretto. Di conseguenza il creditore dovrà rivolgersi giudice territorialmente competente ( giudice del luogo in cui si trova la banca) per chiedere di autorizzare l’ufficiale giudiziario ad effettuare il pignoramento.

L’ufficiale giudiziario si recherà presso la banca che detiene la stessa alla presenza del funzionario di banca addetto ( che dovrà essere presente alla redazione del verbale) e del debitore titolare della cassetta. Sarà proprio il titolare a dover aprire la cassetta e mentre l’ufficiale redigerà il verbale del contenuto e provvederà al sequestro dei beni. Nel caso in cui si tratti di gioielli, gli stessi saranno venduti all’asta su istanza del creditore procedente. Questo infatti dovrà iscrivere a ruolo il procedimento per ottenere il ricavato della vendita all’asta o per l’assegnazione dei beni in natura. Nel caso in cui nella cassetta di sicurezza ci siano denaro o titoli il credito, il creditore potrà chiedere l’assegnazione delle somme a lui spettanti. Il residuo, se presente e se non vi sono altri creditori intervenuti nel procedimento, sarà nella disponibilità del debitore.

Surroga del mutuo: cos’è e ha senso parlarne nel 2022 con tassi in crescita?

Stai pagando il mutuo per la casa e pensi che forse il tasso di interesse è troppo alto? Oppure vorresti stipulare un mutuo ma hai paura che a breve i tassi possano ricominciare a scendere e di conseguenza di ritrovarti una rata fuori dal mercato? Non temere, in aiuto per te c’è la surroga del mutuo.

Cos’è la surroga del mutuo

La surroga del mutuo consiste nella possibilità di trasferire il proprio contratto di mutuo da una banca all’altra. Naturalmente nella maggior parte dei casi questo avviene perché si trova un’offerta migliore e quindi vi è la possibilità di risparmiare sulla rata. La surroga ovviamente va ad agire sul tasso di interesse ed eventuali altre spese come l’incasso rata.

Soprattutto negli anni passati, quando il costo del denaro era piuttosto alto, sono stati negoziati mutui che poi sono diventati fuori dal mercato in seguito alla riduzione del costo del denaro. Siccome, dopo la crisi economica globale vissuta all’inizio del nuovo millennio, la situazione era diventata insostenibile, è  stata introdotta la possibilità di ottenere la rinegoziazione del mutuo, quindi un cambio delle condizioni del mutuo con la propria banca. In alternativa c’era la surroga del mutuo e quindi il trasferimento del debito presso un’altra banca (decreto Bersani legge 40 del 2007). La surroga, introdotta in via eccezionale per far fronte a un’esigenza impellente di molti italiani, è diventata strutturale nel nostro ordinamento e con il tempo sono sempre più le persone che in costanza di mutuo chiedono ulteriori preventivi per avere una riduzione del prezzo da pagare.

Deve essere sottolineato che in caso di richiesta di surroga del mutuo, la banca in cui è inizialmente negoziato il mutuo non può rifiutare il trasferimento e sono previsti tempi contingentati per completare la pratica, questo per evitare manovre ostruzionistiche.

Come funziona?

Quando si effettua la surroga del mutuo è possibile ridisegnare tutti gli elementi del contratto, in particolare si può ottenere una riduzione del tasso fisso, passare da un tasso fisso a un tasso variabile e viceversa, si può optare per un tasso variabile con tetto massimo. Non possono cambiare gli importi, cioè deve essere trasferito lo stesso mutuo non devono essere concesse nuove somme. In teoria in un secondo momento è possibile richiedere ulteriori somme. L’ipoteca inizialmente iscritta in favore della prima banca con la surroga passa alla seconda banca.

Il cliente potrebbe optare per la sostituzione del mutuo, questa consente di ottenere anche ulteriore liquidità, ma in questo caso potrebbero essere previsti dei costi.

Ha senso parlare oggi di surroga del mutuo?

A questo punto ci si potrebbe chiedere: qual è il senso di parlare di surroga del mutuo oggi? I tassi di interesse infatti sono in crescita e difficilmente surrogando oggi un mutuo si potrebbe risparmiare. Ci sono ben due motivi per conoscere le caratteristiche della surroga del mutuo. In primo luogo un mutuo trentennale stipulato agli inizi del 2000 o addirittura alla fine degli anni Novanta potrebbe offrire oggi ancora opportunità di risparmio. In secondo luogo, i tassi di interesse oggi stanno aumentando, ma stipulando oggi un mutuo si può ancora ottenere un buon risparmio rispetto alla stipula fatta tra qualche mese.

Per conoscere l’andamento dei tassi di interesse dei mutui, leggi l’articolo: Tasso di interesse mutui: nuovo record in aumento

In secondo luogo, la surroga del mutuo è sempre un’opportunità, ad esempio se il mercato dovesse riequilibrarsi, e quindi il costo del denaro avere una leggera flessione al basso, il mutuo oggi stipulato potrà essere rimesso in discussione con la surroga.

Deve, infine, essere sottolineata un’altra cosa. La base del costo di un mutuo è determinato da due elementi principali, cioè l’indice Euribor per il mutuo a tasso variabile e l’indice IRS per il mutuo a tasso fisso a cui si aggiunge lo spread, questa è la quota di guadagno che applica la banca. Le diverse banche possono prevedere uno spread diverso e comunque “giocare” con lo spread pur di ottenere un maggior numero di clienti. Tali manovre potrebbero generare risparmio per il cliente/debitore. Proprio per questo è sempre bene provare a chiedere nuovi preventivi e nel caso attivare una surroga del mutuo.

Soldi in banca a rischio per i risparmiatori? Gli effetti di guerra e pandemia

Ci sono banche italiane che stanno perdendo molto in Borsa. Perdite ingenti per esempio, per la nostra Intesa San Paolo. Ma non è l’unica. Il motivo? La guerra in Ucraina per esempio. Ma anche su questo, non è solo il conflitto Russia-Ucraina a minare l’economia globale. Prendiamo ad esempio l’Italia. Il governo italiano ha deciso di aprire uno stato di emergenza fino a fine 2022. Per la guerra naturalmente. Ma oggi in Italia, paradossalmente, sono aperti due stati si emergenza. Uno per l’emergenza epidemiologica per il Covid, l’altro appunto per la guerra in Ucraina. Come di collegano due emergenze così diverse con la crisi economica e con il potenziale fallimento delle banche che porterebbe al rischio di perdere soldi per i risparmiatori, è argomento mai così attuale.

Italia, in Paese di risparmiatori

Che l’Italia sia un Paese che ha una grande platea di risparmiatori lo dicono tutti. Adesso c’è chi pensa che siamo arrivati ai soldi in banca a rischio per i risparmiatori. Basta tornare indietro all’ultimo governo Conte, quando si andò a Bruxelles per spillare i fondi del Recovery Plan per l’emergenza Covid. I Paesi frugali, contrari agli aiuti massicci all’Italia, sostenevano proprio che l’elevato numero di soldi detenuti dalle banche ma dei risparmiatori, età un fattore da considerare. L’Italia è un paese di risparmiatori. Non ci sono altri Paesi dove le banche hanno un così alto numero di depositi da parte dei cittadini. Ma adesso sono soldi a rischio per via di una crisi globale che rischia di diventare sempre più forte? La risposta la daremo con questo articolo, partendo dal presupposto che niente può essere considerato sicuro al 100% soprattutto se si parla di crisi legate a guerre o conflitto. L’imprevedibilità degli scenari che possono sopraggiungere in guerra, non dà sicurezza alcuna.

Cosa sta succedendo alle banche con la guerra in Ucraina

La guerra nell’est Europa appare distante dall’Italia, almeno geograficamente. Per esempio, era molto più vicina quella del conflitto nell’ex Jugoslavia. Ma tra UE, Nato e così via, anche l’Italia ne è coinvolta, forse non ancora militarmente, ma economicamente per forza. Le sanzioni che i governi occidentali hanno deciso di applicare contro Putin e la Russia, incideranno sull’economia non solo della Russia. Sono molteplici gli istituti di credito, anche italiani, che hanno rapporti con le banche russe.

Ed il blocco di queste operazioni come per il blocco di tutte le operazioni commerciali di questa specie di embargo imposto alla Russia, mina la stabilità anche degli istituti di credito.

In altri termini, le sanzioni economiche stabilite dall’Occidente nei confronti della Russia stanno avendo ripercussioni anche sull’economia degli stessi  Paesi che hanno imposto le sanzioni, pur non entrando nel conflitto. E tra queste l’Italia, che rischia una nuova crisi economica, forse anche peggiore di quella da cui sembra si stesse uscendo, cioè quella dell’emergenza epidemiologica.

Come ogni azienda, anche una banca può fallire, e per le motivazioni più svariate. Una crisi economica dovuta ad un conflitto è una di queste. La paura dei risparmiatori è quella di perdere i soldi che con tanti sacrifici hanno risparmiato e lasciati alle banche. Ma è un rischio reale o fa parte solo dell’ansia del momento?

Cosa accade se i correntisti o i risparmiatori tolgono i soldi dalle banche

Come reagiscono i risparmiatori nel momento in cui arriva il timore che si possono perdere i soldi propri depositati in banca? Il primo passaggio inevitabile è il prelievo dei soldi fino al quasi azzeramento dei propri depositi. La corsa al prelievo può essere una delle cause scatenanti di un fallimento di una banca.

Infatti, si tratta di un taglio delle liquidità delle banche che si va ad aggiungere, come detto, al taglio delle interazioni finanziarie con le banche Russe. Parliamo di uno scenario che può essere definito apocalittico dal punto di vista bancario, ma che non è da escludere del tutto.

Le banche funzionano in maniera assai semplice. I soldi depositati da chi li ha, servono per dare prestiti a chi non li ha. La differenza tra gli interessi che la banca paga a chi deposita soldi (pochi interessi), e quelli che chiede a chi ottiene un prestito piuttosto che un mutuo, sono l’utile che la banca porta a casa. Naturalmente non solo questo, perché poi ci sono gli investimenti, le azioni e tutto il resto.

Evidente però che se chi risparmia smette di farlo, la banca ha carenze nel poter esaudire le richieste di prestito che arriveranno e che sempre inevitabilmente, una fase di crisi aumenta esponenzialmente. Un circolo vizioso vero e proprio, un tunnel senza via di uscita.

La paura di perdere i soldi è arrivata anche in Italia, soldi in banca a rischio per i risparmiatori?

Ma perché i risparmiatori dovrebbero togliere i soldi dalle banche? Da un lato la necessità di far fronte alle spese quotidiane che un periodo di crisi economica non consente come in tempi di stabilità. Dall’altra la paura che di colpo una banca che fallisce, decide di “espropriare” i soldi depositati. Certo, non è una cosa facile quest’ultima, ed esistono delle normative che salvaguardano i risparmiatori, ma non tutti e non su tutte le somme depositate.

Il nostro articolo non vuole essere un incentivo a correre in banca a smobilitare i soldi da parte naturalmente, ma parliamo di un problema che molti ipotizzano e molti altri nemmeno conoscono. Esiste uno strumento conosciuto come “bail-in” che mette a rischio i soldi in banca.

Cos’è il bail-in e come impatta sui depositi in banca

Raccogliere i soldi dei risparmi di alcune persone  per metterli a disposizione di altri, è la funzione della banca, che però non è certo il “Robin Hood” dell’economia, che rubava ai ricchi per darli ai poveri. Dietro c’è un ricavo che la banca fa su questa doppia operazione.

Senza ricavi una banca come una qualsiasi azienda, può fallire. Rispetto ad una azienda però, che fallisce nel momento in cui ha la cassa vuota, la banca può fallire nonostante ci siano soldi depositati sui conti, sui libretti e così via. Ma sono soldi che non appartengono alla banca, ma ai risparmiatori.

Inoltre, come sta accadendo adesso, con il blocco dello Swift perle banche russe, ai nostri istituti di credito viene a mancare una discreta fonte di utile per via dei tanti casi di operazioni internazionali tra Stati diversi.

Il blocco dello Swift per le banche russe impedisce loro di ricevere denaro dai debitori esteri, Italia compresa, ma ha lo stesso inverso effetto, cioè anche le nostre banche, con i loro correntisti che sono creditori di banche russe e aziende russe, non possono ricevere soldi.

La fine di una banca potrebbe mettere a rischio i risparmiatori nel momento in cui si attiva quel meccanismo del bail-in. Soldi in banca a rischio per i risparmiatori quindi. Lo strumento nasce per evitare che le banche, che dispongono di liquidità non propria dei suoi risparmiatori, non vadano ad incidere troppo sulla spesa pubblica, cioè non siano a completo carico dello Stato nelle operazioni di salvataggio.

E così si tirano dentro i clienti delle banche. Quando una banca fallisce, si usano i fondi dei soci azionisti delle banche stesse. In seconda battuta vengono colpiti i soggetti che hanno investito nella banca, i semplici azionisti o obbligazionisti non soci. Infine si arriva ai normali risparmiatori.

Due scenari possibili se una banca chiude, i soldi in banca a rischio per i risparmiatori

Se una banca chiude e viene assorbita da un altro istituto di credito nessun problema. Se invece chiude del tutto, i risparmiatori che hanno meno di 100.000 euro in banca non rischiano nulla. I soldi verranno restituiti tutti alla chiusura definitiva della banca. Per i conti cointestati la soglia è di 200.000 euro.

In sostegno a questi risparmiatori arriva un fondo di garanzia che salvaguarda i risparmi presenti in una banca fallita. Se invece i correntisti hanno più di 100.000 euro sul conto, rischiano di rimetterci. Il bail-in infatti opera in un modo particolare. Ai correntisti che hanno oltre 100.000 euro sul conto corrente verrà restituita la somma esatta di 100.000 euro. Sarà la parte eccedente ad essere tagliate dell’8%. In buona sostanza, se una persona ha 300.000 euro in banca, perderà 16.000 euro dei suoi risparmi in un colpo solo, cioè l’8% di 200.000 euro, che è la parte eccedente i 100.000 euro sempre salvaguardati.

Limiti utilizzo contanti: cosa è cambiato con il 2022

La lotta all’evasione fiscale è al centro dell’attenzione del Governo e proprio per questo ci sono nuovi limiti utilizzo contanti per il 2022. Ecco cosa cambia.

Limiti utilizzo contanti 2022: attenti ai dettagli

Se l’estensione dell’obbligo di fatturazione elettronica ai forfettari ancora è in forse, o meglio ancora non è stata determinata una data, ciò che è certo è il nuovo limite utilizzo contanti per il 2022. Ciò sempre nell’ottica di contrastare in modo energico l’evasione fiscale attraverso uno stretto controllo delle transazioni effettuate.

Dal primo gennaio 2022 il limite all’uso del contante è di 999,99 euro. Vuol dire che superata tale soglia dovranno essere utilizzati pagamenti tracciabili, ad esempio la carta oppure il bonifico. Tale norme valgono sia nei trasferimenti tra persone fisiche (ad esempio una donazione di una modica somma di denaro tra genitore e figlio), sia per i trasferimenti tra persone fisiche e persone giuridiche, ad esempio per pagare un televisore, sia tra persone giuridiche, come per le operazioni tra due società.

Cosa succede con i prelievi e i versamenti in banca?

Sia chiaro, non vi sono novità per i prelievi e i versamenti in banca.  E’ ancora possibile andare in banca e ritirare somme superiori al limite, ad esempio 1.200 euro, in contanti. Poi questi soldi potranno essere spesi però in modo frazionato. E’ altrettanto possibile andare in banca e versare in contanti somme superiori a 1.000 euro, ad esempio il supermercato nell’arco della giornata riceve sicuramente molti pagamenti con carta di credito o di debito, ma anche pagamenti in contanti. Molto probabilmente anche per questioni di sicurezza decide di andare in banca a versare gli importi ricevuti in contanti, se anche questi superano i 1.000 euro, non vi è violazione degli obblighi visti.

La normativa ammette anche la possibilità di effettuare pagamenti per un’unica prestazione utilizzando sia contanti sia carta o bonifici, ad esempio se si va da un professionista e la fattura è di 1.400 euro, è possibile pagargli 999 euro in contanti e 401 con l’uso della carta. L’importante è che non sia mai superata la soglia dei 1000 euro in contanti.

Le sanzioni per violazione dei limiti utilizzo contanti

Naturalmente contravvenire a queste regole può portare a sanzioni. Una novità positiva è data dal fatto che con l’entrata in vigore del nuovo limite all’uso dei contanti 2022 diminuisce anche il minimo edittale. Fino al 31 dicembre 2021 il limite all’uso del contante era fissato in 1.999,99 euro e la sanzione minima applicabile era di 2.000 euro. Dal 1° gennaio 2022 il limite all’uso dei contanti è 999,99 euro e di conseguenza la sanzione minima è di 1.000 euro, quella massima resta di 50.000 euro, le sanzioni sono comunque calcolate tenendo come riferimento l’ammontare dell’operazione compiuta in violazione della normativa.

Le sanzioni sono però diverse nel caso dei professionisti che decidano di non segnalare le irregolarità, in questo caso la sanzione ha un minimo di 3.000 euro e un massimo di 15.000 euro. Il reato in questo caso è l’omessa segnalazione delle operazioni.

Deve, infine, essere ricordato che possono essere pagate in contanti le prestazioni lavorative di colf e badanti, per conoscere tutti i casi in cui i lavoratori possono essere pagati in contanti, leggi l’articolo: Quando il datore di lavoro può pagare in contanti i lavoratori?

Segnalazione al CRIF senza preavviso del cattivo pagatore: si può fare?

Se ti sei accorto di essere stato segnalato al CRIF come cattivo pagatore anche senza aver ricevuto alcun preavviso, devi sapere che ci sono dei casi in cui questo è possibile. Ecco quando per la Corte di Cassazione è lecita la segnalazione al CRIF senza preavviso.

Cos’è il CRIF e quali segnalazioni raccoglie

Il CRIF è una società creditizia, la sigla è acronimo di Centrale Rischi Finanziari. Nel CRIF non sono iscritti esclusivamente coloro che risultano essere cattivi pagatori, ma anche i soggetti che hanno in corso dei pagamenti rateali, coloro che chiedono un prestito e un mutuo. In questa centrale sono inoltre registrati i pagamenti effettuati, gli eventuali ritardi e i mancati pagamenti e vuole essere un punto di riferimento per le banche e gli istituti di credito che prima di erogare prestiti, mutui, finanziamenti, possono valutare la solvibilità del richiedente.

Nel caso in cui si verifichi una situazione di effettiva crisi, questa non vi è nel caso di ritardo nel pagamento di una rata, si viene segnalati come cattivi pagatori sia al CRIF e sia alla Centrale Rischi della Banca d’Italia.

Per conoscere i dettagli sul funzionamento della segnalazione al CRIF quindi quando può essere eseguita e i limiti segnalati dalla Corte di cassazione, ti consiglio di leggere gli articoli:

Segnalazione CRIF e alla Centrale Rischi della Banca d’Italia: differenze

e l’articolo Segnalazione Centrale Rischi: cos’è e come funziona

Segnalazione al CRIF senza preavviso del cattivo pagatore

Per capire quando è possibile che non vi sia preavviso della segnalazione è necessario avere in considerazione diverse norme. La prima è generale, si tratta dell’articolo 4 delibera del Garante della privacy n. 8 del 2004 , il quale prevede che in caso di ritardi nei pagamenti, la banca unitamente ai solleciti di pagamenti, può inviare un avviso inerente l’imminente registrazione dei dati sui sistemi di informazione creditizia. I dati possono essere resi noti agli altri partecipanti a tali sistemi (cioè le altre banche che possono accedere a questo grande database) non prima che siano trascorsi 15 giorni dall’invio del preavviso.

Questa norma può però essere considerata di rango inferiore rispetto all’art. 125, comma terzo, del Testo Unico Bancario (TUB), come modificato dall’art. 1 D.Lgs. n. 141 del 2010. Questo infatti prevede che il preavviso di segnalazione come cattivo pagatore al CRIF debba essere fornita dal finanziatore al consumatore. Tale norma è inserita nel TUB, all’interno del capo II del titolo VI, “Credito ai consumatori” , quindi non vi sono dubbi sul fatto che si tratti di una norma specifica per questo particolare segmento di credito e non una norma generale. Infatti dall’ambito di applicazione del capo sono esclusi in modo specifico dall’articolo 122 i finanziamenti destinati all’acquisto e alla conservazione di diritti di proprietà su beni immobili esistenti i progettati e acquisto di terreni.

Ordinanza 39769/2021 sulla segnalazione al CRIF senza preavviso

Dall’applicazione letterale di questa norma fatta da alcuni giudici è emerso che in realtà il preavviso risulta obbligatorio solo nel caso in cui il ritardo nel pagamento o il mancato pagamento sia inerente un rapporto tra la banca e il debitore avente a oggetto un prestito che rientra nelle operazioni di credito al consumo e non negli altri rapporti. Ad esempio, secondo questa interpretazione restritttiva e letterale della norma, nel caso in cui il mancato pagamento sia inerente la rata di un mutuo per l’acquisto di casa, non trattandosi di credito al consumo è legittima la segnalazione al CRIF senza preavviso. Questa interpretazione ha trovato l’appoggio anche dalla Corte di Cassazione in una recente ordinanza, la 39769/2021.

Tale legittimità, in limitati casi, della segnalazione al CRIF senza preavviso non fa però venire meno l’eventuale risarcimento del danno legato a una segnalazione illeggittima che cioè non doveva avvenire. Il risarcimento può essere richiesto anche per il danno all’immagine, ma deve essere provato. Naturalmente la banca che nota mancati pagamenti può inviare in ogni caso il preavviso anche quando non è obbligata limitando così il rischio di richieste di risarcimenti.

Comprare un terreno agricolo, quali tasse sono da pagare?

Quali imposte e tasse sono da pagare nel caso in cui si acquisti un terreno agricolo? Per rispondere a questa domanda è necessario distinguere il soggetto che vende il terreno agricolo. Può essere un soggetto qualsiasi oppure una banca o una società di leasing. Chi compra il terreno agricolo, invece, può ricadere in più soggetti.

Chi può comprare un terreno agricolo?

Infatti, il compratore di un terreno agricolo nel caso in cui il venditore sia un soggetto qualsiasi, può essere un imprenditore agricolo professionale, oppure un coltivatore diretto iscritto alla gestione assistenziale o previdenziale. In alternativa, la trattazione delle tasse e imposte dovute sull’acquisto di un terreno agricolo varia se si tratta di un soggetto qualsiasi diverso dalle tipologie di acquirente viste in precedenza. Nel caso in cui il venditore sia una banca o una società di leasing, la trattazione delle tasse e imposte dovute non varia a seconda del soggetto acquirente.

Acquisto di un terreno agricolo da parte di un imprenditore agricolo o coltivatore diretto: quali tasse?

In tutti i casi di acquisto e di vendita di un terreno agricolo non è mai dovuta l’Iva. Se ad acquistare il terreno agricolo da un qualsiasi soggetto che non sia una banca o una società di leasing è un imprenditore agricolo o un coltivatore diretto, sono dovute cinque tasse e imposte. Nel dettaglio:

  • l’imposta di registro per 200 euro, secondo quanto dispone il comma 4 bis dell’articolo 2, del decreto legge numero 194 del 2009, convertito nella legge numero 25 del 26 febbraio 2010;
  • imposta ipotecaria pari a 200 euro per la stessa norma precedente;
  • l’imposta catastale corrispondente all’1%, sempre per il decreto legge numero 194;
  • imposta di bollo di 230 euro seguendo quanto prevede il comma 1 bis, numero 1), dell’articolo 1, della Tariffa all’Allegato A al decreto del Presidente della Repubblica numero 642 del 26 ottobre 1972;
  • la tassa ipotecaria pari a 90 euro ai sensi dei punti 1.1 e 1.2 dell’articolo 1, della Tabella delle Tasse Ipotecarie allegata al decreto legislativo numero 347 del 31 ottobre 1990.

Acquisto di terreno agricolo di soggetto non imprenditore agricolo e nemmeno coltivatore diretto: quali tasse?

Nel caso in cui l’acquisto sia effettuato da un soggetto qualsiasi, ad eccezione del caso precedente, ovvero di imprenditore agricolo o coltivatore diretto, e il venditore è un soggetto qualsiasi ad eccezione di una banca o una società di leasing, la compravendita è esente sia dall’imposta di bollo che dalla tassa ipotecaria. L’esenzione è prevista dal comma 3 dell’articolo 10, del decreto  legislativo numero 23 del 14 marzo 2011.  Sono invece da pagarsi:

  • l’imposta di registro del 12%, secondo quanto prevede il terzo periodo dell’articolo 1, del Tp 1;
  • imposta ipotecaria e imposta catastale, per 50 euro ciascuno, ai sensi di quanto prevede il decreto legislativo numero 23 del 2011.

Acquisto di un terreno agricolo da una banca o da una società di leasing

La disciplina sulle tasse e sulle imposte è valida per qualunque soggetto acquirente (imprenditore agricolo, coltivatore diretto o qualsiasi altro soggetto) se il venditore è una banca o una società di leasing. Quest’ultima trova la propria disciplina nel comma 10 ter 1, dell’articolo 35 del decreto legge numero 223 del 4 luglio 2006. Nel dettaglio, la norma chiarisce che deve trattarsi di cessioni effettuate per riscatto di contratti di leasing o di cessioni di immobili già oggetti di contratti di leasing risolti per inadempimento dell’utilizzatore.

Quali tasse e imposte sono dovute per l’acquisto di un terreno agricolo da una banca o società di leasing?

Nel caso di acquisto di un terreno agricolo da una banca o da una società di leasing sono dovute le seguenti tasse e imposte:

  • imposta di registro, imposta ipotecaria e imposta catastale, tutte e tre pari a 200 euro, ai sensi di quanto prevede il comma 10 ter 1, dell’articolo 35, del decreto legge numero 223 del 4 luglio 2006, poi convertito nella legge numero 248 del 4 agosto 2006;
  • l’imposta di bollo corrispondente a 230 euro ai sensi del comma 1 bis, numero 1), dell’articolo 1, della Tariffa all’Allegato A al decreto del Presidente della Repubblica numero 642 del 26 ottobre 1972;
  • la tassa ipotecaria corrispondente a 90 euro secondo quanto prevedono i punti 1.1 e 1.2 dell’articolo 1, della Tabella delle Tasse Ipotecarie allegata al decreto legislativo numero 347 del 31 ottobre 1990.

Apertura di credito in conto corrente: cos’è, quanto costa e cosa c’è da sapere

L’apertura di credito in conto corrente consiste in un fido concesso dalla banca fino a un importo massimo prestabilito. Lo strumento, chiamato anche “scoperto di conto”, può essere a tempo determinato o indeterminato. Si tratta, essenzialmente, di una forma di credito che il correntista può utilizzare nei momenti in cui abbia bisogno di liquidità. Si può verificare, infatti, per il ritardo nell’avere dei pagamenti, oppure in periodi in cui si sommano più scadenze. Ma anche per una generica necessità momentanea di denaro.

Apertura credito in conto corrente, come funziona e quando è sconsigliata

È importante premettere che l’apertura di credito in conto corrente consiste in uno strumento utilizzabile per necessità momentanee di denaro. Al correntista è pertanto sconsigliato di utilizzare questa formula per finanziare delle attività in modo permanente. In questo caso il costo sarebbe sicuramente elevato, molto di più rispetto ad altri strumenti di finanziamento. Per ottenere il fido il richiedente deve avere un conto corrente. Su questo strumento di credito la banca chiede delle commissioni e il pagamento degli interessi. Il tasso di interesse applicato dalla banca è riportato nel contratto con il quale si è aperto il conto corrente stesso. Inoltre, il tasso di interesse viene applicato sulle somme effettivamente utilizzate.

Chi può chiedere l’apertura di credito in conto corrente?

Per ottenere l’apertura di credito in conto corrente è necessario che il cliente della banca non sia stato protestato e non abbia pagato in ritardo le rate di altri finanziamenti. Inoltre, la richiesta deve avvenire per un importo che sia proporzionale alle capacità di rimborso da parte del cliente stesso. Per dimostrare la “capacità di rimborso” è necessario presentare un reddito documentabile o una fidejussione. Inoltre, a garanzia del credito ottenuto, sono possibili le formule:

  • garanzia personale di un terzo;
  • polizza assicurativa o pegno;
  • ipoteca sui beni reali.

Chiedere più volte l’apertura del credito in conto corrente: quando la banca dice ‘sì’

Nel momento in cui si restituisce tutta la somma ottenuta dall’apertura di credito in conto corrente è possibile ottenere altre linee di credito. Tuttavia, con le nuove formule proposte dalle banche, è possibile utilizzare lo stesso credito ottenuto anche per importi parziali, andando a ricostituire il credito man mano che si pagano le rate.

Quanto costa l’apertura del credito in conto corrente?

Sull’apertura di credito in conto corrente il costo principale è costituito per buona parte dagli interessi passivi sull’importo utilizzato. Oltre agli interessi a debito, la banca applica una commissione che la ricompensa del servizio offerto e dalla messa a disposizione della linea di credito della quale il cliente può in ogni momento disporre. La commissione che prende la banca è calcolata sull’ammontare del credito e sulla durata del finanziamento. Di solito viene comunicata dalla banca ma non può superare lo 0,5% dell’importo del fido per trimestre. Nel caso in cui il cliente provveda all’estinzione anticipata del debito, la commissione deve essere restituita per la parte non maturata.

Costo dell’apertura di credito in conto corrente e flessibilità di utilizzo

In genere, il costo dell’apertura del credito in conto corrente può ricalcare quello del Tasso annuo effettivo globale (Taeg). Questo tasso comprende il costo del finanziamento che dipende dalla somma messa a disposizione dalla banca, dal tasso di interesse e dalla commissione applicata. Rispetto ad altre formule di finanziamento, il Taeg può essere più elevato. Questo dipende dal fatto che il finanziamento concesso mediante l’apertura di credito in conto corrente sia estremamente flessibile. Il cliente ha la possibilità di utilizzare tutta o una parte del credito a sua disposizione e, per ogni utilizzo del credito all’interno dell’importo del fido, non c’è bisogno che presenti ulteriori domande.

Rischi nell’apertura di credito in conto corrente: pagare le rate, interessi e commissioni

Quali rischi si possono correre con l’apertura di credito in conto corrente? Innanzitutto, è necessario controllare sempre i rimborsi effettuati per non incorrere in ulteriori costi. Dunque, è consigliabile dare un’occhiata sempre alla situazione della linea di credito prima di effettuare nuove operazioni a debito. Nel caso in cui il correntista utilizzi una somma maggiore del fido concesso (sconfinamento) può essere prevista l’applicazione della Commissione di Istruttoria Veloce (Civ). In questo caso, la banca recupera i costi mediamente sostenuti per l’attività di istruttoria.

Si può chiedere l’apertura di credito in conto corrente se si hanno già in corso altri finanziamenti?

Quando si chiede alla banca l’apertura di credito in conto corrente si prende un impegno in quanto si tratta di un finanziamento. Dunque, la richiesta del fido comporta il rimborso delle rate, oltre all’applicazione degli interessi e delle commissioni. Chi ha già dei finanziamenti potrebbe non riceverne ulteriori. Infatti, i finanziamenti vengono registrati su diverse banche dati relativi al credito, tra le quali la Centrale dei rischi della Banca d’Italia.

Quali informazioni ottenere prima di chiedere l’apertura di credito in conto corrente?

Trattandosi di una linea di credito che ha dei costi e che va rimborsata, il consiglio è quello di utilizzare l’apertura di credito solo per le situazioni nelle quali si ha davvero bisogno di liquidità. Sono sconsigliati, pertanto, i pagamenti ordinari. Si può tuttavia fare un confronto sui costi e sulle condizioni applicate dalle banche sulle aperture di credito in conto corrente. In particolare, è utile leggere tutte le condizioni applicate sui fogli informativi. Se la richiesta viene fatta alla propria banca, le informazioni sono reperibili nel foglio informativo del conto corrente. Se delle informazioni non sono chiare, la banca è tenuta a fornirle prima che il cliente firmi qualsiasi contratto di finanziamento.

Apertura conto corrente: a cosa stare attenti per scegliere quello migliore?

L’apertura di un conto corrente può rappresentare un’operazione complessa nella valutazione di tutte le condizioni applicate dagli istituti bancari ai clienti. La scelta del conto corrente, pertanto, dovrà tener presente di molte variabili. Innanzitutto le operazioni che si fanno con il conto corrente e i relativi costi. Può essere d’aiuto la scelta di un conto corrente base. Ma anche l’eventuale concessione del fido può risultare un fattore determinante nella scelta del conto corrente.

Tipi di conto corrente: meglio uno con operazioni pagate separatamente o il tutto compreso?

Uno dei fattori che si prende in considerazione nella scelta del conto corrente è proprio il tipo di conto che la banca propone al cliente. Nel caso di conto corrente ordinario, ogni operazione fatta dal cliente viene pagata separatamente. Accanto al conto ordinario, si può optare per una soluzione nella quale tutta una serie di operazioni è compresa nel canone.

Conti correnti a costo fisso o fino a un certo numero di operazioni

Si tratta di un costo fisso da sostenere a prescindere dal numero di operazioni effettuate. Una possibile variante è quella di un conto corrente con un numero massimo di operazioni comprese. Quelle in eccesso vengono addebitate separatamente.

Apertura conto corrente: verificare i costi in base al numero e alle tipologie di operazioni che si intende fare

Le varie situazioni nelle quali può venire a trovarsi il cliente nei rapporti con la banca e, nello specifico, nella gestione del conto corrente, richiedono un’attenta analisi dunque delle condizioni e anche del tipo e del numero delle operazioni che si intende effettuare sul conto corrente. E sulle operazioni, è necessario farsi un’idea precisa dei costi e di quanto verrà a pesare la gestione del conto corrente sul proprio bilancio personale.

Informativa prima di aprire un conto corrente

In ogni caso, qualunque sia la direzione della scelta nell’apertura di un conto corrente, è importante che il cliente legga attentamente l’informativa che deve essere fornita dalla banca prima della sottoscrizione del cliente stesso. Nell’informativa, di particolare importanza assume la lettura del tasso di interesse, di qualunque altro prezzo e di tutte le condizioni applicate al conto corrente. Ciò è previsto dal Testo unico bancario (Tub) all’articolo 117: la ragione della norma è proprio nella trasparenza che deve essere garantita al cliente, oltre alla chiarezza delle condizioni.

Condizioni contrattuali e prezzi dei servizi del conto corrente: quando nulla è dovuto dal cliente?

La salvaguardia del cliente nell’apertura e nella gestione del conto corrente viene garantita dal considerare nulle le clausole contrattuali che prevedono prezzi, condizioni e tassi più sfavorevoli rispetto a quanto era stato pubblicizzato. Dalla mancanza di chiarezza e di trasparenza possono nascere conseguenze pesanti per la banca. Infatti, se la banca non indica in maniera chiara e specifica tutte le condizioni contrattuali e i prezzi praticati sui servizi a favore del cliente, nulla è dovuto da quest’ultimo.

Apertura conto corrente: l’Indicatore dei costi complessivi (Icc) per farsi un’idea dei costi

Nella scelta del miglior conto corrente da parte del cliente, può risultare di grande aiuto l’Indicatore dei costi complessivi (Icc). Si tratta di un foglio informativo che la banca consegna al cliente nel quale sono riportate le stime dei costi complessivi del conto corrente sulle operazioni che si presume il cliente possa svolgere nell’arco dell’anno.

Servizi aggiuntivi legati all’apertura del conto corrente

La chiarezza e la trasparenza delle condizioni applicate al conto corrente devono essere garantite anche per i servizi aggiuntivi richiesti dal cliente. Si tratta, ad esempio, di cassette di sicurezza, di servizi legati alla gestione del risparmio oppure di assicurazioni. Tutti questi servizi potrebbero rientrare nel pacchetto proposto per l’apertura del conto corrente. Ma se non rientrano vanno pagati separatamente.

Il conto corrente base: cos’è e come funziona

Una tipologia da prendere in considerazione tra le varie opzioni di apertura di un conto corrente è il conto base. Si tratta di una modalità prevista dal decreto del ministero delle Finanze numero 70 del 2018 che stabilisce la possibilità di apertura di un conto corrente che abbia un unico canone annuo da pagare. Nel canone sono comprese tutte le spese, le commissioni e gli oneri rientranti in un numero determinato di operazioni.

Chi può aprire un conto corrente base a condizioni vantaggiose?

Il conto corrente base a condizioni vantaggiose può essere aperto dalle fasce più svantaggiate della popolazione. Si tratta di correntisti che abbiano un Isee annuo che non superi gli 11600 euro o i pensionati con reddito lordo di 18000 euro all’anno.

Conto corrente, concessione del fido e saldo ‘in rosso’

Altro parametro da valutare nella scelta del conto corrente è quello della concessione del fido. Si tratta, in altre parole, della possibilità che il correntista possa andare “in rosso”. Il saldo negativo, normalmente, può essere concesso entro determinati limiti. È indispensabile verificare ex ante quali siano le condizioni per il fido concesso dalla banca. Può capitare, infatti, che lo “sforamento” del saldo possa essere piuttosto costoso, anche se più semplice da gestire rispetto alla concessione di un prestito.

Rischio di declino per le imprese

E’ un dato di fatto, meno del 10 per cento delle aziende italiane riesce a superare la seconda generazione. Il tessuto imprenditoriale del nostro Paese è composto, soprattutto, da imprese familiari, dove il capo famiglia è anche a capo dell’impresa. Per ragioni anagrafiche, ad un certo punto il capo dell’impresa dovrà cedere la propria impresa o a terze persone o a qualche membro della sua famiglia. Se la cede a terzi, incassa il valore stabilito e la storia finisce lì, se la cede a un familiare… la storia spesso finisce lo stesso. Nel senso che, spesso, i familiari dell’imprenditore non sono capaci di dare continuità a quanto costruito dal fondatore dell’impresa e l’azienda chiude. Perché? Il fondatore non riesce a trasferire le sue capacità.

Come si fa? Prima di tutto, bisognerebbe capire se i suoi eredi le hanno, queste capacità. O se sono più portati per altre attività. È inutile e dannoso portare a tutti i costi in azienda una persona che invece vuole insegnare a scuola (ad esempio).

Poi sarebbe utile capire come trasferire al meglio queste capacità, possibilmente potenziandole. E nello stesso tempo come non far sentire del tutto inutile il “vecchio” fondatore.

È un’attività di coaching, se vogliamo usare un termine anglosassone di moda. In un momento così difficile per l’economia, non possiamo permetterci di perdere anche le aziende che funzionano, di perdere posti di lavoro.

Poi bisogna curare anche gli aspetti successori dal punto di vista legale e finanziario, in modo che nessun erede sia trascurato o che siano lesi i suoi diritti. Per fare tutto ciò, è necessario che un professionista abbia il quadro complessivo della situazione sotto controllo. Un notaio? No, perché si occupa di formalizzare gli aspetti legali di una successione, ma è il cliente a dovergli dire come vuol redigere un testamento, ad esempio, e di sicuro il notaio non si occupa del futuro dell’azienda.

Un avvocato si occupa della questione legale, ma non di quella aziendale. Il commercialista si occupa di aspetti fiscali e tributari dell’azienda, non certo di passaggi generazionali e successioni. Tra tutte le figure, il commercialista è colui che conosce meglio l’azienda e ha una grande responsabilità nel fornire risposte adeguate quando l’imprenditore deve mollare il timone a qualcun’altro.

Ma se il commercialista non è il professionista più adatto, sarebbe bene che indirizzasse il proprio cliente verso chi può effettivamente dare un aiuto. E’ ora insomma che i commercialisti utilizzino i consulenti patrimoniali per fornire quei servizi che loro non possono dare, nell’interesse esclusivo del cliente. E che la smettano di dire al cliente “non si può fare”, solo perché loro non sono in grado di farlo. Bisogna che ogni professionista abbia il coraggio di ammettere i propri limiti e utilizzi degli specialisti quando è il caso. Auspico un futuro di collaborazioni proficue.

dott. Marco Degiorgis – Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

L’Ue di Draghi: come difendere i capitali privati

Nonostante la Bce non possa finanziare gli stati membri dell’Eurozona, pare che Draghi intenda stampare nuova moneta per salvare l’insalvabile, per andare incontro alle banche spagnole e forse anche italiane. Sostiene che è suo compito far funzionare la politica monetaria, anche in questo modo. In pratica, però, si creerebbe ricchezza dal nulla, semplicemente stampando carta/denaro.

Il sistema bancario compra quindi titoli di Stato, che, per ricapitalizzarsi, rivende alla Bce in cambio di denaro fresco; la Bce così si troverebbe in portafoglio titoli di Stato a rischio default, fallimento che a quel punto sarebbe a carico dei contribuenti dell’intera Unione Europea e non più dei singoli Paesi che hanno generato il debito. Chi ha più crediti, ha più da perderci, chi ha debiti ha solo da guadagnarci. Tra noi, gli spagnoli e i tedeschi, questi ultimi sono certamente i maggiori creditori.

E’ una strategia semplicistica, ma contorta: pare, però, sia questa la strada indicata da Draghi.

La Bundesbank è ovviamente contraria a questa politica, ritenendola non coerente con le prerogative della Banca centrale europea, mentre la Merkel è incredibilmente d’accordo sia con Draghi  sia con la Bundesbank!

Sarà il preludio degli Stati Uniti d’Europa, a cui Angela si sta candidando alla Presidenza? Quanti e quali Stati accetteranno di rinunciare alla loro sovranità fiscale in favore di quella europea? Quali Paesi vorranno vedersi sottratte le decisioni di spesa del gettito fiscale? Ci immaginiamo un’Italia così? Forse sarebbe auspicabile per risanare una volta tanto la situazione, ma dubito che i nostri politici rinunceranno al loro strapotere.

Sarà più probabile che si abbandoni l’Europa, reclamando a gran voce il diritto di spendere (o sprecare) come si ritiene più opportuno le entrate fiscali.

Ecco quindi sorgere un nuovo motivo di frattura nella Ue. Il problema è che chi ha debiti probabilmente non avrà molta voglia di accettare la severità dei provvedimenti Merkel, chi ha crediti invece è molto bendisposto verso questa rigidità.

Tutto ciò ha ovviamente ha a che fare con le decisioni di investimento dei risparmi e del capitale familiare, poiché un’uscita dall’Area Euro potrebbe causare riduzioni del potere di acquisto della nostra nuova moneta (un ritorno alla lira?) e dei beni reali connessi (in primis gli immobili). Se gli italiani, poco avvezzi ad un approccio comportamentale alla gestione del denaro, vorranno almeno mantenere intatto il valore del proprio patrimonio, sarà sempre più necessario il supporto di un financial planner indipendente.

dott. Marco Degiorgis – Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis