Pensioni: cosa cambia con il blocco dell’aspettativa di vita?

L’INPS ha reso noto che fino al 2025 non ci saranno aumenti del requisito anagrafico richiesto (o semplicemente dell’età) per la pensione di vecchiaia. Ciò è dovuto al blocco dell’aspettativa di vita, ma cosa implica ciò?

Blocco dell’aspettativa di vita e pensioni

Il Covid ha cambiato gli scenari e soprattutto ha inciso sulla speranza di vita. Secondo i dati dell’ISTAT nel 2020 la speranza di vita a causa del Covid si è ridotta di tre mesi. Questo dato molto negativo va però a incidere sull’adeguamento del requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia. L’INPS ha comunicato che per i prossimi anni non è previsto l’adeguamento dell’età per l’accesso alla pensione di vecchiaia in base all’aspettativa di vita. La circolare dell’INPS n° 28 del 18 febbraio 2022 specifica che “in attuazione del decreto direttoriale del Ministero dell’Economia e delle finanze, di concerto con il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali” i requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia non sono ulteriormente incrementati. La circolare inoltre contiene una sintesi dei requisiti per l’accesso ai vari trattamenti pensionistici valevoli per il biennio 2023/2024 e per le pensioni precoci e anticipate fino al 2027.

Si riduce la speranza di vita e l’INPS blocca l’adeguamento dell’età per la pensione di vecchiaia

La circolare sottolinea che dal primo gennaio 2023 al 31 dicembre 2024 sarà possibile accedere alla pensione di vecchiaia al compimento del 67° anno di età. Dal primo gennaio 2025 potrebbe esserci un adeguamento in base alla speranza di vita determinata dall’ISTAT ai sensi dell’art. 12 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 . Nel 2025 l’adeguamento previsto è di 2 mesi. Si potrà accedere alla pensione di vecchiaia al compimento di 67 anni e 2 mesi. Naturalmente si tratta di un’ipotesi, infatti non è ancora possibile prevedere con precisione se effettivamente ci sarà un aumento della speranza di vita.

Per coloro che hanno svolto mansioni gravose, invece il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia resta fissato a 66 anni e 7 mesi sempre per il biennio 2023 e 2024. In questo caso è comunque necessario aver maturato almeno 30 anni di contributi.

Requisiti diversi sono previsti anche per i soggetti il cui primo accredito contributivo decorre dopo il primo gennaio 1996, in questo caso infatti per poter accedere alla pensione di vecchiaia occorre “un’anzianità contributiva minima effettiva di cinque anni, si perfeziona, anche nel biennio 2023/2024, al raggiungimento dei 71 anni.

Pensione anticipata e pensione precoci: requisiti fermi fino al 2027

Restano invariati anche i requisiti per la pensione anticipata, questi sono fissati dal primo gennaio 2023 al 31 dicembre 2026 in 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. In questo caso il primo trattamento pensionistico si riceve dopo 3 mesi dalla data di maturazione dei requisiti.

Per i lavoratori precoci (devono aver maturato almeno un anno di contributi prima del compimento di 19 anni di età) il requisito contributivo previsto per il periodo che intercorre dal 1° gennaio 2023 al 31 dicembre 2026 è di 41 anni di contributi.

Anche in questo caso il primo accredito è previsto a decorrere dai tre mesi successivi alla maturazione dei requisiti.

Restano fermi anche i requisiti per il comparto difesa, sicurezza e vigili del fuoco, tra cui Forze Armate, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Arma dei Carabinieri, Dipartimento Polizia Penitenziaria. In questo caso per il biennio 2023/2024 saranno necessari 41 anni di contributi indipendentemente dall’età, mentre per coloro che hanno compiuto 58 anni bastano 35 anni di contributi.

Lavoratori come ballerini continuano ad andare in pensione a 47 anni, sportivi professionisti a 54 anni, cantanti a 62 anni, attori e conduttori a 65 anni. Le restanti categorie iscritte alla Fondo pensione lavoratori dello spettacolo (FPLS) dovranno invece attendere i 67 anni di età.

 

 

Perché alle aziende conviene fare formazione continua?

In questi mesi si sta disegnando l’azienda del futuro e sarà a elevato valore tecnologico, indice di questa nuova prospettiva sono i vari fondi per le imprese che fanno innovazione, ad esempio il piano di transizione, il programma strategico sull’intelligenza artificiale. Proprio per questo motivo le imprese che vogliono restare sul mercato devono investire sull’innovazione, ma soprattutto devono investire sulla formazione continua del personale che sarà la chiave di svolta per poter utilizzare le nuove tecnologie e per ottenere fondi e agevolazioni. Al termine di questa analisi ci saranno i riferimenti per i vari piani.

Perché conviene investire nella formazione continua dei dipendenti?

E’ questo il momento di parlare dell’importanza della formazione del personale. Questa purtroppo per le aziende rappresenta un costo che non tutte possono permettersi, ma ad oggi è bene pensare a uno sforzo in più per fare tale investimento, anche utilizzando le risorse pubbliche, come quelle del Piano Strategico per l’intelligenza artificiale che prevede anche la formazione.

Aspetto psicologico della formazione

Il primo punto che in questo caso analizziamo è l’aspetto psicologico della formazione. Investire sulle competenze di un lavoratore vuol dire avere fiducia nelle sue capacità, investire sul capitale umano che per le aziende è sempre fondamentale, vuol dire anche garantire al lavoratore maggiori soddisfazioni perché un lavoratore spronato a migliorare se stesso, che ogni giorno può mettere in opera nuove competenze, che possiede maggiori skills, di fatto è un dipendente più felice e quando un dipendente arriva sul luogo di lavoro felice di esserci, produce di più, produce meglio, è più attento e si riducono anche gli infortuni, oltre ai permessi per malattia. Questo è sicuramente un aspetto da considerare.

Chi investe in formazione continua guadagna di più

Non solo questo, è stato dimostrato da vari sondaggi che le imprese che decidono di investire nella formazione registrano introiti più elevati. Ad esempio, una ricerca condotta nel 2011 su 2500 aziende che avevano fatto formazione ha fatto emergere che le stesse hanno avuto un incremento degli introiti del 24%. Da una ricerca condotta dall’Università La Sapienza di Roma è emerso che le aziende che investono in formazione riescono ad avere un aumento di fatturato 2-3 volte maggiore rispetto all’investimento in formazione. C’è quindi un rientro economico importante del capitale investito.

Dati importanti emergono anche dal XIX rapporto sulla formazione continua di ANPAL, si tratta dell’ultimo rapporto reso noto. Qui si sottolinea che le aziende che decidono di fare formazione in Italia sono ancora poche, nonostante le raccomandazioni dell’Unione Europea. A ciò si aggiunge una certa concentrazione della formazione nell’ambito delle lingue e questo in vista di una potenziale internazionalizzazione delle aziende. I lavoratori italiani che partecipano ad attività di formazione continua sono circa il 20% del totale e nel caso di lavoratori con competenze basse la percentuale scende addirittura al 9,5 %. I dati sono preoccupanti anche perché emerge che nei prossimi anni il 15,2% delle mansioni potrebbe essere completamente automatizzata, mentre il 35,5% subirà profonde trasformazioni dovute all’innovazione digitale.

Un dato preoccupante mette invece in correlazione la formazione e l’occupazione, infatti, emerge che nei prossimi anni in Italia serviranno 2,5 milioni di lavoratori, o meglio ci saranno 2,5 milioni di posti disponibili, ma di questi 800 mila potrebbero rimanere vacanti a causa della difficoltà per le aziende a trovare lavoratori con determinate competenze specifiche. Si calcola che serviranno soprattutto 280 mila super tecnici specializzati soprattutto nel settore dell’ingegneria.

Produttività e possibilità di carriera

Investire nelle capacità dei dipendenti e in nuove skills conviene a tutti, alle imprese consente di ampliare il know how interno e di avere personale specializzato senza dover procedere a nuove assunzioni e quindi con una riduzione dei costi. Dalle ricerche ANPAL e ISTAT emerge anche che avere dipendenti formati corrisponde anche a una maggiore produttività.

Allo stesso tempo la formazione continua dei dipendenti conviene anche a costoro che possono in questo modo restare nel mondo del lavoro e raggiungere anche posizioni apicali. Si è visto che il mondo del lavoro sorre veloce verso una elevata specializzazione di tutte le figure coinvolte e che proprio questa necessità riporterà in Italia molte aziende che avevano spostato la produzione all’estero per risparmiare su costi dei lavoratori. Avere un’adeguata formazione consentirà di evitare di perdere il lavoro, ma anche di avere stipendi più elevati, inoltre c’è una maggiore soddisfazione personale.

Investire in formazione è considerato talmente importante che vi sono finanziamenti specifici ad esempio c’è il piano Formazione 4.0 che rientra nel Piano Transizione 4.0. Inoltre si può accedere ai fondi interprofessionali.

In quali settori si svolge più formazione?

Il piano formazione mira a fornire soprattutto competenze digitali da applicare al settore del marketing, ma anche si settori produttivi, ad esempio catene di montaggio evolute con software di ultima generazione e naturalmente la formazione continua è necessaria nel settore dell’informatica.

Novità per le imprese: c’è il rifinanziamento del Fondo Nuove Competenze. I lavoratori vengono supportati nella formazione soprattutto per un maggiore uso della robotica, software per la gestione di big data, cyber security, sistemi di visualizzazione, realtà virtuale e realtà aumentata, internet of things, simulazione, interfaccia uomo-macchina.

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Come saranno le aziende del futuro? Analisi e aiuti sull’Industria 4.0 

Come si aggiunge un codice Ateco a una Partita Iva?

Scegliere il codice Ateco giusto per la descrizione della propria attività è, senza dubbio, uno dei crucci da affrontare in particolare all’atto dell’apertura della partita Iva. Il codice Ateco rappresenta una tipologia di classificazione delle attività economiche basata su una combinazione alfanumerica.

Che cos’è il codice Ateco?

La classificazione dei codici Ateco (o anche codice attività) è utilizzata dall’Istat per le rilevazioni di carattere economiche. Per ogni attività economica classificata esiste un codice le cui lettere indicano il macro settore dell’attività economica, mentre i numeri descrivono, via via, le sottocategorie. Il codice attività è particolarmente importante all’apertura di una nuova partita Iva. È infatti indispensabile comunicare all’Agenzia delle Entrate il tipo di attività che si andrà a svolgere con la nuova posizione lavorativa. La scelta del codice giusto deriva, pertanto, da un’accurata ricerca per identificare il codice che maggiormente descrive la nuova attività.

A cosa serve il codice Ateco?

In prima battuta, il codice Ateco serve a identificare il tipo di attività della partita Iva in apertura. In particolare, l’attribuzione del codice giusto è importanti ai fini del controllo dell’Agenzia delle Entrate e della Camera di commercio per le imprese. Attraverso il codice alfanumerico si riesce a determinare la categoria statistica, contabile e fiscale della partita Iva. Inoltre, il codice è necessario anche in ambito di sicurezza del lavoro ai fini Inail: in questo caso, il codice attività identifica il rischio connesso al tipo di attività svolta.

Come scegliere il codice Ateco giusto?

La scelta del codice Ateco parte dalla descrizione dell’attività nella maniera più chiara possibile. Sul sito dell’Istat, nella sezione “Classificazione delle attività economiche Ateco 2007”, è possibile utilizzare gli strumenti per individuare il codice alfanumerico giusto. Nella pagina di ricerca del codice Ateco dell’Istat, è necessario inserire nel primo spazio disponibile la descrizione dell’attività (“Individua un codice attività”). La descrizione sintetica porterà a un risultato di ricerca che potrà essere confermato. Ad esempio, inserendo nel campo di ricerca “barista”, il risultato che il sito restituisce, da confermare, è il codice “56.30.00″, con la descrizione dell’attività corrispondente a “Bar e altri esercizi simili senza cucina”. 

Ricerca codice Ateco sul sito Istat

Tra le opzioni di ricerca del codice Ateco sul sito Istat è possibile procedere anche con la ricerca per codice di attività, ovvero avendo già il codice è possibile sapere a quale tipologia di attività corrisponda. Infine, le possibilità di ricerca permettono di poter procedere per aggregati andando, di volta in volta, a spacchettare il gruppo omogeneo per arrivare al codice preciso. Questa tipologia di ricerca è utile soprattutto quando non si ha una professione ben definita e si voglia arrivare al codice Ateco andando a identificare esattamente il tipo di attività da svolgere.

Come cercare il codice Ateco, un esempio pratico

Volendo cercare il proprio codice Ateco da una generica descrizione della propria attività, ad esempio allevatore di bovini da latte, è necessario procedere partendo dal gruppo più omogeneo, ovvero quello dell’Agricoltura, silvicoltura e pesca. All’interno del gruppo, che Ateco 2007 classifica con il primo codice “01”, è necessario andare a cliccare sul “+” per spacchettare il settore ed entrare più nello specifico. All’interno della classificazione, si va a selezionare la macroarea più corrispondente, ovvero quella dell'”allevamento di animali”, alla quale fa capo il codice 01.4.

Codici Ateco, come rendere la ricerca il più precisa possibile

Cliccando sul “+” di questa voce, la ricerca entra più nel dettaglio andando a individuare la voce più precisa, corrispondente all’attività “Allevamento di bovini da latte” con codice 01.41. Il passaggio successivo (cliccando nuovamente sul “+”) serve a individuare più capillarmente l’attività, corrispondente ad “Allevamento di bovini e bufale da latte, produzione di latte crudo”, alla quale corrisponderà il codice Ateco definitivo 01.41.00, che fornirà una descrizione completa di tutta l’attività con le varie ipotesi di esclusione (perché corrispondenti ad altre attività e ad altri codici Ateco). Nel nostro caso, sono escluse le attività svolte per conto terzo o le lavorazioni del latte all’esterno dell’azienda.

Perché il codice Ateco è importante per le partite Iva forfettarie?

Il codice Ateco è fondamentale soprattutto per il calcolo del reddito netto delle partite Iva ricadenti nel regime forfettario. Infatti, a ogni codice di attività è assegnato un coefficiente di redditività, variabile dal 40 all’86%. Fino al 2018 alle diverse attività era assegnato anche un diverso limite di fatturato. Ma dal 2019, con le modifiche fatte al regime forfettario delle partite Iva, il limite di fatturato per tutte le partite Iva è pari a 65.000 euro, con applicazione dell’imposta unica del 15% (del 5% per le nuove attività e per i primi cinque anni).

I codici Ateco per la partita Iva forfettaria

I codici Ateco attualmente in vigore e i coefficienti di redditività corrispondenti sono i seguenti:

  • Industrie alimentari e delle bevande, codici Ateco 10 e 11, coefficiente di redditività del 40%;
  • commercio all’ingrosso e al dettaglio, codici Ateco 45; da 46.2 a 46.9; da 47.1 a 47.7; 47.9; coefficiente del 40%;
  • commercio ambulante e di prodotti alimentari e bevande, codice Ateco 47.81, coefficiente di redditività 40%;
  • commercio ambulante di altri prodotti, 47.82-47.89, coefficiente del 54%;
  • costruzioni e attività immobiliari, 41; 42; 43; 68; coefficiente 86%;
  • intermediari del commercio, codice Ateco 46.1, coefficiente 62%;
  • attività dei servizi di alloggio e di ristorazione, codici 55 e 56, coefficiente 40%;
  • attività professionali, scientifiche, tecniche, sanitarie, di istruzione, servizi finanziari ed assicurativi, codici 64; 65; 66; 69; 70; 71; 72; 73; 74; 75; 85; 86; 87; 88; coefficiente 78%;
  • altre attività economiche, codici Ateco 01; 02; 03; 05; 06; 07; 08; 09; 12; 13; 14; 15; 16; 17; 18; 19; 20; 21; 22; 23; 24; 25; 26; 27; 28; 29; 30; 31; 32; 33; 35; 36; 37; 38; 39; 49; 50; 51; 52; 53; 58; 59; 60; 61; 62; 63; 77; 78; 79; 80; 81; 82; 90; 91; 92; 93; 94; 95; 96; 97; 98; 99; coefficiente di redditività del 67%.

Il futuro? Le imprese lo guardano con fiducia

Un segnale positivo che fa pensare ad una ripresa, e piuttosto convincente, deriva da un’accelerazione concreta, dal punto di vista economico, rilevata dal settore dell’industria, ma anche dal clima più ottimistico che si respira nelle aziende, e una conseguente fiducia nel futuro.

La fiducia tra le imprese, infatti, sta tornando ai livelli pre-crisi, e, scendendo nei particolari, l’indice calcolato dall’Istat sale da 108,1 a 109,1 a ottobre, raggiungendo il livello di giugno 2007. In aumento anche l’indice del clima di fiducia dei consumatori, che cresce per il quinto mese consecutivo passando da 115,6 a 116,1.

Considerando la situazione delle imprese del mese di ottobre, è staro rilevato un aumento del clima di fiducia in tutti i settori, ad eccezione delle costruzioni, dove però il calo dell’indice è stato causato soprattutto, e forse solamente, da una diminuzione delle aspettative sull’occupazione presso l’impresa, come conseguenza di un peggioramento, seppur lieve, dei giudizi sugli ordini.
Se, quindi, nel comparto delle costruzioni ancora non c’è stata una vera ripresa, anche se l’indice è rimasto ai livelli del 2007, si può guardare con più positività al settore manifatturiero, ma anche a quello dei servizi e del commercio, dove il clima di fiducia è salito, rispettivamente, da 110,5 a 111,0, da 107,1 a 107,6 e da 109,1 a 113,2.

Dando uno sguardo attento alla situazione delle famiglie, inoltre, l’Istat conferma un buon miglioramento dei giudizi e delle aspettative sulla situazione personale. Il saldo relativo all’opportunità di acquisto di beni durevoli sta registrando un nuovo aumento e si riporta sui livelli di gennaio.
Ciò, ovviamente, rende il futuro più roseo, tanto che aumentano gli ottimisti e diminuiscono coloro che credono sia ancora indispensabile, o almeno possibile, risparmiare sul futuro.

Vera MORETTI

Inflazione in risalita ad agosto, ma la stagione turistica è positiva

Anche Istat lo conferma: ad agosto il tasso di inflazione è risalito all’1,2%, dopo che a luglio era stata dell’1,1%. L’indice nazionale dei prezzi al consumo aumenta su base mensile con una crescita dello 0,3%.

Motivo principale di questo lieve aumento è la crescita del prezzi dei beni energetici non regolamentati, arrivata a +4,3%, dal 2,1% del mese precedente, ma anche la dinamica dei prezzi dei servizi relativi ai trasporti, ora a +4,4%, rispetto al 3,2% di luglio.

Ciò significa che, al netto dei beni nergetici e degli alimentari, l’inflazione sale di due decimi di punto percentuale (+1,0% da +0,8% di luglio), mentre quella al netto dei soli beni energetici si attesta a +0,9% (come nel mese precedente). L’incremento su base mensile dell’indice generale è dovuto in larga parte ai rialzi dei prezzi dei servizi relativi ai trasporti (+3,4%), il cui andamento è influenzato da fattori stagionali. L’inflazione acquisita per il 2017 è pari a +1,4% per l’indice generale e +1,0% per la componente di fondo.

Si legge nella nota Istat: “La risalita di inflazione ad agosto si riflette solo in parte nel carrello della spesa, che vede aumenti dei prezzi dimezzati rispetto all’indice generale. I prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona, infatti, crescono dello 0,1% su base mensile e dello 0,6% su base annua (era +0,8% a luglio), secondo i dati definitivi Istat, a fronte di un aumento dell’indice generale dei prezzi dell’1,2% su base annua. In particolare, i prezzi degli alimentari aumentano dello 0,1% sul mese e rallentano la crescita annua (al +0,7%, dal +0,9% di luglio)”.

Agosto ha anche visto aumentare i prezzi relativi alle vacanze, a cominciare dai servizi ricettivi, ricreativi e dei trasporti, che testimoniano un buon andamento dei consumi turistici, segnale che è stata una buona annata. Anche se, a parte questi segnali più che positivi, la domanda interna continua ad essere debole.

A condizionare l’indice di agosto sono stati soprattutto fattori esterni e stagionali, con un aumento del +2,5% su agosto 2016 della voce abitazione, acqua, elettricità e combustibili.

È la conferma che il miglioramento attuale della congiuntura italiana è dovuto, in primo luogo, ad un contesto internazionale più favorevole, di cui beneficia anche il turismo. La nostra economia, però, resta distante dal suo potenziale ed anche la dinamica dei prezzi resta pilotata al ribasso dall’ampia disponibilità di fattori produttivi non utilizzati. Occorre consolidare e rafforzare la ripresa in atto per determinare un miglioramento stabile dell’economia, vedremo se la manovra di bilancio sarà in grado di essere d’aiuto”.

Vera MORETTI

Imprese italiane ancora restie ad adottare le tecnologie digitali

In occasione della sua audizione in commissione Lavoro del Senato sull’impatto del lavoro della quarta rivoluzione industriale, Giovanni Alleva, presidente dell’Istat, ha lanciato un allarme che riguarda le imprese italiane.
A quanto pare, ma in molti già lo sospettavano, le aziende nostrane rimangono piuttosto diffidenti nei confronti delle tecnologie digitali, anche se l’Italia, questo occorre ammetterlo, si sta avvicinando alla media europea, assottigliando sempre più il gap finora esistente.

Ciò che, invece, rimane, almeno attualmente, è uno scarso sfruttamento delle potenzialità che le nuove tecnologie offrono, ad esempio nell’organizzazione dell’impresa, e in particolare nel commercio elettronico.
E infatti l’Italia è ad oggi il Paese europeo con la percentuale più elevata d’imprese a ritenere che non valga la pena sostenere i costi di vendere online, perché non ripagati dai benefici.

Per quanto riguarda, inoltre, la strategia Industria 4.0, Alleva ha dichiarato che “le imprese dei comparti manifatturieri che prevedono di adottare o incrementare, durante il 2017, le tecnologie Ict promosse dal piano Industria 4.0 (Crm, Scm, Erp2, additive manufacturing, cloud internet, machine-to-machine ecc.) sono ancora relativamente poche: ci puntano 6 comparti su 22 (autoveicoli, elettronica, apparecchiature elettriche, farmaceutica, metallurgia e macchinari)”.

Nel 2016, inoltre, il saldo positivo è stato registrato solo nei settori di apparecchiature elettriche e autoveicoli, ma sembra che le imprese che offrono servizi di mercato siano più propense ad adottare, entro la fine del 2017, tecnologie Ict. In questo caso, il saldo tra risposte positive e negative è positivo in 10 settori su 26, in particolare nei servizi postali e di corriere, nella consulenza informatica e nelle telecomunicazioni, e nel comparto della ricerca e della selezione di personale.

Vera MORETTI

Pil in rialzo grazie alle performance di Nord Est e Sud

Il 2016 ha registrato cifre incoraggianti relative al Prodotto interno lordo, e non solo, questa volta, grazie alle performance del Nord, ma, al contrario, con un forte contributo del Sud, dove l’aumento del Pil, rispetto all’anno precedente, è dello 0,9%, mentre nel Nord ovest e nel Centro è leggermente inferiore, pari rispettivamente a 0,8 e 0,7%. Solo il Nord est ha saputo fare meglio, raggiungendo +1,2%.

Questi dati, resi noti da Istat, rappresentano una forte ripresa del meridione, che già nel 2015 aveva cominciato a dare segnali incoraggianti, concludendo l’anno in positivo.
Ma non è solo il Sud a volare, perché da considerare è il risultato in netto rialzo del Nord Est.

Queste percentuali si sono fatte sentire anche a livello di occupazione, visto che, considerando il territorio, la zona nord orientale si trova in vetta, mentre in sofferenza sono sicuramente le regioni centrali, dove il mercato del lavoro registra un aumento ma pari a meno della metà rispetto alla media nazionale.
L’occupazione in Italia è cresciuta, nel 2016, dell’1,3%, con l’aumento maggiore nel Nord-est (+1,8%), seguito dal Mezzogiorno (+1,6%). Nelle regioni del Centro invece la crescita non va oltre lo 0,6%.

Ovviamente, la crescita dell’occupazione ha influito sull’andamento del Pil a livello territoriale: anche in questo caso, il Nord Est rimane in vetta e il Centro in difficoltà, poiché è proprio in questa zona che il mercato del lavoro registra un aumento ma che non raggiunge neppure la metà della media nazionale.

Si legge da una nota Istat: “L’occupazione (misurata in termini di numero di occupati) è cresciuta, nel 2016, dell’1,3%. L’aumento maggiore si osserva nelle regioni del Nord-est (+1,8%), seguite da quelle del Mezzogiorno (+1,6%) e del Nord-ovest (+1,0%). Nelle regioni del Centro la crescita è inferiore alla media e risulta pari allo 0,6%”.

Vera MORETTI

A maggio fiducia in calo sia per le famiglie sia per le imprese

Maggio con il semaforo rosso per la fiducia dei consumatori e delle imprese.
Istat, infatti, fa sapere che gli indici, a questo proposito, sono passati rispettivamente da 107,4 a 105,4 e da 106,8 a 106,2. Dopo nove mesi in positivo, da agosto 2016, è la prima volta che entrambi sono in diminuzione.

Per quanto riguarda le imprese, si denota in particolare una riduzione della fiducia del settore manifatturiero (da 107,7 a 106,9), dove peggiorano sia i giudizi sugli ordini sia le attese sulla produzione, e nei servizi (da 107,2 a 105,5), dove calano sia i giudizi sia le aspettative sul livello degli ordini, e nemmeno i giudizi sull’andamento degli affari si salvano.
Nelle costruzioni l’indice rimane sostanzialmente stabile (da 128 a 128,1), con un lieve calo dei giudizi sugli ordini ma le aspettative sull’occupazione migliorano, mentre nel commercio al dettaglio registra un incremento passando da 110,8 a 111,1, con un aumento del saldo dei giudizi sulle vendite correnti mentre le attese sulle vendite future sono in lieve diminuzione e le scorte di magazzino sono giudicate in accumulo.

Considerando sempre le imprese, ci sono sostanziali differenze tra grande e piccola distribuzione perché, se nel primo caso si registra un aumento di 3,7 punti percentuali, nel caso del dettaglio tradizionale si assiste ad un vero e proprio crollo dei giudizi: – 8,6 punti.
A soffrire di più è il giudizio sulle vendite, che registra ben 11 punti in meno.

Passando alle famiglie, il clima economico e il clima personale passano rispettivamente da 125 a 124,7 e da 101,5 a 100,2, mentre il clima futuro diminuisce da 110,1 a 108,1 e quello corrente passa da 105,6 a 105,2.
Le aspettative sulla situazione economica del paese peggiorano e ciò provoca, ovviamente, un calo anche delle aspettative occupazionali, che incidono molto sulla fiducia e sulla propensione a spendere.

Vera MORETTI

Pil italiano in crescita, ma non ancora in linea con l’Ue

In una nota mensile relativa all’andamento dell’economia italiana, l’Istat ha fatto sapere che nel 2017 si prevede un aumento del prodotto interno lordo pari all’1,0%, in termini reali. Ciò significa che il tasso di crescita è lievemente superiore a quello registrato nel 2016 e, rispetto a novembre, la previsione del tasso di crescita del Pil per l’anno in corso è stata rivista di un +0,1%.

Ma il rialzo potrebbe anche essere maggiore, perché, come si evince da una nota dell’Istat: “Nel primo trimestre del 2017 il Pil ha registrato un ulteriore miglioramento (+0,2% la variazione congiunturale, +0,5 quella dell’area euro), consolidando in tal modo la fase di recupero avviata agli inizi del 2015. La diversa intensità della crescita rispetto a quella dell’area euro costituisce una caratteristica dell’attuale ciclo economico. Prendendo come riferimento il primo trimestre del 2015, il livello del Pil italiano è cresciuto dell’1,9% nei primi tre mesi del 2017. Nello stesso periodo il Pil dell’area euro è aumentato del 3,5%. Tra i principali paesi europei solo la Francia ha mostrato miglioramenti simili a quelli italiani (+2,1%). Nel 2017 il Pil è previsto in aumento dell’1,0% supportato dal proseguimento della fase espansiva della domanda interna (1,1 punti percentuali il contributo al netto delle scorte). I consumi delle famiglie forniranno un apporto rilevante alla crescita seppure con una intensità meno accentuata di quella registrata nel biennio precedente. Anche gli investimenti contribuiranno in misura significativa al miglioramento del Pil con tassi di crescita in linea con quelli dell’anno precedente. La ripresa del commercio internazionale è attesa rafforzare la dinamica delle esportazioni e delle importazioni. Nel complesso nel 2017 il contributo estero risulterebbe lievemente negativo (-0,1 punti percentuali)”.

La dinamica positiva è avvenuta grazie all’aumento sostanziale del comparto dei mezzi di trasporto e a quello, seppur più contenuto in verità, degli impianti, macchinari e armamenti.
Aumento ancora più moderato per il settore delle costruzioni, 1,1%, anche se prosegue nella ripresa iniziata nel 2015.

Il 2017 dovrebbe segnare un consolidamento della ripresa del processo di accumulazione 8+3,0%9, grazie agli investimenti in macchine ed attrezzature ma anche alle costruzioni residenziali.

Nel 2016, poi, le esportazioni italiane di beni e hanno registrato una dinamica più debole di quella dell’anno precedente (+2,4%), ma comunque in linea con l’evoluzione degli altri paesi dell’area euro, in particolare Germania e Francia. Aumento più contenuto per le importazioni (+2,9%), sempre confrontato con i dati dell’area euro.

Dalla nota Istat: “Nel 2017 l’occupazione, espressa in termini di unità di lavoro, è prevista crescere (+0,7%) ma in decelerazione rispetto agli anni precedenti, mentre il tasso di disoccupazione è atteso in moderata diminuzione (11,5%), mantenendosi distante da quello della media dell’area euro. Nell’anno in corso, le retribuzioni per dipendente continueranno a mostrare una dinamica moderata ma superiore a quella dello scorso anno (+0,9%). La dinamica della produttività tornerebbe positiva. La riduzione della disoccupazione osservata negli ultimi anni proseguirebbe anche nel 2017, con un tasso previsto pari all’11,5%. Nel 2016, gli occupati sono aumentati di 293mila unità (+1,3%), mentre l’input di lavoro, è salito di 323mila unità di lavoro (+1,4%), con un ritmo superiore a quello del Pil. Anche in Germania si è registrata un’elevata reattività dell’occupazione alla crescita dell’output: all’aumento del Pil (+1,9%) si è associata un’accelerazione dell’occupazione (+2,9%). In Spagna la dinamica dell’occupazione (+2,7%) si è invece mantenuta su tassi inferiori alla crescita del Pil (+3,2%). L’espansione dell’occupazione in Italia ha interessato in particolare i servizi: l’aumento nel terziario ha costituito il 96,4% dell’incremento totale netto degli occupati, con tassi più significativi nei comparti dell’attività dei servizi di alloggio e ristorazione, di trasporto e magazzinaggio e dei servizi alle imprese. Nell’area euro tale quota è stata pari all’83,3%”.

Nonostante il miglioramento del PIL nel primo trimestre, comunque, il gap tra Italia e Ue non è ancora colmato. Se, infatti, il Pil italiano è aumentato dell’1,9%, nell’aera euro è cresciuto del 3,5%, quindi di strada da fare ce n’è ancora tanta.

La spesa delle famiglie e delle Isp in termini reali è stimata in aumento dell’1,%, ma in rallentamento rispetto al 2016. Tutte le componenti di spesa hanno contribuito in maniera diffusa al rallentamento ad eccezione dei beni non durevoli. In particolare, la spesa per servizi ha seguito una dinamica molto contenuta. Nel 2016 nel confronto con l’area euro la spesa per famiglie residenti e Isp ha evidenziato una dinamica più vivace (+2,0%). Tra i maggiori Paesi europei, la Spagna ha segnato il tasso di crescita più elevato della spesa per consumi (+3,2%) mentre Germania e Francia hanno registrato aumenti in linea con la media dell’area euro (rispettivamente +2,0% e +1,9%). Nel 2017, in Italia, la spesa delle famiglie residenti e Isp è attesa aumentare, seppure a un tasso più contenuto rispetto al biennio precedente (+1,0%) influenzata dai miglioramenti sul mercato del lavoro, dalla ripresa dell’inflazione e del conseguente contenimento del potere di acquisto”.

Vera MORETTI

Rapporto Annuale Istat: addio alla borghesia e alla classe operaia

Nel Rapporto Annuale 2017 presentato da Istat emerge un profondo cambiamento della società italiana e delle classi sociali: sono stati individuati nove gruppi sociali, con una maggioranza netta di famiglie di impiegati e di operai in pensione e la sparizione di borghesia e classe operaia.
Per arrivare al risultato finale, sono stati presi in considerazione la situazione professionale, la cittadinanza, il titolo di studio, il numero di membri della famiglia, associando quindi alla componente economica quella culturale e quella socio-demografica.
Ci sono dunque i giovani blue collar e le famiglie degli operai in pensione con reddito medio; quindi, le famiglie a reddito basso con stranieri, quelle a reddito basso di soli italiani, le famiglie tradizionali della provincia e il gruppo formato da anziane sole e giovani disoccupati; infine, le famiglie benestanti di impiegati, le famiglie con pensioni d’argento e infine la classe dirigente.

La spesa media per consumo va da un minimo di 1.697 euro per le famiglie a basso reddito con stranieri a un massimo di 3.810 euro per la classe dirigente, con una media di 2.499 euro.

Borghesia e classe operaia sono state assorbite rispettivamente dalle famiglie di impiegati, operai in pensione e famiglie tradizionali che vivono in provincia, mentre la classe operaia si è suddivisa tra i giovani blue-collar e le famiglie a basso reddito.

Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, ha dichiarato: “La ripresa, a causa dell’intensità insufficiente della crescita economica, stenta ad avere gli stessi effetti positivi diffusi all’intera popolazione. L’Italia ha consolidato il processo di ripresa iniziato nel 2015. Nella fase di ripresa attuale il processo di crescita stenta tuttavia ad affermarsi pienamente”.

Vera MORETTI