Sicurezza sul lavoro: obblighi del lavoratore all’uso dei DPI

I DPI sono dispositivi di Protezione Individuale, si tratta di accessori che i lavoratori devono indossare al fine di prevenire infortuni e di evitare patologie legate alle mansioni svolte sul luogo di lavoro. L’uso dei DPI per il lavoratore costituisce un obbligo, ma quali sono tutti gli obblighi del lavoratore all’uso del DPI?

Sicurezza sul luogo di lavoro: obblighi del datore di lavoro

Nella precedente guida abbiamo delineato gli obblighi del datore di lavoro inerenti i Dispositivi di Protezione Individuale, ma lui non è l’unico soggetto ad avere degli obblighi, infatti anche il lavoratore è tenuto ad adottare accorgimenti il cui obiettivo è migliorare le condizioni di salute e sicurezza sul luogo di lavoro. Si è detto che esiste un’ampia gamma di DPI che servono a proteggere organi e ad evitare infortuni, abbiamo sottolineato che i DPI devono essere scelti dal datore di lavoro tenendo in considerazione le peculiarità delle mansioni svolte e le caratteristiche del luogo di lavoro.

I rischi devono essere indicati nel Documento di Valutazione Rischi e in base a questo devono essere forniti i DPI che devono essere a norma. Tra gli obblighi del datore di lavoro vi è anche quello di organizzare corsi di formazione sull’uso dei DPI per i lavoratori. Naturalmente per tenere sotto controllo i rischi connessi alla salute è assolutamente necessario che anche il lavoratore collabori e da qui derivano gli obblighi per il lavoratore nell’uso dei DPI. Gli stessi sono indicati nel decreto legislativo 81 del 2008, in particolare negli articoli 20 e 78.

Per una guida esaustiva sugli obblighi del datore di lavoro inerenti all’uso del DPI, leggi la guida: DPI: i Dispositivi di Protezione Individuale e obblighi del datore di lavoro

Obblighi del lavoratore all’uso dei DPI

In base all’articolo 20 del decreto legislativo 81 del 2008 il lavoratore:

  • deve contribuire a mantenere elevate condizioni di salute e sicurezza sul luogo di lavoro collaborando con il datore di lavoro con i dirigenti e i preposti;
  • è tenuto a osservare le disposizioni impartite dal datore di lavoro e dai superiori;
  • deve utilizzare i Dispositivi di Protezione Individuale in modo corretto e segnalare le anomalie ai superiori, deve riferire di eventuali inefficienze degli stessi, e deve segnalare qualunque altra situazione di pericolo dovesse verificarsi sul luogo di lavoro;
  • in base all’articolo 20 non deve rimuovere parti dei dispositivi o modificarli. Deve inoltre partecipare ai programmi di formazione messi a disposizione dall’azienda stessa.

Nel caso in cui il lavoratore venga meno a uno di questi obblighi può essere comminata un’ammenda da 200 a 600 euro inoltre è previsto l’arresto fino a un mese.

Obbligo di vigilanza

Deve essere ricordato che gli obblighi del datore di lavoro inerenti l’uso dei DPI non si esaurisce nella consegna degli stessi, infatti deve vigilare affinché gli stessi siano correttamente utilizzati. Nella vigilanza è necessaria che sia adottato il criterio del buon padre di famiglia.

Questo vuol dire che nel caso in cui un lavoratore non usi correttamente i DPI e non segua le indicazioni del datore di lavoro, questo può adottare delle misure di contrasto e in particolare può richiamare verbalmente il lavoratore e nel caso in cui il richiamo verbale non sortisca effetto, può procedere a misure sanzionatorie più rilevanti e in particolare il richiamo scritto, la censura e l’applicazione di sanzioni di tipo pecuniario.

Queste ultime non devono essere confuse con l’ammenda prima vista e che può essere comminata solo dalla pubblica autorità, ciò implica che ci sono due possibili sanzioni a carico dei lavoratori che non dovessero rispettare le disposizioni sull’uso dei DPI. Non solo, come misura finale è possibile attivare anche il licenziamento.

Obblighi del lavoratore all’uso dei DPI: sentenze

E’ bene rammendare che la Corte di Cassazione in alcune sentenze ha sottolineato che esigere il corretto uso dei dispositivi di protezione individuale per il datore di lavoro è un obbligo e che questo deve essere ritenuto garante della correttezza dell’agire del lavoratore.

La Corte di Cassazione  allo stesso tempo ha sottolineato che si può escludere il diritto al risarcimento del danno per il lavoratore che, pur avendo a disposizione i DPI, non li usa correttamente. Nel caso in esame il lavoratore era impegnato nell’installazione di pannelli fotovoltaici in altezza e senza alcuna motivazione ha svincolato l’ancoraggio dell’imbracatura. Da tale comportamento è derivata la caduta da 7 metri di altezza del lavoratore stesso. In appello il tribunale ha condannato il datore di lavoro a un risarcimento di 150.000 euro, ma in Cassazione la sentenza è stata ribaltata perché secondo la Corte lo svincolo dell’ancoraggio rappresenta una condotta anomala, imprevedibile, eccezionale ed abnorme .

Il rigetto della richiesta di risarcimento è basato anche sul fatto che il datore di lavoro non solo aveva fornito i DPI, ma aveva anche perfezionato l’obbligo di formazione per il lavoratore.

Diversa invece la sentenza 19026 del 2017 pronunciata dalla Corte di Cassazione, Sez. Penale. Anche in questo caso l’infortunio è avvenuto nell’applicazione di pannelli fotovoltaici su un capannone all’altezza di 10 metri, ma in questo caso vi è stata condanna e questo perché il datore di lavoro aveva fornito i DPI, ma sul tetto a cui si lavorava non vi erano sistemi di aggancio e di fatto i dispositivi erano inutili, inoltre erano state violate tutte le norme di sicurezza.

Sicurezza sul luogo di lavoro e la figura del RSPP: requisiti e funzioni

La sicurezza sul luogo di lavoro dovrebbe essere uno di quei pilastri su cui non dovrebbero mai esserci dubbi e titubanze, purtroppo l’Italia su questo tema non sembra essere molto sensibile, infatti pur avendo una legislazione puntuale, non diminuiscono gli incidenti sul lavoro, anzi gli stessi diventano sempre più gravi al punto che si parla frequentemente di morti sul lavoro. Tra le figure previste dal nostro sistema di prevenzione di infortuni c’è  il RSPP, Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione.

Chi è il RSPP

I dati sulla sicurezza sul lavoro in Italia sono allarmanti, dalle statistiche emerge che in 14 anni ci sono stati 15.000 morti sul lavoro, in media oltre 1.000 morti l’anno, e 10 milioni di infortuni, proprio per questo si sta pensando di potenziare il sistema per la prevenzione dei rischi e soprattutto si auspicano maggiori controlli sui sistemi di sicurezza adottati dalle imprese.

Naturalmente la sicurezza costa soprattutto per le Piccole e Medie Imprese che fanno fatica a investire, proprio per questo ogni anno viene proposto il bando ISI INAIL che concede aiuti alle aziende che propongono piani per migliorare la sicurezza.

Se vuoi conoscere come funziona il bando ISI INAIL, leggi l’articolo: Bando ISI INAIL: fissato il click day

Per le imprese ulteriori vantaggi possono arrivare anche con le agevolazioni previste dalla Nuova legge Sabatini che consente di acquistare nuovi macchinari che naturalmente aumentano la sicurezza. Nell’attuale sistema volto a prevenire infortuni, un ruolo centrale è svolto dal RSPP che si inserisce nell’attuale sistema di prevenzione dei rischi sul luogo di lavoro. Tale figura è prevista dal decreto legislativo 81 del 2008 e il suo ruolo è coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi. Viene nominato dal datore di lavoro che può scegliere tra un dipendente che abbia i requisiti previsti dall’articolo 32 del decreto, oppure può conferire l’incarico a un soggetto terzo, che naturalmente abbia i requisiti, infine, in alcuni casi e vedremo quali, il datore di lavoro può assumere tale ruolo.

Requisiti previsti dall’articolo 32 del decreto legislativo 81

La funzione di RSPP può essere conferita a soggetti che abbiano un diploma di scuola secondaria superiore, devono inoltre frequentare dei corsi specifici in materia di prevenzione e protezione dai rischi sul luogo di lavoro. Al termine del corso devono superare una verifica, inoltre è necessario seguire costantemente corsi di aggiornamento. Il corso di formazione è diviso in moduli, c’è un modulo base uguali per tutti i settori, c’è poi un modulo specifico il cui contenuto è strettamente correlato alla tipologia di attività svolta nelle varie aziende, quindi un RSPP che deve occuparsi del settore zootecnico avrà una formazione specifica sui rischi che sono connessi a tale attività, lo stesso vale per chi è impegnato nel settore metallurgico o chimico.

In base al comma 3 dell’articolo in oggetto possono svolgere il ruolo di RSPP anche i lavoratori che pur non essendo in possesso di un diploma di scuola secondaria abbiano svolto per almeno 6 mesi alla data del 13 agosto 2003 le funzioni di RSPP e abbiano svolto i corsi visti in precedenza.

In alcuni casi è possibile ricoprire il ruolo di RSPP pur senza aver seguito il corso di formazione, occorre però avere una laurea che ricada nelle classi di laurea indicate nel comma 4, cioè L07, 08, 09, 17, 23. Si tratta di lauree in ingegneria civile, architettura, materie scientifiche o tecnologiche.

Quando il datore di lavoro può assumere il ruolo di RSPP?

Si è detto in precedenza che ci sono dei casi in cui il datore di lavoro può assumere il ruolo di RSPP, questi però sono strettamente correlati alla dimensione aziendale e alla tipologia.

In particolare è previsto che il datore di lavoro possa assumere tale ruolo:

  • nelle aziende artigiane e industriali se il numero dei dipendenti non supera le 30 unità;
  • imprese impegnate in agricoltura e zootecnia che non superano le 30 unità;
  • pesca con impiegati fino a 20 lavoratori;
  • altre aziende fino a 200 lavoratori.

Il ruolo del Responsabile Servizio Prevenzione e Protezione RSPP

Il ruolo di questa figura è molto importante, infatti è suo compito individuare i fattori di rischio presenti in azienda, valutarne la potenzialità e di conseguenza individuare le misure al fine di mantenere la salubrità dell’ambiente di lavoro. Tale compito deve essere svolto tenendo in considerazione la normativa vigente e le peculiarità del lavoro svolto. L’articolo 33 del decreto 81 stabilisce anche che spetta al RSPP proporre dei programmi di formazione e informazione per i lavoratori, gli stessi mirano a fornire ai dipendenti la conoscenza dei rischi connessi alle loro mansioni e allo stesso tempo prevenire i rischi e conoscere come comportarsi nel caso in cui si verifichino degli eventi pericolosi. Ad esempio tra le attività che può proporre vi sono esercitazioni per la corretta evacuazione in caso di incendio o di altro evento strettamente correlato ai lavori che si svolgono all’interno dell’unità produttiva.

Il RSPP partecipa anche alle consultazioni in materia di sicurezza sul luogo di lavoro, in particolare collabora con il datore di lavoro e con il medico competente al fine di realizzare il DVR, di cui si parlerà in una successiva guida.

Deve essere sottolineato che l’articolo 33 del decreto legislativo 81 del 2008 precisa al comma 2 lettera F che ci sono per il RSPP anche degli obblighi nei confronti del datore di lavoro, infatti nella sua posizione, più di altri lavoratori, può venire a conoscenza di particolari tecniche di produzione e processi organizzativi che fanno parte del Know How aziendale e che di conseguenza devono essere protetti dalla concorrenza, il decreto quindi stabilisce che il Responsabile deve tenere il segreto sulle informazioni di cui viene a conoscenza.

Ultime informazioni

Si è visto che il ruolo del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione è molto delicato in quanto si tratta di una figura che fa da collante, spesso, tra lavoratori e datore di lavoro. Nel suo ruolo può essere affiancato dall’ASPP (Addetto al Servizio di Prevenzione e Protezione).

Occorre infine ricordare che la mancata nomina di un RSPP da parte dell’azienda costituisce un reato e comporta per il datore di lavoro una saznione penale che varia da 2.740,00 a 7.014,40 euro (articolo 55 decreto 81 del 2008).

Naspi: si perde il diritto per nuovo lavoro nel periodo di carenza

Quando si percepisce un’indennità di disoccupazione bisogna sempre fare molta attenzione. In quanto ci sono degli adempimenti da assolvere rispettando in maniera perentoria pure le scadenze previste. Così come chi prende i sussidi disoccupazione, e vuole cogliere nuove opportunità di lavoro, deve fare attenzione al tipo di contratto e soprattutto alla sua durata.

Altrimenti spesso, senza saperlo perché magari non si conosce bene la normativa, l’indennità non sarà più erogata. Da questo punto di vista non fa eccezione la NASpI, ovverosia la Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego. Al riguardo, e nello specifico, vediamo di capire prima di tutto cos’è per la NASpI il periodo di carenza. E perché e quando si perde il diritto alla NASpI per un nuovo lavoro proprio nel periodo di carenza.

Quando si perde il diritto alla NASpI per nuovo lavoro nel periodo di carenza

Nel dettaglio, per quel che riguarda la NASpI, il periodo di carenza corrisponde ai primi otto giorni dalla data di cessazione del rapporto di lavoro. Con il periodo di carenza che è anche quello in corrispondenza del quale l’indennità di disoccupazione non è riconosciuta.

Ai sensi di legge, infatti, l’indennità NASpI spetta proprio a partire dall’ottavo giorno successivo alla data di cessazione del rapporto di lavoro, Se invece l’istanza si presenta dopo il periodo di carenza, allora la data di decorrenza della NASpI sarà quella di invio della domanda.

Allora, quando si perde il diritto alla NASpI per nuovo lavoro nel periodo di carenza? La risposta è semplice in quanto non bisogna commettere l’errore, negli 8 giorni sopra indicati che corrispondono al periodo di carenza, della rioccupazione o dell’apertura di una partita Iva. Altrimenti non si avrà diritto all’indennità di disoccupazione.

Come richiedere, sospendere e riattivare la NASpI con un nuovo lavoro

Spiegato perché si perde il diritto alla NASpI per nuovo lavoro nel periodo di carenza, spieghiamo ora come la Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego si può attivare, sospendere e riattivare in automatico in caso di nuovo lavoro.

Supponiamo che, seguendo l’iter corretto, il richiedente ottiene dall’INPS la NASpI per 12 mesi dopo la cessazione di un rapporto di lavoro. Supponiamo anche che dopo 4 mesi il lavoratore accetta un nuovo lavoro della durata di 4 mesi. In tal caso bisogna dare comunicazione all’INPS riguardo proprio alla data di inizio e di fine del contratto.

Durante i 4 mesi di lavoro la NASpI sarà solo sospesa, proprio attraverso la comunicazione tramite il servizio online Naspi-com, e quindi non ci sarà la decadenza. A conclusione del contratto, ovverosia dopo i 4 mesi, l’INPS ripristinerà l’erogazione della disoccupazione in automatico. Senza alcun bisogno di presentare una nuova domanda per la NASpI. Anzi, nella fattispecie, la presentazione di una nuova istanza sarebbe un grosso errore.

Ricordiamo infine che la NASpI può essere riconosciuta anche se si percepiscono altre prestazioni previdenziali o di aiuto a livello economico. Nello specifico, la NASpI è compatibile con la pensione di invalidità, con la pensione ai superstiti, con il Reddito di Cittadinanza e pure con le indennità Covid-19 eccetto quelle che sono riconosciute ai lavoratori stagionali e somministrati del settore del turismo.

Auto aziendale: il tragitto casa lavoro quando è ammesso e quando no

Tra i mezzi di trasporto, che possono rientrare nella categoria dei beni strumentali, spicca l’auto aziendale per la quale, tra l’altro, c’è la possibilità di accedere a benefici di natura fiscale. Nel dettaglio, e per definizione, l’auto aziendale è un mezzo di trasporto che è concesso al dipendente, e per il quale è l’impresa ad accollarsi i relativi costi.

Ma detto questo, quando e come il lavoratore può utilizzare l’auto aziendale? Per esempio, è possibile utilizzare il mezzo aziendale per coprire giornalmente il tragitto dalla casa al posto di lavoro e ritorno?

Auto aziendale: il tragitto casa lavoro quando è possibile e quando no

L’uso corretto dell’auto aziendale dipende proprio e strettamente dalla finalità d’uso. In quanto, anche ai fini di un corretto inquadramento ai fini fiscali, l’auto aziendale può essere classificata come mezzo di trasporto strumentale. In tal caso, l’utilizzo dell’auto deve essere sempre correlato all’attività d’impresa, e quindi non finalizzato a soddisfare le esigenze personali del dipendente.

Il discorso cambia, invece, quando l’auto aziendale risulta essere inquadrata come bene ad uso promiscuo. In tal caso, infatti, il lavoratore ai sensi di legge avrà la possibilità di utilizzare l’auto aziendale sia per l’attività d’impresa, sia per uso personale. Potendo così utilizzarla tanto per coprire il tragitto casa-lavoro e ritorno, quanto per altre finalità che possono essere legate anche al tempo libero. Quindi, pure al di fuori dell’orario di lavoro.

Ai sensi di legge, infatti, l’auto aziendale come bene strumentale non può essere utilizzata per coprire il tragitto casa-lavoro. In quanto questo rientra nella sfera personale e privata del dipendente. Anche per questo, per le auto aziendali in Italia, è molto diffuso l’inquadramento come mezzo di trasporto ad uso promiscuo.

Auto aziendale come bene strumentale e ad uso promiscuo, ecco le differenze

L’auto aziendale, come bene ad uso promiscuo, è decisamente più vantaggiosa per il lavoratore, a livello economico, rispetto al possesso di un mezzo di trasporto che è, invece, ad uso esclusivamente personale. Pur tuttavia, come sopra accennato, tra l’auto aziendale come bene strumentale e l’auto aziendale ad uso promiscuo ci sono delle differenze sostanziali a livello fiscale. In quanto per l’auto aziendale ad uso promiscuo non è possibile portare in deduzione i costi al 100%, e lo stesso dicasi per la detrazione dell’IVA. Inoltre, l’auto ad uso promiscuo rientra tra i fringe benefit.

Il tragitto casa lavoro quando l’auto aziendale è ad uso personale

Oltre all’auto come bene strumentale, e come mezzo di trasporto ad uso promiscuo, c’è pure una terza possibilità per il mezzo aziendale concesso al dipendente. Ovverosia, quando l’impresa concede al lavoratore l’auto aziendale come mezzo di trasporto che è totalmente ad uso personale.

Anche in questo caso l’inquadramento a livello fiscale cambia radicalmente. E si rientra, come per l’uso promiscuo, nella casistica del fringe benefit. Ma al pari dell’uso promiscuo, anche in questo caso il tragitto casa lavoro, a maggior ragione, è ammesso. Con l’auto concessa dall’azienda che, inoltre, sarà in tutto e per tutto una voce addizionale sulla retribuzione del dipendente. E questo perché a livello fiscale l’impresa concede al dipendente l’uso del bene.

Lavorare senza contratto, quali sono le possibilità?

Per chi non ha un’occupazione con un contratto a tempo determinato o indeterminato, spesso il lavoro è non solo precario, intermittente ed occasionale, ma è pure del tutto privo di tutele. In quanto a monte della collaborazione non c’è nemmeno una lettera di incarico, una scrittura privata o un contratto. Quali sono allora, in Italia, le possibilità di lavorare senza contratto? Inoltre, quando questo accade le legge viene sempre rispettata? Oppure si rischiano sanzioni?

Quali sono le possibilità di lavorare in Italia senza contratto?

In linea generale, si può dire che le possibilità di lavorare senza contratto ci sono sempre, ma con rischi e con pericoli in capo al lavoratore e/o all’impresa in base al tipo di occupazione. Per esempio, per un’impresa che fa lavorare un addetto senza contratto si rientra nell’ambito del lavoro nero. Con il lavoratore che, senza alcuna tutela, rischia poi di non essere pagato. Mentre l’impresa, in caso di controlli, rischia sanzioni pesanti.

Prestazioni occasionali con e senza contratto, come funzionano e cosa si rischia

Un’altra casistica diffusa di lavoro senza un contratto è quelle legata ai lavori sporadici, ovverosia alle cosiddette prestazioni occasionali. Si tratta, nello specifico, di attività che sono non abituali e non professionali che si svolgono senza la partita Iva. In genere prima di accettare un lavoro occasionale sarebbe sempre bene stipulare un contratto, ma essendo il lavoro di breve durata spesso le parti si accordano sulla parola.

Questo, pur tuttavia, non esonera le parti a rispettare le legge in quanto la prestazione occasionale per essere tale, deve rispettare dei requisiti che sono ben precisi e disciplinati ai sensi di legge. Ovverosia, la prestazione occasionale deve presentare assenza di continuità e di abitualità, così come per la prestazione occasionale deve esserci l’assoluta mancanza di coordinamento. Altrimenti si rientra nel lavoro dipendente o nel campo delle prestazioni autonome abituali. Con il lavoratore che in tal caso sarà chiamato ed obbligato ad aprire la partita Iva.

Lavorare a partita Iva senza un contratto, una prassi comune ma molto rischiosa

Un’altra prassi comune, per quel che riguarda il lavoro senza alcun contratto, riguarda i lavoratori a partita Iva. Che sono soliti fornire le prestazioni alle imprese senza alcun contratto stipulato a monte tra le parti. E questo avviene in genere quando tra le parti nel tempo si è instaurato un rapporto fiduciario.

Pur tuttavia, proprio nel tempo, i rapporti si possono deteriorare, l’impresa può cambiare proprietà, o addirittura può entrare in crisi fino a dover portare i libri in tribunale. In tal caso per il lavoratore a partita Iva, senza un contratto, ci possono essere non poche difficoltà nell’andare poi a recuperare le eventuali somme riconducibili alle fatture insolute.

La fattura insoluta, infatti, è un credito che è vantato dal titolare di partita Iva nello specifico caso. Ma questo deve essere certo ed esigibile. Per essere tale il creditore deve essere in possesso di elementi che siano sufficienti e che dimostrino l’esistenza del suo diritto. E cosa c’è di meglio di un contratto stipulato tra le parti?

Lavoro autonomo e libera professione: quali differenze?

Per comprendere la differenza tra coloro che svolgono un lavoro autonomo e quelli che esercitano la libera professione, è bene precisare chi sono codesti.

In tema di lavoratori, le due principali categorie sono rappresentate dagli autonomi e dagli subordinati. I primi, sono per l’appunto svincolati dalle direttive di un datore di lavoro, diversamente dai secondi.

I lavoratori autonomi godono di ampia libertà nel loro raggio d’azione, strategia e organizzazione del lavoro spettano a loro, fermo restando l’obbligo di garantire la prestazione al committente. Di contro, rispetto ai lavoratori subordinati sono decisamente meno tutelati. Infatti, gli autonomi non beneficiano delle garanzie tipiche di un dipendente, come le ferie, la cassa integrazione, l’assegno di disoccupazione e altre.

I liberi professionisti fanno parte della categoria dei lavoratori autonomi, in quanto, il loro operato è svincolato da un datore di lavoro e devono solo garantire la prestazione al cliente che ha commissionato loro.

A questo punto, qualcuno potrebbe chiedersi quali siano le differenze tra coloro che compiono un lavoro autonomo e quelli che esercitano la libera professione. Ebbene, i liberi professionisti sono quasi sempre iscritti a un ordine e la prestazione da loro offerta è prevalentemente di tipo intellettuale. Inoltre, devono adempiere a una serie di doveri, per esempio aggiornarsi costantemente sulla disciplina di competenza tramite dei corsi specifici, oppure hanno l’obbligo assicurativo per i rischi derivanti dalla professione.

Ma entriamo nel dettaglio, scoprendo quali sono le caratteristiche dei liberi professionisti e le loro responsabilità.

Qui puoi scoprire chi sono i lavoratori autonomi e in quali categorie di suddividono.

Liberi professionisti: le principali peculiarità

Il libero professionista fa parte della categoria dei lavoratori autonomi, non compie un lavoro manuale ma offre una prestazione di natura intellettuale. La persona che esercita una libera professione ha una preparazione di alto livello nella materia di sua competenza, frutto di un importante percorso di studio, che mette al servizio dei suoi clienti in cambio di un corrispettivo.

Solitamente, il libero professionista è iscritto a un albo, registro o elenco: come gli avvocati, i medici, gli ingegneri, i commercialisti, ecc. Iscriversi all’albo professionale del proprio ordine è necessario per poter esercitare la propria attività, altrimenti non può offrire in modo valido la propria prestazione né pretendere una retribuzione per la sua effettuazione. Violare questo obbligo, spesso costituisce reato, basti pensare ai casi in cui qualcuno ha offerto prestazioni di tipo medico, senza essere iscritti all’albo relativo o addirittura senza aver effettuato il percorsi di studi adeguato e il conseguimento dei titoli obbligatori.

Esercitare la libera professione non comporta necessariamente l’apertura di una partita IVA.

I liberi professionisti devono essere iscritti alla propria cassa previdenziale, in quanto non versa i contributi all’INPS ma alla cassa previdenziale del proprio ordine. Essi devono rispettare delle regole deontologiche imposte dalla propria attività, diversamente, incorrono in sanzioni da parte del proprio ordine.

Le responsabilità del libero professionista

Nonostante il libero professionista abbia la libertà di organizzare il proprio lavoro come più ritiene opportuno, senza seguire le indicazioni del cliente, deve adempiere alla prestazione richiesta da quest’ultimo. Il libero professionista deve svolgere il lavoro che gli è stato commissionato con diligenza.

Infatti, la sua responsabilità consiste non nell’obbligazione del risultato, ma nell’obbligo dei mezzi utilizzati per raggiungere lo scopo. Per esempio, un avvocato può anche non riuscire a raggiungere il risultato sperato dal suo cliente, ma a patto che l’esito del suo lavoro sia stato svolto con diligenza. In caso contrario, può essere costretto a pagare il risarcimento del danno al proprio cliente.

Conclusioni

Riassumendo, i liberi professionisti sono lavoratori autonomi, ma con una serie di doveri a cui far fronte e una serie di norme da seguire obbligatoriamente. I lavoratori autonomi, infatti, non hanno l’obbligo di iscriversi a un albo professionale, seguire le regole del proprio ordine o provvedere alla contribuzione in una cassa previdenziale privata. Inoltre, una parte di loro non svolge una professione di natura intellettuale.

 

Divieto licenziamento fino al 30 giugno 2021: le novità DL Sostegni

In questo periodo, che ormai procede da ben oltre un anno, con possibilità di derogarsi ancora per un bel po’ del 2021, fatto di sbalzi di certezze, di alternanze di pareri anche scientifici e sanitari, di aperture e chiusure, di regioni che mutano colori, di attività in bilico e crisi sociali, arriva la proroga sul divieto di licenziamento, fino al prossimo 30 giugno 2021. E’ quanto previsto dal nuovo DL Sostegni. Scopriamone di più, assieme.

La proroga del DL Sostegni sul divieto di licenziamento

Mentre continuano a sentirsi, dai tg, dai blog, dai talk show e più semplicemente dalle voci della strada, dal polso del popolo, carenze di ristori e mentre moltissime attività, come cinema e teatri, abbassano le serrande per sempre, in una confusione pandemica che vede crescere sempre più il “ballo dei vaccini”, il DL Sostegni cerca di dare un po’ di tranquillità ai lavoratori dipendenti, prorogando il termine di divieto di licenziamento per causale COVID-19, previsto entro il 31 marzo prossimo e, ora, allungato alla data del prossimo 30 giugno.

E, quindi il DL Sostegni proroga indistintamente nei confronti di tutte le imprese, ovvero a prescindere dall’ eventuale ricorso agli ammortizzatori sociali con causale COVID-19, invece dal 1 luglio al 31 ottobre 2021 il divieto continuerà esclusivamente per i datori di lavoro che hanno diritto alla Cassa integrazione in deroga e all’assegno ordinario.

Scopriamo di più sul divieto di licenziamento del DL Sostegni

In questo arco di tempo, ovvero fino alla fine di giugno o, nel secondo caso, fino al 31 ottobre 2021, ai datori di lavoro non sarà possibile avviare procedure di licenziamento collettivo e rimarranno sospese quelle procedure avviate in precedenza alla data del 23 febbraio 2020. Al datore di lavoro sarà, ulteriormente, fatto divieto di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo (ovvero il motivo determinato da un importante inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro, ovvero da ragioni attinenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento della stessa) e permane sospeso il tentativo di conciliazione obbligatoria (per i datori di lavoro con più di 15 dipendenti).

Ma, in questa situazione di “necessità al lavoro”, per un popolo (quello italiano) sempre più vicino al baratro economico (in particolar modo per talune categorie commerciali e imprenditoriali), vi sono delle eccezioni che il DL Sostegni tiene conto, inerenti alla possibilità di licenziamento. Ovvero, se a venir meno è il soggetto imprenditoriale. In caso di cessazione definitiva di attività, a seguito della liquidazione della società o in caso di fallimento (una fine non da escludere in questo delicato momento).

Inoltre, in casi di ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, quindi di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo. In suddetti casi, ai lavoratori coinvolti dall’accordo, in deroga a quelli che sono i requisiti previsti dalla norma, verrà riconosciuta l’indennità di disoccupazione.  Insomma, scopriremo solo “nelle prossime puntate”, se il quadro del DL Sostegni sul divieto di licenziamenti sarà utile a ridipingere e incorniciare una sicurezza del lavoro più adeguata ed una tutela del lavoratore efficiente, in questo periodo in cui tanto, troppo, tutto è in balìa delle onde della confusione politica, sanitaria, sociale.

Top Employers: in Italia le aziende top sono 90

Dal 2008, quando ha debuttato il programma di certificazione Top Employers in Italia, ad oggi, le aziende meritevoli sono quasi triplicate, passando da 28 nella primavera del 2009 a 90 del 2018.

Considerando che ad oggi l’ente è presente in 113 Paesi e 5 Continenti, Top Employers è davvero un osservatorio speciale, in grado di analizzare, valutare e certificare le eccellenze delle condizioni di lavoro nelle aziende. Generalmente si focalizza su imprese multinazionali o comunque medio grandi.

Tra quelle certificate in Italia, ben sei aziende ottengono la certificazione da 10 anni, e sono Abbott e Chiesi Farmaceutici (farmaceutica); Cariparma, oggi Crédit Agricole Cariparma, e UniCredit (banca), Elica (produzione), PepsiCo (alimentare).
Si tratta dunque di imprese che hanno saputo, anno dopo anno, confermare le loro eccellenze in ambito HR. Ciò significa che sono in grado di offrire condizioni di lavoro e ambiente lavorativo ottimali, capaci di reggere il confronto a livello mondiale.

Negli anni, però, sono cambiati i criteri di giudizio, o meglio, aumentati.
Nel 2008, infatti, i primi tre valori erano recruiting, sviluppo della leadership e cambiamento culturale, mentre nel 2018 sono strategia dei talenti, sviluppo della leadership e cambio organizzativo.

I campi di analisi e valutazione della certificazione Top Employers nel 2008 erano 5: condizioni di lavoro, cultura aziendale, sviluppo del talento e impegno sociale. Nel corso degli anni successivi si sono ampliati e modificati, alcune voci sono state eliminate mentre altre sono state inserite. Ad oggi sono diventate 9: talent strategy, workforce planning, on-boarding, learning & development, performance management, leadership development, career&succession management, compensation&benefits e culture.

Massimo Begelle, deputy country manager Italia di Top Employers Institute, ha commentato così i cambiamenti e i risultati ottenuti: “Le modifiche più evidenti certificate in ambito lavorativo riguardano soprattutto la strategia dei talenti, evidenziata come prima priorità nel 2018 e praticamente sconosciuta dieci anni fa, quando ci si limitava a parlare di sviluppo del talento”.

A proposito di talenti, un termine nuovo è proprio talent acquisition, che prevede un processo di selezione, attraverso l’ingresso in azienda e lo sviluppo del talento: “Uno specchio dei tempi, dove la ricerca dei talenti è diventata un punto fondamentale delle strategie aziendali e gli sforzi delle aziende sono mirati non solo ad acquisirli, ma anche a farli restare”.

Per questo motivo, è diventato di vitale importanza l’HR director: “Da ruolo importante, strettamente operativo e legato all’ambito amministrativo, HR director è oggi una figura “chiave”.Sta diventando un vero “business partner” perché deve raggiungere gli obiettivi dell’azienda e nello stesso tempo seguire lo sviluppo delle persone, mettendo in atto le politiche più adatte per farle crescere”.

Anche la digitalizzazione sta diventando sempre più importante, tanto che, se dieci anni fa era impensabile che un dipendente non lavorasse tra le mura dell’azienda, ora non è così basilare. Lo smart working, anzi, sta dimostrando ampiamente che importante è l’obiettivo, e non dove lo si raggiunge.

Vera MORETTI

Lavorare nelle festività: il dipendente si può rifiutare

Dicembre è uno dei mesi in cui ci sono più festività, che cominciano con l’Immacolata e finiscono con i botti di Capodanno.
Per questo, è sicuramente di attualità l’argomento relativo alle festività retribuite, anche pensando che i lavoratori stanno finalmente diventando consapevoli della possibilità di rifiutarsi.

Cosa accade in questi casi? Se il lavoratore rifiuta di lavorare in una festività, l’impresa non può trattenere la retribuzione, che va al contrario interamente riconosciuta: il diritto al rifiuto è garantito dalla legge e non è sanzionabile in nessun modo.
Ciò rimane valido anche in presenza di previsioni diverse, anche quando sono contenute nel contratto di lavoro, poiché può prevedere clausole che possono obbligare il lavoratore a effettuare straordinari nei giorni di festività; ma nel caso in cui il lavoratore non accetti, anche senza giustificato motivo, l’azienda non può trattenere la retribuzione.

Questo cosa significa? Semplicemente che, anche in presenza di contratti in cui è scritto che al lavoratore potrebbe essere richiesto di lavorare nelle festività, il lavoratore stesso può sottrarvisi senza per questo ricorrere a sanzioni da parte del datore di lavoro.

Le uniche eccezioni sono rappresentate da particolari tipologie di attività, ad esempio i medici e in generale i dipendenti delle istituzioni sanitarie pubbliche e private.

Per tutti gli altri, vale la sentenza secondo la quale: “Non sussiste un obbligo generale a carico dei lavoratori di effettuare la prestazione nei giorni destinati ex lege per la celebrazione di ricorrenze civili o religiose e sono nulle le clausole della contrattazione collettiva che prevedono tale obbligo, in quanto incidenti sul diritto dei lavoratori di astenersi dal lavoro (cui è consentito derogare per il solo lavoratore domenicale); in nessun caso una norma di un contratto collettivo può comportare il venir meno di un diritto già acquisito dal singolo lavoratore (come il diritto ad astenersi dal lavoro nelle festività infrasettimanali)”.

Questo vuol dire che qualsiasi cosa ci sia scritta nei contratti di lavoro, prevale la legge che riconosce al lavoratore il diritto soggettivo di non lavorare nelle festività.

L’impresa, dunque, non può mai trattenere la giornata festiva non lavorata dalla retribuzione: “Il trattamento economico ordinario, si legge nella sentenza 21209/2016, deriva «direttamente dalla legge, e non possono su questo piano avere alcun rilievo le disposizioni contrattuali». Stessa considerazione di cui sopra: la legge prevale in ogni caso sulle disposizioni contrattuali”.

Viceversa, vanno pagati gli straordinari al lavoratore che presta la propria opera nelle festività.

Vera MORETTI

Niente lavoro usurante per bar e ristoranti

Ha suscitato polemiche la decisione di non far rientrare nelle mansioni usuranti quelle di chi lavora nei bar o nei ristoranti, poiché, in realtà, se si tratta di rimanere in pieni per dieci ore, certo non si può dire che si tratti di lavoro sedentario.
E continuare a farlo fino a 67 anni, ovvero fino alla pensione, sembra davvero impensabile.

Aldo Mario Cursano, vice presidente vicario di Fipe, Federazione Italiana Pubblici Esercizi, ha le idee ben chiare su quanto disposto, poiché ha affermato: “Il lavoro di chi fatica tutto il giorno nei bar e ristoranti italiani merita pienamente di essere considerato nelle categorie delle mansioni usuranti, per questo dovrebbe essere esentato dall’innalzamento dell’età pensionabile, senza se e senza ma. Troviamo peraltro curioso che tra i lavori usuranti non ve ne sia neppure uno del mondo dei servizi di mercato”.

Queste sono state le parole pronunciate dopo aver sentito le ultime novità relative alla proposta del Governo di esentare quindici categorie di lavoratori dall’innalzamento automatico dell’età pensionabile a 67 anni.

Il lavoro svolto nei pubblici esercizi, infatti, implica una serie di attività e mansioni che richiedono notevoli sforzi fisici e quindi portano, alla lunga, all’usura. Pensiamo alle ore consecutive passate in piedi, a servire i clienti o preparare caffè, in cucina o in sala, ma anche la necessità di trasportare carichi pesanti.

Inoltre, lavorare nei ristoranti, ma anche nei bar, significa essere aperti sempre, anche e soprattutto sabato, domenica e durante le festività. E questo, anche quando si fa il proprio lavoro con passione, alla lunga stanca e usura, proprio come, e forse di più, per altre categorie quali insegnanti, personale infermieristico, conduttori di convogli ferroviari, personale marittimo e tutte le altre categorie contemplate dall’esenzione, sia le undici già previste dall’Ape sociale che le quattro appena incluse.

Ora la parola dovrebbe andare al Governo, al quale sono state chieste spiegazioni circa la decisione, per fare chiarezza su questa esclusione apparentemente inaspettata.

Vera MORETTI