Pensione anticipata contratto di espansione: requisiti e costi

La decisione di un lavoratore di accedere a una pensione anticipata è sempre da ponderare. Sul piatto della bilancia c’è la possibilità di uscire dal lavoro qualche anno prima del previsto, ma anche la consapevolezza di subire una decurtazione dell’assegno previdenziale e di dover sostenere dei costi. In questo articolo, prenderemo in esame una delle formule che consente l’accesso al prepensionamento: la pensione con contratto di espansione.

Andare in pensione con contratto di espansione

I contratti di espansione sono finalizzati alla riorganizzazione aziendale che ha lo scopo di far crescere l’azienda stessa che deve basarsi sulla digitalizzazione al fine di migliorare le competenze professionali del suo organico, anche ricorrendo all’assunzione di nuove professionalità.

Inizialmente, i contratti di espansione riguardavano solo le grandi aziende con almeno 500 dipendenti, ma la Legge di Stabilità ne ha esteso l’applicazione anche alle medie imprese con almeno 250 dipendenti. Successivamente, questo numero è stato notevolmente abbassato dal decreto Sostegni Bis che l’ha portato a 100.

L’impresa firmataria il contratto di espansione può mandare in pensione i suoi dipendenti su base volontaria, fino a cinque anni prima rispetto ai requisiti richiesti per poter usufruire della pensione di vecchiaia o anticipata.

Al lavoratore viene corrisposta un’indennità per 13 mensilità l’anno a partire dalla cessazione del rapporto di lavoro fino al raggiungimento dei requisiti necessari per accedere al trattamento previdenziale. L’assegno di prepensionamento può essere erogato anche una tantum per l’intero importo spettante.

I lavoratori che vogliono accedere alla pensione con contratto di espansione, devono aver compiuto 62 anni e maturato una contribuzione di almeno 20 anni. A differenza di quanto accade con la pensione anticipata, bastano 37 anni e 10 mesi di contributi versati, mentre per le donne 36 anni e 10 mesi.

I beneficiari

I lavoratori che potrebbe essere coinvolti nel piano di prepensionamento con contratto di espansione sono quelli titolari di un contratto a tempo indeterminato, apprendisti e dirigenti inclusi, che risultino iscritti al Fondo Pensione Lavoratori Dipendenti (FPLD) o alle forme esclusive o sostitutive dell’Assicurazione Generale Obbligatoria (AGO) gestite dall’Istituto (escluso l’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani, meglio conosciuta come INPGI) e che abbiano aderito all’accordo di uscita dal lavoro tra l’azienda e i sindacati.

La prima adesione non vincola i lavoratori, ma deve essere seguita da una risoluzione consensuale con la quale il rapporto di lavoro deve risolversi entro il 30 novembre 2021.

I lavoratori coinvolti dall’esodo perdono il diritto a beneficiare dell’indennità di disoccupazione Naspi, che diventa solo un parametro economico da utilizzare. Inoltre, questi dipendenti non possono fruire di altre prestazioni INPS fino all’accesso alla pensione. Tuttavia, la percezione di esodo è compatibile con qualunque altro reddito da lavoro conseguito durante il periodo di passaggio alla pensione.

Nel caso in cui l’uscita dal lavoro è legata alla decorrenza di una pensione anticipata, l’azienda provvede al versamento dei contributi previdenziali che concorrono al conseguimento del diritto, ridotti dell’ammontare dei contributi figurativi, che viene comunque calcolata per intero.

Qual è il costo per i lavoratori?

In base a una stima dei sindacati, il dazio da pagare per l’accesso alla pensione con contratto di espansione è abbastanza alto. Non potendo maturare il TFR negli ultimi anni di lavoro e il correlato mancato versamento contributivo previdenziale, porta a percepire un assegno decurtato del 22% rispetto a quello che avrebbero percepito con il raggiungimento dei requisiti ordinari. Taglio che passa al 10/15% dal momento in cui si fruisce la pensione.

Per rendere l’idea in modo più pratico, facciamo ricorso agli importi. Prendendo in considerazione un’aspettativa di vita pari a 82 anni, un soggetto con un reddito di 35.000 euro con 62 anni d’età e 35 anni di contributi versati, beneficiando della pensione con il contratto di espansione perderebbe circa 80 mila euro, rispetto a quanto avrebbero percepito senza prepensionamento.

Il costo per le aziende

Per accedere al contratto di espansione l’azienda deve accordarsi con il sindacato che le permette di adottare diversi strumenti, come lo scivolo pensionistico o la cassa integrazione per un massimo di 18 mesi, nella quale la riduzione media oraria del lavoratore non può essere superiore al 30% dell’orario di lavoro. Questo, vale per i dipendenti che non si trovano nella condizione di beneficiare del prepensionamento e che sono interessati alla loro riqualificazione attraverso dei piani formativi.

Cumulo pensioni professionisti: requisiti, decorrenza, convenzioni, calcolo, domanda e liquidazione

Per maturare il diritto alla pensione c’è la possibilità di sommare, e quindi di cumulare, i contributi che sono stati versati in fondi diversi. Facendo leva sul cumulo dei contributi, infatti, sarà così possibile e più veloce maturare i requisiti per andare in pensione non solo con la prestazione di vecchiaia, ma anche con la pensione anticipata ordinaria.

E lo stesso vale pure per le pensioni di inabilità e per quelle pagate ai superstiti. Il cumulo dei contributi, tra l’altro, è stato esteso pure ai professionisti al fine di maturare i requisiti per la pensione. Dagli avvocati ai geometri, e passando per i medici, per i ragionieri, per gli ingegneri, per gli architetti e per i consulenti.

Ecco allora tutto quello che c’è da sapere sul cumulo pensioni professionisti a partire dai requisiti e passando per la decorrenza e le convenzioni. Ma anche il calcolo cumulo pensioni professionisti, come presentare la domanda e come avviene la liquidazione.

Requisiti, decorrenza e liquidazione pensione professionisti con il cumulo dei contributi

Nel dettaglio, il cumulo dei contributi tra fondi diversi è gratuito, ma la liquidazione della pensione in cumulo può anche avvenire in più step in base ai requisiti INPS ed a quelli delle casse. In particolare, l’intera pensione in cumulo al professionista viene riconosciuta solo se i requisiti previsti dalla cassa professionale sono inferiori o uguali a quelli che sono previsti per le gestioni dell’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale.

Altrimenti, al compimento dell’età pensionabile, il professionista riceverà prima la quota di pensione INPS, e poi la quota di assegno previdenziale della cassa professionale nel momento in cui a sua volta sarà maturata l’età pensionabile che è prevista dal regolamento. Non a caso la pensione ai professionisti tramite il cumulo gratuito dei contributi non viene calcolata mai in maniera unitaria, ma in quote per ciascuna gestione previdenziale.

Come presentare la domanda di cumulo dei periodi assicurativi

La domanda di cumulo dei contributi previdenziali versati e maturati deve essere presentata all’ente previdenziale presso il quale il professionista risulta essere correntemente iscritto. Oppure presso l’ente dove il professionista ha versato l’ultima contribuzione.

Per esempio, per un ingegnere o per un architetto che è iscritto ad Inarcassa, la Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Ingegneri ed Architetti Liberi Professionisti diventerà, per il professionista, l’ente istruttore per la domanda di cumulo dei contributi previdenziali.

Sarà infatti l’Inarcassa, presentata correttamente la domanda, ad avviare il relativo procedimento e contattando, di conseguenza, tutti gli altri enti di previdenza presso i quali risultano accreditati, per l’ingegnere o per l’architetto, i contributi previdenziali da cumulare ai fini della maturazione dei requisiti di accesso alla pensione.

Il cumulo contributivo è esteso anche a favore dei professionisti con decorrenza a partire dall’1 gennaio del 2017. L’istituto normativo del cumulo dei contributi, ai fini previdenziali per gli avvocati, i geometri, i medici, i ragionieri, gli ingegneri, gli architetti ed i consulenti, si va così ad aggiungere, ai fini della maturazione dei requisiti di accesso alla previdenza obbligatoria, alla ricongiunzione ed alla totalizzazione.

La mia Pensione INPS: il servizio online di simulazione

Sul web c’è un servizio che, accessibile dal sito Internet dell’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale (INPS), permette di simulare e di calcolare l’importo della propria pensione. Si tratta, nello specifico, del servizio che, denominato ‘La mia pensione futura‘, permette di stimare quale sarà l’importo dell’assegno previdenziale al termine della propria attività lavorativa.

Come si accede al servizio online di simulazione La mia Pensione INPS

Per accedere online al servizio di simulazione La mia Pensione INPS sono necessarie le credenziali ai fini dell’autenticazione. E quindi serve il codice fiscale ed il PIN INPS, oppure SPID, il Sistema Pubblico di Identità Digitale. In alternativa, si può accedere online al servizio di simulazione La mia Pensione INPS pure muniti di Carta Nazionale dei Servizi (CNS) e di Carta di identità elettronica 3.0 (CIE).

Chi può utilizzare il servizio web INPS La mia pensione futura

L’utilizzo del servizio web INPS La mia pensione futura è per molti ma non per tutti. In quanto con il servizio online possono ottenere il calcolo simulato della pensione i lavoratori con la contribuzione versata alla Gestione Separata INPS ed i lavoratori con la contribuzione versata al Fondo pensioni lavoratori dipendenti. Possono accedere inoltre a La mia Pensione INPS pure i lavoratori con la contribuzione versata agli altri fondi e gestioni che sono amministrate dall’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale, e tutti gli iscritti alla Gestione Dirigenti di aziende industriali.

Simulazione online La mia Pensione INPS, ecco quali sono le caratteristiche del servizio

Il servizio online di simulazione La mia Pensione INPS è chiaramente basato sull’inserimento di tutti i dati utili al fine di ottenere una stima quanto più attendibile della prestazione previdenziale che si percepirà al termine della propria attività lavorativa. Al riguardo i dati chiave sono rappresentati dall’età, dalla propria storia lavorativa e dalla propria retribuzione.

Scelto il fondo con il quale impostare il calcolo simulato della pensione, il servizio online dell’INPS permette di ottenere un valore stimato dell’assegno alla fine dell’attività lavorativa a moneta costante, ovverosia calcolato a prescindere dall’andamento dell’inflazione. Così come si possono inserire e quindi ipotizzare, fino al raggiungimento dell’età pensionabile, pure i periodi di sospensione dal lavoro.

Inoltre, il servizio web La mia Pensione INPS permette pure, proprio in base all’età ed alla propria storia lavorativa e contributiva, di conoscere la data in corrispondenza della quale si maturerà il diritto alla pensione di vecchiaia oppure alla pensione anticipata.

Così come ‘La mia pensione futura’ è anche un servizio via web che permette di verificare la correttezza del propria posizione previdenziale corrente in quanto fornisce lo storico dei contributi che sono versati all’INPS. In questo modo, se ci sono dei periodi di contribuzione mancanti, il lavoratore potrà comunicare e segnalare all’Istituto di previdenza di effettuare tutti i controlli e tutte le verifiche del caso.

Infine, per comprendere pienamente come funziona il servizio l’INPS, nella pagina di accesso online a ‘La mia pensione futura’,  ha pubblicato il link ad un video di presentazione sul canale YouTube, e l’indagine statistica in formato PDF.

Come andare in pensione con il contratto di espansione, gli anticipi previsti per il 2021

Con il contratto di espansione, che è stato introdotto in via sperimentale con il Decreto Crescita, le aziende con almeno 100 addetti possono risolvere consensualmente il rapporto di lavoro con i dipendenti a patto di attivare uno scivolo pensionistico. Nell’ambito dei percorsi di riorganizzazione e di reindustrializzazione, infatti, le imprese possono licenziare i dipendenti a patto di garantire loro il pagamento di un’indennità che, assimilabile ad una pensione anticipata, ha una durata pari ad un massimo di 60 mesi.

Quali sono gli anticipi previsti nel 2021 per i contratti di espansione

Salvo proroghe e conseguenti modifiche a livello legislativo, attualmente lo scivolo pensionistico, grazie ai contratti di espansione, è possibile nel rispetto delle condizioni previste fino al mese di novembre del 2021. Si tratta, nello specifico, di una scadenza entro la quale l’impresa, con il dipendente prossimo o comunque vicino alla pensione, può concordare la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.

Il contratto di espansione, quindi, è una misura di esodo aziendale che, ai fini pensionistici, tutela il lavoratore con un’indennità che è sostanzialmente di accompagnamento verso la successiva maturazione dei requisiti di accesso alla pensione anticipata oppure a quella INPS di vecchiaia. Inizialmente previsto per le aziende con oltre 1.000 dipendenti, e poi con minimo 250 dipendenti, attualmente, come sopra accennato, il contratto di espansione è una misura che è accessibile anche da parte delle aziende con almeno 100 dipendenti.

Quali sono le tempistiche da rispettare per l’accesso al contratto di espansione

Nell’ambito di accordi tra i datori di lavoro e le organizzazioni sindacali, l’accesso al contratto di espansione è subordinato all‘esplicito consenso da parte del lavoratore. Inoltre il dipendente deve essere iscritto all’FPLD, ovverosia al Fondo pensioni lavoratori dipendenti, oppure ad altre forme sostitutive o esclusive dell’AGO che è l’Assicurazione Generale Obbligatoria gestita dall’INPS.

In più, per accedere ai contratti di espansione, i lavoratori devono trovarsi a livello previdenziale a non più di 60 mesi dalla maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione anticipata oppure alla prestazione INPS di vecchiaia. Rispettate tutte queste condizioni, il dipendente che accetta il contratto di espansione riceverà fino ad un massimo di 60 mesi l’indennità mensile che è pagata dall’INPS ma che è finanziata dall’azienda.

Perché i contratti di espansione sono vantaggiosi per l’azienda e per il lavoratore vicino alla pensione

Il contratto di espansione, quindi, è attualmente una delle opzioni per la flessibilità in uscita dei lavoratori da accompagnare alla pensione mentre l’impresa, a sua volta, con il consenso del dipendente può far leva su questo strumento per agevolare e per accelerare il ricambio generazionale. Con il dipendente che, stipulando il contratto di espansione, riceverà l’indennità mensile fino a quella che sarà la prima data utile per l’accesso alla pensione anticipata o di vecchiaia come sopra accennato.

L’indennità mensile riconosciuta, tra l’altro, è cumulabile pure con altri redditi da lavoro dipendente e da lavoro autonomo o da libera professione. Così come all’accompagnamento quinquennale alla pensione, grazie ai contratti di espansione, possono accedere non solo i dipendenti che sono stati assunti a tempo indeterminato, ma anche i dirigenti ed i lavoratori con il contratto di apprendistato.

Pensione in cumulo: dopo quanto decorre il TFS per i dipendenti statali?

Oggi, con questa breve guida, andremo a indagare nella questione della pensione in cumulo, per capire insieme quando decorre il TFS per i dipendenti statali. Questa ed altre annose domande nell’ articolo che segue, troveranno risposta.

Pensione in cumulo, di cosa si tratta

Partiamo col dire di cosa si parla, quando si fa riferimento alla pensione in cumulo. Una breve spiegazione per coloro che ancora non sono approdati alla tanto ambita età pensionabile, ma che già iniziano a porsi domande sul proprio futuro pensionistico. Dunque, la pensione in cumulo viene erogata in unico assegno e l’ente erogatore è, come sempre, l’Inps anche quando questo non sia uno degli enti a cui il lavoratore ha versato contributi. La pensione in cumulo riguarda la pensione di vecchiaia ma anche la pensione anticipata.

Per dirla in breve, il cumulo per la pensione è uno strumento che offre la possibilità di sommare gratuitamente la contribuzione presente in diverse casse di previdenza, per poter ottenere le pensioni di vecchiaia ordinaria, quella anticipata, quella d’inabilità e la pensione ai superstiti.

Ora, invece andiamo ad occuparci della domanda primaria della questione. Ovvero, dopo quanto decorre il TFS sulla pensione in cumulo.

TFS per i dipendenti statali: dopo quanto decorre

Occorre e necessita sapere che con il cumulo gratuito dei contributi è possibile sommare spezzoni contributivi presenti in diverse gestioni pensionistiche senza ricorrere alla ricongiunzione onerosa, tanto meno alla totalizzazione che, pur essendo gratuita, prevede il ricalcolo gratuito dell’assegno pensionistico.

Considerato ciò, va detto che per i dipendenti del settore pubblico, quindi i cosiddetti dipendenti statali, però, non sempre il cumulo può essere economicamente conveniente, siccome esso influisce negativamente sulla liquidazione del trattamento di fine servizio.

Di norma, infatti, i termini di decorrenza per l’erogazione del TFS decorrono dalla data della cessazione del servizio lavorativo.

Possiamo dire, nello specifico che l’articolo 1, comma 196 della legge 232 del 2016 prevede che per i lavoratori che accedono alla pensione utilizzando il cumulo gratuito dei contributi è previsto che il TFS venga erogato solo dopo 12 mesi dal compimento dell’età pensionabile necessaria per accedere alla pensione di vecchiaia (67 anni).

Dunque questo è quanto concerne il nocciolo della questione, ma cosa altro ancora c’è da sapere sulla pensione in cumulo?

Pensione, conviene prendersela in cumulo?

La domanda per la pensione in regime di cumulo dovrà essere presentata presso l’ente previdenziale, laddove è stata accreditata l’ultima contribuzione. A questo punto sarà quindi quest’ultimo ad avviare il procedimento nei confronti degli altri enti dove sono presenti i contributi da cumulare. Va inoltre ricordato che la richiesta va fatta poco prima del pensionamento all’ultimo ente pensionistico al quale si è iscritti, indicando gli enti previdenziali dove sono stati versati gli altri contributi.

Altri ancora, inquieti e poco rasserenati si chiedono quale sia la differenza tra cumulo e totalizzazione. E a tal proposito, ecco la risposta.

Se nel caso del cumulo si consente di sommare gratuitamente i contributi per il diritto alla pensione, differentemente con la totalizzazione, ogni quota del trattamento è calcolata secondo le regole di ciascuna gestione.

Ma, quindi quando è conveniente la pensione in cumulo?

Va subito detto per riassumete una risposta esaustiva a questa domanda che il cumulo può essere valido anche quando ci sono moltissimi anni di contributi e quindi la ricongiunzione potrebbe limitare la crescita della pensione per il raggiungimento della massima anzianità contributiva.

Pensione anticipata 2022: quali ipotesi per il nuovo anno?

Dal prossimo anno, salvo clamorose sorprese, non sarà più possibile andare in pensione con la quota 100. Ed allora, in vista del nuovo anno, quali sono le ipotesi di pensione anticipata nel 2022? Al netto di interventi legislativi da qui a fine anno, senza i vantaggi offerti dalla quota 100, ad oggi la strada percorribile per il pensionamento anticipato è quella standard rispetto, invece, ai requisiti anagrafici e contributivi per l’accesso alla pensione di vecchiaia.

Pensione anticipata nel 2022, quali sono ad oggi i requisiti?

Nel dettaglio, ad oggi i requisiti per la pensione anticipata nel 2022 coincidono con quelli che sono attualmente in vigore e, in particolare, questi non presentano dei vincoli sull’età anagrafica ma solo sull’anzianità contributiva. Ovverosia, 42 anni e 10 mesi di contributi previdenziali versati per gli uomini, e 41 anni e 10 mesi di contributi previdenziali per le donne che decidono di presentare all’INPS la domanda di accesso alla pensione anticipata.

Accesso alla pensione anticipata nel 2022 con l’opzione contributiva, ecco come

Inoltre, sempre riguardo alla pensione anticipata nel 2022, attualmente è possibile ritirarsi dal lavoro, prima della maturazione dei requisiti per la pensione di vecchiaia, grazie alla cosiddetta opzione contributiva. In tal caso servono 64 anni di età e 20 anni di contributi previdenziali versati, ma a patto che il lavoratore non abbia maturato un’anzianità contributiva prima della data dell’1 gennaio del 1996.

Come andare in pensione nel 2022 senza la quota 100 e senza i requisiti per l’anticipata

Senza la quota 100, e senza aver maturato i requisiti per accesso all’anticipata come sopra descritto, come andare in pensione nel 2022? Ad oggi non ci sono altre alternative rispetto alla maturazione dei requisiti di accesso alla pensione di vecchiaia.

Ovverosia 67 anni di età per quel che riguarda il requisito anagrafico, ed almeno 20 anni di contributi previdenziali versati. Per gli addetti alle mansioni gravose, pur tuttavia, il requisito anagrafico scende da 67 anni a 66 anni e 7 mesi di età.

In assenza del requisito di anzianità contributiva, inoltre, la pensione di vecchiaia è ottenibile con 71 anni di età e con almeno 5 anni di contributi previdenziali versati. Ma a patto che si rientri interamente nel regime di calcolo pensionistico contributivo.

Come sarà dal prossimo anno il post quota 100?

Le ipotesi sul tavolo per il nuovo anno, in materia di pensionamento anticipato, sono tante anche perché le discussioni del Governo italiano con le parti sociali continuano senza che sia ancora stata raggiunta la quadratura del cerchio.

Tra i sindacati che, non a caso, da un lato chiedono delle formule di pensionamento anticipato senza vincoli e senza penalizzazioni, e dall’altro il Governo italiano che invece, ai fini del contenimento dei costi, punta al post quota 100 introducendo, tra le ipotesi al vaglio, la quota 102. Ovverosia con 64 anni di età, con 38 anni contributivi e con delle penalizzazioni in uscita anticipata dal lavoro.

La prudenza del Governo italiano, sul superamento della quota 100, è anche dettata dai recenti rilievi da parte della Corte dei conti che, nello stimare la spesa previdenziale per il 2021 in Italia, non ha escluso per i conti pubblici l’emergere di elementi di criticità per i prossimi due anni.

Pensioni di reversibilità e indiretta ai superstiti, i limiti di reddito del 2021

Alla morte di un contribuente, lavoratore o pensionato, i familiari più stretti hanno diritto a una pensione. Si tratta di una prestazione riconosciuta dall’ordinamento giuridico al coniuge e ai figli, e subordinatamente, ai genitori del defunto di almeno 65 anni, ai fratelli e alle sorelle inabili. Non è richiesto alcun requisito contributivo particolare al defunto in quanto già titolare di una prestazione pensionistica (di vecchiaia, di anzianità o di inabilità). In tal caso la prestazione spettante ai superstiti si chiama pensione di reversibilità

Pensione di reversibilità e pensione indiretta

Nel caso in cui il defunto era ancora un lavoratore (non ancora titolare di pensione) con non meno di 780 settimane di contributi o 260 settimane di versamenti dei quali almeno 156 nei cinque anni precedenti la data della morte, ai superstiti spetta la pensione indiretta. Inoltre, il mancato raggiungimento dei requisiti contributivi del defunto presso un ulteriore fondo previdenziale presso il quale il defunto ha contribuito fa scattare la pensione supplementare indiretta, spettante al solo superstite già beneficiario di prestazione di reversibilità o indiretta. 

Reversibilità, cosa succede se il coniuge ha altri redditi?

Se il coniuge svolge attività lavorative o possiede altri redditi, sia la pensione di reversibilità che quella indiretta subiscono delle riduzioni. Normalmente, i due trattamenti sono di importo pari al 60% della pensione percepita dal defunto o di quella maturata nel caso dell’indiretta. Tuttavia, in presenza di altri redditi personali, superiori a tre volte il trattamento minimo stabilito dall’Inps, la quota della prestazione spettante al coniuge si riduce di percentuali tanto più alte quanto più elevato è il reddito percepito. 

Percentuali di riduzione pensione di reversibilità o indiretta

Le percentuali di riduzione della pensione di reversibilità o di quella indiretta in presenza di altri redditi sono stabile dal comma 41 dell’articolo 1  della legge 225 del 1995 (Legge Dini). Secondo il richiamato comma, le riduzioni sono pari al 25, al 40 e al 50% della prestazione spettante nel caso in cui il reddito del superstite sia maggiore, rispettivamente, di tre, quattro o cinque volte il trattamento minimo dell’Inps. Tale limite di trattamento è stabilito per annualmente e deve essere calcolato sulle tredici mensilità.

Riduzione della pensione di reversibilità per redditi del coniuge superiori a 20.107,62 euro

Nell’anno 2021, per non subire alcuna decurtazione della pensione di reversibilità o indiretta, è necessario che il coniuge superstite non superi il limite di reddito pari a 20.107,62 euro. Nel caso in cui il coniuge dovesse superare questa soglia annua, la riduzione della prestazione (il 60% della pensione percepita dal coniuge defunto oppure quella maturata fino al momento della sua morte) sarà del 25% per un ammontare dei redditi del beneficiario da 20.107,62 euro a 26.810,16 euro. Ciò significa che l’importo spettante al coniuge superstite non sarà del 60% ma del 45% della pensione maturata dal defunto, risultato ottenuto applicando la riduzione del 25%. 

Limite di reddito che il coniuge non deve superare per ridurre della metà la prestazione di reversibilità

Per redditi del coniuge superstite superiori, la percentuale di decurtazione della prestazione spettante come reversibilità o pensione indiretta è ulteriormente più alta. Pertanto, la presenza di redditi prodotti nell’anno da 26.810,16 euro a 33.512,70 euro, fa salire la percentuale di riduzione al 40%. Ne consegue che l’importo spettante al vedovo o alla vedova sarà pari al 36% (e non il 60%) della pensione maturata dal defunto. Il taglio della prestazione può arrivare fino al 50% per redditi annui di importo superiore a 33.512,70 euro. In tal caso, la prestazione di reversibilità corrisponde alla metà (il 30%) di quanto sarebbe spettato in assenza di redditi o per redditi entro i 20.107,62 euro. 

Pensioni di reversibilità, i redditi da prendere in considerazione

I redditi da prendere in considerazione ai fini della riduzione della prestazione di pensione di reversibilità o indiretta sono quelli assoggettati all’Irpef. Gli importi vanno presi al netto dei contributi assistenziali e previdenziali, ma rientrano ai fini del calcolo il trattamento di fine rapporto e le relative anticipazioni, i redditi della casa di abitazione e le competenze arretrate sottoposte alla tassazione separata. Tuttavia, non va considerato l’importo della pensione ai superstiti sulla quale va effettuata eventualmente la riduzione stessa. 

Il superstite deve presentare la dichiarazione reddituale per la pensione di reversibilità

Sia al momento della domanda di pensione di reversibilità o indiretta, che negli anni successivi, il coniuge deve presentare la dichiarazione reddituale che attesti i redditi percepiti nell’anno di riferimento. Dalla dichiarazione si calcola la riduzione da applicare alla prestazione del defunto. Le riduzioni scattano sempre nei casi di prestazione spettante solo al coniuge, ovvero ai genitori o ai fratelli e sorelle del defunto. Diversamente, la riduzione non scatta nel caso in cui i titolari della prestazione siano i figli, minori, studenti oppure inabili, ancorché in concorso con il coniuge del defunto.  In quest’ultimo caso, l’ordinamento giuridico permette la possibilità di cumulare per intero la prestazione del defunto con eventuali altri redditi. 

Quattordicesima mensilità e pensioni: a chi spetta?

Per molti pensionati luglio è un mese molto importante perché arriva la quattordicesima mensilità, ma a chi tocca e a quanto ammonta?

Cos’è la quattordicesima mensilità

La quattordicesima mensilità viene erogata dall’INPS, fa il suo ingresso in Italia con l’articolo 5 del  decreto legge n° 81 del 2007, da allora questa misura economica è sempre stata in vigore.  Nel 2017, con la legge di bilancio, è stata ulteriormente rafforzata andando ad ampliare la platea di coloro che ne hanno diritto. Si tratta di una somma di denaro aggiuntiva corrisposta nel mese di luglio e in alcuni casi nel mese di dicembre (ad esempio nel caso in cui i requisiti anagrafici siano maturati dopo il 31 luglio dell’anno in corso). Non tutti però hanno diritto a questo bonus, infatti occorrono requisiti anagrafici e requisiti economici.

I requisiti per ottenerla

Per quanto riguarda il requisito anagrafico, per poter ottenere la quattordicesima mensilità occorre aver compiuto 64 anni di età entro il 31 luglio dell’anno in corso. Se il requisito viene maturato successivamente gli importi sono erogati nel mese di dicembre.

Per poterne usufruire occorre essere titolari di trattamenti pensionistici INPS, si può trattare di pensione maturata nel settore pubblico o privato, di vecchiaia, anzianità, anticipata, reversibilità (superstiti), titolari di assegni di invalidità e assegni di inabilità. Non dà diritto a tale corresponsione il riconoscimento dell’invalidità civile e di tutte le altre prestazioni di natura assistenziale. Possono avere questa mensilità aggiuntiva sia  i lavoratori dipendenti, sia coloro che hanno maturato altre forme pensionistiche INPS (artigiani, commercianti).

Non bastano tali requisiti, infatti occorre anche avere requisiti reddituali. In particolare fino al 2016 avevano diritto alla quattordicesima mensilità coloro che percepivano un reddito inferiore a 1,5 volte l’assegno minimo mensile, pari a 515,58 euro. Dal 2017 come detto la platea è stata ampliata e quindi ne hanno diritto coloro che hanno un reddito personale non superiore a due volte il minimo previsto per l’assegno sociale, per il 2021 la soglia è di 13.405 euro annui. Si tratta sempre di reddito personale quindi non deve essere cumulato con quello del coniuge.

Come ottenere la quattordicesima mensilità?

Per avere la quattordicesima mensilità non occorre fare nulla, infatti tale prestazione viene riconosciuta automaticamente dall’INPS tenendo come riferimento i redditi percepiti nell’anno antecedente. Un’altra domanda che molti si pongono è quanto viene effettivamente erogato. Anche in questo caso è bene fare delle precisazioni, infatti dipende dagli anni di contributi versati e dal reddito.

Ci sono due fasce di reddito.

La prima è di 10.053,71 euro. Per coloro che rientrano in tale fascia se hanno versato:

  • fino a 15 anni di contributi, l’importo è di 436,80 euro
  • dai 15 anni ai 25 anni di contributi, l’importo è di 546 euro;
  • oltre 25 anni di contributi si percepisce un bonus di 655,20 euro

La seconda fascia include coloro che hanno un reddito in un range tra 10.053 euro e 13.405,08 euro, in questo caso i contribuenti se hanno versato:

  • fino a 15 anni di contributi percepiscono l’importo di 366 euro;
  • da 15 anni a 25 anni di contributi percepiscono 420 euro;
  • oltre i 25 anni di contributi 504 euro.

I requisiti visti sono per i pensionati da lavoro dipendente, nel caso in cui si tratti di lavoratori autonomi  cambiano esclusivamente le fasce contributive che sono la prima fino a 18, la seconda da 18 anni a 28 anni e la terza oltre 28 anni.

 

Ultime precisazioni: cosa fare se non si riceve la quattordicesima?

Si è detto in precedenza che il diritto alla quattordicesima mensilità viene riconosciuto automaticamente dall’INPS, può però capitare che vi siano dei disguidi. Di conseguenza se si rientra tra coloro che avrebbero diritto ad ottenere tale somma di denaro, ma la stessa non viene corrisposta, è possibile richiedere assistenza a un CAF o patronato, oppure compilando online la domanda presente sul sito dell’INPS. Per accedere occorre avere lo SPID oppure il PIN.

Infine, è bene ricordare che la quattordicesima mensilità non concorre a determinare la base imponibile IRPEF quindi è esentasse.

Pensione, cosa fare in caso di morte?

La morte di una persona cara, oltre a rappresentare un momento critico e doloroso, impone anche di affrontare questioni pratiche, fiscali e legali. In merito alla pensione, se il defunto era titolare in vita di una prestazione previdenziale Inps, la legge prevede che la pensione non venga più erogata automaticamente. Ciò avviene non appena gli eredi o chi è delegato alla riscossione, comunicano l’avvenuto decesso all’Istituto previdenziale. In generale, questa comunicazione deve avvenire entro le 48 ore successive al decesso.

Comunicazione all’Inps avvenuto decesso del pensionato

Proprio sulla morte del pensionato, è previsto l’invio telematico della comunicazione del decesso, come stabilisce l’articolo 1, comma 303 e seguenti, della legge numero 190 del 2014, ovvero la legge di Stabilità 2015. Le novità ricorrono a partire dal 1° gennaio 2015 e riguardano proprio il modo di comunicare all’Inps l’avvenuta morte del titolare della pensione. Le novità introdotte dalla norma hanno ripercussioni sulle modalità di pagamento dell’Istituto previdenziale delle prestazioni. Infatti, come spiega la legge di Stabilità 2015, “il medico necroscopo trasmette all’Inps, entro 48 ore dall’evento, il certificato di accertamento del decesso”.

Invio telematico della comunicazione del decesso: chi deve farla

La comunicazione avviene in via telematica seguendo le normali procedure online già utilizzate per gli altri servizi Inps. In particolare, i soggetti che sono autorizzati, possono utilizzare il pin on line del defunto oppure rivolgersi a un patronato autorizzato per adempiere a tutte le pratiche burocratiche necessarie. Gli eredi potranno anche predisporre un’autocertificazione di decesso per non dover attendere che il comune di residenza del defunto rilasci il certificato di morte. La mancata comunicazione del decesso del titolare di pensione e il continuare a riscuotere la prestazione previdenziale rappresenta un reato punibile per legge. A tal proposito, la comunicazione all’Inps segue quanto previsto dall’articolo 46 del decreto legge numero 269 del 30 settembre 2003, poi convertito nella legge numero 326 del 24 novembre 2003.

Pensione accreditata dopo la morte dell’avente diritto: pagamento con riserva, cosa significa?

Secondo quanto prevede il comma 304 della legge 190 del 2014, le prestazioni in denaro versate dall’Inps nel periodo successivo alla morte dell’avente diritto su un conto corrente bancario o postale, sono pagate con riserva. Ciò significa che la banca o la società Poste Italiane Spa che abbiano ricevuto le somme erogate, sono tenute alla restituzione all’Istituto previdenziale nel caso in cui tali somme venissero accreditate senza che il beneficiario ne avesse diritto.

Si deve restituire la pensione dopo la morte del beneficiario?

Più nel dettaglio, se accade di ricevere la pensione dopo la morte dell’avente diritto perché l’Inps aveva provveduto a emetterla prima del decesso, la pensione va restituita. Dunque, generalmente la somma va restituita se il decesso avviene prima dell’accredito. Se, invece, il decesso avviene a metà di una mensilità, l’Istituto previdenziale deve erogare la prestazione pensionistica solo parzialmente, ovvero per la parte del mese in cui l’avente diritto era ancora in vita. In generale, se la morte del pensionato avviene in data posteriore all’accredito, la prestazione pensionistica non dovrà essere restituita e, contestualmente, l’Inps non procederà allo storno.

Obbligo di restituzione di somme accreditate sul conto corrente dopo la morte del pensionato

Se dovessero esserci accrediti non dovuti di pensione su conto corretto o sul libretto postale dopo la morte del titolare della prestazione pensionistica, gli eredi devono darne comunicazione alla posta o alla banca titolare del conto. Saranno gli stessi eredi a restituirla all’Inps. A tal proposito, specifica il comma 304, l’obbligo di restituzione sussiste nei limiti della disponibilità esistente sul conto corrente. Inoltre, la banca o la posta non può utilizzare gli importi accreditati e non dovuti per l’estinzione dei propri crediti.

Reintegro a favore dell’Inps per somme ricevute o a disposizione nel caso di morte del pensionato

Sempre secondo quanto prevede la legge di Stabilità 2015 al comma 304, nei casi in cui nei periodi precedenti i soggetti abbiano ricevuto direttamente le prestazioni in contanti per delega sono obbligati a reintegrare le somme a favore dell’Inps. Lo stesso obbligo sussiste quando gli stessi soggetti abbiano avuto disponibilità sul conto corrente postale o bancario, o ancora abbiano svolto o autorizzato operazioni di pagamento con addebito sul conto corrente del disponente. L’istituto bancario o postale che rifiutino la richiesta di reintegro per impossibilità sopravvenuta o per qualunque altro motivo sono tenuti a darne comunicazione all’Inps. Nella comunicazione devono essere rese note le generalità del destinatario o del disponente e l’eventuale nuovo titolare del conto corrente.

Indennità di accompagnamento e pensione dopo la morte dell’avente diritto

Diverse è il caso delle indennità di accompagnamento post morte. Può accadere, infatti, che un familiare muoia prima di aver potuto incassare una pensione o una prestazione di assistenza, quale può essere l’accompagnamento. In questo caso, gli eredi hanno diritto a fare richiesta degli arretrati non riscossi, anche se non sono beneficiari di reversibilità. La legge sancisce, infatti, che gli arretrati spettanti al defunto, senza tener conto del tipo di prestazione, debbano essere liquidati dall’Istituto previdenziale agli eredi. La liquidazione avviene in proporzione alla quota di eredita spettante da ciascuno.

Come vengono pagati gli arretrati non riscossi per assegno di accompagnamento agli eredi?

In merito, la legge prevede che siano tutti gli eredi a percepire le indennità di accompagnamento eventualmente non riscosse dall’avente diritto e non solo da chi si sia fatto carico dell’assistenza dell’invalido. Gli eredi dell’invalido hanno diritto, pertanto, alle quote della pensione di invalidità e delle indennità di accompagnamento maturate dalla presentazione della domanda fino al giorno della morte dell’invalido. Sempre che la morte sia sopraggiunta in epoca anteriore all’accertamento dell’inabilità effettuata dalla commissione provinciale di competenza.

Lavorare dopo la pensione: è possibile? Alcune precisazioni.

Lavorare dopo la pensione o se sia vietato è una domanda che spesso capita di fare. Essendo il sistema pensionistico vario ed eterogeneo, non esiste una risposta univoca.

Lavorare dopo la pensione: è possibile e quali lavori fare?

Molti sognano la tanto agoniata pensione per potersi riposare un pò. O magari qualcuno pensa di poter comunciare a viaggiare ed andare lontano. Altri invece non la pensano per nulla così. Nasce così la classica domanda: si può lavorare dopo  la pensione? Si può lavorare dopo la pensione, ma ci sono dei limiti da dover rispettare e delle precisazioni da fare. Essendo che vi sono diversi trattamenti contributivi, viene da se che ci sono diverse limitazioni.A questo punto è bene capire per singoli casi, se si può o non si può andare a lavorare dopo la pensione. Anche se nella maggior parte dei trattamenti pensionistici sono previsti alcuni lavori possibili. Tra questi rientrano:

  • prestazione occasionale;
  • part-time;
  • lavori a termine;
  • cariche pubbliche elettive;
  • attività d’impresa.

Lavorare dopo la pensione: è possibile con quella anticipata contributiva?

Dal 2009 non esiste alcun vincolo cumulativo tra il reddito derivante dalla pensione e quello proveniente da attività lavorativa. Questo principio vale solo per i trattamenti previdenziali diretti. In altre parole rientrano in questa categoria la pensione anticipata di vecchiaia e quella contributiva. Se il contribuente-pensionato gode di questo regime, ha la possibilità di lavoro, purchè sussista uno dei seguenti elementi:

  • almeno 35 anni di contributi e 61 di età;
  • ha alle spalle almeno 40 anni di contributi versati;
  • ha almeno 65 anni di età se uomo;
  • almeno 60 anni di età se donna.

Inoltre per chi va in pensione con il sistema contributivo prima dei 63 anni ed chi inizia a lavorare come dipendente, perde il diritto all’assegno previdenziale. Se invece inizia un’attività lavorativa autonoma perde il 50% del valore dell’assegno.

Cosa succede in caso di pensione di invalidità?

La pensione viene soppressa quando il lavoratore (già pensionato) riceve un guadagno che supera di tre volte l’ammontare della pensione minima, quindi superiore a 1.539 euro. Invece per chi lavora, ma non ha un reddito come dipendente inferiore a questo limite non viene soppressa. Però si applica una trattenuta del 50% sulla differenza tra l’importo lordo della prestazione e la pensione minima INPS. Invece, se il lavoro è di tipo autonomo, la ritenuta è pari al 30% calcolabile allo stesso modo. Infine se si è possessori di un assegno di invalidità, continuino a fare l’attività che facevano prima del pensionamento, perdono:

  • il 25% della pensione se il reddito è superiore a 2.052,04 euro;
  • il 505 se il reddito è inferiore a 2.565,05 euro.

Opzione donna, i limiti ed i vincoli

L’opzione donna permette alla lavoratrici di poter andare in pensione al verificarsi di alcuni requisiti:

  • per le lavoratrici autonome aver raggiunto 59 anni alla data del 31 dicembre 2019 e possedere 35 anni contributivi;
  • per le lavoratrici dipendenti aver raggiunto 58 anni alla data del 31 dicembre 2019 ed avere 35 anni di contributi  versati.

Come abbiamo detto il divieto di cumulo reddituale non interessa l’opzione donna. Per cui la pensione con questo sistema è cumulabile con redditi da lavoro. E questo consente alla lavoratrice, dopo la decorrenza del trattamento di riprendere l’attività lavorativa senza riduzioni sull’assegno. Pertanto si può tranquillamente continuare a lavorare sia nel settore privato che pubblico.

Lavorare dopo la pensione: anche in caso di vecchiaia?

Non esistono limiti di cumulo tra la pensione ed il lavoro. Pertanto, possiamo riassume così le varie pensioni:

  • ordinaria (con 67 anni di età e 20 anni di contributi) si applica il calcolo contributivo, si deve superare la soglia minima di trattamento pari ad almeno 1,5 volte l’assegno sociale);
  • anticipata (56 anni per la donne e 61 per gli uomini) la pensione di vecchiaia è destinata a lavoratori dipendenti del settore privato con il riconoscimento di un’invalidità dell’80%;
  • contributiva (71 anni di età e 5 di contributi)
  • regime di totalizzazione con 66 anni, 20 di contributi e 18 mesi di finestra.

Cosa succede in caso di Ape sociale?

Se si è percettori di assegno relativa all’Ape sociale è possibile lavorare a patto che non vengano superati:

  • 4800 euro lordi l’anno di redditi derivanti da lavoro autonomo;
  • 8 mila euro lordi per i redditi derivanti da lavoro dipendente.

Si ricorda che l’Ape sociale è un sostegno al reddito fino all’accompagnamento all’età pensionabile. Tuttavia, l’importo si calcola sulla base del futuro trattamento pensionistico. Il limite massimo previsto è di 1500 euro lordi per 12 mensilità. E comunque Vige la tassazione ordinaria.

E’ possibile lavorare con la pensione quota 100?

Con la quota 100 viene reintrodotto il principio di divieto di cumulo nel periodo che intercorre tra la decorrenza della pensione e il raggiungimento del requisito anagrafico richiesto per la pensione di vecchiaiaQuindi l’assegno viene sospeso:

  • fino al raggiungimento dei requisiti per la pensione di vecchiaia;
  • fino al termine dell’attività lavorativa.

La sola eccezione viene fatta però per i lavori autonomi occasionali, che non comportano la sospensione, se hanno un limite massimo di ricavi pari a 5 mila euro lordi l’anno.

Si può lavorare in caso di pensione di reversibilità ed inabilità?

Anche in questo caso è possibile lavorare ma con delle riduzione. Infatti, l’assegno sarà ridotto del:

  • 25% se il reddito supera 3 volte il trattamento minimo;
  • 40% se lo supera di 4 volte;
  • 50% se lo supera di 5 volte.

Nel caso di inabilità specifica le riduzioni sono applicabili se si supera la soglia minima. In altre parole le riduzioni sono pari:

  • al 50% della quota eccedente, se il reddito percepito è di lavoro dipendente o assimilato;
  • al 30% della quota eccedente, se il reddito è di lavoro autonomo.

Solo se si tratta di inabilità da lavoro non si può lavorare in nessun caso. Non è nemmeno consentita l’iscrizione ad albi, elenchi di professionisti o affini. Diverso è quando si parta di inabilità civile. Infatti, è possibile lavorare ma con le seguenti restrizioni:

  • il reddito annuo percepito non deve superare 4923 euro;
  • occorre essere disoccupati.

Questo è possibile perchè l’invalidità civile non è da configurarsi come pensione. Ma come una prestazione di assistenza erogata per gli invalidi in caso di bisogno economico. Infine se si è possessori di un’invalidità pari al 100% si può lavorare ma senza superare 16.982,49 euro annui di reddito complessivo per il 2020. Pertanto a conclusione di può affermare che prima di tornare a lavoro è meglio calcolarne la convenienza.