Pensione e metodi di calcolo: guida al sistema contributivo

Le pensioni dei lavoratori che hanno iniziato a lavorare e a versare contributi a partire dal 1° gennaio del 1996 sono calcolate con il metodo contributivo puro. Rispetto al meccanismo retributivo e al misto, si tratta pertanto dei lavoratori che non hanno alcuna anzianità contributiva fino al 31 dicembre del 1995. E, rispetto agli altri due sistemi previdenziali, per il calcolo della pensione con il metodo contributivo puro si prendono le contribuzioni versate e accreditate nel corso di tutta la vita lavorativa.

Pensioni con il metodo contributivo più basse del retributivo

Di conseguenza, le pensioni calcolate con il metodo contributivo sono meno generose rispetto a quelle calcolate con il retributivo. Anche il sistema misto è meno vantaggioso rispetto al retributivo proprio per la quota di contributi (la C) rientrante nel metodo di calcolo del contributivo. Essendo, per l’appunto, “mista”, tuttavia beneficia dei vantaggi del retributivo nel calcolo delle restanti quote, la A e la B. La caratteristica del sistema contributivo è pertanto che questo meccanismo fotografa esattamente quanto versato durante gli anni lavorativi.

Il montante contributivo

Per i lavoratori dipendenti, l’importo del montante dei contributi si calcola con il 33% delle retribuzioni ottenute. Per gli autonomi e le partite Iva, invece, la percentuale è più bassa. Infatti, i professionisti non assicurati presso altre forme pensionistiche versano il 25,98% nel 2021; i professionisti o collaboratori titolari di pensione o altra tutela pensionistica obbligatoria il 24%. Pagano più del 33% i collaboratori e figure assimilate senza altre forme pensionistiche obbligatorie e con contribuzione aggiuntiva Dis Coll (34,23%) e gli stessi senza contribuzione aggiuntiva Dis Coll (33,72%).

La rivalutazione dei contributi per il calcolo delle pensioni

I contributi versati annualmente durante la vita lavorativa vanno a formare il montante contributivo. Tale montante va rivalutato sulla base del tasso annuo di capitalizzazione derivante dalla variazione media sui 5 anni del Prodotto interno lordo (Pil) nominale, che l’Istat provvede a calcolare, prendendo a riferimento il quinquennio precedente l’anno da rivalutare. Fanno eccezione sia i contributi relativi alle retribuzioni percepite nell’anno di decorrenza della pensione che quelli dell’anno precedente: entrambi gli anni non vengono rivalutati.

Come si calcolano le pensioni con il metodo contributivo?

Per il calcolo della pensione, dunque, il montante contributivo ottenuto, opportunamente rivalutato secondo le regole appena esposte, va moltiplicato per i coefficienti di trasformazione. Si tratta di indici, aggiornati ogni biennio e che dipendono dall’età di uscita per andare in pensione e dalla speranza di vita, che trasformano il montante contributivo (la cosiddetta “quota C“) in pensione.

I coefficienti di trasformazioni per il calcolo della pensione

I coefficienti di trasformazione, dunque, sono indici che determinano quale sarà l’importo della pensione in base ai contributi versati. Detti coefficienti variano a seconda dell’età di uscita per andare in pensione: più è bassa l’età (ovvero più si anticipa rispetto alla pensione di vecchiaia dei 67 anni) e più sono alti. Di conseguenza, il sistema dei coefficienti di trasformazione penalizza i lavoratori che anticipano l’uscita sia per i minori anni di contributi versati che per l’applicazione di indici inferiori. Per entrambi i motivi l’importo della pensione, a parità di anni di contributi versati, risulta inferiore. Viceversa, più il lavoratore rimanda l’uscita per la pensione e maggiore risulta essere l’indice mediante il quale si moltiplica il suo montante.

Il massimale del sistema contributivo

I lavoratori ricadenti nel sistema contributivo puro versano i contributi fino a un importo massimo delle retribuzioni. Per il 2021 il massimale è fissato a 103.055 euro. L’importo rappresenta un tetto al versamento dei contributi per le retribuzioni che superano i 103.055 euro. Chi percepisce retribuzioni annue più alte, dunque, non paga i contributi sulla parte eccedente. Il massimale contributivo, tuttavia, non si applica per i lavoratori che abbiano contributi entro il 31 dicembre 1995.

Assegno di pensione con il sistema contributivo

I lavoratori appartenenti al sistema contributivo puro accedono alla pensione con gli stessi requisiti previsti per la generalità dei lavoratori. Per la pensione di vecchiaia è necessario raggiungere l’età di 67 anni e aver versato contributi per almeno 20 anni. Ulteriore requisito per andare in pensione di vecchiaia è proprio l’importo della pensione. Infatti, la prima rata pensionistica deve essere di almeno 1,5 volte superiore al valore dell’assegno sociale.

Cosa succede se non si raggiungono i requisiti per la pensione di vecchiaia nel contributivo?

Se il contribuente di 67 anni in procinto di andare in pensione di vecchiaia non raggiunge l’importo soglia sopra indicato (dunque la prima rata risulta più bassa di 1,5 volte l’assegno sociale) oppure gli anni di contributi sono inferiori ai 20 richiesti, l’assegno pensionistico slitta. In particolare, occorre attendere la pensione di vecchiaia a 71 anni di età, in presenza di almeno 5 anni di contributi effettivi.

Pensioni con il contributivo, requisiti di uscita

I requisiti anagrafici della pensione di vecchiaia e quello dei 71 anni di età sono soggetti a variazione. In particolare, sull’età incide la speranza di vita calcolata sulla popolazione dai 65 anni in su. Il prossimo adeguamento avverrà nel 2023 e sarà valido fino al 31 dicembre 2024.

La pensione di vecchiaia del contributivo si può adeguare al minimo?

Ulteriore differenza della pensione che spetta con il sistema contributivo puro riguarda il trattamento minimo. Infatti, la pensione calcolata con il metodo contributivo non può essere adeguata al trattamento minimo come avviene per altri meccanismi previdenziali. Pertanto, la rata di pensione di un lavoratore del contributivo corrisponde esattamente all’importo risultante dal calcolo illustrato in precedenza.

Pensione anticipata nel sistema contributivo

Per i lavoratori appartenenti al sistema contributivo puro c’è una specifica formula di pensione anticipata. Infatti è prevista l’uscita a 64 anni di età unitamente a 20 anni di contributi rispetto ai 67 richiesti per la pensione di vecchiaia. La condizione essenziale per agganciare questa formula anticipata di uscita è che la prima rata di pensione deve essere almeno 2,8 volto superiore all’importo dell’assegno sociale.

Pensione e metodi di calcolo: guida al sistema (misto) retributivo

Nel passato il sistema retributivo basava il calcolo della pensione sulle retribuzioni percepite dai contribuenti negli ultimi anni di lavoro. Il che significava ottenere pensioni che si avvicinavano agli stipendi e alle retribuzioni dei 5 o, al massimo, 10 anni prima dell’uscita da lavoro. Il sistema retributivo puro non è più in vigore dal 2012 perché, per gli anni di lavoro da quella data in poi, il calcolo della pensione si basa solo sul meccanismo contributivo.

Chi sono i lavoratori del sistema previdenziale contributivo o misto?

I lavoratori che hanno versato 18 anni di contributi entro il 31 dicembre 1995 rientrano nel sistema di calcolo delle pensioni “retributivo” per le anzianità maturate entro il 31 dicembre 2011. I versamenti devono essere interamente posseduti entro la fine del 1995. Non sono previsti, infatti, arrotondamenti per la maturazione dei requisiti minimi.

Quali sono i sistemi previdenziali per il calcolo delle pensioni?

Dal versamento dei contributi utili alle pensioni dipende il ricadere a uno dei meccanismi previdenziali. Oltre al sistema retributivo o misto, i lavoratori che hanno iniziato a lavorare a partire dal 1° gennaio 1996 ricadono nel sistema contributivo puro. Appartenere a uno o a un altro sistema significa vedersi calcolare la futura pensione con meccanismi diversi.

Le tre quote delle pensioni retributive

Il sistema retributivo di calcolo della pensione ha tre quote. La prima, detta “quota A“, riguarda le anzianità contributive maturate entro il 31 dicembre 1992. Per il calcolo della pensione dei lavoratori del settore privato si prendono le retribuzioni degli ultimi 5 anni, rivalutate da specifici coefficienti. Per i dipendenti del pubblico impiego, invece, la quota A è rappresentata dalla retribuzione annua dell’ultimo giorno di servizio. Diversamente, per i contribuenti iscritti alla gestione speciale dei lavoratori autonomi, e dunque i commercianti, gli artigiani, i coltivatori diretti mezzadri, le retribuzioni di riferimento sono quelle degli ultimi 10 anni.

Pensioni retributive: cos’è la quota B?

La quota B per il calcolo delle pensioni retributive riguarda le anzianità maturate dal 1993 al 2011. In questo caso, vengono prese a riferimento le retribuzioni degli ultimi 10 anni sia per i dipendenti privato che per quelli del pubblico impiego. Per i lavoratori autonomi, invece, le retribuzioni di riferimento sono quelle dei precedenti 15 anni.

Quota C delle pensioni per contributi versati dal 2012

Infine, in conseguenza della riforma delle pensioni di Elsa Fornero, la quota C delle pensioni si applica alle anzianità maturate a partire dal 2012. Per i versamenti di questi anni si applica il sistema contributivo. Ciò significa che non fa più testo il calcolo basato sulle retribuzioni degli anni precedenti, ma il montante contributivo. E, pertanto, la quota di pensione si calcola sulla base di specifici coefficienti calcolati in base all’età posseduta dal contribuente nel momento in cui accede alla pensione.

Chi sono i lavoratori ricadenti nel sistema delle pensioni misto?

Oltre al retributivo, i lavoratori più prossimi alla pensione sono quelli che ricadono nel sistema misto. Rispetto ai contribuenti del retributivo, hanno un’anzianità di versamenti inferiore ai 18 anni maturata entro il 31 dicembre 1995. Anche per i lavoratori del misto si applica il calcolo della pensione sulla base di 3 quote.

Le tre quote per il calcolo della pensione dei lavoratori del sistema misto

Nella quota A del sistema pensionistico misto il calcolo si riferisce alle anzianità contributive maturate entro il 31 dicembre 1992 con la media delle retribuzioni dei precedenti 5 anni. Per i dipendenti del pubblico impiego si prende in considerazione la retribuzione annua dell’ultimo giorno di servizio. Per i lavoratori autonomi la media di riferimento è quella degli ultimi 10 anni di retribuzioni.

Pensioni, la quota B nel sistema misto

Nel calcolo della pensione dei lavoratori del sistema misto, la quota B relativa all’anzianità contributive maturata fino al 31 dicembre 1995, il periodo di tempo di riferimento si allarga notevolmente. Infatti, per i dipendenti del settore privato le retribuzioni da considerare sono quelle percepite dal 1988 o comunque precedenti per il completamento del periodo di riferimento. Tale periodo corrisponde all’arco di tempo in cui le retribuzioni vengono prese in esame per il calcolo della pensione.

Quota B per i dipendenti del settore pubblico e autonomi nel sistema misto delle pensioni

Più avvantaggiati in questo calcolo sono i lavoratori del pubblico impiego per i quali il calcolo della quota B del sistema previdenziale misto prende in esame le retribuzioni percepite dal 1993 in avanti. Si tratta dello stesso anno applicato ai lavoratori autonomi per i quali il calcolo della quota B del misto avviene sui redditi dichiarati dal 1993 in poi, ampliati di un ulteriore arco temporale di massimo 10 anni, ovvero dal 1983.

Quota C del calcolo pensioni per i lavoratori del misto

La quota C che per i lavoratori del sistema retributivo puro parte dal 2012, per i lavoratori del sistema previdenziale misto parte dal 1° gennaio 1996. Ciò significa che ai lavoratori con meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995, la pensione viene calcolata con il retributivo fino alla fine del 1995 e con il contributivo dal 1° gennaio 1996.

Quando le pensioni vengono calcolate con la quota C?

La quota C sia del sistema retributivo (per le anzianità maturate fino al 31 dicembre 2011) che per quelle del misto (anzianità contributiva fino a tutto il 1995) viene sostituita dal calcolo contributiva rispettivamente a partire dal 2012 e del 1996. Ciò comporta, dunque, regole pensionistiche diverse basate non più sulle retribuzioni, ma sui contributi.

Come si calcola la quota C con il sistema contributivo?

Il calcolo con il metodo contributivo comporta, per un lavoratore dipendente, l’applicazione del 33% della retribuzione imponibile annua percepita, compresa la tredicesima, e la si rivaluta annualmente sulla base della media di cinque anni del Prodotto interno lordo. Nel momento in cui il lavoratore va in pensione, il montante dei contributi rivalutati diventano assegno di pensione attraverso i coefficienti di trasformazione. Questi ultimi sono indici calcolati sull’età di uscita da lavoro e sulla speranza di vita a partire dai 65 anni.

Pensione integrativa, a chi conviene aderire alla previdenza complementare e quando

A chi conviene aderire alla previdenza integrativa dei fondi pensione e in quale momento? Sono questi due tra i maggiori quesiti che si pongono i lavoratori nel momento in cui devono decidere se affidarsi a una futura pensione “di scorta” e a partire da quale età.

Perché si ricorre alla pensione integrativa?

Il ricorso alla pensione integrativa è dettato innanzitutto dalla motivazione di mantenere nel tempo una mensilità adeguata alle proprie esigenze e al tenore di vita condotto. Infatti, quando un contribuente va in pensione da lavoro, l’assegno mensile potrebbe non soddisfare le proprie necessità. Da qui l’esigenza di integrare la propria pensione futura con un assegno maturato sulla base dell’adesione volontaria ai fondi pensione.

Con l’aumento della speranza di vita le pensioni sono spalmate su più anni

La tendenza del ricorso alla previdenza complementare è tanto più ampia quanto maggiori sono i dubbi sulle pensioni da lavoro. Le pensioni pubbliche, infatti, continuano a subire nel tempo aumenti dei requisiti di uscita e diminuzione della rata mensile. A partire dagli anni ’90 il progressivo aumento della speranza di vita, e dunque l’incremento della vita media a partire dai 65 anni di età, ha avuto come conseguenza  l’allungamento del periodo in cui si beneficia della pensione, oltre a un maggior numero di anni di contributi da versare durante la vita lavorativa.

Previdenza integrativa: adesione perché le pensioni sono sempre più basse

Inoltre, proprio l’allungamento della vita da pensionato unito al forte rallentamento della crescita economica (con conseguente riduzione del peso dei contributi versati durante la vita lavorativa), ha imposto dei cambiamenti ai meccanismi previdenziali italiani. Il risultato ottenuto è quello che, progressivamente, si esce a un’età sempre più alta con un mensile di pensione sempre più basso a causa di coefficienti di trasformazione tendenzialmente al ribasso.

Contribuenti e futuro tenore di vita: l’integrazione dei fondi pensione

Con il superamento del sistema previdenziale retributivo, inoltre, le rivalutazioni delle future pensioni non saranno più legate, in alcun modo, all’aumento delle retribuzioni. In questo scenario di progressivo aumento della speranza di vita e di riduzione dell’assegno di pensione, il contribuente preoccupato del proprio tenore di vita futuro rappresenta il profilo più sensibile alle possibilità offerte dalla previdenza complementare.

Come sapere di quanto sarà l’importo mensile della pensione?

Il primo passaggio da compiere è conoscere quale sarà l’importo della propria pensione nel momento di uscita dal mondo del lavoro. L’Inps, ma anche altri siti specializzati in pensioni, ha creato una piattaforma (la Busta arancione) all’interno del proprio portale istituzionale per avere una stima di quello che sarà il futuro assegno previdenziale. Oltre all’importo prospettato per la pensione, dalla simulazione si può ricavare anche il tasso di sostituzione della previdenza obbligatoria.

Il tasso di sostituzione per capire se è necessario ricorrere alle pensioni integrative

Il tasso di sostituzione esprime il rapporto tra la prima rata di pensione e l’ultimo stipendio (o il reddito per i lavoratori autonomi). Pertanto, è l’indicatore che maggiormente descrive quale sarà la futura pensione rispetto allo stipendio in termini percentuali. Ad esempio, a fronte di uno stipendio attuale di 1200 euro e con un tasso di sostituzione pari al 70%, la futura pensione sarà di 840 euro.

Quanti dei contributi versati torneranno indietro sotto forma di pensione?

La simulazione Inps che consente di avere una stima della futura pensione (da ripete periodicamente per i cambiamenti che intervengono nella vita lavorativa) potrebbe rappresentare un primo indizio per il ricorso alla previdenza complementare. Quanto ritorna indietro dei contributi che si sono versati durante la vita lavorativa? Chi dalla simulazione ottiene un  risultato non soddisfacente, può giocarsi la carta della previdenza complementare. L’obiettivo è quello di avere un’alternativa previdenziale per poter beneficiare, in futuro, di una rendita che vada a integrare la pensione pubblica.

Fondo pensione: in che modo aderire?

Non è necessario che la rata mensile dei contributi versati a un fondo pensione sia elevata. Invece, è consigliabile spalmare la contribuzione complementare su un numero più ampio possibile di anni. Anche un importo non elevato può rappresentare, per un numero elevato di anni, una formula di previdenza e di risparmio soddisfacente. Inoltre, se si sceglie di aderire a un fondo pensione in giovane età è possibile aderire a fondi più rischiosi, ma con un rendimento più elevato. Diversamente, più si è vicini all’uscita per la pensione e maggiormente si vira verso fondi più sicuri e con rendimenti meno elevati.

Quali sono i vantaggi dell’adesione al fondo pensione in età giovanile?

Un aspetto del “quando aderire” è rappresentato dai vantaggi riservati ai più giovani. Infatti, meno elevata è l’età di partecipazione al fondo pensione e maggiori sono i benefici della previdenza complementare. Sono almeno quattro i vantaggi che possono riscontrarsi in un’adesione di lunga data:

  • la rivalutazione assicurata dai fondi con i connessi vantaggi della deducibilità fiscale;
  • La deducibilità fiscale per i versamenti previsti periodicamente per la partecipazione al fondo;
  • la possibilità di accedere a quanto già versato nel caso in cui si dovessero presentare situazioni di difficoltà;
  • il reintegro del capitale nei periodi più favorevoli.

Quanto si può avere in più di pensione con la previdenza complementare?

Con la stima della propria futura pensione è più facile scegliere, tra i fondi pensione, quello che potrà garantire l’integrazione utile a mantenere un tenore di vita adeguato. Per conoscere di quanto si può integrare la pensione con la previdenza complementare esistono sul web numerosi comparatori. Questi strumenti servono a mettere a confronto tra loro le diverse formule di pensione integrativa. L’attenzione va posta sulla soluzione che massimizza il rapporto dei costi di accesso ai rendimenti.

Riforma pensioni, fisco e reddito di cittadinanza: cosa potrebbe cambiare?

Le forze politiche che compongono l’attuale ampia maggioranza che sostiene il Governo Draghi, spesso assumono posizioni diverse sui punti cardine. A volte, nemmeno gli alleati di coalizione riescono a concordare, tanto da confondere gli italiani su chi sostenga davvero l’esecutivo e chi no.

Tra i punti chiave dell’agenda di governo non poteva mancare la riforma del fisco, non seconda alla questione sulle misure anti-delocalizzazione e alla legge annuale sulla concorrenza. Intanto, le scadenze si avvicinano: a metà ottobre il varo per la legge di bilancio, mentre l’aggiornamento del Def è ormai questione di qualche altra settimana. Referendum sulla Giustizia, il caso delle cartelle fiscali, l’alleggerimento del cuneo fiscale, l’annoso Reddito di Cittadinanza e l’infinita querelle sulla Riforma Pensioni che non arriva e che rischia di farci tornare ai tempi della Legge Fornero con lo scalone di fine anno e tanti saluti a Quota 100.

La campagna elettorale continua, il semestre bianco impedisce lo scioglimento delle Camere, ma le elezioni amministrative e il voto che coinvolge le principali città italiane, ricordiamo che agli inizi di ottobre si va alle urne anche a Milano, Roma, Napoli, Torino e Bologna per scegliere il sindaco. Come se non bastasse, siamo in piena discussione sull’obbligo vaccinale, sul green pass alla Camera e su Matteo Salvini che ritira gli emendamenti per non fare cadere il Governo che sostiene, per poi votare contro il green pass. Lo stesso leader leghista Matteo Salvini predica soluzioni comuni ma razzola male.

Ma in tutto questo caos, chi ci perde? Noi cittadini e contribuenti naturalmente, a Palazzo si chiacchiera senza trovare accordo, mentre a casa, sono in molti a preoccuparsi della vita reale e delle prospettive invisibili.

Il primo passo è la Manovra

Le riunioni preliminari sono cominciate sulla Manovra, ma l’istruttoria tecnica latita. C’è bisogno di finanziare una Manovra da almeno 20 miliardi ma al contempo si vogliono tagliare le spese, nemmeno troppo per evitare l’aumento esasperato del debito. Ma gli italiani, già danneggiati economicamente e forse psicologicamente dall’emergenza coronavirus, aspettano risposte, o meglio soluzioni ai problemi. Se è vero che l’economia è ripartita forte, c’è anche da dire che si tratta di un rimbalzo preventivato dopo un down così forte e prolungato.

Ci sono almeno venti miliardi da recuperare per mettere in atto la Manovra, rifinanziando gli ammortizzatori sociali, la Naspi, il dopo Quota 100, le misure per la crescita, più fondi per la sanità e le spese cosiddette indifferibili. E le correzioni sul Reddito di Cittadinanza dove le mettiamo, il taglio del cuneo e le probabili restrizioni da applicare al Superbonus 110% da prorogare al 2023?

La Riforma del Fisco

Attesa a luglio, siamo arrivati a settembre 2021, ma la delega sulla riforma fiscale non si vede ancora. La maggioranza (tanto per cambiare) è spesso divisa, una dote per i diciottenni proposta dal Pd da ricavare sui più ricchi sulla flat tax si cui insiste la Lega. Sembra più fattibile la cancellazione dell’IRAP, così come un taglio immediato al cuneo fiscale-contributivo. Anche il capitolo cartelle aspetta la sentenza per fine settembre. Intanto, l’Agenzia delle Entrate ha fatti ripartire le notifiche delle cartelle esattoriali congelate da marzo 2020, causa il Covid-19. Ma per tutta risposta, Salvini e Meloni chiedono di prolungare la misura appoggiati anche da Forza Italia. Anche il Movimento 5 Stelle spinge per una nuova sospensione per poi rilanciare la rottamazione. Il Partito Democratico diverge, si sa, alla rottamazione sono allergici.

Il Reddito di Cittadinanza

La Lega si Salvini e Italia Viva di Renzi contestano codesta misura, così non va, in quanto manca tutta la parte comprendente il reinserimento del lavoro. Forza Italia concorda, Renzi vuole addirittura il referendum per bloccarlo. Ovviamente, il M5S non ci sta, pur consapevole che ha bisogno di aggiustamenti e miglioramenti, così come sostenuto da Pd e Leu. Mario Draghi non sembra avere intenzione di bloccare il RdC, ma pretende maggiori controlli e più velocità di rioccupazione.

La questione pensioni

Riforma pensioni infinita, ma le parti sociali e i pariti stessi non trovano un accordo con il governo. Liberi e Uguali, M5S e sindacati spingono per un’uscita dal lavoro più flessibile per il dopo Quota 100. La riforma degli ammortizzatori targata Orlando non convince, soprattutto per i costi (8 miliardi), il Mef e neppure alcune forze della maggioranza. Per Matteo Renzi gli oneri dovranno essere contenuti evitando la CIG gratis per le piccolissime imprese, nemmeno Lega e FI appoggiano il progetto.

La sottosegretaria Guerra al MEF spinge per una riforma agli ammortizzatori sociali al risparmio. La Lega non condivide la linea prudente del MEF ed è convinta che alla Legge Fornero non si debba tornare, ma con una proposta diversa da quella di M5S e LeU. Il PD è più cauto. Ma da tutto questo cosa ne uscirà? Per adesso, solo grande incertezza.

Pensioni anticipate: ecco quali sono gli strumenti per lasciare il lavoro prima

Quali sono gli strumenti di pensione anticipata per andare via prima dal lavoro? È importante identificare i meccanismi previdenziali conoscendo, innanzitutto, l’età prevista per la pensione di vecchiaia ordinaria, attualmente fissata a 60 anni di età unitamente ad almeno 20 anni di contributi. Gli strumenti di pensione anticipata consentono di abbreviare l’uscita lavorativa rispetto, proprio, a questo limite di età. Nel dettaglio, rientrano tra gli strumenti di anticipo previdenziali la quota 100, l’opzione donna, l’anticipo pensionistico (Ape) sociale, la quota 41 dei lavoratori precoci e alcuni altri.

Pensione anticipata dei soli contributi: quanti ne servono per uscire?

La prima formula di uscita prima è la pensione anticipata dei soli contributi. Si esce a qualsiasi età purché i lavoratori maturino almeno 42 anni e 10 mesi di contributi. Per le donne è previsto lo sconto di un anno sui contributi (36 anni e 10 mesi). I requisiti contributivi resteranno in vigore senza variazione fino al 2026.

Pensione anticipata con quota 100, ma la scadenza dei requisiti è per il 31 dicembre 2021

Una delle ultime in ordine di tempo tra le misure di pensione anticipata e, molto probabilmente destinata a durare fino al 31 dicembre, è la quota 100. Ciò significa che i requisiti richiesti – l’età minima di 62 anni e almeno 38 anni di contributi versati – devono essere maturati entro la fine di quest’anno. Chi rientra nelle possibilità di uscita con la quota 100 può decidere di andare in pensione anche successivamente: con il diritto cristallizzato nel 2021, è possibile posticipare l’uscita effettiva da lavoro anche nel corso del 2022 o successivamente.

Con l’anticipo pensionistico Ape sociale uscita dai 63 anni

Più articolata, e con maggiori requisiti richiesti, è la pensione con Anticipo pensionistico (Ape) sociale. Introdotta nel 2017 insieme all’Ape volontaria, la versione sociale dell’anticipo permette di andare in pensione a partire dai 63 anni di età unitamente a 30 o a 36 anni di contributi, a seconda della situazione socio-economica nella quale rientra il richiedente. La misura riguarda tanto i lavoratori dipendenti (sia statali che del settore privato) che i lavoratori autonomi, a esclusione dei professionisti iscritti alle Casse previdenziali.

Requisiti pensione Ape sociale: uscita dei disoccupati

La pensione Ape sociale è stata introdotta per andare incontro a  determinate situazioni di disagio socio-economico dei lavoratori. La prima categoria tutelata è quella dei disoccupati a seguito della cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento. Sono necessari almeno 30 anni di contributi previdenziali versati. Con lo stesso numero di anni di contributi escono i caregiver, ovvero i contribuenti che assistano, da almeno 6 mesi, il coniuge o un parente convivente entro il primo grave che si trovi in situazione di handicap grave o di non autosufficienza.

Ape sociale, la pensione per gli invalidi e per addetti ad attività gravose

Sono richiesti 30 anni di contributi anche agli invalidi con una percentuale di almeno il 74% per andare in pensione con l’Ape sociale. Il requisito contributivo sale a 36 anni per gli addetti ad attività gravose o a lavori usuranti. In particolare, sono 15 le categorie riconosciute come gravose. Il meccanismo, inoltre, richiede lo svolgimento del lavoro gravoso per almeno 6 degli ultimi 7 anni o per 7 degli ultimi 10.

Pensione anticipata per i lavoratori precoci: la quota 41

Anche per tutto il 2021, in attesa della legge di Bilancio 2022, è stata confermata la pensione anticipata dei lavoratori precoci con la quota 41. Il meccanismo previdenziale è stato introdotto nel 2017 a favore dei lavoratori che abbiano iniziato a lavorare in età adolescenziale. Infatti, nei 41 anni di contributi deve rientrare un anno di contributi versato entro i 19 anni di età. I lavoratori che possono ricorrere alla quota 41 sono i dipendenti del settore privato, gli iscritti alla Gestione separata Inps e gli aderenti alle forme sostitutive ed esclusive dell’Assicurazione generale obbligatoria (Ago).

Pensione precoci: i requisiti comuni con l’Ape sociale

Oltre ai 41 anni di contributi, chi presenta domanda di uscita pensionistica (a qualsiasi età) con la quota 41 deve rientrare nelle stesse situazioni di disagio economico e sociale dell’Ape sociale. Pertanto, è da dimostrare la situazione di disoccupazione, di assistenza a persona non autosufficiente, di riduzione della capacità lavorativa almeno del 74% o di svolgimento di attività usuranti o gravose, con lo stesso numero di anni continuativi di lavoro prima della pensione previsti per l’Ape sociale.

Pensione anticipata per le lavoratrici: opzione donna

Fino al 31 dicembre 2021, in attesa della proroga, sarà in vigore la pensione anticipata con opzione donna. La misura consente alle lavoratrici di 58 anni di età (59 per le autonome) di anticipare la pensione con 35 anni di contributi versati. La condizione essenziale per le donne che presentino richiesta per l’opzione donna è accettare il ricalcolo dell’assegno di pensione interamente con il meccanismo contributivo. Il ricalcolo comporta un taglio del futuro assegno di pensione tra il 20 e il 30%, per sempre.

Pensioni anticipate, con il contratto di espansione uscita dai 62 anni

Introdotto nel 2019, il contratto di espansione consente di anticipare la pensione di vecchiaia a 62 anni rispetto ai 67 anni previsti. Oppure, se l’obiettivo è anticipare rispetto alla pensione anticipata dei soli contributi, lo sconto di 5 anni è sui versamenti. Infatti, gli uomini escono con 37 anni e 10 mesi di contributi, le donne con 36 anni e 10 mesi. Ma per questa formula è necessario che il datore di lavoro trovi l’accordo con i sindacati da siglare per ricorrere all’esodo volontario dei dipendenti.

Chi può accedere al contratto di espansione?

L’anticipo di 5 anni sulla pensione con il contratto di espansione è consentito ai lavoratori che lavorino in realtà aziendali con almeno 100 unità lavorative. Il requisito dimensionale è stato abbassato nel corso del 2021 dal decreto “Sostegni bis”: la legge di Bilancio 2021, infatti, aveva abbassato il tetto a 250 addetti. Per ottenere maggiori benefici, anche per l’indennità Naspi che accompagna i lavoratori alla pensione (fino a 3 anni), le aziende devono procedere al ricambio generazionale e alla ristrutturazione del personale mediante nuove assunzioni. La misura sicuramente verrà confermata anche nel prossimo anno con la legge di Bilancio 2022.

Con l’isopensione si va in pensione in anticipo fino a 7 anni

Si può beneficiare dell’uscita anticipata fino a 7 anni con l’isopensione. Il meccanismo, già in vigore con la riforma delle pensioni di Elsa Fornero, consente ai lavoratori del settore privato impiegati in imprese di almeno 15 dipendenti, di usufruire di uno scivolo già dai 60 anni di età con oneri interamente a carico dell’azienda. Il periodo di prepensionamento, dunque, dura fino a 7 anni, in attesa della pensione di vecchiaia. È proprio durante questi anni che il datore di lavoro si impegna a versare l’indennità al lavoratore. Tale indennità corrisponde alla pensione maturata fino al momento dell’uscita con l’esodo. I sette anni di anticipo saranno in vigore fino al 2024, poi si tornerà a un limite di anticipo di 4 anni.

Pensione quota 41: perché non spetta con assegno ordinario di invalidità?

Può un contribuente con pensione di invalidità ordinaria (AIO) presentare domanda per la quota 41 dei lavoratori precoci? La risposta è negativa, innanzitutto perché la legge non lo consente. In secondo luogo, nel campo delle ipotesi, sarebbe necessario analizzare anche l’opportunità del passaggio dall’AIO alla pensione dei precoci.

Per chi ha l’assegno di invalidità ordinario niente domanda di pensione con quota 41

La domanda potrebbe interessare i contribuenti che abbiano intorno ai quattro decenni di versamenti e un’invalidità, ad esempio, dell’80% che permette già di avere la prestazione di invalidità. Le pensioni anticipate con la quota 41 dei precoci sono incompatibili con gli assegni di invalidità ordinari perché i due trattamenti sono alternativi. E, dunque, il contribuente, finché percepisce l’assegno di invalidità ordinario non potrà presentare domanda della prestazione prevista per i precoci con 41 anni di contributi.

Pensione di invalidità e quota 41 precoci: quali differenze?

La natura delle due prestazioni pensionistiche è, inoltre, diversa. L’assegno ordinario di invalidità rappresenta una prestazione economica pur sempre calcolata sui contributi versati e, dunque, sottostante alle medesime regole ai fini della misura. Tuttavia l’invalidità è regolata da requisiti sottoposti ad accertamenti dopo la presentazione della domanda che solo in parte potrebbero soddisfare quelli della pensione con quota 41.

Requisiti richiesti dall’Inps per la domanda di assegno di invalidità ordinario

Pur non essendo prevista la cessazione dell’attività lavorativa, chi presenta domanda di pensione di invalidità deve aver subito la riduzione della capacità lavorativa a meno di un terzo a causa dell’infermità fisica o mentale. Inoltre, per ottenere l’assegno di invalidità, è necessaria una contribuzione di almeno 260 settimane, pari a 5 anni di contribuzione e di assicurazione, delle quali 156 settimane, pari a 3 anni di contribuzione e di assicurazione, devono rientrare nei cinque anni che precedono la data di presentazione della domanda.

Riduzione della capacità lavorativa nell’invalidità e nella pensione con quota 41

Un punto importante da tener presente sia nell’assegno di invalidità che nella pensione con quota 41 è la riduzione della capacità lavorativa. Infatti, mentre l’Inps per la domanda di invalidità parla di una riduzione a “meno di un terzo della capacità lavorativa”, per la quota 41 dei precoci la riduzione accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell’invalidità civile deve essere superiore o per lo meno uguale al 74%.

Quando la ridotta capacità lavorativa va bene per l’invalidità ma non per la quota 41?

C’è una zona grigia nella quale l’invalidità dell’una non è sufficiente per i requisiti richiesti dall’altra misura di pensione. Ciò significa che una ridotta capacità lavorativa al 30% soddisferebbe il requisito per la pensione di invalidità ma non quello della quota 41 dei precoci. È facile intuire che per quest’ultima misura la ridotta capacità al 30% rappresenterebbe una condizione non sufficiente (una delle quattro situazioni nelle quali può trovarsi un lavoratore per chiedere la quota 41 insieme alla condizione di disoccupazione, all’assistenza di persone non autosufficienti o allo svolgimento di mansioni usuranti o gravose) per presentare la domanda.

I requisiti dei contributi richiesti per le pensioni con quota 41

È altrettanto vero che la pensione con la quota 41 richiede ulteriori requisiti per la presentazione della domanda. In merito al versamento dei 41 anni di contributi, infatti, la legge richiede che almeno 12 mesi siano stati versati, anche in maniera non continuativa, prima dei 19 anni di età del contribuente. Pertanto, l’ipotetica richiesta del passaggio dall’assegno di invalidità alla pensione con quota 41 necessiterebbe di una verifica:

  • sia del montante dei contributi versati, con traguardo dei 41 anni di versamenti a qualsiasi età venga raggiunto;
  • che dell’inizio della prima attività lavorativa in età adolescenziale.

Trasformazione dell’assegno di invalidità in pensione di vecchiaia a 67 anni

Tornando nel campo di applicazione delle norme previdenziali, chi percepisce una pensione di invalidità ordinaria deve aspettare la maturazione della pensione di vecchiaia per vedersi trasformato l’assegno di invalidità in, appunto, pensione di vecchiaia. Questo passaggio avviene al compimento dei 67 anni di età. Pertanto, il contribuente già titolare di assegno di invalidità definitivo ha come obiettivo del suo trattamento solo quello della trasformazione in pensione di vecchiaia. Risulta pertanto incompatibile il passaggio a una formula di pensione anticipata come la quota 41 dei precoci.

 

Pensioni, cos’è il tasso di sostituzione? Ecco quanto si ottiene dai contributi versati

Quanto dei contributi versati all’Inps viene in futuro restituito sotto forma di pensione? Per entrare a conoscenza di quanto sarà orientativamente la futura pensione in base agli stipendi ottenuti durante la vita lavorativa è importante far riferimento a vari strumenti che ipotizzano la prestazione previdenziale una volta che si è usciti da lavoro. L’importo della pensione futura è una stima, tanto più veritiera quanto più il lavoratore si trova in prossimità dall’uscita da lavoro. Le generazioni più giovani, infatti, hanno davanti carriere lavorative più lunghe e, pertanto, vari fattori potrebbero influire nel calcolo della pensione.

Cos’è il tasso di sostituzione delle pensioni?

Il monitoraggio della futura pensione e, dunque, la consapevolezza di quale sarà il tenore di vita (e nel caso procedere con aggiustamenti come la pensione integrativa) può essere fatto con lo strumento del tasso di sostituzione. Si tratta di un valore espresso in termini percentuali del rapporto tra l’importo della prima mensilità della pensione e l’ultimo stipendio. Per i lavoratori autonomi e i professionisti il rapporto si può esprimere con l’ultimo reddito personale percepito prima di uscire dal lavoro. Con questo indicatore è pertanto possibile stimare di quanto cambierà il reddito disponibile una volta che si andrà in pensione.

Come deve essere interpretata la pensione futura con il tasso di sostituzione?

La prima indicazione sulla futura pensione derivante dal tasso di sostituzione consiste nel fatto che tanto maggiore sarà il rapporto, tanto minore sarà l’impatto sul reddito nel momento in cui si esce dal lavoro. E pertanto, su uno stipendio mensile di 1.500 euro con un tasso di sostituzione pari al 70%, il futuro pensionato avrà un assegno di 1.050 euro al mese. Se il tasso di sostituzione scende, anche il reddito disponibile della futura pensione cala conseguentemente.

Pensione futura, quanto conta l’ultimo stipendio dei dipendenti o il reddito per gli autonomi

Il tasso di sostituzione può essere visto anche da un punto di vista opposto. Infatti, un tasso elevato non è necessariamente sinonimo di una futura pensione pesante. Tutto dipende dall’ultimo stipendio o dal reddito dei lavoratori autonomi. Se gli stipendi e i redditi infatti sono elevati, anche un tasso di sostituzione basso può garantire una pensione alta.

Tasso di sostituzione lordo e netto

Il tasso di sostituzione può essere espresso come rapporto lordo o netto. Nel primo caso si calcola con la divisione tra la prima rata di pensione al lordo delle tasse e l’ultimo stipendio, sempre al lordo di tasse e contributi. Il tasso di sostituzione netto è invece un indicatore più puntuale e utile per calcolare la disponibilità spendibile nel momento in cui si va in pensione. Infatti rapporta la prima rata di pensione e l’ultima retribuzione con valori presi al netto di tasse e contributi.

Tasso di sostituzione, come si calcola?

La determinazione del tasso di sostituzione dipende da molteplici fattori. Età, tipo di lavoro svolto ovvero da dipendente o da autonomo, andamento del Prodotto interno lordo (Pil), gli anni di versamenti di contributi, il meccanismo di calcolo della pensione (retributiva o contributiva), l’andamento della carriera lavorativa (ad esempio, periodi di disoccupazione o di vuoti contributivi o l’età di inizio del primo lavoro).

Tasso di sostituzione, meglio per un dipendente o un autonomo ai fini della pensione?

Diventa estremamente importante il calcolo del tasso di sostituzione per analizzare le pensioni future, soprattutto per le generazioni più giovani. Attualmente, il tasso di sostituzione medio riferito alla pensione di vecchiaia si attesta intorno al 70% per un lavoratore dipendente, mentre scende al 60% per un lavoratore autonomo. Il rapporto può salire all’80% per i più giovani che entrano attualmente nel mondo del lavoro purché mantengano una carriera lavorativa continua, senza buchi contributivi o periodi di inattività. Anche per un lavoratore autonomo giovane il tasso potrebbe variare fino al 70% dell’ultimo reddito da lavoro, sempre in presenza della continuità della propria attività.

Calcolo del tasso di sostituzione con alcuni esempi

Le ipotesi sopra riportate sono piuttosto ottimistiche sul calcolo del tasso di sostituzione delle future pensioni. Nella realtà entrano in gioco alcuni fattori come il Pil e gli anni di contributi che, alla lunga, si rivelano decisivi. Tassi del 70 (o anche 75%) e del 60%, rispettivamente per dipendenti e autonomi, si riscontrano in presenza di 40-42 anni di contributi versati, ma le previsioni dei prossimi anni, fatte in periodi pre-Covid, delineano un tasso di sostituzione sempre più in diminuzione. Nel 2025, in presenza di 40 anni di contributi, il tasso di sostituzione scenderà al 71,7% per i dipendenti e al 53,1% per gli autonomi.

Previsioni tassi di sostituzione e future pensioni

In linea generale, la discesa dei tassi di sostituzione in ottica delle future pensioni durerà fino al fino al 2035, anno a partire dal quale si noteranno nuovamente aumenti, seppur timidi. E tra il 2030 e il 2035 è prevista una caduta del tasso più per i dipendenti che per gli autonomi. Il valore del tasso, in ogni modo, scenderà per gli autonomi anche al di sotto della metà dell’ultimo reddito maturato prima della pensione.

Perché il tasso di sostituzione scenderà nei prossimi decenni?

Molti dei valori presi in considerazione per il calcolo del tasso di sostituzione possono definirsi ottimistici. Ad esempio, quello del Pil, stimato in crescita all’1,5% ma soggetto a variazioni, anche molto negative, come successe nei primi anni dello scorso decennio. Lo stesso valore del Pil è preso in esame nelle simulazioni del sito dell’Inps per la busta arancione. Proprio per questo motivo è possibile variare il valore del Pil (ad esempio, all’1%) per avere stime della futura pensione meno ottimistiche e più realistiche.

Scenari di pensione per i lavoratori più giovani

A fronte delle variabili che entrano in gioco nel calcolo del tasso di sostituzione, i lavoratori più giovani dovranno agire sulle cause dell’erosione delle future pensioni. Innanzitutto assicurandosi carriere lavorative continue, lunghe, con innalzamenti degli stipendi nel tempo e sperare nel buon andamento dell’economia e del Pil. Quest’ultimo fattore, infatti, incide sulla rivalutazione del montante contributivo accumulato durante la vita lavorativa. Come alternativa, c’è la possibilità di avvicinare l’età di uscita per la pensione il più possibile vicino ai 70 anni. Oltre al maggior numero di anni di contributi versati, infatti, si innalzerebbe il valore specifico del coefficiente di trasformazione, più elevato in corrispondenza di un’età più alta dell’uscita lavorativa.

Pensione con contratto di espansione, per uscita 5 anni prima nel 2021 comunicazione all’Inps entro il 2 settembre

C’è tempo fino al 2 settembre prossimo per l’invio della comunicazione all’Inps per la stipula dell’accordo azienda-lavoratori-sindacati rientrante nelle pensioni del contratto di espansione. La comunicazione è relativa ai prepensionamenti che avverranno entro la fine del 2021, con decorrenza della pensione prevista a partire dal 1° dicembre prossimo. La scadenza, dunque, riguarda le aziende che vogliano utilizzare il meccanismo del prepensionamento, che consente ai lavoratori di uscire anticipatamente di cinque anni.

Contratto di espansione, come uscire 5 anni prima rispetto alla pensione di vecchiaia o anticipata?

Le pensioni previste dal contratto di espansione consentono ai lavoratori di uscire anticipatamente di 5 anni sia rispetto ai 67 anni richiesti per la pensione di vecchiaia che ai 37 anni e 10 mesi di contributi necessari per la pensione anticipata. La misura, già in vigore dal 2019, nel tempo ha subito modifiche soprattutto per quanto riguarda il requisito dimensionale dell’azienda datrice di lavoro. Infatti, inizialmente il meccanismo riguardava solo le aziende con almeno 1.000 unità lavorative. Le successive modifiche normative hanno abbassato il minimo a 250 unità lavorative (legge di Bilancio 2021) fino ad arrivare a 100 addetti con il decreto Sostegni bis di Mario Draghi.

Contratto di espansione, cosa serve per andare in pensione 5 anni prima?

Il contratto di espansione, già in vigore dal 2019, ha visto nel tempo modificare i requisiti di uscita, soprattutto quelli riguardanti l’azienda datrice di lavoro. Inizialmente potevano accedere alla misura le aziende con almeno 1.000 unità lavorative. La legge di Bilancio 2021, ha fissato il requisito dimensionale minimo a 250 unità lavorativa, con ulteriore riduzione a 100 unità del decreto Sostegni bis di Mario Draghi. Serve l’adesione volontaria del lavoratore, l’accordo sindacale e la presentazione della lista dei lavoratori in uscita con la misura all’Inps.

In cosa consiste la comunicazione Inps per le pensioni del contratto di espansione?

Per l’uscita anticipata con il contratto di espansione la legge prevede l’accordo sindacale. Tale accordo è da siglare nella sede territoriale del ministero del Lavoro alla presenza dei rappresentanti dell’azienda e dei sindacati stessi, nazionali o aziendali. La scadenza del 2 settembre delle pensioni rientranti nel contratto di espansione riguarda proprio la firma degli accordi sindacali dei lavoratori da mandare in pensione con relativa comunicazione all’Inps. L’adesione dei lavoratori è volontaria. La scadenza si desume dalla circolare Inps numero 48 del 24 marzo del 2021 e dal messaggio Inps numero 2419 del 2021.

Contratto di espansione e cessazione del lavoro

Infatti, per l’adesione alle pensioni con uscita 5 anni prima, la circolare 48 dell’Inps ha stabilito che la cessazione del rapporto di lavoro, sulla base del consenso dei lavoratori, debba avvenire sempre nell’ultimo giorno del mese. La decorrenza della prestazione pensionistica inizia a partire dal giorno successivo (primo giorno del mese), senza soluzione di continuità.

Contratto di espansione, da quando decorre la pensione nel 2021?

Di conseguenza, relativamente alle uscite del 2021 l’ultima data di recesso del rapporto di lavoro è stata fissata al 30 novembre. L’assegno di pensione, invece, decorre dal 1° dicembre. Tuttavia, la domanda di accesso all’esodo, secondo il messaggio Inps 2491 del giugno scorso, ha come scadenza non oltre i tre mesi precedenti al 1° dicembre. Dunque, calcolando i 90 giorni precedenti, risulta la scadenza per la comunicazione all’Inps dell’accordo entro il 2 settembre prossimo.

Pensione 2022: senza una riforma quali modi restano per accedere?

Quali saranno le alternative per andare in pensione nel 2022 in assenza di una riforma e nell’anno della fine della sperimentazione della quota 100? Ecco dunque la descrizione di quelli che sono, ad oggi, le possibilità di uscita del prossimo anno. Oltre alla pensione di vecchiaia, i lavoratori prossimi alla pensione potranno scegliere tra le alternative della pensione anticipata, Ape sociale, quota 41 dei lavoratori precoci, isopensione, opzione donna e contratto di espansione.

Pensione di vecchiaia, i requisiti di uscita del 2022

La classica formula di pensione, quella di vecchiaia, anche nel 2022 manterrà inalterati i requisiti di uscita. Per andare in pensione anche l’anno prossimo servirà l’età anagrafica di 67 anni unitamente ad almeno 20 anni di contributi, sommati anche presso più gestioni previdenziali, Inps e Casse professionali. Quest’ultimo passaggio è possibile grazie a una delle misure adottate negli ultimi anni, ovvero il cumulo contributivo. La pensione di vecchiaia assicura una prestazione della quale beneficiano tutti i lavoratori dipendenti e autonomi iscritti all’Assicurazione generale obbligatoria (Ago), agli aderenti alla Gestione separata Inps e ai lavoratori aderenti ai fondi pensione esclusivi e sostitutivi dell’Assicurazione generale obbligatoria.

Pensione anticipata, anche nel prossimo anno requisiti contributivi invariati

Per chi ha un alto numero di anni di contributi avendo iniziato a lavorare in giovane età, è possibile sperare nella pensione anticipata. Anche per il 2022 i requisiti contributivi rimarranno invariati (e lo saranno fino al 2026). Per l’uscita anticipata occorrono 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Non vi è differenza tra lavoratori dipendenti del settore privato o pubblico e nemmeno per gli autonomi.

Quota 100 nel 2022 solo per chi matura il diritto di pensione entro il 31 dicembre 2021

La quota 100 terminerà la sperimentazione triennale al 31 dicembre 2021. Tuttavia,  i contribuenti che abbiano maturato o matureranno i requisiti entro la fine di quest’anno potranno scegliere di uscire nel 2022 o anche negli anni successivi. Occorre, dunque, maturare l’età minima di 62 anni entro il 31 dicembre prossimo unitamente ad almeno 38 anni di contributi. La possibilità di differire l’uscita anche nel 2022 dipende dal fatto che il diritto al pensionamento anticipato con quota 100 rimane “cristallizzato”.

Quota 100, diritto cristallizzato, ma valgono le finestre mobili di 3 o 6 mesi

Conta dunque il momento in cui si maturano i requisiti della misura. Invariato rimane, invece, il meccanismo delle finestre mobili. L’introduzione della misura nel 2019 ha previsto una finestra di 3 mesi per i lavoratori del settore privato e di 6 mesi per quelli del pubblico. Ciò significa che dal momento in cui si può inoltrare la domanda di pensione a quello in cui effettivamente si inizia a ricevere l’assegno mensile passano 3 o 6 mesi.

Ape sociale, uscita per la pensione dai 63 anni ma attenzione ai requisiti richiesti

Verrà confermato ancora l’anticipo pensionistico Ape sociale, la misura di pensione anticipata che consente ai lavoratori di uscire a partire dai 63 anni. Tuttavia, è necessario prestare attenzione ai requisiti richiesti. La misura, fin dall’inizio, è stata ideata per andare incontro a determinate categorie di lavoratori in condizioni disagiate dal punto di vista economico e sociale. E, pertanto, è necessario rientrare tra i disoccupati, tra gli inabili con almeno il 74% per invalidità o tra i caregivers, ovvero tra coloro che si occupano dell’assistenza di un familiare in condizione di disabilità. Gli anni di contributi minimi sono 30 o 36 a seconda delle condizioni individuali.

Pensioni, l’Ape sociale potrebbe essere potenziata

Proprio la pensione Ape sociale è una delle misure deputate a essere potenziate per il 2022. In particolare, l’uscita a 63 anni per le persone in condizioni lavorative di disagio potrebbe riguardare più categorie rispetto a quelle attuali dei lavoratori impiegati in attività usuranti. Attualmente, le categorie previste sono in numero di 15 e vi rientrano, a titolo di esempio, gli infermieri per la sanità e le maestre e gli educatori per la scuola. Tuttavia, una delle due Commissioni istituite dall’allora ministro del lavoro Nunzia Catalfo, potrebbe procedere a includere nuove categorie lavorative tra gli usuranti, mansioni precedentemente escluse.

Precoci con quota 41, la pensione è una corsa a ostacoli tra i requisiti

Non è una ‘quota 41 per tutti‘ la misura di pensione anticipata prevista dalla normativa attuale per i precoci. Si tratta, piuttosto, di una misura che implica il possesso di specifici requisiti per lasciare prima il lavoro. Innanzitutto occorrono 41 anni di contributi previdenziali, dei quali almeno uno versato prima dei 19 anni. Nel raggiungimento dei requisiti sono validi anche i periodi di lavoro all’estero riscattati e i periodi riscattati per omissioni contributive.

Pensioni precoci, come si calcolano i contributi per la quota 41?

Inoltre, i 41 anni di contributi possono essere stati versati anche in maniera non continuativa, ma è necessario (e anche matematico) che i lavoratori precoci debbano avere l’anzianità contributiva anche prima del 1996. Infine, per andare in pensione è necessario rientrare in una delle categorie tutelate dall’Ape sociale (disoccupazione, caregivers, disabilità). La maturazione di tutti i requisiti permette al contribuente di uscire indipendentemente dall’età anagrafica.

Con l’isopensione si può andare in pensione fino a 7 anni prima

Tra le possibilità di andare in pensione prima dei 67 anni richiesti per la pensione di vecchiaia c’è l’isopensione. Si tratta di una formula di prepensionamento che può essere attivata dai datori di lavoro, con costi unicamente a carico dell’azienda. Il risparmio in anni di uscita da lavoro arriva fino a 7 per gli esodi collocati entro la fine di novembre del 2023 (dal 2024 l’isopensione si potrà fare per un massimo di 4 anni di anticipo). Dunque con l’isopensione si può uscire anche a 60 anni, ma è necessario l’accordo sindacale per favorire l’uscita dei lavoratori aziendali.

Come viene calcolato l’assegno di pensione con l’isopensione?

Con l’isopensione, l’azienda riconosce al lavoratore in uscita un assegno dello stesso importo della pensione maturata fino al momento dell’uscita. Inoltre, il datore di lavoro assicura anche una contribuzione previdenziale piena calcolata sulla media delle retribuzioni degli ultimi due anni di lavoro. Nel periodo di isopensione, quindi fino al raggiungimento della pensione di vecchiaia, è possibile svolgere qualsiasi lavoro da dipendente o da autonomo. Cosa che non è possibile nel periodo di anticipo con la quota 100: è possibile cumulare la pensione con redditi da lavoro purché siano occasionali, non alle dipendenze e dal valore lordo massimo di 5.000 euro annuali.

Pensioni con opzione donna, uscita dai 58 anni anche nel 2022

La misura di pensione anticipata per le lavoratrici nota come “Opzione donna” è stata confermata per tutto il 2021 dalla scorsa legge di Bilancio. Per il 2022 la misura potrebbe registrare una ulteriore proroga. Anzi, è possibile che l’Opzione donna diventi proprio strutturale, almeno da quanto trapela sulle intenzioni del governo Draghi. In ogni modo, i requisiti richiesti sono l’età di 58 anni per le lavoratrici alle dipendenze e 59 per le autonome. Inoltre, sono necessari 35 anni di contributi. Tuttavia, in tema di futuro assegno mensile, è necessario che le lavoratrici accettino il ricalcolo al 100% della pensione con il meccanismo contributivo. Ciò comporta un taglio che, mediamente, si attesta tra il 20 e il 30% e dura per tutta la vita da pensionate.

Pensione anticipata, le possibilità del contratto di espansione

Infine, tra le misure che consentiranno ai lavoratori di andare in pensione anticipata nel 2022 ci sarà anche il contratto di espansione. La formula prevede il prepensionamento con 5 anni di anticipo, sia che si punti a uscire prima rispetto alla pensione di vecchiaia (62 anni anziché 67 anni), sia che l’obiettivo diventi quello di anticipare cinque anni di contributi rispetto alla pensione anticipata. Il meccanismo, dunque, permettere ai lavoratori di andare in pensione con 37 anni e 10 mesi di contributi. Rimane in vigore l’anno di sconto per le donne (36 anni e 10 mesi di contributi).

Contratto di espansione, cosa serve per andare in pensione 5 anni prima?

Il contratto di espansione, già in vigore dal 2019, ha visto nel tempo modificare i requisiti di uscita, soprattutto quelli riguardanti l’azienda datrice di lavoro. Inizialmente potevano accedere alla misura le aziende con almeno 1.000 unità lavorative. Con la legge di Bilancio 2021, il requisito dimensionale minimo è stato abbassato a 250 unità lavorativa, ulteriormente ridotto a 100 unità con il decreto Sostegni bis di Mario Draghi. Serve l’adesione volontaria del lavoratore, l’accordo sindacale e la presentazione della lista dei lavoratori in uscita con la misura all’Inps.

Partita IVA per lavoratore dipendente: come cambia la contribuzione?

Anche un lavoratore dipendente può essere titolare di una partita IVA, avviando una seconda attività, ma ci sono dei limiti da rispettare.

Esistono molti lavoratori dipendenti impiegati a tempo indeterminato o determinato, che vogliono migliorare il proprio stile di vita o più semplicemente seguire, lavorando in proprio, una propria passione. Farlo non è sempre facile, tanto meno possibile. Cerchiamo di capirne il perché.

Lavoratore dipendente e partita IVA nel settore pubblico

Avviare un’attività extra, dipende se si lavora nel settore pubblico o in quello privato, o dall’orario dal tipo di impiego, a tempo parziale o pieno.

Se si svolge un pubblico impiego il lavoratore è tenuto a lavorare esclusivamente con l’ente datore di lavoro. Tuttavia, chi appartiene ai regimi speciali (docenti e dipendente part-time) dove il lavoro corrisponde alla metà di un’occupazione svolta full-time, fa eccezione.

A questo punto, diventa fondamentale il contratto di lavoro che deve prevedere o meno la disciplina che concilia il lavoro da dipendente pubblico con l’apertura di una partita IVA. Nel primo caso si configura l’impiego presso un ente pubblico, nel secondo caso si può trattare di un’impresa privata.

Spetta all’Amministrazione Pubblica concedere o negare la possibilità al proprio dipendente di svolgere una seconda attività (autonoma) a prescindere che si operi o meno con partita IVA. Tuttavia, esistono delle condizioni da rispettare:

  • l’incarico deve essere temporaneo e occasionale;
  • l’incarico non deve interferire con l’orario di lavoro svolto da dipendente;
  • non ci deve essere conflitto d’interesse;
  • l’attività deve essere svolta al di fuori del lavoro prestato alla Pubblica Amministrazione.

Nel caso il dipendente sia stato assunto con un contratto a tempo parziale pari al 50%, può svolgere un’attività extra ma sempre con il benestare del datore di lavoro.

Se, invece, l’impiegato pubblico lavora full time ma vuole avviare un’attività autonoma, può farlo ma sempre previo autorizzazione del datore di lavoro, chiedendo una diminuzione dell’orario di lavoro almeno del 50%.

Lavoratore dipendente e partita IVA nel settore privato

Anche il dipendente privato può svolgere una seconda attività di tipo autonomo, purché non sia in concorrenza con quella svolta principalmente. Può trattarsi di una ditta individuale o di un libero professionista. La clausola inerente la concorrenza è necessaria venga indicata nel contratto di lavoro, altrimenti, l’azienda non ha nulla da obiettare.

Nella pratica è comunque consigliato di mettere al corrente il proprio datore di lavoro privato della nuova situazione del suo dipendente, onde evitare di poter deteriorare il rapporto di fiducia tra le due parti, o addirittura di poter subire un licenziamento per giusta causa (per aver divulgato notizie private sull’azienda o danneggiandone l’immagine per un tornaconto personale).

Partita IVA per lavoratore dipendente: come cambia la contribuzione?

Con un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato (almeno 26 ore settimanali), chi decide di avviare un’attività commerciale può non iscriversi alla Gestione Commercianti e Artigiani dell’INPS, purché la prima occupazione sia quella prevalente, ossia quella da cui deriva la maggior parte del reddito e del tempo impiegato nello svolgerla.

L’INPS invierà un avviso di iscrizione alla Gestione Commercianti e basterà rispondere con una comunicazione indicante l’attività prevalente, alla quale deve essere allegata l’ultima busta paga come verificare della propria posizione e al fine di evitare eventuali quanto probabili equivoci.

Chi scegliere di intraprendere un’attività da libero professionista è tenuto a iscriversi alla Gestione Separata INPS,. Tuttavia, il calcolo dei contributi sul reddito derivante dall’attività professionale avverrà con aliquota ridotta. Al posto dell’iscrizione alla GS Inps, è previsto l’obbligo di iscrizione all’Albo professionale, se presente, in quanto i contributi vanno versati alla relativa Cassa Previdenziale.

Nel caso di contratti di lavoro dipendente, ma a tempo determinato, sarà necessaria una valutazione del singolo contratto, così da determinare quale attività sia prevalente ai fini della contribuzione.