Professionisti a rischio radiazione dall’albo se trattengono soldi dei clienti

La Corte di Cassazione con la sentenza 28468 del 2022 ha posto un pilastro fondamentale al rapporto tra professionista e cliente statuendo che il professionista che trattiene per sé il denaro del cliente deve sottostare alla radiazione dall’albo.

Radiazione dall’albo per il professionista che si appropria di somme di denaro del cliente

In seguito ad alcuni esposti presentati dai clienti a carico di un avvocato romano, il Consiglio Distrettuale di Disciplina (CDD) prima e il Consiglio Nazionale Forense hanno provveduto alla radiazione dall’albo dell’avvocato, tale decisione è stata confermata dalla Corte di Cassazione. Il comportamento imputato al professionista è l’appropriazione di somme a lui affidate in deposito fiduciario in alcun i casi per formalizzare l’acquisto di un immobile, operazioni poi mai compiute, in altri casi si trattava di somme oggetto di esecuzione forzata.

Il Consiglio Distrettuale di Disciplina ha ritenuto provato oltre ogni ragionevole dubbio tale comportamento, infatti il professionista non aveva utilizzato le somme per lo scopo stabilito con i clienti e non aveva più restituito le stesse. L’incolpato è ritenuto non meritevole di far parte dell’ordine forense in quanto ha pregiudicato l’affidamento che il cliente dovrebbe poter avere nei confronti del professionista e ha compromesso la credibilità dell’intero ceto forense.

La decisione della Corte di Cassazione: conferma della radiazione dall’albo

L’avvocato si è quindi rivolto al CNF ottenendo lo stesso risultato e infine alla Suprema Corte. Il professionista in particolare punta la sua difesa sulla prescrizione avvenuta per il reato di appropriazione indebita. La Corte di Cassazione, oltre a sottolineare che in realtà non vi è stata la prescrizione, ribadisce che l’illecito disciplinare pone una sanzione all’alterazione del rapporto fiduciario derivante dalla violazione di norme di legge e del codice deontologico.

Tale alterazione si protrae per tutta la durata del rapporto, non si esaurisce al momento della commissione dell’illecito, cioè al momento dell’appropriazione, ma si protrae fino al momento della mancata restituzione in seguito al mancato adempimento dell’obbligazione iniziale. La condotta nel caso in esame si inserisce in un rapporto contrattuale di durata.

La condotta non si esaurisce quindi nella percezione della somma, ma dura e “ricomprende il comportamento, protrattosi nel tempo, consistente nell’avere l’avvocato mantenuto nella propria disponibilità un importo che, invece, avrebbe dovuto essere immediatamente consegnato al cliente” oppure essere utilizzato come da disposizioni contrattuali tra le parti.

La Suprema Corte affermando la mancata prescrizione intervenuta sul fatto, passa a valutare la legittimità della grave sanzione applicata dal CDD e confermato dal Consiglio Nazionale Forense e sottolinea che la motivazione addotta al provvedimento adottato “è esente da contraddittorietà interna e non risulta meramente apparente”.

Professionisti da casa: quali sono i costi deducibili?

I professionisti possono lavorare sia dentro che fuori l’ufficio. Ma alcuni di essi possono esercitare anche da casa. Ma quali sono i costi che possono essere scaricati?

Professionisti da casa: l’uso promiscuo dell’abitazione

I professionisti da casa possono svolgere la loro attività restando nella loro abitazione. Oppure decidere di andare in  in ufficio. Infatti, è possibile destinare una camera dalla propria abitazione ad uso ufficio. In questo caso si parla di “uso promiscuo“. In altra parole si tratta di un immobile che può essere utilizzato in parte per un’attività lavorativa. Ma anche viceversa un immobile ad uso ufficio o commerciale, usato in parte per abitarci. La legge italiana prevede una netta distinzione tra quelli che sono gli immobili destinati ad uso abitativo, identificati con lettera A nelle visure catastali e gli immobili destinati ad uso ufficio, identificati con la lettera A/10 oppure C/1 o C/3. Quando ci si trova nella condizione di uso promiscuo, quello che bisogna capire è l’uso prevalente di quell’immobile. In altre parole, cosa prevale di più, l’abitazione privata oppure la professione, questo deve essere chiaro.

Quali sono i costi che possono essere scaricati dal professionista?

Secondo quando esposto dalle recenti direttive dell’Agenzia delle entrate, il professionista pare possa detrarre due criteri:

  • la rendita catastale dell’immobile utilizzato come abitazione e studio;
  • il 50% delle spese dei servizi ad esso correlato.

Ciò vuol dire che se la porzione dello spazio usato come ufficio in casa a scopo professionale è diversa del 50%non è possibile variare la deduzione. La percentuale fa riferimento solo alle spese che possono essere promiscue, come ad esempio le spese delle utenze di acqua, luce e telefono.  Ma le bollette devono essere intestate al Professionista e non ad altra persona, anche se con esso conviventi.

E’ bene precisare che ci sono delle spese che non sono in alcun modo deducibili. E’ il caso delle spese strettamente personali, che sono chiare nella loro imputazione. Mentre invece, le spese che sono strettamente legate all’attività professionale possono sempre essere scaricate. Ovviamente nei limiti previsti del regime fiscale scelto dal professionista, con o senza partita IVA.

Alcuni esempi per essere più chiari

A questo punto per essere più dettagliati è meglio fare alcuni esempi specifici. Se un professionista compra un mobile, il costo può essere scaricato o meno? La risposta cambia in relazione al tipo di bene. Infatti, se il professionista, ad esempio un avvocato, lavora da casa ed acquista una cucina non sembrano esserci dubbi. La cucina non è legata all’attività lavorativa pertanto non è possibile dedurre questo costo. Se invece il soggetto compra un telefonino oppure un portatile come funziona? In questi casi è prevista una deduzione del 50% del costo del bene strumentale. Oltre al fatto che è possibile anche ammortizzare il costo sostenuto. Infine, se il professionista paga una spesa legata solo all’attività, come ad esempio un corso di aggiornamento specifico oppure un’assicurazione professionale, in quel caso è interamente deducibile.

Professionisti da casa: i costi relativi all’immobile

Per quanto riguarda i costi relativi all’immobile, qui ci sono alcuni problemi. Infatti, il professionista che lavora da casa, non può beneficiare di alcuna deduzione dell”IMU. Però solo nel caso di un immobile strumentale, adibito esclusivamente ad attività lavorativa, può arrivare ad una riduzione del 20%. In merito a Tari e Tasi non esiste un’applicazione univoca. Il metodo è quello dell’applicazione del 50%. Se il professionista prende in affitto un ufficio o uno studio, questi possono essere sottoposti a deducibilità. Ma se il soggetto va ad abitarci, ritorna la percentuale del 50%. Infine ai fini della locazione, il contratto va debitamente registrato, ma non si potrà godere delle agevolazioni fiscali per l’uso abitativo. E’ escluso quindi sia la cedolare secca che i contratti a canone concordati. Quindi, per evitare qualsiasi tipo di problema per l’Agenzia delle entrate, sembra corretto analizzare ogni volta il tipo di costo per una giusta imputazione.

Lavoro autonomo e libera professione: quali differenze?

Per comprendere la differenza tra coloro che svolgono un lavoro autonomo e quelli che esercitano la libera professione, è bene precisare chi sono codesti.

In tema di lavoratori, le due principali categorie sono rappresentate dagli autonomi e dagli subordinati. I primi, sono per l’appunto svincolati dalle direttive di un datore di lavoro, diversamente dai secondi.

I lavoratori autonomi godono di ampia libertà nel loro raggio d’azione, strategia e organizzazione del lavoro spettano a loro, fermo restando l’obbligo di garantire la prestazione al committente. Di contro, rispetto ai lavoratori subordinati sono decisamente meno tutelati. Infatti, gli autonomi non beneficiano delle garanzie tipiche di un dipendente, come le ferie, la cassa integrazione, l’assegno di disoccupazione e altre.

I liberi professionisti fanno parte della categoria dei lavoratori autonomi, in quanto, il loro operato è svincolato da un datore di lavoro e devono solo garantire la prestazione al cliente che ha commissionato loro.

A questo punto, qualcuno potrebbe chiedersi quali siano le differenze tra coloro che compiono un lavoro autonomo e quelli che esercitano la libera professione. Ebbene, i liberi professionisti sono quasi sempre iscritti a un ordine e la prestazione da loro offerta è prevalentemente di tipo intellettuale. Inoltre, devono adempiere a una serie di doveri, per esempio aggiornarsi costantemente sulla disciplina di competenza tramite dei corsi specifici, oppure hanno l’obbligo assicurativo per i rischi derivanti dalla professione.

Ma entriamo nel dettaglio, scoprendo quali sono le caratteristiche dei liberi professionisti e le loro responsabilità.

Qui puoi scoprire chi sono i lavoratori autonomi e in quali categorie di suddividono.

Liberi professionisti: le principali peculiarità

Il libero professionista fa parte della categoria dei lavoratori autonomi, non compie un lavoro manuale ma offre una prestazione di natura intellettuale. La persona che esercita una libera professione ha una preparazione di alto livello nella materia di sua competenza, frutto di un importante percorso di studio, che mette al servizio dei suoi clienti in cambio di un corrispettivo.

Solitamente, il libero professionista è iscritto a un albo, registro o elenco: come gli avvocati, i medici, gli ingegneri, i commercialisti, ecc. Iscriversi all’albo professionale del proprio ordine è necessario per poter esercitare la propria attività, altrimenti non può offrire in modo valido la propria prestazione né pretendere una retribuzione per la sua effettuazione. Violare questo obbligo, spesso costituisce reato, basti pensare ai casi in cui qualcuno ha offerto prestazioni di tipo medico, senza essere iscritti all’albo relativo o addirittura senza aver effettuato il percorsi di studi adeguato e il conseguimento dei titoli obbligatori.

Esercitare la libera professione non comporta necessariamente l’apertura di una partita IVA.

I liberi professionisti devono essere iscritti alla propria cassa previdenziale, in quanto non versa i contributi all’INPS ma alla cassa previdenziale del proprio ordine. Essi devono rispettare delle regole deontologiche imposte dalla propria attività, diversamente, incorrono in sanzioni da parte del proprio ordine.

Le responsabilità del libero professionista

Nonostante il libero professionista abbia la libertà di organizzare il proprio lavoro come più ritiene opportuno, senza seguire le indicazioni del cliente, deve adempiere alla prestazione richiesta da quest’ultimo. Il libero professionista deve svolgere il lavoro che gli è stato commissionato con diligenza.

Infatti, la sua responsabilità consiste non nell’obbligazione del risultato, ma nell’obbligo dei mezzi utilizzati per raggiungere lo scopo. Per esempio, un avvocato può anche non riuscire a raggiungere il risultato sperato dal suo cliente, ma a patto che l’esito del suo lavoro sia stato svolto con diligenza. In caso contrario, può essere costretto a pagare il risarcimento del danno al proprio cliente.

Conclusioni

Riassumendo, i liberi professionisti sono lavoratori autonomi, ma con una serie di doveri a cui far fronte e una serie di norme da seguire obbligatoriamente. I lavoratori autonomi, infatti, non hanno l’obbligo di iscriversi a un albo professionale, seguire le regole del proprio ordine o provvedere alla contribuzione in una cassa previdenziale privata. Inoltre, una parte di loro non svolge una professione di natura intellettuale.

 

Casse previdenziali professionisti: tutto quello che c’è da sapere

Con la dicitura casse di previdenza per i professionisti si fa riferimento agli enti che come attività principale, si occupano di riscuotere e gestire i contributi previdenziali dei loro iscritti. Ecco come funzionano.

Casse previdenziali professionisti: quali sono i compiti?

Per quanto riguarda il profilo previdenziale, spesso molti professionisti, sono tutelati da casse per singola categoria. Per quelle figure professionali in cui invece non è prevista, vige l’obbligo di iscriversi presso l’INPS. L’istituto nazionale di previdenza sociale (INPS) è il più importante ente previdenziale d’Italia. Tra le sue attività principale rientra, senza dubbio, quella del pagamento delle pensioni. Ma non solo, offre anche molteplici servizi tra cui la malattia, la disoccupazione, erogazione di assegni per nucleo familiare o similari. Inoltre, tramite il prelievo dei contributi si occupa:

  • dell’apertura del conto assicurativo di lavoratori autonomi e dipendenti, statali e privati;
  • dell’iscrizione delle aziende;
  • le visite mediche per le cure termali;
  • denunzia di rapporto di lavoro domestico;
  • rilascio dell’attestato conto assicurativo e certificativo;
  • emissione di modelli di certificazione fiscale.

Cassa previdenziale: alcune tra le quelle più importanti

Accanto all’INPS esistono anche altre casse specifiche per categorie di professionisti. Di seguito, quelle più comuni:

  • la Cassa dei Geometri;
  • la Cassa Nazionale di Previdenza dei Ragionieri;
  • la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Dottori Commercialisti;
  • Inarcassa (Architetti ed Ingegneri);
  • la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense;
  • l’INPGI Istituto nazionale di previdenza per i giornalisti italiani;
  • Epap per dottori agronomi, forestali, chimici e geologi;
  • Enpapi per la professione infermieristica;
  • Casagit, cassa autonoma per i giornalisti italiani.

Se da una parte lo scopo di queste casse è proprio gestire i contributi previdenziali e fornire assistenza agli iscritti, dall’altra rappresentano un costo per i liberi professionisti.

Cassa previdenziale: l’aspetto dei finanziamenti

Alle casse previdenziali non sono consentiti Finanziamenti pubblici con esclusione di quelli connessi a sgravi di tipo fiscale e riferiti a oneri sociali. Lo scopo delle casse è quindi di interesse pubblico. Le Casse sono pubbliche amministrazioni che si occupano dell’assicurazione obbligatoria per l’invalidità e vecchiaia rientrante nella previdenza sociale che, ex art. 38, quarto comma Cost. e art. 1 l. n. 146/1990, costituisce pubblico servizio.

Questo principio è stato sancito dalla Corte di Cassazione n. 7645 del 2020. Inoltre, le casse devono sempre trovarsi in una condizione di equilibrio finanziario, in riferimento ad un arco temporale di 30 anni. Questo principio permette di avere una fluidità e regola fiscalizzazione di contributi previdenziali. E’ ancora in sospeso l’aspetto relativo agli investimenti delle casse di previdenza.

Casse previdenziali: i codici di trasparenza

Tutte le casse previdenziali devono seguire codici di trasparanza, secondo le linee guida ADEPP. L’Adepp è l’associazione degli Enti previdenziali privati. Oggi al suo interno ci sono 18 casse di previdenza private e privatizzate e due casse di assistenza. Quindi rappresenta circa un milione di 600 mila professionisti. Le casse previdenziali devono svolge la loro attività in maniera chiara. E i bilanci devono quindi essere veritieri, secondo i principi contabili che impongono di usare il mark to market per valutare attività e passività finanziarie. Solo attraverso la trasparenza, infatti, è possibile assicurare la permanenza della cassa stessa e l’assistenza adeguata ai propri iscritti.

Tassazione e sgravi: alcuni effetti fiscali della legge di stabilità 2015

La legge di stabilità 2015, approvata due giorni prima di Natale, ha portato alcuni “regali” dal punto di vista della tassazione.

Innanzitutto aumenta la tassazione sulla previdenza in generale: sui rendimenti dei fondi pensione, che passa dal 11,50% al 20%, sulla rivalutazione del TFR, dal 11% al 17%, sui rendimenti finanziari delle casse di Previdenza, dal 20% al 26%, sulle polizze vita che passano da 0% a 26%.

Secondo molte sentenze dei tribunali italiani e della Corte di Cassazione, le polizze vita sono strumenti assimilabili ai prodotti previdenziali quando hanno due caratteristiche: sono collegati ad un evento inerente la vita umana e prevedono un premio di maggiorazione per decesso all’età dell’assicurato. In pratica assumono la funzione di integrazione del reddito dei superstiti, beneficiari della polizza.

La tassazione dei rendimenti di tali polizze era pari a zero, nei confronti dei beneficiari, mentre con la nuova legge sono ora tassati ordinariamente al 26% con in più un effetto retroattivo ai rendimenti del 2014.

Rimangono, per il momento, escluse dall’asse ereditario e quindi esenti da imposte di successione o donazione, ma non credo che questo vantaggio rimanga ancora per molto tempo, considerando la media europea in tema di imposte di successione molto più elevata rispetto all’Italia e l’assenza o la scarsa presenza in Europa di esclusioni e franchigie. Ricordo che da noi la franchigia è di 1 milione di euro per erede.

Anche l’aumento della tassazione sui fondi pensione li rende meno appetibili e convenienti per i pensionandi. Considerando anche la scarsa trasparenza sulle gestioni dei medesimi e i rendimenti non esattamente brillanti, viene da pensare se esistono alternative per costruire un reddito supplementare da utilizzare al momento della pensione.

Stesso discorso vale per il TFR: aumentata la tassazione sulla rivalutazione, investire il proprio TFR in strumenti a carattere previdenziale, rimane un investimento utile ad integrare la pensione? Con la nuova legge viene data la possibilità ai lavoratori del settore privato (escluso quello agricolo e domestico) di incassare quanto versato e inoltre di ricevere in busta paga l’importo che l’azienda dovrebbe accantonare. Se queste somme venissero impiegate cum grano salis ed investite correttamente, potrebbero generare risultati integrativi della pensione molto più soddisfacenti rispetto ai tradizionali strumenti previdenziali, seppur appesantite dalla tassazione che in questo caso diverrebbe ordinaria e non più agevolata (ma sempre meno).

Lo Stato sicuramente ci guadagna, perché la tassazione è più elevata, ma forse anche il lavoratore può trarne dei vantaggi, se non fiscali, almeno per quanto riguarda libertà di utilizzo di quanto versato e rendimenti generati nel tempo. Chi aderisce alla previdenza complementare o versa il TFR alla medesima, è vincolato alle regole in materia pensionistica; difficoltà ad ottenere quanto versato se non per casi eccezionali, conversione in rendita almeno del 50% del versato (non viene restituito tutto il capitale a scadenza), e tabelle di conversione in rendita applicate dalle compagnie assicuratrici o dai fondi pensione, che pareggiano la rendita annuale con quanto versato mediamente dopo 18 anni (65+18=83 anni). Se il pensionato vive oltre, inizia a guadagnare qualcosa. Altrimenti, ci guadagna la compagnia o il fondo.

Una buona notizia: è invece aumentato a 30.000,00 euro l’importo massimo per la deducibilità ai fini IRES delle erogazioni liberali in denaro (effettuate in maniera tracciabile) in favore delle Organizzazioni No Profit di Utilità Sociale, aumentando al 26% la percentuale di detraibilità ai fini IRPEF.

Ma c’è il rovescio della medaglia, che è la nuova tassazione degli enti non commerciali, di cui fanno parte appunto gli enti No Profit, le fondazioni, le organizzazioni di volontariato e i trust. In precedenza questi enti avevano una esenzione di imposta del 95%, pagavano quindi le imposte solo sul 5% degli utili distribuiti. Ora invece l’esenzione è ridotta al 22,76% e pagheranno quindi sul 77,24% degli utili. Retroattiva anche questa, a partire dal primo gennaio 2014. In pratica, se prima pagavano 27,5%*5%=1, 375%, ora pagano 27,5%*77,24%= 21,24%, che significa un aumento di oltre 15 volte l’imposta.

Inoltre, se gli enti hanno dei beneficiari individuati, l’aliquota sarà quella marginale e quindi mediamente 43% invece del 27,5%, con un ulteriore inasprimento per il contribuente.

La ragione del provvedimento è stata motivata con l’equiparazione tra tassazione degli enti non commerciali e quella delle persone fisiche, che appunto pagano mediamente il 43% di aliquota. Però non si comprende la ratio, perché le persone fisiche possono utilizzare gli utili e i dividendi per le finalità che ritengono opportune, mentre gli enti no profit devono reinvestire gli utili per i fini istituzionali e non possono utilizzarli diversamente. Di fatto gli enti No Profit reinvestono gli utili in favore dei propri assistiti o dei beneficiari dell’ente, rimettendo in circolo il risultato generato. Quindi perché equipararli alle persone fisiche?

La retroattività invece non si applica allo sconto sull’Irap di imprese e professionisti, che decorre dal 2015. Potrà essere scalato interamente il costo dei soli lavoratori a tempo indeterminato, esclusi quindi collaboratori a progetto, collaboratori e tutti i lavoratori assunti con contratti a tempo determinato. Sono esclusi gli enti non commerciali.

Ma si tornano però ad applicare le aliquote IRAP del 2013, più elevate rispetto al 2014, aumentando nuovamente dal 3,5% al 3,9% l’aliquota base, questa con effetto retroattivo al 2014. Viene annullato quindi il beneficio concesso lo scorso anno, che non entra in vigore. Chi ha già anticipato, dovrà integrare sulla base della nuova aliquota. Abbiamo scherzato, insomma!

Sempre il bastone e la carota, non c’è verso di cambiare. Se c’è una agevolazione da un lato, subito spunta un aumento dall’altro. Ci sarà un credito di imposta in compensazione, aumentato al 10% dell’imposta lorda, per chi non ha dipendenti; è stato introdotto per bilanciare lo svantaggio di non poter utilizzare il taglio IRAP per i dipendenti per chi non ne ha.

Il bonus IRPEF di 80 euro in busta paga diventa, da credito d’imposta precedente, una detrazione per l’azienda e diventa strutturale, non più provvisorio.

E’ ovvio che più dipendenti, assunti a tempo indeterminato, ha un’azienda, maggiore sarà il vantaggio fiscale, che però, decorrendo dal 2015, diventerà effettivo solo a partire dai versamenti del 2016. Quindi tocca tirare la cinghia anche per il 2015!

dott. Marco Degiorgis – Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

Nuovo mandato dal Consiglio Nazionale Tributaristi

di Giulia DONDONI

È stato approvato in via definitiva dal Consiglio Nazionale Tributaristi INT il nuovo mandato per incarico professionale che il tributarista dovrà fare sottoscrivere al proprio committente e controfirmare.

Il nuovo modello, che sostituisce il precedente, contiene ulteriori indicazioni circa l’attività svolta dal tributarista e le abilitazioni possedute, l’indicazione della polizza  assicurativa di r.c. verso terzi e altri obblighi come i il rispetto del Codice Deontologico e dell’ aggiornamento professionale, il numero di iscrizione all’INT, il preventivo di massima ed altri obblighi e/o diritti delle parti.

Inoltre, nella parte di  dichiarazioni del committente si evidenzia che lo stesso è edotto che il tributarista non è iscritto all’Albo unico dei dottori commercialisti ed esperti contabili di cui alla Legge n.34/2005 e D.Lgs. 139/2005, il tutto in modo da dare massima trasparenza alla tipologia di attività svolta e fornire chiare indicazioni sulle proprie abilitazioni.

Evidenziando così in modo inequivocabile il non possesso di quel titolo professionale e delle abilitazioni ad esso collegate, ciò per la massima trasparenza ed il rispetto di quanto contenuto nella Sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 11545/2012  a  SS UU.

Così ha dichiarato il Presidente dell’INT Riccardo Alemanno: ” Un documento che chiarisce in modo ancora più preciso ed inequivocabile, quanto già da sempre noi evidenziamo ovvero di essere tributaristi e non qualcosa di simile ad altre figure professionali, delle quali rispettiamo con la massima attenzione le  funzioni riservate, rispetto che però pretendiamo per la nostra attività, orgogliosi di essere tributaristi, tributaristi iscritti all’ INT. Credo che questa sia la risposta più efficace alla legittima iniziativa del Presidente del Consiglio nazionale DCEC sull’ esercizio abusivo della professione e sull’abuso di titolo professionale, anche noi siamo assolutamente d’accordo sulla lotta a chi vanta abilitazioni professionali di cui non è in possesso e a chi , non  dichiarando chiaramente l’attività svolta può indurre in errore i terzi e quindi carpirne la buona fede, e siamo anche noi attenti a monitorare gli indizi che evidenziano anomalie nello svolgimento dell’attività professionale  come chi la esercita, questi si sono i veri abusivi,  senza dichiararne i compensi all’erario e quindi sottraendoli alla tassazione, ma ciò non riguarda i tributaristi dell’INT pertanto non ci sentiamo oggetto delle suddette iniziative. Di questo ritengo siano perfettamente consci i membri del CNDCEC, poiché il loro rappresentanti siedono con  i nostri nella Commissione centrale sugli Studi di settore del Ministero delle Finanze, dove vengono determinati e discussi i parametri per la determinazione dei ricavi delle varie categorie professionali ed il cluster dello studio di settore, specifico per i tributaristi pertanto differente da quello dei dottori commercialisti ed esperti contabili, analizza le attività svolte da questi professionisti, attraverso le quali il tributarista produce reddito da lavoro autonomo professionale, analisi che viene svolta in contraddittorio con i rappresentanti dell’Amministrazione finanziaria e delle professioni economico-contabili.  Evidentemente non possiamo essere noi i destinatari delle iniziative di  vigilanza degli Ordini locali sollecitate dal Presidente Siciliotti.”

Cosa succede se un professionista non viene liquidato da una società?

Secondo l’interpretazione contenuta nella risoluzione n. 106/E del 13 ottobre 2010, in risposta ad un’istanza di interpello presentata da una società soccombente in giudizio, per inadempimento contrattuale nei confronti di un notaio, viene affermato che l’importo che il giudice liquida in sentenza per inadempimento contrattuale a favore di un professionista, sconta la ritenuta d’acconto del 20% sull’intera somma, compresa la copertura delle spese processuali. Nello stesso tempo, il professionista può dedurre dal reddito d’impresa, in quanto inerenti alla sua attività, le spese processuali sostenute.