Cresce il BYOD nel mondo

Il BYOD – Bring Your Own Device, ovvero l’utilizzo dei propri mobili per accedere alle informazioni messe a disposizione dall’azienda – è sempre più diffuso nel mondo e le aziende dovranno attrezzarsi di conseguenza.

Secondo i dati contenuti nel quarto rapporto annuale di Ovum sulla cosiddetta “enterprise mobility”, elaborato alla fine del 2015, il BYOD è così diffuso che il 60,5% degli impiegati utilizza almeno uno dei propri device mobili per lavorare.

Nello specifico, il 47,2% di loro usa il proprio smartphone, il 25,1% il proprio tablet e il 7,8% i cosiddetti wearable devices, come gli smartwatch. Il pc portatile personale è utilizzato in BYOD a fini lavorativi dal 4,1% degli impiegati.

Il commento sui dati dell’analisi su BYOD è affidato all’Enterprise mobility & IT service management research analyst di Ovum, Adam Holtby. “I risultati sono il frutto delle risposte di lavoratori, con mansioni differenti, provenienti da una grande varietà di regioni e di aziende, con l’obiettivo di capire meglio le loro abitudini di lavoro, e come i nuovi hardware e applicazioni stiano supportando i loro obiettivi di produttività”.

E ancora: “Come dimostrano i dati, le persone sono decisamente orientate ad affrontare il proprio lavoro utilizzando numerosi device, e non accettano di buon grado limitazioni che non consentano loro di raggiungere questo obiettivo. Si avverte dunque il bisogno di servizi di desk e IT per riconoscere le nuove opportunità che potranno derivare da questi nuovi comportamenti del lavoratori, e come rendere possibile e supportare il modello di spazio di lavoro digitale verso il quale si sta muovendo il mondo del lavoro”.

Lavoro agile, una giornata da ricordare

Sono stati resi noti dal Comune di Milano i dati di adesione e alcune statistiche relative alla Giornata del Lavoro Agile che si è tenuta lo scorso 18 febbraio in tutta Italia. Il dato più eclatante riguarda il percorso risparmiato per andare in ufficio da chi ha aderito all’iniziativa: 246mila chilometri.

La Giornata del Lavoro Agile, voluta dall’Amministrazione comunale di Milano, ha consentito di abbattere del 3% le emissioni atmosferiche inquinanti, con un’emissione nell’atmosfera di 8 kg di Pm10, 110 kg di ossidi di azoto e 49 tonnellate di anidride carbonica in meno.

Alla giornata hanno aderito 502 sedi di lavoro sparse in tutta Italia e i partecipanti complessivi e certificati sono stati oltre 15mila, dai 7mila della prima edizione del 2014. Nei tre anni, le aziende partecipanti sono state 242, con un bacino potenziale di 127mila lavoratori. Alto l’indice di gradimento dell’iniziativa: 4,8 su 5, in base alle 3mila risposte al questionario distribuito nel 2016 ai 16mila partecipanti alla giornata.

Oltre alle emissioni inquinanti, la giornata dedicata allo smart working ha consentito a ogni lavoratore di risparmiare 110 minuti, contro i 112 del 2014, e i 108 del 2015. Per quanto riguarda gli spazi dove i lavoratori hanno svolto il proprio lavoro agile, l’87% di loro lo ha fatto da casa propria e ben il 16% da uno spazio di coworking. Tra le aziende che hanno aderito alla Giornata del Lavoro Agile, il 58% conta meno di 100 dipendenti, con una crescita però delle aziende più grandi.

Per quanto riguarda i mezzi di trasporto, il 42% dei lavoratori che hanno partecipato ha rinunciato all’auto e l’11% ad altri mezzi di trasporto, con una media di 40 km di spostamenti casa-lavoro risparmiati da ogni singolo lavoratore.

La maggioranza dei lavoratori che ha aderito alla giornata è costituita da donne, 53%, e il 52% delle lavoratrici e dei lavoratori che in questi tre anni ha sperimentato una giornata di lavoro agile lo ha fatto per la prima volta. Analizzando le fasce di età, il 70% dei lavoratori ha più di 40 anni e il 97% è diplomato o laureato.

Smart working, croce o delizia?

Negli ultimi anni il modo di lavorare è cambiato per sempre, soprattutto grazie al fatto che si è sempre connessi, in ogni luogo e in ogni momento della giornata. Una condizione che per molti è un vantaggio, per altri una galera. Lo smart working deve la diffusione sempre maggiore che sta incontrando, specialmente nelle grandi aziende, proprio grazie al fatto che la tecnologia e si è sviluppata al punto che, anche in mobilità, non si rinuncia a lavorare e ogni luogo può diventare un ufficio improvvisato.

Una tendenza che emerge chiaramente da una ricerca svolta da Regus il principale fornitore globale di spazi flessibili, su un panel internazionale di imprese clienti (per un totale di 44mila interviste in 105 Paesi), alcune delle quali italiane. Ebbene, secondo i risultati della ricerca, oltre la metà degli intervistati in Italia (53%, con una media globale del 49%) effettua un tipo peculiare di smart working controllando rapidamente e-mail e messaggi di lavoro al bar, ma solo il 30% di loro, contro una media globale del 39%, risponde subito ai messaggi ricevuti.

Anche i mezzi pubblici diventano un ufficio virtuale per il 50% degli italiani, che leggono e-mail di lavoro (contro il 41% di media globale); anche in questo casi solo, il 20% di loro (contro una media globale del 24%) invia subito delle risposte, anche se brevi.

La rapidità nella risposta è dovuta sicuramente al fatto che si tratta di ambienti che non favoriscono uno smart working pieno e completo, soprattutto perché si tratta di luoghi affollati e rumorosi, dove non è possibile leggere in maniera attenta documenti importanti né effettuare conversazioni telefoniche che dovrebbero restare riservate. Ecco perché dalla ricerca emerge che lo svolgere il proprio lavoro conservando la privacy è un fattore critico chi si dedica allo smart working.

Dall’analisi di Regus è anche emerso che il 60% degli italiani trova utile effettuare chiamate di lavoro mentre è alla guida della propria auto. Soluzione meno gradita (17%) per le conference call, soprattutto per il rischio di perdere la connessione con uno o più interlocutori.

Molto meglio, per chi pratica lo smart working, utilizzare per almeno mezza giornata una business lounge; lo pensa il 35% degli intervistati italiani, che vede in questa soluzione professionalità, privacy e la possibilità di accedere a diversi servizi di segreteria utili per il proprio lavoro, come stampe e fotocopie.

La business lounge si configura per 1 italiano su 4 anche come una soluzione ottimale per videochiamate o conference call. Il fatto che questo sia uno dei business principali di Regus, che ha elaborato la ricerca, è comunque relativo: i risultati dell’analisi raccontano che il “virus” dello smart working si sta diffondendo e non sarà facile fermarlo…

Smart working e Pmi, un rapporto difficile

Che lo smart working rischi di diventare una moda più che il vero, nuovo modo di coniugare lavoro, produttività e vita privata? Il rischio c’è almeno stando al movimento che si è registrato prima, durante e dopo la Giornata del Lavoro Agile celebrata la scorsa settimana.

Sono sempre più, infatti, le grandi aziende italiane ed estere presenti in Italia a introdurre politiche di lavoro agile. Di questi giorni sono le uscite di Barilla, Alstom e Siemens, più consolidate e strutturate le esperienze di Vodafone, Microsoft. Tutti grandi nomi, per i quali le dimensioni e la portata del know how tecnologico rendono le politiche di smart working uno sviluppo quasi naturale delle loro policy di HR. Ma le Pmi?

Quello tra Pmi e smart woking, in Italia, è un matrimonio ancora tutto da fare e la cosa non è certo incoraggiante, visto che le piccole e medie imprese sono l’ossatura su cui si regge buona parte dell’economia del nostro Paese. La difficoltà di introdurre nelle Pmi una cultura del lavoro agile è confermata da un’analisi dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano.

Secondo i risultati di questa analisi, nelle Pmi italiane, la diffusione dello smart working è ancora molto limitata: oltre una Pmi su due non sa che cosa sia e, se lo conosce, sostiene di non esserne interessata. Solo un misero 5% di piccole e medie imprese afferma di avere un progetto di lavoro agile strutturato. Nel 29% dei casi si è dimostrato interesse e nel 9% qualche forma di lavoro flessibile è stata introdotta in azienda.

L’analisi del Politecnico di Milano ha rilevato l’importanza del ruolo delle funzioni di staff nell’ideazione, avvio e coordinamento dei progetti di smart working. Progetti nella maggior parte dei casi in capo alle funzioni HR (71%) e IT (37%) dell’azienda, con un 60% di casi in cui la funzione Facility Management si trova a gestire fasi rilevanti delle politiche di lavoro agile, pur non essendone la struttura direttamente responsabile. Sorprende, per certi versi, il 66% dei casi in cui sono coinvolte nelle iniziative di smart working le rappresentanze sindacali aziendali.

Un altro fattore che dovrebbe giocare a favore della implementazione di politiche di smart working è la rapidità con cui queste possono essere ideate, organizzate e avviate. Sempre secondo il Politecnico, il 32% delle aziende che si muove verso queste politiche ha iniziato a progettarle l’anno scorso e il 12% nella prima parte del 2015.

Se, dunque, nelle piccole e medie imprese lo smart working fatica a prendere piede tanto per ragioni strutturali quanto culturali, nelle aziende più grandi si registra invece un interesse più forte. L’analisi del Politecnico rileva che solo il 3% delle imprese è disinformato, il 12 è disinteressato, il 37% è interessato ma non ha progettato o attivato iniziative. Elevato il numero delle imprese che, invece, sono già avviate sulla strada del lavoro agile: quasi 1 su 2, e di queste il 17% lo ha fatto in modo strutturato, un altro 17% in modo informale e il 14% ha avviato progetti di lavoro agile.

Smart working, c’è tanto da fare

Lo smart working è un fenomeno da cavalcare. Se molte grandi aziende lo hanno già capito, per le piccole e medie imprese è più difficile, specialmente in Italia. Lo dimostra anche una ricerca svolta da Vodafone sul tema dello smart working, Flexible Work: Friend or Foe? (che significa Lavoro flessibile: amico o nemico?).

Si tratta di un’indagine quantitativa svolta in 10 Paesi su un campione di 8mila persone, diviso tra lavoratori e datori di lavoro, manager e dirigenti di piccole e medie imprese, multinazionali organizzazioni del settore pubblico.

I risultati dicono che, a livello globale, il 75% delle aziende ha implementato forme di smart working che permettono ai dipendenti di organizzare in modo autonomo la propria giornata di lavoro. Gli strumenti principali che consentono loro di lavorare da casa o in mobilità sono di natura principalmente tecnologica, come smartphone, tablet, linee adsl o a fibra ottica.

Dal punto di vista dei datori di lavoro, lo smart working ha portato a un aumento della produttività (nell’83% dei casi), a una crescita dei profitti (61%) e a un impatto positivo sulla reputazione dell’azienda (58%).

C’è però ancora un 33% di datori di lavoro secondo i quali lo smart working è lontano dalla mentalità aziendale; per altri (25%) può portare a una distribuzione iniqua del lavoro o a scontri tra i dipendenti che lo praticano e quelli che non lo praticano (30%). Resiste un 22% di datori di lavoro che crede che politiche di smart working porterebbero i dipendenti a impegnarsi di meno sul lavoro.

Spostando lo sguardo dai datori di lavoro ai lavoratori, coloro i quali non praticano lo smart working credono che, utilizzandolo, sarebbero più motivati sul lavoro (55%) e ne gioverebbero anche la produttività (44%) e i profitti (30%) dell’azienda. Allo stesso modo, i giovani sono più inclini a utilizzare il lavoro agile pensando che migliori qualità e produttività: il 72% della fascia 18-24 anni contro il 38% degli over 55.

Relativamente all’Italia, lo studio di Vodafone ha rilevato come il 40% dei lavoratori non sia interessato da politiche di lavoro agile, utilizzato invece dal 31% dei lavoratori. Nello specifico il 38% dei lavoratori intervistati collega la scarsa propensione allo smart working al proprio ruolo, il 43% non cambierebbe l’attuale organizzazione e un piccolo 9% pensa persino che il lavoro flessibile possa influire negativamente sulla propria carriera.

Tanto è vero che alla domanda su che cosa farebbe la propria azienda se le fosse richiesto di lavorare in modo flessibile, il 34% degli intervistati ha risposto che i capi rifiuterebbero, il 25% che accetterebbero con riserva e il 16% che i vertici aziendali accetterebbero senza remore. Del resto il 47% degli intervistati crede che lo smart working abbia effetti positivi sulla propria vita, il 48% che migliori l’azienda, il 60% che sia tanto un’opportunità per i dipendenti quanto per il business aziendale.

Sul fronte dei device, infine, risulta che lo smartphone personale sia il dispositivo più usato da chi lavora fuori dal proprio ufficio (58% dei casi), seguito da pc (27%) e notebook personale (23%). Solo il 14% degli intervistati è dotato di smartphone aziendale e il 18% di notebook aziendale.

Lavoro in mobilità, crescita vertiginosa

Il lavoro in mobilità è da tempo una realtà e sarà sempre più diffuso con il passare degli anni, tanto che, entro il 2018, il 75% della forza lavoro dell’Europa occidentale sarà mobile. È quanto emerge da un white paper stilato dalla società di analisi IDC e sponsorizzato da OKI Europe. Driver di questo sviluppo potente è il BYOD.

Essendo stato sponsorizzato da una importante azienda di stampanti, il titolo del white paper è piuttosto scontato: “I vostri processi aziendali stanno soffocando la vostra opportunità di mercato? Stampa conveniente e gestione dei documenti tramite gli MFP (stampanti multifunzione, ndr) intelligenti”.

Risulta comunque interessante una tendenza, legata al continuo sviluppo del lavoro in mobilità: le imprese devono avere costantemente sotto controllo il modo in cui i dipendenti lavorano sia in BYOD, sia con i device aziendali, per proteggere la proprietà intellettuale dell’azienda e i dati sensibili, consentendo nello stesso tempo ai dipendenti di accedere alle informazioni ovunque e in qualsiasi momento tramite il lavoro in mobilità.

Del resto, già in uno studio del 2013 sulle abitudini europee e sulle tendenze di mercato dei servizi di stampa, IDC aveva rilevato che un terzo delle aziende consentiva ai propri dipendenti di utilizzare smartphone, laptop e tablet personali. Contestualmente, alla domanda rivolta alle Pmi sulla percezione dell’efficienza dei processi aziendali, molte di esse aveva concordato sulla necessità di un loro miglioramento, considerando che il lavoro in mobilità dei dipendenti avrebbe potuto favorire i processi digitalizzati.

C’è fame di smart working

Lo scorso 18 febbraio si è celebrata la Giornata del lavoro agile, smart working per chi pensa di parlare bene. Un modo di lavorare che, da moda passeggera, si avvia a diventare qualcosa di strutturale, grazie anche al quadro normativo che, di recente, il governo ha provato a dare al fenomeno.

Ma lo smart working è impegnativo. Per far sì che le aziende possano mettere in opera politiche efficaci di lavoro agile sono necessarie una svolta e una maturazione sia strutturale sia culturale nelle aziende italiane. Strutturale, perché le politiche di smart working necessitano di soluzioni tecnologiche e di device da fornire ai dipendenti. Culturale – e questa è la più difficile in Italia – perché nel nostro Paese il concetto e l’idea di produttività sono ancora molto legate alla presenza fisica del dipendente sul posto di lavoro. Con la convinzione che un dipendente che lavora sotto l’occhio del padrone sia più efficiente e produttivo. Convinzione errata, come dimostrato da diversi studi.

A testimonianza di quanto il concetto di smart working sia ancora penetrato nel mercato del lavoro italiano e nei pensieri dei dipendenti, arriva l’indagine ”Work Trends Study”, svolta da Adecco proprio in occasione della Giornata del lavoro agile, i cui risultati fanno riflettere.

Secondo quanto emerso dall’indagine, il 67,7% dei candidati lavoratori dichiara di non aver mai sentito parlare di smart working, così come il 28% dei recruiter e degli HR manager. Inoltre, le imprese pensano che lo smart working potrà diffondersi difficilmente, soprattutto a causa della struttura e dell’organizzazione delle aziende (59,4%) e di una carenza di investimenti nella cosiddetta gestione del cambiamento (51%).

Nonostante questo, però, oltre la metà degli intervistati (57,2%) sarebbe incline a lavorare da casa, il 40,5% lavorerebbe fuori ufficio e in qualsiasi altro luogo utilizzando il proprio dispositivo mobile, mentre solo l’8,5% non è favorevole a lavorare al di fuori del proprio ufficio. Insomma, la fame di smart working c’è, tocca alle aziende preparare un menù appetitoso.

Si fa presto a dire smart working …

Si fa un gran parlare di smart working, ma in realtà non sono in molti a sapere che cosa esattamente implica né sono numerose le aziende che lo applicano. Ciò che è certo è che le modalità lavorative basate sullo smart working si stanno diffondendo sempre di più, sia in Italia sia nel mondo.

Una tendenza confermata dai dati raccolti da Regus – fornitore mondiale di spazi di lavoro flessibili – attraverso il suo panel internazionale di imprese clienti (44mila interviste in 105 Paesi), che evidenzia come oltre la metà dei manager intervistati (54% media globale) intenda accrescere il lavoro agile in azienda. Un trend confermato in Italia con il 46% dei rispondenti, oltre che in tutti i principali Paesi europei e negli Stati Uniti.

Tra i principali fattori che guidano il cambiamento delle aziende verso lo smart working, il 56% dei rispondenti in Italia (contro il 44% della media globale) ritiene che questi modelli organizzativi basati su agilità e flessibilità siano determinanti per reagire tempestivamente ai repentini mutamenti degli scenari di mercato.

Anche un corretto bilanciamento tra lavoro e vita privata (il cosiddetto work-life balance) è ritenuto necessario dal 58% degli imprenditori e manager italiani intervistati (contro una media globale del 61%) e la soluzione può venire dall’utilizzo di modalità di lavoro agile grazie alla possibilità di lavorare più vicino a casa, un’esigenza segnalata dal 45% degli intervistati in Italia (la media globale è del 48%).

Ma non è tutto qui. Secondo l’indagine Regus, altre necessità che potrebbero essere soddisfatte con lo smart working sono:

  • La riduzione dei costi di viaggio casa/lavoro per il 35% degli intervistati (media globale 32%);
  • La riduzione dei costi legati all’abitare in città, secondo il 12% (16% media globale), con la possibilità di lavorare anche fuori ufficio, da casa o vicino a casa;
  • La maggiore capacità di attrarre i migliori talenti (28% Italia e 29% media globale);
  • La riduzione degli spazi uffici con l’ottimizzazione dei costi e una maggiore flessibilità logistica e organizzativa (24% Italia e 17% media globale).

Lavorare da casa? Bello, sì, ma…

Ci sono persone che per lavorare da casa e avere la possibilità di gestire al meglio il proprio tempo e le proprie esigenze farebbe carte false e chi, invece, trova l’home working noioso e ripetitivo. Di sicuro, però, lavorare da casa ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi e, se si tende più spesso a mettere l’accento sui primi, anche i secondi non sono pochi.

A farlo ci ha pensato Regus, il principale fornitore di spazi di lavoro flessibili, che con un’indagine internazionale ha rilevato che oltre il 50% (50,9% dato Italia e 52% media globale) dei professionisti intervistati dichiara di lavorare da casa molto spesso e spesso fuori ufficio, per almeno metà dei giorni lavorativi della settimana.

Una modalità di lavoro agile che comporta dei vantaggi, come la maggior flessibilità degli orari, l’ottimizzazione dei tempi evitando trasferimenti casa-ufficio nelle ore di punta e un miglior equilibrio tra vita lavorativa e tempo libero. Ma, secondo Regus, come in ogni cambiamento nelle abitudini consolidate sorgono delle criticità anche quando ci si trova a lavorare da casa.

Regus, nella sua inchiesta condotta a livello globale su un campione di 44mila manager e professionisti ha riscontrato negli intervistati che sono soliti lavorare da casa per molto tempo un profondo senso di solitudine (38% media globale), leggermente inferiore nel nostro Paese (28% il dato relativo all’Italia). Molto avvertito è anche il disagio dovuto a una minor interazione e possibilità di confronto con altri colleghi e professionisti (67% Italia e 64% media globale).

Inoltre il 40% degli italiani (62% media globale) avverte la necessità di programmare frequenti meeting, viaggi e incontri di lavoro fuori casa per compensare il senso di solitudine e isolamento che deriva dal lavorare da casa.

Rispetto alla tradizionale organizzazione di routine “casa-ufficio”, queste modalità di smart working o di lavoro agile a volte non sono del tutto comprese dalle famiglie, causando il timore in chi è solito lavorare da casa che la propria attività professionale venga sminuita e considerata meno importante. Una situazione particolarmente avvertita in Italia per il 45% degli intervistati, mentre il dato globale registra una media del 39%.

Un’altra considerazione degli intervistati, più collegata al benessere personale, riguarda il timore di ingrassare poiché, trascorrendo molto tempo a lavorare da casa alla scrivania si è tentati dagli snack fuori dall’orario dei pasti (il dato Italia e la media globale coincidono al 32%).

Ecco, in sintesi, il confronto fra il dato italiano e la media mondiale delle principali conclusioni del rapporto Regus:

  • il 50,9 % (52% media globale) dei professionisti segnala che lavorano fuori ufficio oltre la metà della settimana e molto spesso da casa;
  • Il 28% (38% media globale) dichiara di sentirsi solo e il 67% (64% media globale) avverte la mancanza di confronto con altri colleghi e professionisti;
  •    Il 40% (62% media globale) ha la necessità di organizzare meeting e viaggi di lavoro per sfuggire al senso di isolamento che deriva dal lavorare da casa;
  • Il 45% (39% media globale) teme che la sua famiglia percepisca che il lavoro svolto lontano dall’ufficio tradizionale sia meno importante;
  • Il 32% (media globale 32%) teme di ingrassare poiché a casa dispone di molti snack fuori pasto.

Italiani stakanovisti anche in ferie

E per fortuna non resiste più lo stereotipo dell’italiano pigro e indolente. Tutte le cifre dicono che siamo uno dei popoli che lavora di più, non solo in Europa. E ora scopriamo che lavoriamo tanto anche in ferie.

Lo ha rilevato il Randstad Workmonitor relativo al secondo trimestre 2015. Secondo la ricerca, durante le proprie ferie un italiano su due sarà disponibile al telefono e attraverso la posta elettronica (55%, contro una media globale del 47%) e lo farà in maniera serena, mentre il 48% sostiene di sentirsi costretto a rispondere a email e telefonate (contro una media mondiale del 38%).

L’indagine di Randstad che ha messo in luce queste abitudini lavorative in ferie è stata realizzata in 34 Paesi e ha un titolo molto significativo: “Orario di lavoro e tempo libero: i confini si dissolvono”. Il campione degli intervistati ha un’età compresa tra 18 e 67 anni, lavora per almeno 24 ore alla settimana in maniera retribuita.

Se dalla stessa indagine, tre anni fa, emergeva che solo quattro lavoratori su dieci avevano un datore di lavoro che richiedeva la sua disponibilità fuori dall’orario di lavoro e senza distinzioni, ora la percentuale è salita al 67%. Un dato che ci pone, nel mondo, al settimo posto (con una media globale del 57%) in una classifica che vede in testa la Cina (89%).

La maggioranza degli intervistati (60%) sostiene di non essere dispiaciuta di occuparsi di lavoro nel tempo libero e durante le ferie, +4% rispetto al 2012. Il 69% dei lavoratori italiani risponde immediatamente a chiamate e email di lavoro, mentre la media globale si ferma al 56%.

D’altro canto, il 64% dei lavoratori mondiali sbriga faccende personali in ufficio, mentre tra gli italiani ci si ferma al 57%, +24% rispetto al 2013. Un buon compromesso di scambio tra ferie e incombenze lavorative…