Imprese? I ritardi nei pagamenti ne ammazzano 1 su 3

di Davide SCHIOPPA

Da queste pagine non siamo soliti lanciare allarmi o fosche previsioni sullo stato della piccola impresa in Italia. Cerchiamo di limitarci a leggere i dati, anche quando questi non sono incoraggianti (cosa che accade spesso in un periodo come questo…), proponendoli ai lettori per invitarli a riflettere. Una delle nostre missioni è quella della positività, non forzata e non a tutti i costi; per cui, se oggi vi parliamo delle imprese che muoiono, non lo facciamo per venire meno a questa missione, ma per cercare di andare al di là della notizia e capire perché le nostre imprese stentano a sopravvivere.

Tanto per cambiare, i dati di cui parliamo oggi arrivano dall’ufficio studi della Cgia di Mestre e vale la pena arrivare subito al sodo: dal 2008, in Italia, sono fallite oltre 46mila imprese, una su tre per i ritardi dei pagamenti. Dall’inizio della crisi alla fine di giugno 2012, i fallimenti in Italia hanno sfiorato le 46.400 unità, dei quali poco meno di 14.400 a causa dell’impossibilità, da parte degli imprenditori, di incassare in tempi ragionevoli le proprie spettanze. La Cgia di Mestre ricorda anche che, secondo i dati di Intrum Justitia, la percentuale di aziende che in Europa falliscono a causa dei ritardi dei pagamenti è pari al 25% del totale. Siamo sopra la media, anche in questo caso un record poco invidiabile.

Se la crisi è l’accelerante di questo incendio che brucia il tessuto produttivo nazionale, non bisogna però dimenticare che, tra i principali Paesi dell’Unione europea, l’Italia è l’unico ad aver registrato, tra il 2008 e i primi mesi del 2012, un aumento dei tempi di pagamento: +8 giorni nelle transazioni commerciali tra le imprese private, +45 giorni nei rapporti tra Pubblica amministrazione ed imprese. E proprio in questo ultimo rapporto si annida lo scandalo, il cancro, il verme che rode l’impresa sana del nostro Paese. Le attività che lavorano per lo Stato centrale o per le autonomie locali si vedono pagare in media a 180 giorni, mentre in Francia le aziende vengono saldate dopo 65 giorni, in Gran Bretagna dopo 43, in Germania dopo 36 giorni. Tempo che le imprese non hanno: ogni giorno in più di ritardo è un centimetro di corda che si stringe intorno al collo delle aziende.

Nonostante il Governo Monti abbia messo in campo alcune misure che entro la fine di quest’anno dovrebbero sbloccare una parte dei pagamenti che i privati avanzano dalla Pubblica amministrazione – commenta Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestreè necessario che venga recepita quanto prima la Direttiva europea contro il ritardo nei pagamenti. La mancanza di liquidità sta facendo crescere il numero degli ‘sfiduciati’, ovvero di quegli imprenditori che hanno deciso di non ricorrere all’aiuto di una banca. Un segnale preoccupante che rischia di indurre molte aziende a rivolgersi a forme illegali di accesso al credito, con il pericolo che ciò dia luogo ad un incremento dell’usura e del numero di infiltrazioni malavitose nel nostro sistema economico“.

Che l’economia illegale non senta la crisi, è un dato che molti sottolineano. Facciamo in modo che non siano le imprese sane ad alimentare quelle malate. Ci verrebbe da dire “piuttosto meglio morire”, ma ci pare una conclusione di pessimo gusto.

Figisc e Anisa commentano i prezzi della benzina

Il rincaro dei prezzi della benzina, con il superamento della soglia dei due euro, fa discutere e ci si chiede se davvero si tratta di un evento inevitabile.

Il dubbio è lecito, specialmente se si guarda cosa accade fuori dal Belpaese, e non tanto lontano.
Basta andare oltralpe, dai cugini francesi, per rendersi conto che l’aumento delle accise non è poi cosi indispensabile e dove, per evitare un tracollo dell’economia nazionale, si è deciso di intervenire su due fronti: imposte e prezzo amministrativo.

Luca Squeri, presidente nazionale della Figisc, ha infatti dichiarato che questa soluzione è stata proposta dalla Federazione che gestisce i carburanti attraverso una raccolta di firme sulla rete distributiva, e che è stata accolta in modo favorevole. Secondo Squeri, questo provvedimento sarebbe “un esempio concreto da seguire con urgenza, visto anche il crollo verticale dei consumi che ormai tocca il 10 % rispetto allo scorso anno”.

La disamina del presidente Figisc è lucida e quanto mai desolante: “imposte crescenti, aumento del greggio ed ancor più dei prodotti raffinati e deprezzamento dell’euro hanno fatto aumentare i prezzi dei carburanti di 31 centesimi al litro da un anno fa: la maggiore fiscalità sui carburanti è responsabile per il 55% dell’aumento dei prezzi al consumo in questi ultimi dodici mesi, un aumento che colpisce duramente famiglie ed imprese, consumatori e benzinai, questi ultimi con un margine lordo fisso che non segue affatto l’andamento del prezzo e che, comprando a loro volta il prodotto ad un prezzo sempre più alto, sono fortemente indebitati con le banche”.

Per quanto riguarda il prezzo della benzina arrivato a 2 euro al litro, che Squeri ha ritenuto un’eccezione se comparato alla media nazionale, Stefano Cantarelli, presidente Anisa, ha fatto sapere che questo picco è stato rilevato anche a Parigi, segnale che ad avere qualche problema non siamo solo noi. E per ora sia l’Italia sia la Francia sono ben lontane dall’averlo risolto.

Ma chi, alla fine, riuscirà a uscire da questa debacle finanziaria in tempi più brevi?
Staremo a vedere.

Vera MORETTI

Un decreto contro i vizi degli italiani

E’ arrivato il decretone, ovvero il maxiprovvedimento che riguarda la sanità, predisposto dal ministro della Salute Renato Balduzzi e che dovrebbe essere presentato al Cdm il 31 agosto.

Tra le novità più evidenti, una maggiore severità che riguarda la vendita di alcool, che verrà tassato e non potrà essere acquistato da minorenni, pena una multa salata.

Provvedimenti anche per quanto riguarda videogiochi e videopoker, che non potranno essere installati nei pressi di scuole e ospedali. Nel dettaglio, non dovranno trovarsi entro 500 metri “da istituti scolastici di qualsiasi grado, centri giovanili o altri istituti frequentati principalmente da giovani, strutture residenziali o semiresidenziali operanti in ambito sanitario o socio assistenziale, luoghi di culto”.

I minorenni sono sorvegliati speciali del decreto anche per quanto riguarda il fumo: multe da mille euro, che raddoppiano in caso di recidiva, “con la sospensione per tre mesi della licenza all’esercizio di attività” per chi vende sigarette ai minori di 18 anni.
I rivenditori, dunque, avranno l’obbligo di chiedere all’acquirente un documento di identità, “tranne nei casi in cui la maggiore età dell’acquirente sia manifesta”.

La salute dei cittadini passa sotto i raggi x della legge, anche quando riguarda il tempo libero. Che si decida di trascorrerlo in palestra o in piscina, poco importa: per tutti coloro che vorranno praticare uno sport non sarà più sufficiente il certificato di sana e robusta costituzione rilasciato dal proprio medico curante. Il documento da presentare dovrà essere redatto da un medico sportivo.

A “gestire” lo stile di via dei cittadini può, inoltre, intervenire il sindaco che, con un’ordinanza motivata, “può disporre, per una durata massima di 30 giorni, la chiusura ovvero la limitazione dell’orario di apertura e chiusura degli esercizi commerciali, dei locali o, comunque, dei punti offerta dei giochi, nelle aree comunali interessate da rilevanti fenomeni di ludopatia”.
Il prefetto con ordinanza motivata “può disporre l’impignorabilità dei beni del soggetto affetto da gioco d’azzardo patologico”.

I malati del gioco, inoltre, verranno assistiti con cure e riabilitazione mirati per sconfiggere la dipendenza da gioco d’azzardo patologico.

E se la salute sta anche in quello che si mangia, e si beve, il decretone prevede una tassa su bibite analcoliche e superalcolici con zuccheri aggiunti ed edulcoranti, il cui ricavato sarà destinato “al finanziamento dell’adeguamento dei livelli essenziali di assistenza”.

Vera MORETTI

Contribuenti multiattività e Studi di Settore

Studi di Settore modificati per i contribuenti multiattività e multipunto.

La novità più evidente è l’abrogazione dei modelli per l’annotazione separata ai fini dell’elaborazione degli studi di settore.

Ciò non significa che coloro i quali esercitano due o più attività non siano più soggetti agli studi, perché è previsto il mantenimento dell’obbligo di annotare separatamente i ricavi delle diverse attività esercitate, comprese quelle soggette ad aggio e ricavo fisso, al fine di individuare l’attività prevalente.
Inoltre, gli studi di settore vanno applicati all’ “attività prevalente” ovvero “quella da cui deriva nel periodo d’imposta la maggiore entità dei ricavi”.

Ne consegue che a carico dei soggetti multiattività resta il solo obbligo di annotare separatamente i ricavi , relativi alle singole attività esercitate o ai singoli punti di produzione e vendita.

Ciò significa che l’impresa che esercita due o più attività che non rientrano nel medesimo studio di settore, con ricavi derivanti dalle attività non prevalenti superiori al 30% dell’ammontare complessivo dei ricavi dichiarati, sarà tenuta a compilare l’apposito prospetto “Multiattività” ed indicare nel modello tutti i dati contabili ed extracontabili delle intere attività impresa esercitate in modo indistinto.

Tale prospetto può essere compilato anche se i ricavi derivanti dalle attività non prevalenti non superano il 30% dei ricavi complessivi.
La compilazione comporta effetti anche in merito al posizionamento di alcuni indicatori di coerenza economica approvati con il DM 26/04/2012, finalizzati a contrastare possibili situazioni di non corretta indicazione dei dati previsti nei modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore.

Perché la compilazione sia fatta correttamente, occorre indicare:

  • Rigo 1 : il codice dell’attività prevalente ed i ricavi derivanti dalle attività rientranti nello studio di settore (studio prevalente) che si compila;
  • Rigo 2: i codici degli studi ed i relativi ricavi, in ordine decrescente, derivanti dalle altre attività soggette ad altri studi di settore (studi secondari);
  • Rigo 3: l’ammontare dei ricavi derivanti dalle altre attività soggette a studi di settore (altri studi secondari), non rientranti nei righi 1 e 2;
  • Rigo 4: i ricavi derivanti dalle altre attività non soggette a studi di settore (es. parametri);
  • Rigo 5: ricavi derivanti dalle attività per le quali si percepiscono aggi o ricavi fissi, al netto del prezzo corrisposto al fornitore.

Vera MORETTI

Bilancio negativo per i saldi estivi

Nonostante abbiano imperversato da metà luglio in poi, i saldi estivi 2012 non hanno fatto il botto ma, anzi, si sono rivelati un mezzo flop.
Per chi, dunque, confidava in questi 60 giorni di ribassi per rifarsi dopo un’annata di vacche magre, ha dovuto ricredersi e accontentarsi delle briciole.

Gli italiani hanno stretto la cinghia su tutto, vacanze incluse, e le sirene dei prezzi ridotti anche del 60% non si sono rivelate poi così tanto attraenti.
Niente code fuori dai negozi, niente gruzzolo messo da parte per le spese pazze di fine stagione.

Questo è il bilancio, mesto, redatto da Federazione Moda Italia, a pochi giorni dalla fine delle vendite scontate, che registra un calo del 13-15%.
Si tratta di una media tra le boutique dei centri cittadini, dove a risollevare le sorti di un’economia al palo sono stati soprattutto i turisti russi, cinesi, coreani e brasiliani, e i negozi delle periferie, dove nessun viaggiatore si spinge.

Tutte le città principali chiudono con segno negativo: a Milano le vendite segnano -9%; Roma si attesta su -15%-20% dopo un iniziale -25%; Firenze e Venezia -13-15%; Napoli -10%.

Tra i settori, l’abbigliamento arranca mentre le calzature “tengono”, chissà che non ci sia un “ribaltone” proprio negli ultimissimi giorni, con i saldi dei saldi. Ma, al rientro dalle vacanze e con la benzina alle stelle, c’è ben poco da spendere, semmai il contrario.

Per invogliare i potenziali clienti, molti comuni si stanno organizzando con notti bianche ed occasioni di festa. Molti commercianti, poi, sperano che la vanità degli italiani ritorni a galla e con lei la voglia di rinnovare il guardaroba in vista della stagione autunnale.

Anche se, a giudicare dall’andamento delle vendite degli ultimi anni, più che di un desiderio si tratterà di una necessità.

Vera MORETTI

Tabaccai: imprenditori o poliziotti?

Il Governo Monti sta tornando ai fasti dei suoi esordi e lo si capisce da una cosa: sta di nuovo facendo incazzare tutti. Questa volta con il “decretone sanità” messo a punto dal ministro Balduzzi, tutti hanno qualcosa di cui lamentarsi, dai consumatori (“molto fumo e poco arrosto“, dice Federconsumatori) – che sono certi che l’introduzione di una tassazione sulle bibite gassate e sul cibo spazzatura si tradurrà solo in un aumento dei prezzi delle stesse – alle associazioni di categorie coinvolte a vario titolo in questo omnibus governativo. Un decreto che affianca aspetti positivi di lotta al malcostume (vedi la trasparenza nelle nomine dei vertici Asl) ad altre trovate che, nascoste sotto la faccia buona dello “stato etico“, mirano solo a una cosa: fare cassa.

Oltretutto marciando sopra i cadaveri dei commercianti, come troppo spesso accade. Ecco perché troviamo estremamente condivisibile la presa di posizione dei tabaccai. Una categoria tra le più bistrattate, che per aumentare i margini negli ultimi anni ha dovuto, come dice chi parla bene, “diversificare il business” senza però riuscire a marginare più e meglio di quanto facesse in passato. Con, oltre al danno, la beffa di trovarsi a vendere un articolo (i tabacchi) sul quale il grosso dei guadagni lo fa sempre e solo lo Stato. Ora, poi, arrivano anche le minacce delle maximulte per chi venderà sigarette ai minorenni. Ecco perché Assotabaccai-Confesercenti alza la voce.

Secondo l’associazione di categoria che riunisce i tabaccai, le nuove norme sui tabacchi e i videopoker “non risolvono i problemi di salute pubblica, ma puniscono ingiustamente imprese e consumatori. Mettendo in luce la contraddizione di fondo della politica dello Stato che da un lato si dà al proibizionismo, e dall’altro utilizza le imposte sui due comparti per aumentare le entrate fiscali“. Insomma, il solito gioco: da una parte faccio cassa fin che posso su fumo e gioco d’azzardo legale (per non parlare degli alcolici), dall’altra però ti dico che sono due cose brutte e cattive per cui ti stango se non stai alle regole che metto io.

Infatti, proseguono i tabaccai, “le nuove norme restrittive presenti nel decreto hanno un effetto negativo solo sugli imprenditori, trasformando i tabaccai in agenti di polizia che devono far rispettare un divieto facilmente aggirabile. E costringendo a spostarsi i concessionari che hanno legalmente acquisito la licenza dei videopoker, nella speranza che pochi metri di distanza in più da scuole e ospedali possano prevenire le ludopatie e il gioco compulsivo. Dal Governo aspettiamo, invece di un ritorno al semplice proibizionismo, un piano legislativo organico di lotta alla dipendenze e al gioco d’azzardo illegale […] Invece, con le norme previste dal decreto temiamo una crescita del contrabbando di sigarette – che solo nel 2010 ha arrecato un danno alla filiera di 650 milioni di euro, di cui 485 sottratti al gettito fiscale – e del gioco d’azzardo non autorizzato, a discapito degli imprenditori che hanno le carte in regola“.

Come dare torto? Non bastassero le molte rapine che, statisticamente, i tabaccai subiscono, ora arrivano anche la rapina e le minacce da parte dello Stato. Del resto, questo è il trattamento riservato dalla nostra amministrazione fiscale agli imprenditori e per chi tenta di reagire non si può nemmeno invocare la legittima difesa.

Auto, bene di lusso degli italiani

Qual è il vero bene di lusso per gli italiani? Gioielli, orologi, ville con piscina, cavalli da corsa? Sbagliato! La risposta esatta è: l’auto. Ma non una fuoriserie o un’auto di grossa cilindrata, no no… persino l’utilitaria è diventata un bene di lusso. Ce ne dà conferma il Conto nazionale delle Infrastrutture e dei trasporti 2010-2011, secondo il quale acquistare e mantenere un’auto si è rivelato negli ultimi 20 anni un investimento oneroso per gli italiani.

Qualche esempio? L’esborso per i soli carburanti è aumentato del 170%, passando dai 15,24 miliardi del 1990 ai 41,15 miliardi del 2010. Complessivamente per l’esercizio dell’auto la spesa è passata dai 47,28 miliardi del 1990 ai 103,71 miliardi del 2010 (il 43,81% del totale): un’impennata del 119%. Più che triplicate le spese relative all’rc auto, passate dai 5,17 miliardi del 1990 ai 15,64 miliardi del 2010.

L’ammontare complessivo delle spese per le auto a uso privato è stato stimato per il 2010, in circa 147,205 miliardi di euro. Al netto della cifra inerente gli interessi sul capitale investito, spiega il Rapporto “la valutazione delle spese di esercizio delle autovetture si quantifica, per il 2010, in 93,934 miliardi di euro dei quali circa il 44% è da attribuire a spese per carburanti, quasi il 18% a spese per manutenzione ordinaria, circa il 17% a spese per assicurazioni, poco meno del 6% a tasse automobilistiche ed il restante 15% circa a spese per il ricovero, per pneumatici, per lubrificanti e pedaggi autostradali“.

E il Codacons ruggisce. Per una famiglia media italiana, mantenere un’auto costa ormai, dopo gli ultimi rialzi della benzina, 4.010 euro all’anno, una “vera e propria stangata“, commenta l’associazione dei consumatori. Una cifra che risulta dalla somma di: 1728 euro per il carburante, 715 per l’Rc auto, 491 euro per le riparazioni, tra meccanici e carrozzieri, 222 euro tra pedaggi e posteggi, 265 euro per il bollo, 235 per le multe, 143 euro per il gommista, 126 euro per l’affitto del garage (non è calcolato il costo dell’acquisto di un box, essendo un investimento), 85 tra lavaggio e revisione auto.

And so… come direbbero gli anglosassoni? Per il Codacons, “ora che il ministero ha scoperto quello che ogni automobilista sapeva già, sarebbe bene che cercasse anche delle soluzioni, visto che la responsabilità di questi aumenti dipende in primo luogo dal Governo che non ha preso misure di liberalizzazione e che in questi anni ha aumentato ripetutamente le accise sui carburanti, l’Iva, ha indicizzato, invece degli stipendi e delle pensioni, le tariffe autostradali e, infine, in nome del federalismo, ha consentito l’innalzamento delle tasse sull’rc auto per finanziare le Province“.

Sarà un caso che il nostro articolo sulla prima stazione di rifornimento per veicoli elettrici ha avuto oltre 1100 like su Facebook? Meditate ministri, meditate…

Nuovi decreti per la compensazione e la certificazione dei debiti

La certificazione e la compensazione dei crediti delle imprese verso la Pubblica Amministrazione sono al centro di quattro decreti recentemente pubblicati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, in seguito alle disposizioni del decreto Monti relativo alle liberalizzazioni.

Questi provvedimenti danno la possibilità alle imprese di accedere in modo più diretto e veloce alle liquidità di cui sono legittimamente titolari per far fronte alle difficoltà della congiuntura economica attuale.

Cosa cambia per le PA debitrici?
Innanzitutto prevale l’obbligo di rilasciare alle imprese stesse una certificazione che i crediti sono non prescritti, liquidi, certi ed esigibili e disciplinano poi le condizioni per la compensazione di tali crediti con eventuali somme dovute alle amministrazioni stesse.
Tale obbligo, inizialmente previsto come facoltà dalla legislazione precedente riservata a Regioni ed enti locali, è stato esteso anche alle amministrazioni statali.

La certificazione obbligatoria dei crediti della PA verso le imprese per fornitura di beni, servizi e appalti è regolamentata da due diversi decreti riguardanti il primo lo Stato e gli enti pubblici nazionali, il secondo le Regioni, enti locali e servizio sanitario nazionale.
Tale normativa non include le società partecipate e gli enti strumentali di questi soggetti. Non si applica la certificazione neppure ai crediti verso enti locali commissariati o verso le Regioni sottoposte a piani di rientro dai deficit sanitari e relativi enti del SSN.

Questo tipo di certificazione consiste nel rilascio di un documento da parte dell’ente debitore pubblico che il credito è non prescritto, certo, liquido ed esigibile. Tale certificazione comporta la possibilità di cessione del credito stesso a banche ed intermediari finanziari abilitati.

Le imprese dovranno presentare istanza di certificazione direttamente all’ente debitore, utilizzando il modello allegato ai decreti, alla quale le amministrazioni devono dare riscontro entro 60 giorni, che vengono ridotti a 30 giorni per regioni ed enti locali, sia in termini positivi che negativi. In caso di mancata risposta entro il termine, il creditore può richiedere la nomina di un commissario che provvede al rilascio della certificazione entro 50 giorni dalla sua nomina.

Presto sarà possibile, probabilmente dal mese di ottobre, presentare l’istanza per via telematica, ed ottenere online anche il rilascio della certificazione, ma per il momento esiste una modalità ordinaria di presentazione dell’istanza mediante consegna a mano o raccomandata con ricevuta di ritorno.

In un secondo momento il Ministero dell’Economia ha emesso i due decreti che regolamentano la compensazione tra crediti delle imprese certificati dalle PA e eventuali debiti delle imprese stesse verso enti pubblici anche diversi dal quelli debitori per il tramite dell’agente di riscossione.
Il primo chiarisce la procedura per la compensazione tra debiti e crediti di enti diversi , il secondo regolamenta l’estinzione del credito tramite assegnazione di titoli di Stato, anche se il termine per le somme relative al 2011 è già scaduto.

Per la compensazione i crediti devono essere certificati come non prescritti, certi, liquidi ed esigibili e possono essere utilizzati per pagare , anche parzialmente, somme dovute per iscrizione a ruolo relative a:

  • Tributi erariali
  • Tributi regionali e locali
  • Contributi assistenziali e previdenziali e premi assicurativi obbligatori
  • Altre somme dovute alla stessa amministrazione titolare del debito verso l’impresa certificato
  • Oneri accessori aggi e spese a favore dell’agente della riscossione

La compensazione tra crediti e debiti con le PA., si effettua tramite l’agente della riscossione presentando la certificazione del credito ed indicando in caso di pagamento parziale quali debiti intende estinguere. L’agente della riscossione deve verificare entro tre giorni la validità della certificazione e in caso positivo l’amministrazione debitrice comunica entro 10 giorni dalla richiesta l’esito di tale verifica.

L’attestazione di avvenuta compensazione viene fornita al creditore dall’agente della riscossione. In caso di compensazione parziale di un credito maggiore del debito, tale attestazione, insieme alla certificazione del credito, costituisce la prova per richiedere il credito residuo.

Vera MORETTI

Be Win per le donne che fanno impresa

E’ ormai partito quasi un anno fa, ovvero il 1 settembre 2011, il progetto europeo “Be-Win – Business Entrepreneurship Women In Network”, co-finanziato dalla Commissione Europea sul bando “European Network of Mentors for Women Entepreneurs”.

Questa iniziativa, coordinata da Unioncamere Toscana, ha come obiettivo quello di promuovere l’imprenditoria femminile attraverso la costituzione e lo sviluppo di una “Rete italiana di imprenditrici”, mirata a trasferire esperienze e conoscenze dalle donne che hanno già raggiunto il successo, le Mentors, a coloro che si sono appena affacciate al mondo dell’imprenditoria, le Mentees.

Queste ultime sono 49, sparse nelle 16 regioni aderenti (Abruzzo, Calabria, Campagna, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Sardegna, Toscana, Umbria e Veneto), e proprio in questo periodo stanno formalizzando la loro adesione tramite sottoscrizione di Lettere di Impegno, con cui confermano la propria volontà di partecipare gratuitamente alle attività previste e per l’intera durata dell’azione.

Il primo incontro previsto, dal titolo “Formazione congiunta Mentor/Mentee – Teambuilding”, sarà caratterizzato dalla presentazione del progetto Be Win e delle partecipanti, Mentors e Mentees, che illustreranno rispettivamente la propria carriera professionale e i problemi incontrati durante i primi passi della loro azienda.

Risultato di questo incontro sarà la costituzione di gruppi Mentor-Mentees che cominceranno a collaborare in un percorso di coaching, visite aziendali ed incontri nazionali fino all’estate 2013.

Vera MORETTI

Milano, la mazzata dell’energia

Che l’energia in Italia costi alle aziende più che in molte altre parti d’Europa è un dato di fatto. Risultato di tanti fattori, primo fra tutti un mixenergetico penalizzante e penalizzato dal no al nuclare. Ma quanto pagano realmente in più le imprese italiane rispetto a quelle europee?

I conti li ha fatti Confartigianato: 10,1 miliardi di euro in più all’anno rispetto alla media europea. L’analisi di Confartigianato ha misurato lo spread Italia-Ue per i costi dell’energia elettrica utilizzata dalle imprese e da questa analisti è risultato anche che la Lombardia e Milano sono in vetta alla classifica delle regioni e delle province italiane con la bolletta elettrica più costosa a carico delle aziende.

Se a livello nazionale, infatti, lo scorso anno gli imprenditori hanno pagato 10.077 milioni di euro in più rispetto alla media europea, il conto più salato tocca alle aziende del Nord, che complessivamente nel 2011 hanno sborsato per l’energia elettrica 5.848 milioni di euro in più rispetto ai loro colleghi dell’Ue. Il divario con l’Europa è di 2.492 milioni di euro per le imprese del Mezzogiorno e di 1.737 milioni di euro per le aziende del Centro. La regione più penalizzata è, appunto, la Lombardia, con 2.289 milioni di euro di maggiori costi rispetto alla media Ue, seguita dal Veneto con un gap di 1.007 milioni di euro, dall’Emilia Romagna con 904 milioni e dal Piemonte con 851 milioni.

La classifica per provincia vede al primo posto per il più ampio divario di oneri per le imprese rispetto all’Europa Milano (555 milioni di euro), seguita da Brescia (467 milioni), Roma (447 milioni), Torino (343 milioni), Bergamo (293 milioni).

Se, in media, ogni azienda italiana paga l’energia elettrica 2.259 euro all’anno in più rispetto agli imprenditori europei, questo gap si allarga a 4.108 euro per ogni impresa del Friuli Venezia Giulia, a 3.471 euro per ciascuna impresa della Sardegna, a 2.791 euro per ogni azienda della Lombardia, a 2.752 euro per ciascuna impresa della Valle d’Aosta. A seguire, per un imprenditore dell’Umbria il divario è di 2.654 euro l’anno, mentre per ogni impresa del Trentino Alto Adige il gap annuo è di 2.601 euro.

Indovinate un po’ che cosa fa gonfiare ulteriormente la bolletta energetica delle imprese? Naturalmente la pressione fiscale, che incide per il 21,1% sul prezzo finale dell’elettricità.

“Il costo dell’energia elettrica per uso industriale – conclude il Presidente di Confartigianato Giorgio Guerriniè una delle tante zavorre che frenano la corsa delle imprese italiane, uno dei tanti oneri che riducono la nostra competitività rispetto ai competitor europei. Anche su questo fronte chiediamo al Governo di agire in fretta per cominciare ad avvicinarci agli standards degli altri Paesi dell’Ue“.

Già abbiamo il fisco più vorace del mondo (lo dicono le statistiche, mica noi…) e una burocrazia nemica dell’impresa; se ci si mette anche il costo dell’energia salito a prezzi imbarazzanti, come diavolo faranno le nostre imprese (per lo più piccole e piccolissime) a stare sul mercato? Se lo chiedono gli imprenditori, ce lo chiediamo noi, ma la risposta sembra tristemente scontata…

Laura LESEVRE