Come viene tassato il welfare aziendale?

I Paesi più industrializzati adottano, insieme alle politiche economiche che sono orientate alla crescita, pure delle politiche sociali che, nello specifico, sono finalizzate a promuovere in maniera diffusa il benessere e soprattutto a soddisfare i bisogni dei cittadini a partire da quelli meno abbienti. Le politiche sociali sono spesso definite come politiche di welfare proprio perché sono orientate a promuovere ed a garantire il benessere della collettività. Ma detto questo, dal punto di vista del prelievo erariale, come viene tassato il welfare?

Come viene tassato il welfare aziendale, ecco tutti i vantaggi fiscali

Al riguardo c’è da dire, prima di tutto, che il welfare a livello fiscale gode nella maggioranza dei casi di una tassazione agevolata. E questo accade, nella fattispecie, quando ad erogare i servizi di welfare è un’impresa a favore dei propri dipendenti.

In tal caso, infatti, si parla di welfare aziendale con l’offerta di un pacchetto di servizi che possono spaziare dai servizi socio-assistenziali a quelli sanitari, e passando per l’istruzione, la disabilità, la non autosufficienza, l’infanzia, le coperture assicurative ed anche il lavoro ed il sostegno al reddito con i premi di produttività che, non a caso, beneficiano di una tassazione agevolata con l’aliquota al 10%. Ma in alternativa l’impresa può convertire proprio il premio di risultato, da riconoscere ai lavoratori, in servizi ed in benefit di welfare con rilevanti vantaggi in termini di tassazione.

La normativa fiscale vigente sul welfare aziendale, infatti, garantisce benefici fiscali sia per il datore di lavoro, sia per il lavoratore dipendente. Nel dettaglio, per i servizi di welfare a favore del lavoratore vige la totale esenzione fiscale e contributiva, mentre il datore di lavoro matura il diritto alla deduzione fiscale, dall’imponibile del reddito di impresa, proprio del costo per i servizi di welfare offerti ai dipendenti. Ma a patto che a monte delle iniziative di welfare ci sia un contratto, e che il piano di welfare sia offerto da parte del datore di lavoro alla generalità dei dipendenti o comunque ad una categoria omogenea di lavoratori.

Il cuneo fiscale si azzera sempre con le iniziative e con i servizi di welfare aziendale

In altre parole, per i servizi di welfare il cuneo fiscale si azzera rendendo così vantaggiosa la conversione dei premi di risultato. Un imprenditore che, per esempio, riconosce annualmente ad un dipendente 2.000 euro lordi di aumento annuo in busta paga, il lavoratore al netto prenderebbe all’incirca 1.200 euro tra le tasse da pagare ed contributi contributi previdenziali obbligatori. Mentre erogando 2.000 euro annui sotto forma di servizi di welfare non ci sarebbe alcuna trattenuta.

Oltre alla conversione del premio di risultato, i servizi di welfare possono essere erogati ai lavoratori dipendenti, con tutti i vantaggi fiscali sopra indicati, anche attraverso la contrattazione tra il datore di lavoro ed i sindacati di categoria. Nel caso in cui l’azienda sia priva di rappresentanza sindacale interna, il datore di lavoro può in ogni caso decidere di offrire e di erogare i servizi di welfare aziendale ai dipendenti applicando la contrattazione territoriale di settore.

Assunzione stagista: caratteristiche e informazioni

Oggi andremo ad addentrarci nell’infausto mondo dell’approccio al lavoro. Con questa rapida guida andremo a scoprire come funzione l‘assunzione da stagista, con annesse caratteristiche e dovute informazioni.

Cos’è un contratto da stagista?

Innanzitutto, partiamo col dire che fare lo stagista non è altro che un primo passo verso il mondo del lavoro. Una sorta di apprendistato o di tirocinio, prima di divenire (semmai avviene il passo successivo) un lavoratore a tutti gli effetti per quel tipo di azienda o settore, in cui si è fatto stage.

Dunque, va detto che anche lo stage prevede diritti e doveri per lo stagista ed anche per il datore di lavoro. Quindi, prima di stipulare un contratto è bene capire quali sono le regole in materia di retribuzione, ferie e permessi. Ebbene, il contratto da stagista può essere classificato in tre tipologie in base alla sua durata:

  • massimo 6 mesi nel caso di tirocinio formativo e di orientamento;
  • non più di 12 mesi nel caso di tirocini di inserimento e reinserimento al lavoro;
  • non più di 12 mesi i tirocini a favore dei soggetti svantaggiati: nel caso di tirocini a favore di disabili non più di 24 mesi.

Contratto da stagista: diritti e stipendio

Sebbene, prima si usavano molto spesso gli stage gratuiti, quindi una periodo di “apprendimento del lavoro”, senza oneri per l’azienda, oggi la cosa è cambiata. Tuttavia, va detto che ancora oggi, lo stage non prevede un vero e proprio contratto e nemmeno esistono disposizioni specifiche che riguardano la retribuzione e lo stipendio, fatta esclusione per il tirocinio Garanzia Giovani.

Tuttavia, stipulando un contrato da stagista, sarà comunque garantita un’indennità di partecipazione o rimborso spese che, solitamente, non può essere inferiore ai 300 euro lordi mensili. Si tratta di un’indennità assimilata, fiscalmente, al reddito da lavoro dipendente che in ogni caso non ha effetti sullo stato di disoccupazione di chi è assunto con contratto stage.

Qualora ci trovassimo nel caso di un contratto di tirocinio Garanzia giovani, invece il totale deve ammontare ad un minimo di 500 euro, corrisposto in parte dalla regione e in parte dall’azienda o comunque dal datore di lavoro. Una formula, comunque che può variare da regione a regione, nel nostro territorio nazionale., arrivando anche a somme di 800 euro.

In ultimo, ma non ultimo, andiamo a vedere quali diritti sono tutelati nei casi di ferie e permessi per lo stagista.

Per quanto riguarda, dunque la questione inerente a ferie e permessi per il contratto da stagista, è bene specificare fin da subito che lo stage, non essendo un contratto di lavoro vero e proprio, non prevede per il lavoratore la maturazione di ferie e permessi retribuiti.

Ad ogni modo, lo stagista avrà comunque diritto ad assentarsi dal lavoro, concordando giorni e orari con il proprio referente in azienda. Anche nei casi di malattia, lo stagista non ha l’obbligo di presentare alcun tipo di certificato medico. Permane invece, obbligatoria l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, un qualcosa che il datore di lavoro dovrà stipulare anche nel caso di lavoratori assunti con contratto di stage.

Dunque, questo è quanto di più essenziale e utile bisogna sapere prima di approcciare ad un contratto di stage, qualora siate dei giovani studenti che stanno per inserirsi e formarsi nel mondo astruso e periglioso del lavoro, aziendale e non.

Per approfondire leggi anche:Cosa si intende per formazione aziendale e quando conviene al datore di lavoro?

Strategia d’impresa: come pianificarne una vincente

Strategia d’impresa sono due parole che racchiudo l’intero mondo aziendale. Ma come pianificarne una di successo? Ecco alcuni piccoli consigli.

Strategia d’impresa: alcuni concetti base

La parola strategia deriva dal greco “strategos” che significa “ colui che conduce l’esercito“. In ambito militare la strategia del comandante permette di ottenere la vittoria. Nel gergo più moderno lo stratega è colui che sa prendere le decisioni importanti, prevedendo a volte anche gli effetti che si potranno avere nel lungo termine. Quindi la strategia non è altro che un sistema di scelte relative alle risorse da impiegare. Ma anche di azioni da intraprendere a livello produttivo, finanziario ed organizzativo che permettono alle aziende di ottenere i loro obiettivi. Inoltre definire una strada da seguire, definendo fin da subito le azioni da percorrere, permette anche di capire, in sede di controllo, se si sta percorrendo la via corretta, oppure qualcosa non va. Infine l’elaborazione e l’aggiornamento continuo della propria strategia pongono l’impresa ad essere pronta ad adeguarsi ai continui cambiamenti che potrebbero essere imposti dal mercato.

Stratega d’impresa: l’importanza della pianificazione

Attraverso la pianificazione si possono definire gli obiettivi di lungo termine dell’impresa e si elaborano, in termini di risorse, le operazioni e i comportamenti utili al raggiungimento degli stessi. Quindi possiamo ben dire che la pianificazione di una strategia d’impresa passa attraverso:

  • l’analisi dell’ambiente esterno;
  • l’analisi dell’ambiente interno;
  • la definizione degli obiettivi;
  • l’individuazione dei punti di forza e di debolezza;
  • la redazione di piani d’azione;
  • la realizzazione dei piani.

Strategia d’impresa: l’analisi dell’ambiente esterno

Per definire in modo corretto gli obiettivi aziendali occorre analizzare anche il mondo esterno. Perché le società, le imprese dialogano comunque con tutto ciò che si trova intorno a loro. Anche perché è dall’ambiente esterno che possono arrivare stimoli o imprevisti che possono influire sulla normale gestione. Quindi ai fini dell’evoluzione strategia occorre sempre fare, soprattutto in fase di apertura, un’analisi dell’ambiente:

  • politico;
  • sociale;
  • il settore in cui l’azienda intende lavorare;
  • la definizione della concorrenza;
  • la definizione della domanda;
  • i fattori produttori di interesse.

Per i primi due punti è molto intuitivo capire le ripercussioni che ci potrebbero essere all’interno dell’azienda. Mentre la definizione del settore vuol dire capire in quale modo mercato si vuole operare. Inoltre è importante aver chiaro a quali consumatori vogliamo rivolgersi. Ad esempio se si vogliono produrre giocattoli, è chiaro che il nostro consumatore sarà un bambino che deve essere attratto dal nostro prodotto. Altra riflessione riguarda la concorrenza, i competitors all’intero dello stesso segmento di mercato. Ed infine la produzione di quali mezzi o fattori ha bisogno per poter essere operativa? Domanda senza dubbio indispensabile.

L’analisi dell’ambiente interno: cosa vuol dire?

Oltre a studiare l’ambiente esterno è chiaro che ogni imprenditore deve capire come vuole organizzare l’interno della propria attività. L’analisi dei costi considerando quelli fissi e quelli variabili. Ma anche il tipo di prodotto da produrre o commercializzare e i fattori produttivi da acquistare. Perciò la capacità finanziaria dell’impresa deve essere un punto focale. Certo tutto è commisurato alla grandezza dell’impresa, se è piccola o grande, più o meno strutturata. Viene da se che capire i propri punti di forza o di debolezza è un esame indispensabile. In generale le principali aree da considerare sono quelle: manageriali, finanziarie, il personale, la tecnologia  disponibile, la distribuzione ed il marketing.

La definizione degli obiettivi

Dopo questa prima fase di studio del mercato, dell’ambiente interno ed esterno si può passare alla definizione degli obiettivi. Gli obiettivi possono dividersi in:

  • mission;
  • obiettivi di breve termine;
  • obiettivi di medio lungo termine.

La mission esprime in modo ampio gli scopi che l’impresa persegue, la sua cultura, la filosofia, i valori chiave ed infine l’orientamento strategico. Spesso la mission incorpora anche degli obiettivi sociali, che diventano uno slogan. Mentre gli obiettivi di lungo termine sono i risultati che l’azienda si fissa di raggiungere nel lungo periodo, oltre l’anno per intenderci. Invece gli obiettivi di breve termine sono piccoli step da eseguire. Infatti sono spesso assegnati a singole aree ed essere realizzati entro un breve periodo appunto.

Strategia d’impresa: come formulare quella corretta?

Una volta definiti i traguardi da raggiungere, è bene concentrarsi su come formulare una strategia vincente. Occorre quindi un piano aziendale, detto anche business plan, che considera l’azienda nel suo complesso e rappresenta la formalizzazione dell’intero processo di pianificazione della gestione stessa. Si andranno così a disporre dei piani operativi annuali, definendo chi deve fare cosa ed in quanto tempo. Quindi si può dire che i piani descrivono e quantificano gli obiettivi da conseguire, le risorse da impiegare e le azioni da intraprendere. Ma anche verificare il budget a disposizione per la realizzazione del piano, l’analisi di eventuali scostamenti e le azioni correttive. Il saper pianificare, controllare ed eventualmente correggere è proprio uno degli aspetti che permettono di avere un’impresa sana. Solo attraverso questo tipo di attività costanti l’imprenditore potrà misurare lo stato di salute della sua “creatura” e quindi intervenire al momento giusto.

Assunzione percettore reddito di cittadinanza: ci sono agevolazioni per il datore di lavoro?

Il datore di lavoro che procede all’assunzione di un beneficiario del Reddito di Cittadinanza fruisce di uno sgravio contributivo e assistenziale. Tuttavia, per goderne è necessario assumere il percettore del RdC con un contratto a tempo pieno e indeterminato. D’altronde, lo scopo principale del governo è di aumentare il tasso di occupazione stabile.

I beneficiari dell’agevolazione e la natura dei contratti

Beneficiari dell’agevolazione, sono tutti i datori di lavoro privati (imprenditori e non imprenditori), compresi quelli del settore agricolo. Possono ottenere l’incentivo anche gli enti di formazione accreditati, nei casi in cui l’assunzione a tempo indeterminato e pieno (parziale su richiesta del dipendente per particolari esigenze) del percettore di Reddito di Cittadinanza si realizzi presso un altro datore di lavoro a seguito del percorso formativo svolto presso l’ente stesso.

L’assunzione deve avvenire tramite contratto di lavoro a tempo indeterminato e pieno (anche a scopo di somministrazione e in attuazione del vincolo associativo con cooperativa di lavoro ai sensi della L. 142/2001); apprendistato.

Restano esclusi i contratti a lavoro intermittente a tempo indeterminato; il lavoro a tempo indeterminato di personale con qualifica dirigenziale; lavoro occasionale; lavoro domestico.

Tipologia ed entità dell’incentivo per l’assunzione di chi beneficia del Reddito di Cittadinanza

Lo Stato ha voluto incoraggiare le assunzioni di chi fruisce del Reddito di Cittadinanza con un incentivo a favore del datore di lavoro. Nello specifico, si tratta dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali e assistenziali (sono esclusi dallo sgravio i premi e contributi dovuti all’INAIL) a carico del datore di lavoro e del lavoratore, nel limite dell’importo mensile del Rdc spettante al lavoratore all’atto dell’assunzione, con un tetto mensile di 780 euro, per un contratto a tempo pieno.

Se l’assunzione del fruitore del Rdc riguarda un lavoro correlato con il percorso formativo (in base al Patto stipulato tra gli Enti di formazione e i Centri per l’Impiego o le agenzie per il lavoro) l’incentivo è concesso per il 50% dell’importo (massimo 390 euro) all’Ente che ha garantito al lavoratore assunto tale percorso di formazione o di riqualificazione professionale.

La restante parte spetta al datore di lavoro che assume il beneficiario del Rdc. La durata dell’incentivo non cambia, eccetto il periodo minimo di fruizione, stabilito per questo tipo di assunzioni in sei mensilità, sia per il datore di lavoro che per l’Ente di formazione.

La durata del beneficio è pari alla differenza tra 18 mensilità e quelle mensilità di cui ha usufruito già il beneficiario del RdC fino alla data di assunzione (minimo 5 mensilità).

Nel caso in cui il Reddito di Cittadinanza conseguito dal lavoratore assunto derivasse da un rinnovo, la durata fissa dello sgravio è di 5 mensilità.

Domanda e condizioni di accoglimento di erogazione dell’incentivo

I datori di lavoro devono inviare online la domanda di ammissione all’INPS tramite modulo apposito presente sul sito dell’Istituto (sezione “Portale agevolazioni”).

L’INPS effettuerà la verifica fornendo un riscontro di accoglimento della domanda ed elaborando il piano di fruizione a determinate condizioni:

  • il datore di lavoro deve comunicare la disponibilità dei posti vacanti alla piattaforma digitale dedicata al Rdc presso l’ANPAL;
  • l’azienda che assume deve realizzare un incremento occupazionale netto del numero di dipendenti impiegati a tempo indeterminato;
  • il datore di lavoro deve essere in regola con gli obblighi contributivi e di assunzione;
  • vanno rispettati i principi generali per la fruizione degli incentivi;
  • l’assunzione non deve essere effettuata in attuazione di un obbligo preesistente, né violare il diritto di precedenza alla riassunzione di lavoratori licenziati;
  • nessuna sospensione lavorativa connessa a crisi o riorganizzazione aziendale deve essere in atto presso il datore di lavoro o l’utilizzatore con contratto di somministrazione, salvo le assunzione di lavoratori inquadrati ad un differente livello da quello posseduto dai lavoratori sospesi o da impiegare in unità produttive diverse da quelle interessate dalla sospensione;
  • nessuna assunzione di dipendenti licenziati nei 6 mesi precedenti da un datore di lavoro in correlazione con quello che assume;
  • deve esserci sufficiente capienza di aiuti de minimis in capo al datore di lavoro.

Cumulabilità e sanzioni

L’incentivo è cumulabile con le agevolazioni previste per le assunzioni effettuate nelle regioni del Sud Italia, di soggetti che non abbiano compiuto 35 anni di età ovvero di soggetti con almeno 35 anni di età che risultino privi di impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi.

L’agevolazione è cumulabile con l’incentivo Io Lavoro, ma non è cumulabile con altri regimi agevolati né con altri incentivi all’occupazione di natura economica ovvero contributiva.

E’ tenuto alla restituzione dell’incentivo (più sanzioni civili) il datore di lavoro che licenzia il lavoratore percettore di RdC entro 36 mesi dall’assunzione, a meno che non avvenga per giusta causa o per giustificato motivo.

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Congedo di maternità: come funziona per dipendenti e per autonomi

Il congedo di maternità corrisponde al periodo di astensione obbligatoria della gestante/madre, questo viene riconosciuto sia alle lavoratrici dipendenti, sia a quelle autonome. Scopriamo come funziona!

Congedo di maternità: cos’è

Il congedo di maternità 2021 è disciplinato dal Decreto legislativo 26/03/2001 n° 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) e ha una durata di 5 mesi. Durante tale lasso di tempo la lavoratrice dipendente ha l’obbligo di astenersi dal lavoro, il periodo inizia 2 mesi prima rispetto alla data prevista per il parto e termina 3 mesi dopo la nascita del bambino.  Per le lavoratrici dipendenti vi è la possibilità di posticipare l’uscita dal lavoro fino al mese precedente rispetto alla data presunta per il parto. Per posticipare l’uscita dal lavoro è necessario presentare un certificato medico in cui si attesti che la permanenza sul lavoro non mette a rischio la salute del nascituro e della madre.  In questo caso sarà possibile fruire del congedo di maternità per i 4 mesi successivi al parto. Il totale del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro resta comunque di 5 mesi. Il congedo può essere anticipato nel caso di gravidanza a rischio oppure nel caso in cui le mansioni siano incompatibili con lo stato di gravidanza.

Congedo di maternità dopo il parto

Per il 2021 è stata confermata la possibilità di astenersi dal lavoro esclusivamente dopo il parto. Come chiarito con la circolare INPS 12 dicembre 2019 n 148 , le donne possono decidere di posticipare l’inizio dei 5 mesi di congedo obbligatorio di maternità al momento della nascita del bambino, questa facoltà è ammessa esclusivamente nel caso in cui le condizioni di lavoro non mettano a rischio la salute della donna e del nascituro. Per poter accedere a tale facoltà è necessario il certificato di un medico specialista del Servizio Sanitario Nazionale o convenzionato e del “medico competente ai fini della prevenzione per tutela della salute sui luoghi di lavoro“.

Adozione, affidamento,  affido pre-adottivo

Il congedo di maternità 2021 viene riconosciuto anche per gli affidi e per le adozioni, in questo caso inizia con l’ingresso del bambino nella famiglia, mentre nel caso di adozione internazionale, il periodo del congedo di maternità può iniziare con l’ingresso in Italia del bambino. A tale proposito deve essere sottolineato che l’INPS con la circolare 66 del 2018 ha chiarito che  in caso di affidamento non pre-adottivo è possibile avere il congedo di maternità retribuito, ma solo per 3 mesi.

Chi paga il congedo di maternità

Per le lavoratrici dipendenti il pagamento è a carico dell’INPS, ma viene anticipato dal datore di lavoro. Questa regola non si applica a colf e badanti, in questo caso il pagamento è direttamente in capo all’INPS. L’importo è pari all’80% dell’ultima retribuzione giornaliera.

Lavoratrici autonome

Le lavoratrici autonome cioè commercianti, artigiane, imprenditrici agricole, coltivatrici dirette, coloni e mezzadre hanno diritto al congedo di maternità pari all’80% del reddito giornaliero. Possono usufruire di questa indennità senza obbligo di lasciare il lavoro, quindi possono continuare a lavorare. Per poter ottenere l’indennità devono comunque aver regolarmente versato i contributi.

Il congedo di paternità obbligatorio

Il congedo di paternità obbligatorio è un istituto che può essere definito residuale e non deve essere confuso con il congedo parentale. Trova applicazione esclusivamente nel caso di:

  • morte o grave infermità della madre ( naturalmente tali fatti devono essere certificati);
  • abbandono del figlio da parte della madre  o mancato riconoscimento da parte della stessa;
  • affidamento esclusivo del figlio al padre ( occorre un provvedimento giudiziario).

Come richiedere il congedo di maternità

La domanda per il congedo di maternità 2021 deve essere inoltrata all’INPS prima che inizi il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro,  per inoltrare la domanda un medico del Servizio Sanitario Nazionale o convenzionato deve far pervenire all’INPS il certificato di gravidanza. Entro 30 giorni dal parto la lavoratrice deve darne ulteriore comunicazione all’INPS indicando anche le generalità del nato. La domanda può essere presentata tramite i servizi online, telefonicamente tramite il contact center 803 164  da rete fissa e 06 164 164 da rete mobile, oppure attraverso un patronato/CAF.

Faq

Le lavoratrici disoccupate hanno diritto al congedo di maternità 2021? Sì, nel caso in cui il periodo di congedo di maternità inizi entro 60 giorni dall’ultimo giorno di lavoro; nel caso in cui la lavoratrice abbia diritto all’indennità di disoccupazione o alla cassa integrazione, anche in tale periodo viene riconosciuto il diritto al congedo di maternità retribuito.

Le lavoratrici iscritte alla Gestione Separata INPS hanno diritto al congedo di maternità? Sì. Deve però essere sottolineato che dal 2017 le lavoratrici iscritte alla Gestione Separata INPS (parasubordinate e libere professioniste non iscritte ad altre casse di previdenza), non hanno più obbligo di astensione dal lavoro. Per avere  il riconoscimento dell’indennità è necessario che la lavoratrice abbia versato almeno 3 mesi di contributi nei 12 mesi antecedenti l’inizio del congedo di maternità e il versamento deve comprendere l’aliquota maggiorata dello 0,72%.

Cosa succede in caso di aborto? Se l’aborto avviene nel periodo compreso tra il 3° e il 6° mese la donna lavoratrice ha dirittoa un periodo di malattia determinata da gravidanza. In base alle circolari n. 48/1993 e n. 51/2001 questo periodo non si cumula a precedenti o successivi periodi di malattia al fine del calcolo del periodo di comporto. Se invece l’aborto avviene dopo il 6° si ha diritto al congedo di maternità, questo perché viene parificato al parto in applicazione dell’articolo 12, comma 1, del Dpr n. 1026/1976.

Cosa succede se non viene rispettato l’obbligo di astensione per le lavoratrici dipendenti? La norma mira a tutelare la salute di nascituro e madre, quindi in caso di violazione è prevista la reclusione fino a 6 mesi per il datore di lavoro.

Prescrizione contributi: quando non sono più dovuti

I contributi INPS, siano essi omessi che non dichiarati dal contribuente, hanno un termine di prescrizione pari a cinque anni, così come previsto per tutte le altre forme di previdenza obbligatorie.

La questione molto dibattuta riguarda quale sia la data da cui decorre la prescrizione. L’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale e i contribuenti si sono più volte scontrati in sede giudiziale, in quanto ognuna delle parti riteneva la data iniziale della decorrenza del periodo di prescrizione, in modo differente.

Il problema si pone in quanto capita non di rado che l’INPS invii l’avviso di pagamento al contribuente che ha omesso il versamento dei contributi previdenziali dovuti, poco prima del termine della prescrizione. A questo punto, il contribuente vuole verificare se il debito contributivo sia già prescritto.

Generalmente, i contributi INPS da dichiarazione si prescrivono in cinque anni, entro tale termine l’Istituto deve inviare al contribuente la richiesta di pagamento dei versamenti omessi, azzerando di fatto la prescrizione. Ma è molto importante stabilire da quale data partono i cinque anni da conteggiare per la prescrizione.

Inoltre, c’è da fare un distinguo tra i contributi previdenziali non versati ma dichiarati e quelli non versati e anche omessi in sede di dichiarazione dei redditi.

La prescrizione dei contributi non versati ma dichiarati

L’INPS ritiene che il conteggio dei cinque anni come termine di prescrizione per l’omesso versamento dei contributi, parte dalla data di invio della dichiarazione dei redditi da parte del contribuente.

Diversamente, il contribuente sostiene che la data di riferimento come inizio del conteggio, sia il giorno della scadenza del versamento dovuto. Quindi, in base al sistema dei versamenti dei saldi da dichiarazione annuale in Italia, la scadenza coincide ad alcuni mesi prima rispetto all’invio telematico della dichiarazione dei redditi.

La Corte di Cassazione è intervenuta più volte sulla questione, chiarendo che il fatto costitutivo dell’obbligazione contributiva si riferisce all’avvenuta produzione da parte del lavoratore autonomo di un determinato reddito costituente la base imponibile per il calcolo del contributo e che la decorrenza del termine di prescrizione dipende dall’ulteriore momento in cui la corrispondente contribuzione è dovuta.

In parole semplici, la prescrizione dei contributi INPS da dichiarazione avviene in cinque anni a partire dal giorno in cui i versamenti dovevano essere versati.

Diversa è la questione, quando si parla di contributi da dichiarazione non solo non versati ma nemmeno dichiarati.

La prescrizione dei contributi non versati e non dichiarati

Nel caso di contributi non versati e omessi anche in sede di dichiarazione dei redditi, la prescrizione resta sospesa tra il debitore che ha dolosamente occultato l’esistenza del debito e il creditore, finché il dolo non sia stato scoperto.

L’INPS trova un punto di forza in quanto sopra indicato, poiché vede allungarsi il periodo di prescrizione in quanto una parte di esso rimane congelato, quindi non decorre. Tuttavia, l’ordinanza n. 14410 del 27 maggio 2019 arrivata dalla Corte di Cassazione va in aiuto del contribuente.

La suddetta ordinanza stabilisce che l’operatività della causa di sospensione della prescrizione, di cui all’articolo 2941, numero 8, Codice civile, ricorre quando sia posto in essere dal debitore un comportamento tale da provocare un’assoluta impossibilità di agire da parte del creditore che, si differenzia da una normale difficoltà da superare al fine di accertare il credito. Inoltre, questo criterio richiede di prendere in considerazione la conseguenza dell’occultamento in termini di impedimento insormontabile tramite i controlli ordinari. Pertanto, è da affermare che l’omissione del reddito non corrisponde a un occultamento doloso del debito contributivo da pagare all’INPS, né che si configuri un impedimento assoluto, non superabile con controlli normali che l’Istituto può attivare e sollecitare anche rivolgendosi all’Agenzia delle Entrate”.

In parole semplici, a meno che l’INPS non riesca a dimostrare l’impossibilità di accertamento del credito come diretta conseguenza del comportamento del debitore, la prescrizione decorre dalla data del versamento omesso.

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Chi è il curatore fallimentare: requisiti e cosa fa

Il curatore fallimentare è un professionista che, quando un’azienda è fortemente indebitata e non riesce a soddisfare i propri creditori, si occupa di seguire tutta la procedura di fallimento. Nel suo ruolo di pubblico ufficiale è chiamato a svolgere molti compiti sotto il controllo del giudice delegato e del comitato dei creditori.

L’obiettivo principale del curatore fallimentare, nello svolgimento del suo lavoro è soddisfare al meglio i creditori attraverso la liquidazione del patrimonio societario o del soggetto privato sottoposto al procedimento del suo recupero crediti. Qualora si renda necessario, può ricorrere a un’azione legale anche avvalendosi di società esterne specializzate.

La nomina a curatore fallimentare spetta al tribunale in seguito alla sentenza di fallimento, oppure tramite decreto nel caso in cui sia stata chiesta la sostituzione o la revoca di incarico del curatore fallimentare precedente nominato. Tali richieste, possono essere presentate da uno dei soggetti coinvolti nella procedura di fallimento che contesta l’operato del curatore fallimentare presentando reclamo al giudice delegato entro otto giorni. Oppure dai creditori rappresentanti la maggioranza dei crediti.

Curatore fallimentare: i requisiti

Per ricoprire il ruolo di curatore fallimentare è necessario essere in possesso di determinati requisiti. Chi viene incaricato può essere un avvocato, un commercialista, un ragioniere, un ragioniere commercialista, un consulente del lavoro. Il ruolo può essere ricoperto anche da chi ha svolto funzioni da amministratore, direzione e controllo in società per azioni.

Non possono ricevere l’incarico di curatore fallimentare i coniugi dei soggetti coinvolti nella sentenza di fallimento, i parenti di ogni grado del soggetto fallito e i suoi creditori. Inoltre, coloro che hanno concorso alla debacle aziendale nei due anni precedenti e tutti quelli che hanno un conflitto d’interessi nella procedura di fallimento.

La nomina a curatore fallimentare del tribunale deve essere accettata e comunicata dal soggetto in questione al giudice delegato entro due giorni successivi alla nomina.

Cosa fa il curatore fallimentare

I compiti che deve svolgere il curatore fallimentare sono tanti. Principalmente, l’amministrazione del patrimonio fallimentare sotto il controllo del giudice delegato e del comitato dei creditori. Ha anche facoltà di assistere al giudizio, ma non in veste di avvocato, previo autorizzazione del tribunale, eccezion fatta per i casi di contestazione o di tardive comunicazioni di crediti e di diritti di terzi.

Può delegare a società specializzate esterne determinate operazioni, sostenendone gli oneri o farsi supportare da terzi specializzati nella liquidazione fallimentare. Il tutto, a proprie spese e sotto la propria responsabilità, previo autorizzazione del giudice.

Il curatore fallimentare deve inventariare i beni e sigillarli; creare il progetto di stato passivo; pianificare la liquidazione; gestire la società/impresa qualora venga stabilito l’esercizio provvisorio; provvedere alla vendita dei beni o procedere alla sua sospensione nel caso arrivi un’offerta migliorativa; preparare il progetto di ripartizione.

La relazione e la gestione di incassi e uscite

Il curatore, entro 60 giorni dalla dichiarazione di fallimento deve presentare una relazione sulle cause del dissesto aziendale, sulla diligenza e la responsabilità del soggetto fallito e sulle responsabilità degli amministratori qualora si tratti di una società.

La suddetta relazione va consegnata al giudice che ne ordina il deposito in cancelleria. Ogni quattro mesi, il curatore fallimentare è tenuto alla presentazione in tribunale di una nuova relazione sulle attività svolte e il conto relativo alla gestione di incassi e uscite. Il documento deve essere inoltrato anche al comitato dei creditori e depositato presso il Registro delle imprese.

Il curatore fallimentare deve tenere un registro riportante le operazioni in entrata e in uscita da aggiornare quotidianamente. E’ tenuto al deposito, entro dieci giorni, dei soldi incassati in un conto corrente postale o bancario dedicato e da lui scelto. Può investire tale denaro in titoli di Stato o destinarlo ai creditori, su autorizzazione del giudice. Gode del potere di compiere atti di straordinaria amministrazione con il consenso dei creditori, tranne che per gli atti che superano i 50mila euro: in tal caso, deve informare previamente il giudice delegato.

Altre funzioni e azioni del curatore fallimentare

In ogni occasione, il curatore fallimentare deve agire tenendo presente il pagamento dei creditori e la messa in salvo o continuità dell’azienda, qualora fosse ancora possibile. La funzione principale è la redazione di un verbale recante la situazione attuale societaria e come sia giunta allo stato d’insolvenza. Per questo, deve ottenere dal soggetto fallito la documentazione richiesta per tutti gli anni. La relazione deve contenere lo studio e il giudizio sulla gestione finanziaria e contabile del fallito. Inoltre, una relazione delle decisioni assunte dall’amministrazione fallimentare nei suoi compiti gestionali di fallimento.

All’interno delle funzioni gestionali, il curatore fallimentare può svolgere tutti i contratti e accordi commerciali richiesti, mettendo in evidenza quelli mirati alla vendita e alla liquidazione del patrimonio dell’azienda. Deve interessarsi degli adempimenti contabili, fiscali e di lavoro con l’amministrazione. Convocare le riunioni. Occuparsi di tutte le attività lavorative aziendali: assunzione di nuovi dipendenti, licenziamenti, modifica dei contratti di lavoro, avvio di file di regolamentazione del lavoro ecc.

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Fermo amministrativo auto: cos’è e qual è la procedura

Il fermo amministrativo è l’incubo di molti proprietari di auto e moto, ecco quando può essere attuato e come funziona.

Cos’è il fermo amministrativo

Il fermo amministrativo è una misura cautelare e può essere disposto dall’Agenzia Entrate e Riscossioni (che ha sostituito Equitalia) quando a carico del proprietario del veicolo sono riscontrati mancati pagamenti di tributi e sanzioni. Si tratta di un provvedimento in seguito al quale il veicolo è come se fosse sottoposto ad un sequestro, sebbene resti nella materiale disponibilità del proprietario, e quindi non può essere utilizzato, non può circolare. Deve però essere sottolineato fin da ora che il veicolo può essere venduto, naturalmente chi lo acquista subisce il fermo amministrativo e quindi il veicolo comunque non potrà essere utilizzato.

Il veicolo sottoposto a fermo amministrativo inoltre non può essere demolito o radiato dal PRA.

Il fermo amministrativo, si parla anche di ganasce fiscali, costituisce una sorta di garanzia per l’Agenzia Entrate e Riscossione, infatti se entro i termini previsti, il debito non viene estinto il veicolo può essere sottoposto a vendita forzata. Deve essere ricordato fin da ora che la procedura per il fermo amministrativo prevede che questo sia iscritto al PRA (Pubblico Registro Automobilistico) e di conseguenza un eventuale acquirente con una semplice visura può essere messo a conoscenza del vincolo.

Il preavviso di fermo amministrativo

L’iter per il fermo amministrativo di moto o auto prende dalla notifica della cartella esattoriale a cui segue il preavviso di fermo. L’ente creditore notifica al debitore/proprietario del veicolo una cartella esattoriale, in questo viene indicato il credito vantato e un termine di 60 giorni entro il quale lo stesso deve essere saldato. Entro tale termine il debitore può saldare, chiedere una rateizzazione oppure può procedere fare ricorso contro il provvedimento. Nel caso in cui non faccia nulla, riceverà un preavviso di fermo amministrativo, sono concessi ulteriori giorni (solitamente 30 giorni) per provvedere, in caso contrario ci sarà il fermo amministrativo vero e proprio. In questo lasso di tempo il debitore può anche comunicare che usa il veicolo per lo svolgimento della sua professione, in tal caso il fermo amministrativo non viene iscritto al PRA in quanto l’auto è  bene strumentale (solitamente tale beneficio non si concede ai lavoratori dipendenti). Nel preavviso di fermo amministrativo devono essere indicati:

  • la somma di cui si è debitori;
  • l’atto, o ruolo, in relazione è nato tale debito e gli estremi della cartella esattoriale;
  • dati identificativi del veicolo.

La decorrenza degli ulteriori giorni dal preavviso senza che il debitore abbia provveduto a saldare, oppure abbia chiesto una rateizzazione, proposto un ricorso o dichiarato che trattasi di bene strumentale, si iscrive al PRA il fermo amministrativo dell’auto.

Obbligatorietà del preavviso di fermo

In effetti l’obbligo di preavviso di fermo non esiste, ma di fatto la nota 57413 del 2003 dell’Agenzia delle Entrate stabilisce che allo scadere del sessantesimo giorno dall’invio della cartella esattoriale per mancato pagamento di tributi e sanzioni, il concessionario deve inviare al debitore un’intimazione al pagamento della cartella con la chiara indicazione che in caso di mancato pagamento il fermo sarà operativo. Di conseguenza il fermo viene comunicato al PRA al sessantesimo giorno, ma sarà operativo solo dopo 20 giorni e in caso di mancato  pagamento. In questi 20 giorni il veicolo può circolare.

Per bloccare l’operatività delle ganasce fiscali il pagamento deve avvenire direttamente presso gli sportelli del concessionario, ad esempio Aci se si tratta di bolli non pagati, perché solo in questo modo potrà esservi una comunicazione tempestiva che aiuti ad evitare che il fermo diventi operativo. La nota indica 20 giorni, ma come visto, nella maggior parte dei casi nel preavviso di fermo sono concessi 30 giorni.

Impugnazione del preavviso di fermo amministrativo

Il preavviso di fermo può essere impugnato (ciò sospende il fermo) ma solo per vizi propri e non per vizi della cartella esattoriale posta alla base del provvedimento, infatti i termini per impugnare questa sono ormai spirati. Ad esempio si potrebbe impugnare il preavviso di fermo perché manca dei suoi elementi, ad esempio l’indicazione della cartella esattoriale a cui si riferisce. Il fermo può essere “fermato” anche chiedendo la rateazione e pagando la prima rata entro il termine previsto.

Sanzioni violazione del fermo amministrativo 2021

Nel caso in cui il soggetto sia fermato in strada mentre circola con il veicolo sottoposto a fermo amministrativo si applica una sanzione del valore minimo di 770 euro e massimo di 3.086 euro (importi anno 2021). A ciò si aggiunge la confisca del bene (le spese per la custodia sono a carico del proprietario) e la sospensione della patente di guida da 1 a 3 mesi.

Faq e curiosità

Per l’auto sottoposta a fermo amministrativo non vi è l’obbligo di pagare il bollo auto e l’assicurazione, per quest’ultima l’obbligo permane se il veicolo è parcheggiato su pubblica via.

Si può iscrivere il fermo su un’auto cointestata? In questo caso è necessario riferirsi alla giurisprudenza infatti la normativa nulla prevede: la Commissione Tributaria della Regione Piemonte ha stabilito che sarebbe illegittimo l’atto di fermo su un veicolo cointestato perché andrebbe a compromettere il diritto al godimento del bene di proprietà ad un soggetto che è estraneo all’inadempimento. Sentenza 1374/2017 del 3.10.2017 della Commissione Tributaria del Piemonte.

C’è la prescrizione del fermo amministrativo? In teoria non c’è la prescrizione del fermo, tuttavia può prescriversi la cartella esattoriale, a questo proposito deve però essere ricordato che il preavviso di fermo è un atto interruttivo dei termini di prescrizione, quindi è da questo termine che possono essere calcolati di nuovo. Il termine è solitamente di 5 anni, mentre se il debito ha ad oggetto il mancato pagamento del bollo auto la prescrizione è di 3 anni.

Congedo paternità: come funziona per i dipendenti e gli autonomi

Il congedo paternità è stato oggetto di discussione nella legge di Bilancio 2021. Ecco tutte le novità della Circolare n. 42/2021 con attenzione a chi spetta e come richiederlo.

Il congedo paternità: cos’è e chi può richiederlo?

Spesso quando si parla di congedo dal lavoro per motivi familiari, pensiamo sempre alla figura dalla madre. Ma in realtà già la Costituzione ha sempre garantito parità di trattamento tra i lavoratori e le lavoratrici, in questo tema particolare. Il congedo paternità è il diritto ad astenersi dal lavoro per tutto il periodo di maternità. Ma anche per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice nei casi di:

  • morte;
  • grave infermità;
  • abbandono o affidamento del bimbo al padre.

Il lavoratore padre ha anche il diritto di godere di un congedo di paternità obbligatorio. E’ un diritto che spetta indipendentemente dalla presenza o meno della madre.

Il congedo paternità: quando è obbligatorio?

In merito al congedo paternità la legge di Bilancio 2021 ha introdotto alcune modifiche. L’articolo 1, comma 363, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (legge di bilancio 2021) ha stabilito le condizioni per il congedo obbligatorio per i padri lavoratori dipendenti. In particolare la durata del congedo obbligatorio è aumentata. Da sette a dieci giorni da fruire, anche in via non continuativa. Tuttavia sono giorni che possono essere richiesti entro i cinque mesi di vita o dall’ingesso in famiglia o in Italia del minore, nel caso di adorazione o affidamento.

Il congedo facoltativo: un giorno in più

La legge di Bilancio 2021 ha prorogato la possibilità per il padre lavoratore dipendente di fruire di un ulteriore giorno di congedo facoltativo. Ma questo è possibile solo previo accordo con la madre e in sua sostituzione, in relazione al periodo di astensione obbligatoria della donna.

Chi può richiedere il congedo paternità?

Sono tenuti a presentare domanda all’Istituto solamente i lavoratori per i quali il pagamento delle indennità è erogato dall’INPS. Mentre nel caso in cui le indennità sono anticipate dal datore di lavoro, i lavoratori devono comunicare in forma scritta al proprio datore di lavoro, la fruizione del congedo. Tuttavia in quest’ultimo caso, il datore di lavoro comunica all’INPS le giornate di congedo fruite. Durante il congedo il papà ha diritto a ricevere in busta paga il 100% dell’intera retribuzione. È quindi obbligo del datore di lavoro anticipare in busta paga tali somme per poi compensarle nel mod. F24 con i contributi dovuti all’INPS.

Il congedo in caso di morte perinatale

Il congedo viene di solito richiesto alla nascita del bambino. Ma può succedere che sopraggiunga la morte perinatale del piccolo. Cioè il periodo compreso tra l’inizio della 28° settimana di gravidanza e i primi sette giorni di vita del minore. Pertanto, essendo un periodo difficile, la tutela deve essere garantita anche in caso di morte perinatale avvenuta nei primi dieci giorni di vita. Di conseguenza il congedo può essere fruito, sempre entro i cinque mesi successivi alla nascita del figlio, anche nel caso di:

1) figlio nato morto dal primo giorno della 28° settimana di gestazione (il periodo di cinque mesi entro cui fruire dei giorni di congedo decorre dalla nascita del figlio che in queste situazioni coincide anche con la data di decesso);

2) decesso del figlio nei dieci giorni di vita dello stesso (compreso il giorno della nascita). Il periodo di cinque mesi entro cui fruire dei giorni di congedo decorre comunque dalla nascita del figlio e non dalla data di decesso.

Dalla tutela restano pertanto esclusi i padri i cui figli (nati, adottati o affidati) siano deceduti successivamente al decimo giorno di vita (il giorno della nascita è compreso nel computo).

Come funziona nel caso di lavoratori autonomi?

Il congedo di paternità autonomi è un periodo di astensione da lavoro retribuito che corrisponde all’80% dell’importo giornaliero fissato in base al tipo di attività che si svolge. Anche in questo caso, il congedo di paternità viene richiesto per nascita di un nuovo figlio, affido o adozione di un minore. Il congedo spetta ai lavoratori autonomi che hanno i seguenti requisiti:

  • i lavoratori autonomi nel caso in cui avvenga il decesso, la grave malattia, o l’abbandono del figlio alle cure esclusive del padre;
  • i lavoratori padri autonomi di commercio, artigiano, coltivatore diretto, mezzadro, IAP, pescatore a patto che la coniuge sia lavoratrice dipendente o autonoma nelle stesse categorie appena elencate;
  • l’iscrizione del padre lavoratore autonomo alla gestione separata INPS o una delle altre gestioni previste dall’istituto nazionale di previdenza sociale;
  • la regolarità del pagamento dei contributi.

Congedo paternità: quanto dura per i lavoratori autonomi?

Se il padre lavoratore autonomo ha tutti i requisiti fin ora elecanti, il periodo di astensione di lavoro è pari a:

  • tre mesi successivi al parto, se la madre è lavoratrice autonoma;
  • tre mesi successivi al parto, pù gli eventuali giorni di congedo di maternità antecedenti al parto e che non sono stati usufruiti dalla madre lavoratrice dipendente.

Il lavoratore autonomo può chiedere il congedo paternità direttamente all’INPS attraverso il modello SR01. Il modello può essere inviato sia tramite mail, raccomandata con ricevuta di ritorno o presso uno degli sportelli dell’ente.

Assunzione tirocinante: caratteristiche e informazioni

Il tirocinio consiste in un periodo di formazione che si svolge nel contesto di un’attività lavorativa e rappresenta un percorso che favorisce l’inserimento dei giovani del mondo del lavoro.

Molte volte, si tende a confondere il tirocinante con l’apprendista o con lo stagista. Il tirocinio non si configura come rapporto di lavoro, a differenza dell’apprendistato. Lo stage è molto simile al tirocinio, ma se lo stagista accede in modo volontario alla formazione, il tirocinante è spesso obbligato a farla per intraprendere un percorso professionale.

Le due tipologie del tirocinio

Il primo tipo di tirocinio è denominato curriculare ed è riservato agli studenti facenti parte del programma di studio a cui sono iscritti. Più che per trovare lavoro, i tirocinanti svolgono l’attività lavorativa con lo scopo principale di completare gli studi.

Il secondo tipo di tirocinio è chiamato extracurriculare e si rivolge a chi non ha studi da completare. In questo caso, l’obiettivo è acquisire competenze specifiche per avere maggiori possibilità di occupazione. Tale tirocinio segue le linee guida di competenza delle Regioni e delle Province autonome. A livello nazionale sono comunque definiti degli standard contenuti nelle “Linee guida in materia di tirocini”.

Il tirocinio extracurriculare può essere d’orientamento o formativo se si rivolge a persone che hanno concluso gli studi al massimo da 12 mesi e sono alla ricerca di un lavoro. Oppure, d’inserimento o reinserimento al lavoro se è rivolto a chi non ha mai lavorato che abbia terminato gli studi da oltre 12 mesi, ma anche ai disoccupati (compresi i lavoratori in mobilità). O ancora, a favore di particolari categorie disagiate o svantaggiate.

Esistono altri due tipi di tirocinio extracurriculare: il praticantato necessario per l’iscrizione ad Ordini e Albi professionali che ha regole stabilite dai singoli Ordini; i tirocini a favore degli immigrati extracomunitari con permesso di entrare in Italia a lavorarare.

Il contratto di tirocinio

Per attivare un tirocinio è necessaria una convenzione tra un soggetto promotore (università, scuola superiore, Centro per l’Impiego, centro di formazione professionale; consulente del lavoro; cooperativa sociale) e un soggetto ospitante (impresa, studio professionale, cooperativa, fondazione, ente pubblico) con un piano formativo.

I suddetti soggetti nominano un tutor ciascuno per definire le condizioni organizzative e didattiche, monitorare lo stato di avanzamento del percorso formativo, garantire l’attestazione dell’attività svolta.

Requisiti dei tirocinanti

Non esiste un requisito anagrafico per partecipare a un tirocinio. Ma in base all’età del tirocinante viene scelto il tirocinio praticabile e la durata massima dello stage.

Il tirocinio può essere svolto da disoccupati, inoccupati o a rischio disoccupazione; fruitori di misure di sostegno al reddito in costanza di un rapporto di lavoro; occupati ma in cerca di un altro lavoro; disabili (legge n. 68/199); soggetti svantaggiati (legge n. 381/1991); persone disagiate in quando trattate psichiatricamente, per tossicodipendenza, per alcolismo; condannati penalmente, facenti parte del programma di protezione internazionale e sia titolare dello status di rifugiato e di protezione sussidiaria, sia stato vittima di violenza o grave sfruttamento da parte di organizzazioni criminali, sia titolare di permesso di soggiorno rilasciato per motivi umanitari, sia stato vittime di tratta degli esseri umani.

La durata del tirocinio

Il tirocinio extracurriculare dura almeno due mesi. Per il tirocinio formativo e di orientamento la durata è sei mesi; 12 mesi per il tirocinio di inserimento o reinserimento e per quello dedicato ai soggetti svantaggiati; 24 mesi per il tirocinio a favore di soggetti disabili.

Non essendo un effettivo rapporto di lavoro, il tirocinio non prevede licenziamenti o dimissioni, ma sono possibili sospensioni e interruzioni.

Il tirocinio può essere interrotto dal tirocinante previo comunicazione motivata ai turor. Soggetto promotore e soggetto ospitante possono farlo solo in gravi casi di inadempienza o di chiara impossibilità di raggiungere gli obiettivi formativi. In nessun caso è previsto un preavviso.

Il tirocinio può essere sospeso in caso di malattia, infortunio o maternità del tirocinante, ma può riprendere in seguito per il periodo rimanente.

L’assenza per malattia prevede l’avviso del tirocinante ai tutor, non essendo retribuita, non è obbligato alla presentazione di un certificato medico giustificativo.

La retribuzione del tirocinio

Il tirocinio non prevede una retribuzione, tanto meno contributi previdenziali e TFR. Il tirocinante presente per almeno il 70% della durata ha diritto a un’indennità di almeno 300 euro lordi al mese. Tale indennità viene corrisposta se il tirocinante è presente per almeno il 70% del periodo di riferimento.

Il tirocinio non è cumulabile con l’indennità di disoccupazione, ma l’Inps ha stabilito come eccezione lo svolgimento di tirocini attivati nell’ambito del programma Garanzia Giovani.

Qualora non venga corrisposta per il tirocinio l’indennità minima prevista, il soggetto ospitante sarà sanzionato con una multa tra 1.000 e 6.000 euro. Il tirocinante deve essere tutelato dall’Inail e sipulare una polizza assicurativa di responsabilità civile verso terzi.

I limiti di impiego del tirocinio

Il soggetto ospitante può accogliere un numero di stagisti differenze a seconda del numero dei suoi lavoratori a tempo indeterminato: non più di 1 fino a 5 dipendenti; non più di 2 da 6 a 20 dipendenti; non più del 10% dei dipendenti oltre i 20. Per le cooperative i limiti sono meno stringenti.

Sono esclusi dal tirocinio, i tirocinanti non in possesso dei requisiti richiesti, per lo svolgimento di attività ripetitive o comunque prive di carattere formativo; nel caso di lavori che richiedano una formazione preliminare; in sostituzione di un lavoratore a tempo indeterminato; in caso di un precedente rapporto di lavoro o collaborazione col tirocinante.

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