Permessi di lavoro retribuiti: quali sono

I lavoratori impiegati nel settore pubblico o privato, possono fruire di periodi in cui sono esonerati dall’obbligo della prestazione di lavoro, continuando a percepire la retribuzione e mantenendo il proprio posto di lavoro con il riconoscimento anche dell’anzianità di servizio. Stiamo parlando dei permessi retribuiti che sono previsti dalla legge o dai contratti collettivi nazionali di lavoro, ma solo per determinati casi.

Permessi retribuiti: quando spettano

I permessi e/o congedi retribuiti per i dipendenti pubblici o privati sono previsti dall’ordinamento del lavoro italiano, al verificarsi di determinate situazioni. Vediamo quali sono i principali, partendo dalle tipologie di motivazioni che giustificano l’assenza dal lavoro:

  • Permessi per motivi personali;
  • Permessi per cariche pubbliche o elettive;
  • Permessi per motivi medici e sanitari.

Permessi retribuiti per motivi personali

Il congedo matrimoniale rientra tra i permessi per motivi personali e viene riconosciuto al dipendente che contrae un matrimonio con validità civile. Può usufruire del congedo parentale il dipendente genitore per prendersi cura del bambino nei suoi primi anni di vita e soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali. Tuttavia, occorre precisare che il trattamento economico è pari al 30% della normale retribuzione. Il congedo formativo riguarda il dipendente che esercita il diritto di proseguire percorsi di formazione per l’intero arco della vita.

Tra i permessi per motivi personali, ci sono quelli previsti per decesso o grave infermità del coniuge (anche legalmente separato) o parte dell’unione civile. Oppure di un familiare entro il secondo grado di parentela (anche se non convivente) o ancora di un convivente risultante tale da certificazione anagrafica. I permessi per motivi di studio spettano al lavoratore per la frequenza di corsi di studio o per la preparazione e sostenimento degli esami, documentati su richiesta del datore di lavoro.

Permessi retribuiti per cariche pubbliche o elettive

I dipendenti che ricoprono determinate cariche pubbliche godono dei relativi permessi, in quanto consiglieri comunali, provinciali, di altri enti locali e anche come componenti di consigli circoscrizionali per Comuni con più di 500mila abitanti.

Inoltre, i membri di giunte comunali, provinciali, metropolitane, comunità montane, municipi, unione dei comuni, organi esecutivi dei consigli circoscrizionali, unione dei comuni e dei consorzi tra enti locali, commissioni consiliari o circoscrizionali istituite in modo formale, commissioni comunali previste dalla legge, conferenze capigruppo e organismi di pari opportunità previsti dagli statuti e dai regolamenti consiliari.

E ancora, membri di organi esecutivi dei comuni, delle province, delle città metropolitane, delle unioni di comuni, delle comunità montane e dei consorzi tra enti locali. Presidenti di consigli comunali, provinciali e circoscrizionali, gruppi consiliari delle province e dei comuni con popolazione superiore a 15 mila abitanti.

I lavoratori fruiscono dei permessi elettorali, in quanto impiegati nei seggi in veste di presidente, scrutatore, segretario, rappresentante di lista o di gruppo di partiti oppure di comitati che promuovono referendum.

Permessi retribuiti per motivi medici e sanitari

Tra i permessi per motivi sanitari e medici rientrano quelli previsti dalla legge 104. Quindi, ne usufruiscono i dipendenti disabili, i lavoratori che assistono familiari portatori di handicap (coniuge o parte dell’unione civile, convivente, parenti e affini entro il secondo grado). Per quanto concerne gli impiegati con un figlio disabile, i permessi variano a seconda dell’età del bambino.

I permessi per visite mediche riguardano i dipendenti che devono ad esse sottoporsi o per effettuare cure in situazioni particolari e in caso di tossicodipendenza e di soggetti disabili.

I dipendenti che effettuano donazione di sangue presso un centro di raccolta autorizzato dal Ministero della Sanità e per una quantità di almeno 250 grammi hanno diritto ai permessi per donatori. Così, come per i lavoratori che donano il midollo osseo, in tal caso, il permesso comprende gli accertamenti e i prelievi preliminari, l’atto di donazione e la successiva convalescenza.

Altre tipologie di permessi retribuiti

Esistono anche altri tipi di permesse retribuiti, oltre a quelli appartenente alle categorie sopra citate. Ad esempio, i permessi ROL (acronimo di Riduzione Orario di Lavoro) e i permessi ex festività di cui possono beneficiare i lavoratori per i giorni che un tempo rappresentavano una festività poi soppressa (San Giuseppe, Ascensione, Corpus Domini, Festa dell’Unità Nazionale, S.S. Pietro e Paolo (a Roma è ancora festivo).

Poi ci sono i permessi per i dipendenti che appartengono ad organizzazioni inserite nell’elenco nazionale del volontariato di protezione civile. E ancora, i permessi retribuiti sindacali o per attività sociali. 

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Modello F24: cos’è, a cosa serve e come si compila

Il modello F24 permette al contribuente di pagare molti suoi doveri. Una guida completa all’utilizzo corretto e alla compilazione.

Modello f24: cos’è?

Il modello F24 viene utilizzato da tutti i contribuenti, sia possessori di partita IVA che non, per il versamento di molti contribuiti, premi e tributi. Tuttavia si tratta di un modello “unificato” perché permette di effettuare con un’unica operazione di pagamento, la compensazione di eventuali crediti d’imposta. Il modello è obbligatorio e precompilabile anche online, tramite il sito dell’Agenzia delle entrate. Mentre i contribuenti titolari di partita Iva hanno l’obbligo di utilizzare, anche tramite intermediari, le modalità telematiche di pagamento.

Quali tributi possono essere pagati con il modello?

Il modelloF24 è usato per pagare moltissimi tributi:

  • ritenute sul redditi da lavoro e sui redditi da capitale;
  • Iva;
  • Irap;
  • diritti camerali:
  • tasse scolastiche;
  • imposta sulle assicurazioni;
  • imposte sui redditi delle persone fisiche (Irpef);
  • addizionali regionali e comunali;
  • somme dovete per la registrazione di contratti di locazione;
  • accise, imposte di consumo e di fabbricazione
  • contributi Inps, Inail, Inpgi, Cipag, Cnpr, Enpacl, Enpap, Enpapi, Epap, Eppi, Cnocl e premi Inail
  • Imu, Imi, Imis, Tari e Tasi
  • imposta e contributi di soggiorno:
  • Tosap/Cosap, Imposta comunale sulla pubblicità/canone per l’installazione di mezzi pubblicitari. Nel modello F24 nello spazio “codice ente/codice comune” deve essere riportato il codice catastale del Comune in cui sono ubicati gli immobili o le aree e gli spazi occupati
  • alcune tipologie di proventi derivanti dall’utilizzo dei beni di Demanio e di Patrimonio dello Stato sulla base delle comunicazioni specificatamente trasmesse agli utilizzatori;
  • le somme dovute in relazione alla presentazione della dichiarazione di successione (imposta sulle successioni, imposta ipotecaria e catastale, tasse ipotecarie, imposta di bollo, Invim e tributi speciali, nonché i relativi accessori, interessi e sanzioni)
  • imposta sostitutiva sui finanziamenti
  • somme da corrispondere agli uffici provinciali- territorio dell’Agenzia delle entrate in relazione ai servizi ipotecari e catastali
  • le imposte e i relativi interessi, sanzioni e accessori richiesti dagli uffici dell’Agenzia delle Entrate in sede di registrazione degli atti giudiziari emessi a partire dal 23 luglio 2018.

Come si compila il modello F24?

Il modello è suddiviso in sezioni. Quindi si utilizza la sezione Erario per il pagamento di: Ires, Iva e Irap. Mentre la sezione Regioni per le imposte regionali e le addizionali comunali Irpef. Infine la sezione Comunali per il pagamento di Imu ed eventuali altri tributi locali. I campi principali da compilare sono quelli relativi a:

  • contribuente;
  • coobligato;
  • codice tributo;
  • Anno di riferimento;
  • Regioni;
  • Imu ed altre imposte locali.

Nella parte dedicata al contribuente vanno inseriti di dati anagrafici completi, compreso il Codice fiscale. Il coobligato è da indicare solo se presente. Il codice tributo serve ad identificare l’imposta da pagare. Così come è da inserire l’anno a cui fa riferimento quel pagamento. Per le imposte comunali attenzione ad inserire il Codice catastale del Comune a cui sono riferite.

Come si effettuano i pagamenti?

Occorre fare subito una distinzione tra le persone fisiche e i titolari di partita Iva. Infatti questi ultimi hanno l’obbligo di presentare telematicamente il modello F24. Comunque sia il contribuente persona fisica può pagare il proprio F24 sia negli sportelli abilitati dall’agenzia di riscossione, sia presso gli uffici postali o bancari. Inoltre il pagamento può essere fatto tramite contante, sempre se non supera il limite massimo di circolazione. Ma sono ammessi anche altri metodi di pagamento, come carte di credito, assegni, vaglia, carta prepagate o tramite bancomat o postamat. Mentre i possessori di partita IVA possono percorre due strade:

  • pagare personalmente;
  • tramite intermediario abilitato.

Nel primo caso il contribuente può effettuare i pagamenti tramite accesso ai canali Fisconline e Entratel. Oppure tramite qualsiasi servizio di home banking, se offerto come servizio dalla propria banca. Se invece si paga attraverso l’ausilio di un intermediario, saranno questi ultimi a provvedere al pagamento, su delega dell’interessato. Comunque sia possono sfruttare gli stessi canali, se abilitati.

Altri consigli utili per la corretta compilazione

Gli importi da versare devono essere compisti da quattro cifre: le prime due, la virgola e due cifre decimali. Se ci sono le cifre decimali, occorre prestare attenzione agli arrotondamenti. Infatti se la terza cifra è uguale o superiore a 5, l’arrotondamento deve essere fatto per eccesso. Mentre se la terza cifra è minore a 5, l’arrotondamento deve essere fatto per difetto. Il modello F24 deve essere sempre firmato dal contribuente. Si ricorda che questo modello permette anche di fare operazione di compensazione con credito d’imposta ed eventuali ravvedimenti. Per questo motivo si presenta anche il modello F24 a saldo zero. Qualora questo non fosse presentato, la legge prevede una sanzione di 100 euro, ridotta a 50 euro se il ritardo non è superiore a cinque giorni lavorativi. Per procedere al ravvedimento è prevista un addebito pari a:

  • 5,56 euro se il modello è presentato entro 5 giorni lavorativi;
  • 11,11 euro se presentato entro 90 giorni.

Se la sanzione supera 90 giorni lavorativi occorre versare:

  • 12,50 euro (1/8 di 100 euro), se il modello F24 viene presentato entro un anno dall’omissione
  • 14,29 euro (1/7 di 100 euro) se il modello F24 a saldo zero viene presentato entro due anni dall’omissione
  • 16,67 euro (1/6 di 100 euro) se l’F24 a saldo zero viene presentato superati i due anni dall’omissione
  • 20 euro (1/5 di 100 euro) se il contribuente si ravvede dopo che la violazione viene constatata con un processo verbale.

 

 

 

Chi paga l’affitto nel contratto di franchising? Casi particolari

Il franchising è un contratto che attira sempre più persone perché solitamente consente di ottenere un buon riscontro economico fin da subito, molti però si chiedono come funziona esattamente. In questo caso risponderemo a una domanda molto comune, cioè: chi paga l’affitto nel contratto di franchising?

Il franchising e i suoi vantaggi

Si è detto in precedenza che la legge che regola questo contratto è piuttosto scarna e ciò risponde al principio di libertà contrattuale delle parti. In definitiva il contratto di franchising può avere un contenuto variabile in base a chi riveste il ruolo di franchisor, che può dare all’affiliato una sorta di assistenza maggiore o minore. Si è visto che per entrare nella catena è necessario versare un fee o Royalty, naturalmente maggiore è il successo della catena di franchising e maggiore è anche l’importo richiesto. Il fatto di poter controllare il fatturato degli ultimi 3 anni costituisce una garanzia per chi vuole intraprendere questa strada.

In realtà spesso l’attività di supporto fornita dal franchisor in molti casi è davvero notevole, ad esempio in molti franchising, l’affiliante cura la formazione non solo del franchisee o affiliato, ma anche dei dipendenti che sono tenuti a seguire in modo costante corsi di formazione, è anche vero che spesso le attività di formazione devono essere pagate dal franchisee. Questa è una peculiarità di molti saloni di  bellezza/ parrucchieri che lavorano in franchising, in questo caso affiliati e dipendenti per poter mantenere l’affiliazione devono seguire i corsi di formazione e devono comunque sostenerne i costi.

Chi paga l’affitto nel contratto di franchising?

Ritornando ora ai locali e alla domanda iniziale, cioè: chi paga l’affitto nel contratto di franchising, occorre ricordare che nella maggior parte dei casi l’allestimento del locale viene fornito dal franchisor che fornisce, in base anche al tipo di attività, banconi e scaffalature,  ciò che invece non è compreso è l’affitto del locale che ricade invece sul franchisee. I motivi sono diversi, in primo luogo è di natura pratica, cioè il franchisee è colui che stipula il contratto di affitto e quindi è lui ad essere responsabile nei confronti del locatario per il pagamento. In secondo luogo si è visto che  le parti sono indipendenti, si tratta quindi di due imprenditori che sono in uguale posizione, cioè nessuno dei due è in rapporto di subordinazione con l’altro e di conseguenza il franchisee non è proprietario del marchio, ma è di sicuro proprietario dell’attività.

In alcuni casi le catene di franchising, soprattutto se appena nate o appena sbarcate in una zona, cercano di aiutare il franchisee nella ricerca del locale adatto, ma questa particolare attenzione non deve far ritenere che poi sia il franchisor a sostenere i costi di affitto.

Chi paga l’affitto del locale nel franchising Mc Donald’s?

Un po’ diverso è il caso di McDonald’s, infatti la nota catena di fast food ha una politica generalmente diversa, cioè individua la zona dove vuole investire, il bacino di utenza deve essere di almeno 50.000 persone, e nella maggior parte dei casi acquista anche l’immobile che vuole utilizzare o si occupa di averne la disponibilità. A questo punto avvia una selezione seria tra aspiranti gestori e affida la gestione del fast food a personale altamente qualificato, non basta avere soldi da investire, ma esperienza sul campo, un curriculum di un certo spessore. Per poter gestire un McDonald’s occorre superare diversi colloqui, fare delle prove pratiche e un training presso una sede per 12 mesi.

McDonald’s fornisce gli arredi, il locale, strumenti, naturalmente le ricette, offre formazione gratuita, ma il gestore oltre a dover corrispondere le royalities mensili, deve pagare anche l’affitto del locale con una formula particolare. Le royalities mensili sono pari al 5% delle vendite nette, a cui si aggiunge un contributo pubblicitario del 4%, sempre calcolato sulle vendite nette. L’affitto del locale varia e corrisponde a una forbice variabile dal 14% al 20% delle vendite nette.

Quanto costa un franchising McDonald’s? Purtroppo l’investimento è piuttosto alto, cioè 800.000 euro, sebbene solo 200.000 debbano essere versati fin da subito, insieme a 45.000 euro di fee. Chi vuole entrare nella catena deve dimostrare fin da subito di avere la disponibilità dei 200.000 euro iniziali, mentre potrà chiedere finanziamenti per la rimanente parte.

Franchising Yamamay: chi paga l’affitto del locale

La gestione Yamamay è completamente diversa, qui è il franchisee a dover provvedere al locale, quindi scaffalature, banconi, vetrine, informatizzazione, impiantistica e naturalmente l’affitto del locale, ma non paga royalty di ingresso, naturalmente l’investimento iniziale c’è perché gli arredi devono essere conformi. E’ necessario un locale di almeno 90 mq e solitamente i costi di allestimento sono intorno ai 50.000 euro, a questi occorre aggiungere la stipula di una fideiussione bancaria del valore di 35.000 euro in favore della società Yamamay. L’affiliazione ha una durata minima di 5 anni. Queste sono le condizioni di franchising 2021.

Questa divagazione sul McDonald’s e Yamamay ha lo scopo di dimostrare che non esiste una regola unica su chi deve pagare l’affitto nel franchising, ma è bene, prima di investire, discutere con la singola società tutte le caratteristiche del contratto e leggere bene ogni clausola.

Come funziona l’aspettativa per motivi personali

Nel corso della vita lavorativa di un individuo possono verificarsi situazioni per cui è necessario chiedere un periodo più o meno lungo di aspettativa. Tra le varie cause che portano un dipendente ad assentarsi dal lavoro per un determinato lasso temporale a seguito di un’aspettativa richiesta e poi concessa dal datore di lavoro, ci sono i motivi personali. Prima di entrare nello specifico è doverosa fare una premessa su cosa sia l’aspettativa.

Cosa vuol dire andare in aspettativa

Quando un dipendente firma un contratto di lavoro s’impegna a svolgere la propria prestazione lavorativa, rispettando un orario di lavoro e ricevendo in cambio una retribuzione da parte del datore di lavoro. Ciò significa che il dipendente pubblico o privato che sia, non può assentarsi arbitrariamente dal lavoro, ma solo nei casi previsti dal contratto: ferie, permessi, malattie, infortuni, maternità e via discorrendo.

L’aspettativa funziona diversamente, in quanto consente di essere esonerato dallo svolgimento dell’attività lavorativa per ragioni previste dalla legge o dal Contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria, conservando il proprio posto di lavoro.

A tutti gli effetti, l’aspettativa consiste in una sospensione del rapporto di lavoro limitata a un determinato periodo di tempo, in cui il dipendente può ricevere o meno una retribuzione e ha una durata diversa a seconda dei casi. Ma quali sono le motivazioni previste dalla legge, per cui il lavoratore subordinato può richiedere l’aspettativa?

Condizioni per la richiesta di aspettativa

Il dipendente può richiedere l’aspettativa in presenza di determinate condizioni, ecco le principali previste dalla legge:

  • legge 104 (congedo straordinario);
  • malattia o infortunio;
  • lutto o gravi motivi familiari;
  • volontariato;
  • cariche elettive, pubbliche, attività sindacali;
  • formazione;
  • cure termali e tossicodipendenza;
  • vincitori di concorso;
  • dottorato di ricerca;
  • avvio attività professionale.

Altri casi particolari per cui è possibile richiedere l’aspettativa da parte di un dipendente sono previsti dal Ccnl.

Richiesta di aspettativa per motivi personali

L’aspettativa richiesta da un lavoratore dipendente a tempo indeterminato per motivi personali non è prevista dalla legge, ma è contemplata da alcuni Contratti collettivi nazionali di lavoro.

I motivi personali o di famiglia (da non confondere con i gravi motivi familiari) sono rappresentati da situazioni correlate al benessere, allo sviluppo e al progresso del dipendente come persona singola o come membro di una famiglia. Quindi, interessi considerati dal lavoratore di rilevante importanza che possono essere perseguiti solo assentandosi dal lavoro.

Quindi, qualora il contratto di lavoro preveda la possibilità di chiedere un’aspettativa per motivi personali, la relativa domanda va presentata formalmente al proprio datore di lavoro o all’ufficio risorse umane. Quest’ultimo può concederla, ma rientra nei suoi diritti la facoltà di diniego che, però, deve essere motivato. In assenza di tali giustificazioni, il dipendente può ricorrere presso il giudice. Ad ogni modo, è importante sottolineare che godere dell’aspettativa per motivi personali o familiari non gravi, non è un diritto dell’impiegato.

E’ nella facoltà del datore di lavoro decidere di concedere questa aspettativa per un minore lasso di tempo in relazione alle sue esigenze lavorative, o differirlo nel tempo o ancora fare delle controproposte.

La richiesta di aspettativa da parte del dipendente deve contenere la descrizione delle motivazioni, il lasso di tempo di fruizione (continuativo o frazionato) ed essere compatibile con le esigenze lavorative e organizzative per avere la possibilità di essere accolta. Inoltre, vanno inseriti: dati personali del lavoratore, data di assunzione, tipologia contrattuale, mansione professionale e naturalmente data e firma.

Aspettativa per motivi personali: durata

La durata totale del periodo di aspettativa non può superare i dodici mesi nell’arco di un triennio e il dipendente non ne può beneficiare per più di due periodi. E’ nella sua facoltà riprendere il lavoro durante il suddetto lasso temporale, tramite preavviso e il datore di lavoro non può rifiutare il rientro. Nel caso voglia nuovamente assentarsi dal lavoro, l’impiegato deve fare un’altra richiesta di aspettativa.

Il datore di lavoro può chiedere al dipendente di ritornare sul posto di lavoro, nel caso accerti il venir meno delle motivazioni poste alla base della richiesta di aspettativa. In tal caso, il lavoratore non può rifiutare di riprendere la propria attività. Tuttavia, così come per il dipendente che vuole rientrare al lavoro in anticipo, anche il suo datore deve dare un preavviso.

Retribuzione e contribuzione previdenziale

In caso di concessione dell’aspettativa da parte del datore di lavoro, il dipendente non riceve alcuna retribuzione né contributi previdenziali, ma conserva solamente il posto di lavoro. Tuttavia, può riscattare i contributi secondo la normativa vigente.

I periodi di assenza per aspettativa dovuta a motivi personali non sono utili ai fini del calcolo dei periodi di comporto. Pertanto, dette assenze non concorrono alla determinazione del triennio di riferimento per il calcolo del periodo massimo di conservazione del posto in caso di malattia del lavoratore.

Il dipendente non può svolgere un’altra attività che sia di lavoro subordinato, autonomo o professionale durante il periodo di aspettativa.

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Azione di rivendicazione: come si prova il diritto di proprietà

L’azione di rivendicazione è una particolare azione giudiziaria riconosciuta in favore di chi ritiene di essere stato ingiustamente spogliato di un bene di sua proprietà. Nel diritto italiano, a parte alcuni singoli casi in cui è prevista l’inversione dell’onere probatorio, chi afferma un fatto, deve dimostrarlo. Ciò capita proprio con l’azione di rivendicazione, ecco di seguito una disamina su come si prova la proprietà ai fini dell’azione di rivendicazione.

Che cos’è l’azione di rivendicazione

L’azione di rivendicazione è disciplinata dall’articolo 948 del codice civile che sottolinea: Il proprietario può rivendicare la cosa da chiunque la possiede  o detiene e può proseguire l’esercizio dell’azione  anche  se  costui, dopo la domanda, ha  cessato,  per  fatto  proprio,  di  possedere  o detenere la cosa. In tal caso il convenuto e’ obbligato a ricuperarla per l’attore a proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno.                                                                                     Il proprietario, se consegue direttamente dal  nuovo  possessore  o detentore la restituzione della  cosa,  e’  tenuto  a  restituire  al precedente possessore o detentore la somma ricevuta in luogo di essa.   L’azione di rivendicazione non  si  prescrive,  salvi  gli  effetti dell’acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione.

Si evince da questo articolo che l’azione di rivendicazione può essere esercitata nei confronti di chiunque, anche dei soggetti che successivamente hanno acquistato il bene ritenendo di acquistare dal legittimo proprietario.  Si può quindi esercitare l’azione anche nei confronti del terzo in buona fede.

Come provare il diritto di proprietà nell’azione di rivendicazione

Naturalmente la prova della proprietà non è così semplice come può sembrare. Per i beni immobili e per i beni mobili registrati solo erroneamente si può ritenere che sia più semplice fornire la prova. Ad esempio se anche si è titolari del diritto di proprietà per aver ricevuto il bene in seguito a un atto di compravendita oppure per una successione testamentaria o legittima, occorre provare anche che il soggetto da cui si è ricevuto il titolo, lo ha ottenuto e trasmesso in modo legittimo.

Chi esercita l’azione di rivendicazione, a meno che il titolo non sia stato acquisito a titolo originario,  deve provare il titolo del dante causa a ritroso fino al momento di arrivare all’acquisto a titolo originario del bene. In questi casi si è parlato anche di prova diabolica e tra gli strumenti utilizzabili vi è la visura storica sull’immobile. In alcuni casi gli archivi cartacei però sono andati distrutti.

Chi esercita l’azione di rivendicazione non solo deve provare i vari passaggi visti, ma deve provare anche la legittimità degli stessi.

L’azione di rivendicazione è un’azione reale, petitoria, o restitutoria.

La giurisprudenza sull’azione di rivendicazione

A supporto di questa tesi vi è la sentenza 5257 del 2011 della Corte di Cassazione che afferma: La prova della proprietà dei beni immobili non può essere fornita con la produzione dei certificati catastali, i quali sono solo elementi sussidiari.

Inoltre la sentenza del Tribunale di Catania 167 del 13 gennaio 2017 afferma che una domanda riconvenzionale che eccepisce l’usucapione da parte del convenuto non mitiga l’onere probatorio in quanto mira solo a difendere il proprio titolo, spetta comunque a chi esercita l’azione di rivendicazione provare la sua proprietà del bene oltre ogni ragionevole dubbio.

Tra l’altro l’usucapione, come si evince dal comma 3 dell’articolo 948, può portare alla prescrizione dell’azione di rivendicazione, imprescrittibile in tutti gli altri casi.

Altrettanto difficile è la prova della proprietà di un bene mobile, infatti qui si applica il principio del “possesso vale titolo” quindi chi detiene un  bene, ad esempio un gioiello, si ritiene ne sia il legittimo proprietario e chi afferma il contrario deve provarlo oltre ogni ragionevole dubbio, ma non essendovi registri la prova è ancora più ardua.

L’azione negatoria

L’azione che fa da contraltare all’azione di rivendicazione è l’azione negatoria, disciplinata dall’articolo 949 del codice civile e che mira a far smettere le pretese altrui su un bene, infine c’è l’azione di regolamento di confini (950 del codice civile) che mira a delineare i confini di un bene immobili al fine di far cessare l’incertezza determinata da pretese altrui. In questo caso trattasi di azioni di accertamento.

I mezzi di prova nell’azione di rivendicazione

Si è detto che nell’azione di rivendicazione la prova può essere considerata diabolica perché non è semplice provare la proprietà di un bene detenuto da altri, la legge però ammette che possono essere utilizzati tutti i mezzi di prova (per alcune azioni vi sono dei limiti) quindi è possibile portare in giudizio dei testimoni, oppure delle prove documentali.

L’azione di restituzione: differenze

L’azione di rivendicazione deve essere tenuta distinta dall’azione di restituzione che ha natura personale e non reale ed è volta ad ottenere la restituzione di un bene e si fonda sulla “insussistenza o sul sopravvenuto venir meno di un titolo di detenzione del bene da parte di chi attualmente lo detiene per averlo ricevuto dall’attore o dal suo dante causa, ed è rivolta, previo accertamento di quella insussistenza o di quel venir meno, ad ottenere conseguenzialmente la consegna del beneCass. civ. sez. III, 10 dicembre 2004, n. 23086.

Questa sentenza continua affermando che in questo caso non deve essere fornita dall’attore la prova diabolica che si è vista per l’azione di rivendicazione, ma l’attore deve solo provare i motivi dell’insussistenza e del venir meno del titolo a causa di invalidità, inefficacia, decorso del termine di durata, esercizio dell’eventuale facoltà di recesso. La domanda di restituzione e quella di rivendicazione possono essere presentate contestualmente  nello stesso giudizio in via alternativa o subordinata.

 

Bonus Covid versati dall’Inps ad autonomi e partite Iva da segnalare nei Redditi PF

I bonus di 600 euro dati agli autonomi e alle partite Iva per l’emergenza sanitaria ed economica legata al Covid vanno inserito nel modello PF per la dichiarazione dei redditi 2021. In particolare, in base alle istruzioni per comilare il modello Redditi PF 2021, i lavoratori autonomi e i titolari di reddito di impresa devono inserire nella dichiarazione tutti i contributi erogati durante l’emergenza Covid.

Indennità Covid da dichiarare nel Reddito Pf: il decreto di riferimento

La disciplina delle indennità alla quali si fa riferimento è quella contenuta nel decreto legge numero 18 del 17 marzo 2020, considdetto “Cura Italia”, recante misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico alle famiglie, ai lavoratori e alle imprese connesse all’emergenza epidemiologica Covid-19. Si fa dunque riferimento alle indennità versate dall’Inps alle partite Iva e ai lavoratori autonomi dal valore dai 600 ai 1.000 euro, anche in base ai contributi versati nel corso di tutto l’anno.

Quadri LM, RE e RG: a quali contribuenti corrispondono?

Per i titolari di reddito di impresa o esercenti lavoro autonomi è necessario rilevare innanzituto il regime fiscale di appartenenza. Infatti, il quadro RG dovrà essere utilizzato dall’impresa in regime di contabilità semplificata, il quadro RF dall’impresa in contabilità ordinaria. I contribuenti ricadenti nel sistema forfettario dovranno far riferimento al quadro LM. Infine gli autonomi e i professionisti dovranno compilare il quadro RE.

Bonus ai contribuenti in contabilità semplificata: come si dichiara?

I conribuenti dovranno inserire nei quadri tutti gli aiuti a essi erogati nel contesto dell’emergenza sanitaria nel corso del 2020. Tuttavia, trattandosi di erogazioni prive di rilevanza redditutale, il loro importo deve essere neutralizzato. Per l’imprenditore individuale in regime di contabilità semplificata, il bonus versato dall’Inps deve essere trascritto specularmente tra le variazioni in diminuzione del rigo RG 22.

Quadro RF delle imprese: come dichiarare le indennità Covid?

In generale, le indennità ricevute per la pandemia devono essere riportati nei quadri RF e RG della dichiarazione dei redditi del 2021. Tuttavia, l’iscrizione delle indennità non concorre alla determinazione dell’imponibile ai fini dell’imposta da pagare. La loro iscrizione è, pertanto, giustificata solo da finlità informative. Più nello specifico, nel quadro RF delle imprese, l’iscrizione delle indennità evita proprio di sottoporre a imposizione il contributo ricevuto.

Dichiarazione dei redditi: il quadro RF della contabilità ordinaria

I soggetti in contabilità ordinaria dovranno inserire gli aiuti ricevuti dall’Inps nel quadro RF. In particolare, dovranno tener conto del rigo RF 55 inerente alle variazione in diminuzione del 2021. I codici da utilizzare sono due:

  • il codice 83 per le indennità a fondo perduto inerenti ai decreti del 2020 “Rilancio”, “Agosto” e “Ristori”;
  • il codice 84 per tutte le indenità di qualsiasi natura che non determinano la formazione del reddito.

Dichiarazione dei redditi 2021: il quadro RG degli autonomi in contabilità semplificata

Nel caso, invece, del quadro RG della dichiarazione dei redditi l’iscrizione delle indennità ricevute serve solo a titolo segnaletico o informativo. Il rischio che le indennità ricevute possano finire tassate in realtà non sussiste, come per i quadri RE e LM.

Codici da utilizzare per i bonus Covid nel modello RG

Nel caso dei conribuenti soggetti a contabilità semplificata il qudro di riferimento è quello RG. I contributi ottenuti nel corso dello scorso anno in relazione all’emergenza sanitaria devono essere indicati in due modi:

  • immettere il codice 27 in corrispondenza del rigo rG 10 relativo agli “Altri componenti positivi”;
  • inserire il codice 47 nel rigo rG 22, in corrispondenza degli “Altri componenti negativi”.

In tal modo le somme ottenute per l’emergenza andranno a compoensarsi e a non influire nel reddito imponibile.

Il franchising: in cosa consiste questo contratto di vendita?

Il Franchising rientra tra i contratti che hanno ad oggetto la distribuzione di prodotti. Ecco le caratteristiche che lo identificano.

Il franchising: la normativa

Il franchising è un contratto elaborato negli Stati Uniti. Successivamente arrivò anche in Europa ed in Italia. Era il 18 settembre 1970 quando un’azienda della grande distribuzione, la Gamma d.i., inaugurò a Fiorenzuola d’Adda il primo di 55 punti vendita gestiti da una decina di affiliati. Nasceva così la prima vera rete in franchising italiana. Ma si dovrà aspettare fino al 2004 per avere la legge n.129 a tutela del franchising. Grazie a questa nuova legge viene introdotto in Italia il concetto di franchising e tutte le sue caratteristiche. Tra queste la durata, gli obblighi delle parti, la sanzione in caso di informazioni false fornite dalle parti in fase di trattative precontrattuali.

Il franchising: la definizione

Come da articolo 1: “L’affiliazione commerciale (franchising) è il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte (franchisor) concede la disponibilità all’altra (franchisee), verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi”.

Alcuni approfondimenti

Questo articolo di legge introduce alcuni concetti importanti . Ad esempio quello del Know-how. Con questa parola si intende il patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate derivanti da esperienze e da prove eseguire dall’affiliante. E’ un patrimonio segreto e che tale deve restare. Altro concetto importante è quello del diritto di ingresso, cioè una cifra fissa, che l’affiliato versa al momento della stipula del contratto di franchising. L’affiliato deve anche pagare delle royalties, cioè una percentuale che l’affiliante richiede, commisurata al giro d’affari. Il franchisee è sempre un imprenditore autonomo, sia dal punto di vista economico e giuridico, anche se agli occhi del consumatore sembra più una filiale dell’impresa franchisor.

I vari tipi di accordi commerciali

Esistono varie tipologie di franchising. Il primo è detto di servizi, quando il franchisee è autorizzato a prestare servizi utilizzando i segni identificativi del franchisor. Il caso tipico è quello dei contratti di molti alberghi o villaggi turistici. Il secondo è detto industriale, quando il franchisee viene autorizzato a svolgere un’attività produttiva e vendita di beni. Questo è un contratto molto usato dalle multinazionali che in questo modo provvedono alla produzione su vari mercati nazionali di prodotti che hanno un marchio celebre. Il terzo è detto di distribuzione, quando il franchisee è autorizzato a rivendere i prodotti del franchisor usando gli stessi segni distintivi. Quest’ultima è la forma più diffusa. In tutte le tipologie vi è comunque un diritto di esclusiva del franchisee in relazione alla zona in cui opera.

Analizzando il franchising di distribuzione

Questa come abbiamo detto è la forma di franchising più usata a livello mondiale. Essa assomiglia molto alla concessione di vendita. Però si caratterizza dal fatto che il franchisee è autorizzato a usare lo stesso marchiola stessa insegna del franchisor. Inoltre il franchisee si impegna anche a seguire le prescrizioni del franchisor relative alle modalità di vendita dei prodotti, alla formazione del personale e all’arredamento dei locali.
Con il franchisor di distribuzione, le imprese produttrici di beni possono regolare in modo uniforme la distribuzione dei propri prodotti. Ma non ne sostengono il costo, perchè questa spesa rimane in capo al franchisee. Infatti questi ultimi sono autonomi commercianti che acquistano i prodotti del franchisor e li rivendono ai consumatori, utilizzando sempre l’immagine del franchisor. Ma anche il franchisee ha il suo vantaggio. Infatti l’identificazione con il franchising gli consente di fruire dell’avviamento di cui gode l’impresa del franchisor stesso.

E-commerce: strategie SEO per vendere con successo

Un imprenditore che attraverso il proprio e-commerce vuole vendere con successo, non può fare a meno di utilizzare la SEO (Search Engine Optimization) che tradotto in italiano vuol dire “ottimizzazione dei motori di ricerca”.

Cos’è la SEO

Senza perderci in termini troppo tecnici, la SEO è l’insieme delle strategie e pratiche teso ad aumentare la visibilità di un sito internet. In parole ancora più semplici, l’obiettivo è comparire nei primi risultati restituiti dal motore di ricerca per antonomasia: Google, quando l’utente e potenziale acquirente digita una parola chiave o una frase ad essa correlata che riguarda il prodotto a cui è interessato.

Il raggiungimento di tale obiettivo significare ricevere molto più traffico utenti sul proprio e-commerce, quindi, avere molte più probabilità di vendere con successo. Scegliere di concentrarsi sulla SEO, vuol dire anche servirsi di uno strumento molto efficace e decisamente a basso costo, rispetto all’utilizzo di campagne pubblicitarie a pagamento come Facebook Ads e Google Ads.

C’è da dire, che adottare la SEO non è affatto un compito semplice, tutt’altro. E’ necessario avere delle competenze per applicarla sul proprio e-commerce con efficacia. Se si ritiene di non averne a sufficienza, è consigliato rivolgersi a un professionista del settore.

Ottimizzare i contenuti per i motori di ricerca

I contenuti del proprio e-commerce devono essere ottimizzati per i motori di ricerca, per farlo si deve agire sulla struttura del sito, delle pagine e dei contenuti del catalogo. Il lavoro va svolto anche sul codice HTML dei contenuti, sulla gestione dei link presenti nell’articolo del sito, sulla descrizione dei prodotti o della pagina del proprio e-commerce. Grande importanza ricopre anche il lavoro svolto sui contenuti testuali dei propri articoli o delle descrizioni dei prodotti.

Come ottimizzare i testi per vendere con successo

E’ necessario creare contenuti testuali originali e di qualità che possano stimolare l’utente impegnato nella loro lettura, soddisfacendone le esigenze e di conseguenza, avere maggiori possibilità di vendere con successo. L’ottimizzazione di un articolo passa anche per la sua lunghezza. A quanto pare, Google apprezza e premia quelli composti da circa 3.000 parole. Tuttavia, il consiglio è di fare in modo di strutturare al meglio il contenuto di un articolo, specie se è lungo.

A tal proposito, l’utilizzo di qualche grassetto e soprattutto di titoletti è importantissimo, così come evitare frasi e paragrafi troppo lunghi che potrebbero confondere l’utente e magari annoiarlo.

Scelta delle keyword

La scelta delle parole chiave (keyword) è fondamentale per redigere un articolo in ottica SEO e ci si può avvalere di due tool gratuiti: Google Trends e Keyword Tool. Il primo indica gli argomenti in tendenza e il loro andamento trascorso. Il secondo dà la possibilità di trovare parole chiave correlate a quella cercata.

Attenzione, è consigliato l’utilizzo di keyword con medio-bassa concorrenza e di affidarsi all’uso delle long tail keywords, ossia una frase che contenga la parola chiave principale e che possa rappresentare una ricerca più di nicchia. Per verificarlo, è sufficiente digitare la frase e vedere quanti risultati restituisce il motore di ricerca, minore è il numero e più bassa è la concorrenza.

Titoli e keyword stuffing

L’ottimizzazione SEO di un articolo scritto sul proprio sito passa principalmente per il titolo che deve essere inerente al contenuto. E’ altrettanto importante evitare un utilizzo spropositato delle parole chiave. Erroneamente, si pensa che inserirla quante più volte possibile nel contenuto testuale possa aumentarne il piazzamento. In realtà, Google ne penalizza l’abuso (keyword stuffing), per cui è indicato usare la parola chiave solo in qualche occasione e comunque in modo proporzionato alla lunghezza del testo.

I fattori di ranking SEO per e-commerce

Conoscere i fattori di ranking SEO significa capire come scalare la SERP e comparire tra i primi risultati di ricerca. Abbiamo già parlato dell’utilizzo delle parole chiave e del titolo, ma adesso ci soffermiamo anche sull’importanza dei link. E’ indispensabile eliminare collegamenti esterni interrotti, per questo si deve controllare se la URL introdotta è corretta. Anche creare una link building interna per collegare i contenuti del proprio e-commerce è fondamentale.

Altro fattore di ranking SEO è rappresentato dalla velocità di caricamento delle pagine del proprio negozio online, più è bassa e maggiore è la possibilità di perdere posizionamento. Inoltre, si deve consentire agli utenti di navigare all’interno del sito con estrema facilità, in modo intuitivo. Per verificare se ciò accade, è sufficiente controllare la frequenza di rimbalzo su Google Analitycs che indica la percentuale degli utenti che abbandona la navigazione del proprio e-commerce. Per testare la velocità del proprio sito è possibile usare degli strumenti gratuiti come Google PageSpeed Insights.

Ottimizzazione immagini e video

Non solo testi, la SEO va applicata anche alle immagini e ai video inseriti nell’articolo. Il potenziale acquirente di un e-commerce può cercare informazioni su un prodotto anche tramite la ricerca di immagini. Per questo motivo, è importante fornire una descrizione dettagliata dell’immagine nel testo alternativo al fine di ottimizzarla. Da scegliere anche un nome per ogni foto carica di parole chiave.

Non tutti i proprietari di un negozio online inseriscono dei video. Peccato, perché costituiscono uno strumento importante per fornire informazioni su un prodotto e invogliare l’utente-cliente ad acquistare. Per ottimizzare i video è consigliato utilizzare la funzione di completamento automatico di YouTube, al fine di conoscere quali sono le keyword phrase usate dagli utenti che cercano contenuti video inerenti il prodotto venduto online.

Per farlo, basta digitare l’argomento del proprio video e osservare le parole chiave suggerite che vanno utilizzate nel proprio canale e nella descrizione del proprio video.

 

Auto aziendale per ditta individuale: come funziona?

Rispetto al mezzo privato, l’auto aziendale è un bene strumentale che è spesso indispensabile per lo svolgimento di un’attività imprenditoriale. Inoltre, sempre rispetto ad un’auto che viene acquistata per uso personale e familiare, quella aziendale in Italia può beneficiare di una fiscalità agevolata così come è previsto dalla normativa vigente. Queste agevolazioni fiscali, inoltre, possono variare anche in ragione del tipo di impresa. Per esempio, per la ditta individuale come funziona l’auto aziendale? Ovverosia, quali sono i vantaggi fiscali che sono ottenibili?

L’acquisto ed il possesso di auto aziendale per una ditta individuale, vediamo come funziona

Nel dettaglio, per le ditte individuali, ed anche per i professionisti, l’acquisto ed il possesso di un’auto aziendale è possibile, ma le agevolazioni fiscali sono decisamente più contenute rispetto alle altre persone giuridiche.

Quelle che in particolare per l’auto aziendale, nel rispetto delle condizioni previste, possono sfruttare e possono avvantaggiarsi, tra l’altro, dei cosiddetti rimborsi chilometrici. Nel dettaglio, per l’auto aziendale è ammessa nel caso di ditta individuale la deduzione dei costi al 20% e la detrazione dell’IVA al 40%.

Acquisto di un’auto aziendale per la ditta individuale o meglio il noleggio a lungo termine?

Il che significa che, per il titolare di una ditta individuale, una grossa fetta delle spese e dei costi per l’auto aziendale è non deducibile e non detraibile. Con la conseguenza che spesso i titolari di ditta individuale, in alternativa all’acquisto dell’auto aziendale, optano per la formula del noleggio auto a lungo termine.

Detrazione Iva auto aziendale per la ditta individuale, come portarla al 100%?

Per portare la detraibilità auto aziendale di una ditta individuale dal 40% al 100% una soluzione in realtà c’è. Ma prevede per il mezzo di trasporto il cambio della finalità e della destinazione d’uso. Ovverosia, trasformare l’auto aziendale in un autocarro. Per la precisione, in un autocarro fiscale.

Si tratta, nello specifico, della trasformazione del mezzo di trasporto dalla categoria M1 alla categoria N1. Al riguardo ci sono delle ditte specializzate nell’effettuare questa trasformazione, rendendo così l’auto aziendale un autocarro, ovverosia un vero e proprio ufficio della ditta su 4 ruote.

Facendo però attenzione al fatto che la deducibilità e la detraibilità piena autocarri vale solo se il mezzo si prefigura in tutto e per tutto come un bene che è strumentale all’esercizio dell’attività del titolare della ditta individuale. Altrimenti poi si rischiano problemi con il Fisco. In caso poi di contestazioni da parte proprio dell’Agenzia delle Entrate.

Dall’auto aziendale all’autocarro fiscale, ecco tutti i requisiti che devono essere rispettati

L’autocarro che beneficia della deducibilità e della detraibilità piena, in particolare, è detto autocarro fiscale, e deve rispettare opportune caratteristiche. Altrimenti si tratterà ai fini fiscali di un falso autocarro. Nel dettaglio, un autocarro fiscale è tale se il rapporto tra la potenza e la portata del mezzo risulta essere inferiore a 180, se è adibito al trasporto di 4 o di più persone, e se è di tipo furgonato (codice carrozzeria F0). Con tutte queste tre caratteristiche che devono essere tutte rispettate contemporaneamente.

Congedo per gravi motivi familiari: cosa prevede la legge

Il lavoratore dipendente, pubblico o privato che sia, ha la possibilità di richiedere un congedo per gravi motivi familiari. Vista la definizione generica, ci si chiede quali situazioni specifiche vi rientrano. Vediamo cosa prevede la legge, anche a proposito della durata, retribuzione e trattamento previdenziale.

Cos’è il congedo per gravi motivi familiari

La richiesta di congedo da parte di un lavoratore impiegato nel settore pubblico o privato, può essere chiesto anche per sopraggiunte gravi motivazioni di carattere familiare o personale. La durata del congedo è di due anni, non necessariamente da fruire in modo continuativo. In questo lasso temporale il dipendente non perde il suo posto lavoro, tuttavia, non percepisce alcuna retribuzione.

I gravi motivi per cui viene chiesto il congedo riguardano il coniuge, i figli naturali e adottivi (in loro assenza i discendenti prossimi), i genitori (in loro assenza gli ascendenti prossimi), i fratelli, le sorelle, i suoceri, i generi e le nuore, anche se non convivono con il dipendente richiedente, ma anche i parenti disabili o affini fino al terzo grado. Inoltre, la legge prevede l’estensione del diritto anche alle parti dell’unione civile. Anche in tal caso il congedo può essere richiesto anche per i componenti della famiglia anagrafica a prescindere dal grado di parentela, includendo anche la famiglia di fatto.

Quali sono considerati gravi motivi

Il congedo richiesto dal dipendente per gravi motivi familiari, comprende le seguenti situazioni o eventi:

  • dipartita di un familiare;
  • cura e assistenza ai familiari che richiedono un particolare impegno da parte del lavoratore o della propria famiglia;
  • disagio personale (malattia esclusa);
  • malattie acute o croniche che riguardano un familiare e che comportano una temporanea o permanente riduzione o perdita della sua autonomia;
  • malattie croniche o acute che riguardano un familiare e che necessitano di un’assistenza continua o di frequenti monitoraggi clinici, strumentali ed ematochimici;
  • malattie dell’infanzia e dell’età evolutiva che riguardano un familiare e che necessitano dell’intervento dei genitori o di chi esercita la responsabilità genitoriale in relazione al programma terapeutico e riabilitativo.

La documentazione necessaria

Il dipendente pubblico, così come quello privato è tenuto ad allegare alla domanda di congedo per gravi motivi familiari, tutti i documenti che riguardano le patologie sopra indicate. Essi devono essere rilasciati da un medico specialista del Servizio Sanitario Nazionale o convenzionato, oppure dal medico di famiglia o dal pediatra liberamente scelto o ancora dalla struttura sanitaria in caso di ricovero o intervento chirurgico.

Quanto dura il congedo?

Il congedo richiesto per gravi motivi familiari ha una durata massima di due anni (anche frazionabile), giorni festivi compresi nell’arco dell’intera vita lavorativa del dipendente. Il datore di lavoro può rifiutare tale richiesta, ma è obbligato a fornire precise motivazioni per la mancata accettazione del predetto congedo. La risposta deve avvenire entro dieci giorni dalla richiesta del lavoratore.

Il datore di lavoro può anche chiedere di rinviare il congedo per un periodo successivo e determinato a quello richiesto, oppure proporre la concessione parziale. In entrambi i casi, le proposte devono essere motivate da ragioni organizzative e produttive che non permettono la sostituzione del dipendente. Qualora quest’ultimo lo richieda, la domanda deve essere riesaminata nei successivi venti giorni.

Rientro al lavoro

Salvo che non sia prestabilita una durata minima del congedo per gravi motivi familiari, il lavoratore può riprendere il lavoro anche prima del termine dello stesso, dandone preventiva comunicazione al datore di lavoro.

Qualora il datore di lavoro abbia provveduto alla sostituzione del dipendente in congedo con l’assunzione a tempo determinato di un altro lavoratore, il dipendente che ha intenzione di rientrare in anticipo deve dare un preavviso di almeno sette giorni. Tuttavia, il suo datore può consentire la ripresa del lavoro con un preavviso minore.

Retribuzione e contributi previdenziali

Come già accennato in precedenza, il periodo del congedo richiesto per gravi motivi familiari non è retribuito. Il dipendente conserva il suo posto di lavoro ma non può svolgere altre attività lavorative.

Durante il periodo di congedo non maturano l’anzianità di servizio, i contributi previdenziali, le ferie, il Trattamento di Fine Rapporto, le mensilità aggiuntive. E’ nella facoltà del dipendente procedere al riscatto del lasso temporale oggetto del congedo tramite il versamento dei relativi contributi.