Come scoprire se su un immobile o un terreno grava una servitù?

La servitù di passaggio è un diritto reale di godimento su beni altrui. Rispetto ad altri tipi di godimento dei beni altrui, ha comunque dei limiti, infatti il fondo servente non può essere utilizzato per la coltivazione o per costruire, ma solo per il passaggio.

Sintesi sulla servitù di passaggio

La servitù di passaggio è regolata dall’articolo 1027 del codice civile che dice: La servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario. Prevede la presenza di due fondi: il fondo dominante che ha bisogno del passaggio e il fondo servente che è appunto utile al passaggio. Questo vincolo può essere stabilito volontariamente tra le parti, che si accordano e stabiliscono gli elementi del contratto, oppure in modo coattivo, quindi anche contro la volontà del proprietario del fondo servente che vede limitati i suoi diritti.

In base alla normativa, la servitù coattiva può essere costituita a favore di un soggetto che ha un fondo senza accesso alla via pubblica o con un accesso non utile allo scopo in quanto insufficiente o inutilizzabile. In questo caso viene riconosciuto il diritto di passaggio che però deve prevedere l’uso del tragitto più breve per l’accesso alla pubblica via e quindi con il minor sacrificio possibile per il proprietario del fondo servente. Il proprietario del fondo servente deve comunque essere remunerato, anche quando la servitù viene costituita in modo coattivo con sentenza. Una volta stabilita, coattivamente o volontariamente la servitù di passaggio, hanno diritto al passaggio non solo il titolare, ma anche tutti coloro che devono accedere al fondo, ad esempio ospiti del proprietario del fondo dominante, ecco perché è bene porre attenzione prima di concedere una servitù prediale.

Come scoprire se su un immobile grava una servitù di passaggio

Fatta questa premessa, è importante capire come scoprire se sul proprio fondo, su quello che si vuole acquisire oppure oggetto di eredità, c’è una servitù di passaggio. In concreto cosa può succedere, magari si è permesso per anni al proprio vicino per comodità di passare sul proprio terreno, ma ad un certo punto si vuole utilizzare quella porzione per propria utilità, ad esempio per un piccolo orto.

Il vicino obietta dicendo che in realtà su quella porzione lui ha una servitù di passaggio, oppure il terreno è stato ereditato e quando si entra nel fondo per coltivarlo, c’è il vicino che pretende la servitù di passaggio. A questo punto si può avere interesse a scoprire se effettivamente il vicino può vantare un diritto. Se sei sempre stato proprietario di quel terreno, dovresti ricordare se c’è stato un contratto con il vicino con cui hai costituito una servitù prediale oppure se c’è stata una sentenza che lo ha stabilito.

Servitù di passaggio acquisita per usucapione

Se il proprietario del fondo dominante dice di averlo acquisito per usucapione,  possiamo fin da ora dire che l’usucapione della servitù è possibile solo se la stessa è apparente (art.1061 del codice civile), cioè se vi sono delle opere visibili che lascino presupporre la stessa servitù di passaggio, ad esempio la creazione di una vera e propria strada che arriva fino al fondo dominante. Non solo, infatti la sentenza 5733 del 2011 della Corte di Cassazione stabilisce che tali opere devono essere presenti fin dal momento iniziale in cui si ritiene sia iniziato il possesso continuato e non violento del bene. In ogni caso anche l’usucapione della servitù di passaggio deve essere trascritta nei pubblici registri e deve attivarsi il proprietario del fondo dominante per farla trascrivere.

Per saperne di più su come evitare l’usucapione leggi la guida .

Il registro dei beni immobili

Se hai acquistato il bene rispetto a chi dice di avere una servitù di passaggio sei un terzo e per risolvere il dubbio puoi “interrogare” il registro immobiliare più conosciuto come catasto.  I beni immobili in Italia sono soggetti a iscrizione nel pubblico registro dei beni immobiliari detenuto da ogni Regione. I pubblici registri vanno a racchiudere quella che può essere considerata la storia dei beni stessi, quindi in essi sono iscritti gli acquisti del beni immobili per compravendita, a titolo originario, per donazione o per successione mortis causa. Inoltre devono essere iscritti tutti gli atti inerenti il bene stesso, ad esempio un’ipoteca, privilegi agrari e speciali.

Ciò implica che chi detiene un atto, ad esempio una contratto per la costituzione di una servitù di passaggio, oppure una sentenza, deve farla trascrivere sul registro, solo in questo modo può essere opposta ai terzi. Di conseguenza i terzi possono tranquillamente andare al catasto e verificare i pesi gravanti sull’immobile, senza particolari formalità,  prima dell’acquisto, o in seguito a pretese da parte del vicino.

Servitù di passaggio non citata nel contratto

Nel caso in cui tu abbia acquistato il bene, devi sapere che il venditore ha l’obbligo di informare il compratore prima dell’acquisto dei diritti altrui gravanti sul fondo. Nel caso in cui non lo abbia fatto, puoi chiedere la risoluzione del contratto di compravendita dell’immobile e il risarcimento del danno. Il principio generale dice che la servitù di passaggio è un “diritto ambulatoriale” cioè segue il bene, quindi se il terreno su cui vi è la servitù di passaggio viene venduto, la servitù segue il bene, ma l’eventuale acquirente non consapevole viene tutelato, quindi:

  • deve risultare trascritta la servitù di passaggio;
  • oppure deve esser menzionata in modo esplicita nel contratto di compravendita.

Se nessuna delle due ipotesi si verifica, l’acquirente che non poteva sapere, riceve tutela chiedendo la risoluzione del contratto.

Il principio di ambulatorietà della servitù è valido anche nel caso in cui sia il proprietario del fondo dominante a cedere l’immobile, in questo caso il nuovo proprietario “acquista” anche la servitù di passaggio.

Il caso

Nel caso concreto, io decido di acquistare un terreno in una zona urbana e voglio usare lo stesso per costruire una casa, inizio i lavori e arriva il vicino che mi dice che non posso usare una porzione di quel terreno perché lui ha la servitù di passaggio, ma nel contratto non c’era menzione di questo diritto altrui. E’ ovvio che se io compro il terreno con lo scopo di costruirci la mia casa e poi non posso farlo perché un terzo vanta dei diritti, io debba essere tutelato, soprattutto nel caso in cui il precedente proprietario non ha provveduto alla registrazione del contratto che costituisce la servitù oppure della sentenza. Infatti se avesse provveduto alla trascrizione dell’atto nei pubblici registri, il notaio prima di redigere l’atto di compravendita avrebbe capito dal controllo degli atti che sullo stesso insisteva un diritto altrui.

In sintesi: per capire se su un immobile esiste una servitù di passaggio è necessario controllare presso il registro degli immobili se risulta la trascrizione di tale atto, oppure se ne fa menzione il contratto/atto (ad esempio contratto di compravendita o testamento) che ha ad oggetto il bene. Se non risulta, è possibile opporsi alle pretese altrui. Se il soggetto titolare del fondo dominante comunque dimostra di avere la servitù ( sebbene non ci sia menzione di ciò nel contratto e non risulti dai pubblici registri), l’acquirente può chiedere la risoluzione del contratto di compravendita e il risarcimento dei danni.

Bilancio consolidato: cos’è, quando e perchè si redige

Il bilancio consolidato è un vero e proprio strumento di controllo della gestione. Non è obbligatorio redigerlo, ma offre vari spunti.

Il bilancio consolidato: cos’è e perché è tanto importante

Il bilancio consolidato ha lo scopo di rappresentare la situazione patrimoniale, finanziaria ed economica di un gruppo di imprese, attraverso l’integrazione dei bilanci delle società che ne fanno parte. Pertanto riesce a offrire al managment informative periodiche su tutto il gruppo. E di conseguenza prendere le decisioni la gestione futura. La gestione delle società che partecipano ad un gruppo economico si svolge in un’ottica di economicità “superaziendale“. Ciò vuol dire che tende a conseguire i  migliori risultati globali piuttosto che massimizzare quelli delle singole realtà. Si tratta quindi di un documento che offre un quadro complessivo della situazione delle imprese che compongono il gruppo.

Una definizione di gruppo di aziende

Un gruppo di aziendale è costituito dall’integrazione di più società. Queste pur mantenendo la propria personalità giuridica, sono gestite secondo una logica superaziendale da un unico soggetto economico. Quindi nell’ambito del gruppo esistono:

  • le holding, in cui un soggetto ha il controllo, di fatto, su tutte le altre società, grazie alla possibilità di collocare i propri uomini nei vari consigli di amministrazione;
  • le società controllate sulle quali si esercita l’influenza dominante della capogruppo e le collegate che risentono delle decisione della capogruppo.

I gruppi aziendali possono nascere per l’acquisto di partecipazioni in società già esistenti oppure per operazioni di scorporamento.

Chi è obbligato a redigere il bilancio consolidato

Secondo l’art. 25 del D.Lgs n. 127/91 devono redigere il bilancio consolidato le società per azioni, in accomandita per azioni, e a responsabilità limitata che controllano un’impresa. Lo stesso obbligo, hanno gli enti pubblici aventi per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di un’attività commerciale, le società cooperative e le mutue assicuratrici, le società’ cooperative e le mutue assicuratrici che controllano una società per azioni, in accomandita per azioni o a responsabilità limitata.

Come si redige un documento dettagliato?

La formazione del bilancio consolidato presuppone il rispetto di alcune regole fondamentali, e sono:

  • omogeneità dei Piani dei conti e dei criteri di valutazione adottati per tutte le aziende del gruppo;
  • la contemporaneità delle date di chiusura dell’esercizio.

Il bilancio consolidato deve essere redatto secondo i principi contabili internazionali, che permettono una facile interpretazione delle singole voce. Tuttavia deve essere redatto con chiarezza, e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale, finanziaria e il risultato economico del complesso delle imprese. Pertanto il consolidato si configura come un conto consuntivo dell’attività del gruppo, che si collega anche ai conti passati.

Le imprese esonerate dal redigere il bilancio consolidato

Sono esonerata, quindi non devono redigere il bilancio consolidato, le imprese controllanti che insieme alle imprese controllate, non abbiano superati i seguenti limiti:

  • totale attivo: 20 milioni di euro;
  • dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 250 unità;
  • totale dei ricavi e delle prestazioni pari a 40 milioni di euro.

Inoltre sono esonerate le società sub-holding capogruppo controllare a loro volta da altre società, ma devono rispettare alcuni limiti:

  • la controllante sia titolare di oltre il 95% delle azioni o quote dell’impresa controllata, e soggetta al diritto di uno degli stati membri dell’Unione europea e rediga il proprio bilancio secondo i criteri internazionali;
  • la sub holding non abbia emesso valori immobiliari ammessi alla negoziazione; deve indicare le ragioni dell’esonero nella nota integrativa e depositare presso l’Ufficio del registro delle imprese copia del bilancio consolidato.
  • la sub- controllante deve indicare nel proprio bilancio la ragione per cui non è stato redatto il bilancio consolidato, i criteri di contabilizzazione delle società controllate. Ed per ultimo la denominazione della controllante che pubblica il bilancio consolidato e il relativo ufficio di competenza.

Aiuti Covid: come si dichiarano per partite Iva forfettarie, semplificate e dei minimi

Gli aiuti a fondo perduto ricevuti dallo Stato per far fronte all’emergenza sanitaria ed economica dovranno essere dichiarati anche dalle partite Iva in regime forfettario, semplificato e dei minimi. Tuttavia, se è certo che bisogna indicare i contributi a fondo perduto, più dubbia è la segnalazione dei bonus, ad esempio quello di 600 euro.

Dove si indicano gli aiuti Covid nella dichiarazione dei redditi?

I lavoratori autonomi e i professionisti che hanno ricevuto i sostegni a fondo perduto per il Covid nel 2020 dovranno darne indicazione nel modello di dichiarazione dei redditi nel quadro RE. Per le partite Iva a regime forfettario o dei minimi, in sede di dichiarazione, il quadro di riferimento è quello LM.

Dichiarazione redditi 2021: quali sono gli aiuti che vanno indicati

Se gli aiuti a fondo perduto vanno indicati nella dichiarazione dei redditi, diverso è il caso delle indennità a importo fisso. Le istruzioni riguardanti l’indicazione degli aiuti Covid ai professionisti fanno riferimento, in particolare, al decreto legge numero 18 del 2020 e al successivo Dl numero 34 del 2020. Il primo provvedimento aveva previsto, per i contribuenti, l’indennità di 600 euro riferita al mese di marzo 2020 e destinata, tra le altre categorie, ai liberi professionisti che avevano la partita Iva attiva alla data del 23 febbraio 2020 e iscritti alla gestione separata dell’Inps.

L’indennità 600 euro del 2020

Il decreto 34 del 2020 aveva previsto, a favore degli stessi provvedimenti, un’altra indennità di 600 euro relativa al mese di aprile e una ulteriore, di mille euro, riferita a maggio. Tuttavia, per quest’ultima indennità, i professionisti, oltre all’iscrizione alla gestione separata Inps, dovevano dimostrare di aver subito una diminuzione del reddito di almeno il 33% del secondo bimestre 2020 rispetto al reddito dello stesso periodo del 2019.

Professionisti iscritti alle Casse

Anche ai professionisti iscritti alle Casse previdenziali hanno percepito un aiuto Covid. I provvedimenti di riferimento sono l’articolo 44 del decreto legge numero 18 del 2020 e il decreto ministeriale del 28 marzo 2020. L’indennità, tuttavia, è stata riconosciuta nel rispetto di precisi tetti di reddito e di condizioni di regolarità contributiva.

Dichiarazione redditi: il quadro RE degli aiuti ai professionisti

Dalle istruzioni ministeriali non sembrerebbe sussitere l’obbligo di dichiarazione delle indennità per i professionisti nella compilazione del quadro RE. Gli aiuti, tra l’altro, non potrebbero essere inseriti nella colonna 1 del rigo RE 3, quello destinato alle somme a fondo perduto. E nemmeno nella colonna 2 destinata ad altri proventi che non concorrono alla determinazione del reddito e, pertanto, non tassabili.

Il quadro LM della dichiarazione dei redditi: forfettari e minimi

Varia, invece, il il tipo di dichiarazione per gli autonomi che devono compilare il quadro LM. Questo quadro è riservato:

  • ai conribuenti cosiddetti minimi del regime di vantaggio ex articolo 27 del decreto legge 98 del 2011;
  • le persone fisiche rientranti nel forfettario della legge 190 del 2014.

I primi dovranno compilare la sezione I del quadro LM, nello specifico la colonna 2 del rigo LM 2. I forfettari, invece, dovranno comilare la sezione II del modello LM, precisamente la colonna 2 del rigo LM 33. Questo rigo indica le indennità e i conributi percepiti di qualsiasi natura in conseguenza dell’emergenza sanitaria. Nello stesso rigo non possono essere indicati i sostegni esistenti già prima della fase di emergenza da chiunque erogati e indipendentemente dalle modalità di contabilizzazione e di fruizione.

Indennità 600 e 1000 euro del 2020

Peraltro, le indennità di 600 e 1000 euro dovrebbero rientrare in quest’ultimo rigo. Tuttavia, si attendono maggiori chiarimenti ministeriali in merito all’inesistenza, nel quadro RE, di un rigo riservato a queste indennità. In entrambi i quadri, inoltre, non devono esssere indicati i crediti d’imposta accordati per le sanificazioni e l’adeguamento degli ambienti. Sul punto, gli autonomi non devono indicare neanche il bonus affitti. Tutti questi benefici vanno indicati nel quadro RU. Tuttavia il bonus sugli affitti e il credito per l’adeguamento degli ambienti vanno inseriti anche nle quadro RS.

Come funziona l’aspettativa nel pubblico impiego

Ogni individuo, nel corso della propria vita può avere la necessità di staccare dal lavoro per un periodo di tempo più o meno lungo, dovuta a ragioni personali, familiari o sociali. Come tutti i lavoratori subordinati, anche i dipendenti pubblici hanno diritto a richiedere l’aspettativa. Come funziona, quali sono le motivazioni nello specifico affinché possa essere accettata e se essa venga retribuita o meno, potrete scoprirlo nel corso di questo articolo.

Aspettativa nel pubblico: cos’è

I dipendenti del settore pubblico possono beneficiare di un periodo di sospensione del rapporto di lavoro per motivi ben precisi, senza che ciò comporti la perdita dell’impiego. In tale lasso temporale, solitamente, non si ha diritto allo stipendio. Tuttavia, in alcuni casi l’aspettativa ottenuta dai lavoratori subordinati della pubblica amministrazione è retribuita.

Gli impiegati pubblici che vogliono usufruire dell’aspettativa, devono fare richiesta al proprio datore di lavoro, quasi sempre tramite l’ufficio delle risorse umane. La concessione dell’aspettativa dipende dalle motivazioni esibite a suo sostegno. A tal proposito, descriveremo quali sono le principali.

Aspettativa lutto o infermità, gravi motivi familiari, motivi personali

In base alla legge 53/2000, i dipendenti pubblici possono richiedere un periodo di aspettativa per le seguenti motivazioni:

  • Lutto o infermità di un familiare: viene concesso al lavoratore un permesso di tre giorni lavorativi retribuiti all’anno, in caso di decesso o grave infermità del coniuge o di un familiare non oltre il secondo grado di parentela, il tutto documentato. In caso di morte, i giorni di aspettativa per lutto devono essere utilizzati entro sette giorni dall’evento.
  • Gravi motivi familiari: alla relativa richiesta di aspettativa va allegata la documentazione che attesti i gravi motivi familiari e le patologie individuate. La durata massima è di due anni, il dipendente mantiene il suo posto di lavoro, ma non ha diritto alla retribuzione e non può svolgere un’altra attività lavorativa.
  • Motivi personali: in caso di grave disagio personale e non dovuto a malattia, l’impiegato può richiedere un’aspettativa non retribuita per una durata massima di 12 mesi (continuativi o non) nell’arco di un triennio e da utilizzare al massimo in due momenti. Tuttavia, la concessione è legata alle esigenze del datore di lavoro, il quale può rifiutare la richiesta sulla base di motivazioni ben precise.

Aspettativa impiegati pubblici per vincitori di concorso

I dipendenti del settore pubblico impiegati a tempo indeterminato possono chiedere un’aspettativa non retribuita di massimo sei mesi per sostenere il periodo di prova previsto dalla nuova amministrazione.

Tuttavia, esistono delle eccezioni concernenti questa tipologia di aspettativa. Infatti, alcuni contratti prevedono che i lavoratori con un contratto a tempo indeterminato e vincitori di concorso possano avere accesso ad un’aspettativa pari alla durata del periodo di prova formalmente prevista dalle disposizioni contrattuali applicate nell’amministrazione di destinazione.

Aspettativa dipendenti pubblici per assistenza a un familiare disabile

La legge 104/1992 permette al lavoratore dipendente di richiedere un’aspettativa non retribuita per una durata massima di tre anni, in caso di assistenza a un familiare portatore di grave handicap. In alternativa, è concessa la possibilità di usufruire di permessi retribuiti pari a 1 o 2 ore di permesso giornaliere o di tre giorni permesso al mese.

Aspettativa dipendenti pubblici per volontariato

Il dipendente pubblico impegnato in attività di soccorso e assistenza in vista o in occasione di precisi eventi indicati dall’art. 9 del D.P.R. 104/1991, anche su richiesta del sindaco o di altre autorità della protezione civile, può fruire dell’interruzione della propria prestazione lavorativa e alla conservazione del posto di lavoro. Inoltre, ha diritto al trattamento economico e previdenziale che gli spetta da parte del datore di lavoro.

E’ possibile richiedere un’aspettativa complessiva di massimo 90 giorni annui, di cui solo 30 giorni continuativi, da investire in attività di soccorso e assistenza in catastrofi e calamità. Tale soglia sale a 180 giorni, in caso di dichiarazione dello stato di emergenza nazionale.

Per quanto concerne le attività formative, di pianificazione e simulazione delle emergenze, la durata massima del periodo di aspettativa è di 30 giorni all’anno, di cui massimo 10 giorni consecutivi.

Aspettativa per incarichi pubblici, cariche elettive e attività sindacali

I lavoratori del pubblico impiego eletti al Parlamento nazionale o europeo, oppure alle assemblee regionali o che siano comunque chiamati a svolgere altre funzioni pubbliche elettive possono richiedere la concessione di un’aspettativa non retribuita per tutta la durata del loro incarico. Stessa regola per le cariche sindacali provinciali e nazionali.

Aspettativa dipendenti pubblici per la formazione

L’impiegato pubblico con un’anzianità di servizio di almeno cinque anni può richiedere un’aspettativa non retribuita della durata massima di 11 mesi per la formazione, per l’intera durata del corso. Tuttavia, tale richiesta può essere rifiutata dal datore di lavoro o, in caso di accettazione, frazionare il lasso temporale concesso per comprovate esigenze organizzative.

Avvio nuova attività

I dipendenti pubblici possono chiedere l’aspettativa dal lavoro non retribuita, per un periodo massimo di 12 mesi, per avviare un’attività imprenditoriale. Questo tipo di richiesta può essere rifiutato dalla propria amministrazione che, però, è tenuta a fornire motivazioni precise per il suo diniego.

Aspettativa dipendenti pubblici per familiari all’estero

Qualora il coniuge o convivente si sia trasferito all’estero per motivi di lavoro, il dipendente pubblico può chiedere un’aspettativa non retribuita per una durata pari al periodo temporale, nel quale permane la situazione che l’ha originata. Tuttavia, il datore di lavoro può revocare in qualsiasi momento l’aspettativa concessa, per motivi di servizio imprevisti ed eccezionali, dando un preavviso di almeno 15 giorni.

Aspettativa per cooperazione o attività umanitarie

L’aspettativa riguarda i dipendenti impiegati all’estero in veste di collaboratori in attività di cooperazione internazionale allo sviluppo. Il contratto viene stipulato tra i soggetti per la cooperazione e il dipendente, nel quale, i primi si assumono gli obblighi fiscali, previdenziali ed assicurativi nei confronti del dipendente.

Nel periodo di questa aspettativa superiore a quattro mesi ma inferiore a quattro anni, i dipendenti pubblici percepiscono gli assegni fissi e continuativi.

Franchising o affiliazione commerciale, confronto e convenienza

Oggi ci addentreremo nel mondo del franchising e delle affiliazioni commerciali, estrapolando in breve un confronto tra le due possibilità di attività commerciale. Quali sono le differenze e dove potrebbe esserci la convenienza. Scopriamolo in questa rapida guida, insieme.

Franchising cosa è

Innanzitutto, facciamo la distinzione tra le due categorie, per poter stabilire cosa sia un franchising e cosa sia una affiliazione commerciale. Per poi andare a vedere le differenze sostanziali tra le due categorie.

Molto semplicemente, possiamo dire che quando si parla di franchising ci si riferisce ad una formula di collaborazione tra imprenditori che è utile alla produzione o alla distribuzione di servizi oppure beni. Solitamente è la soluzione più usata da chi vuole lanciare una nuova impresa ma preferisce affiliarsi ad un brand già conosciuto. Il franchising nasce in America agli inizi del secolo scorso, e arriva in Italia negli anni ’80, quando iniziano a diffondersi i brand come Benetton e Standa. Due perfetti esempi di franchising globale.

Aprire un negozio in franchising, quindi quelle attività aperte seguendo questa modalità, decidono di condividere lo stesso modello di gestione e lo stesso format per la vendita di prodotti e servizi della loro base madre.

Affiliazione commerciale, cosa vuol dire

Il legame tra affiliazione commerciale e franchising è praticamente automatico, ma non tutte le affiliazioni commerciali sono frutto di catene di franchising. Ad esempio è un affiliazione commerciale anche quella che si svolge per un sito online, o per Amazon ad esempio, usando semplicemente link di acquisto di prodotti, percependone una minima percentuale, su ogni acquisto di un utente, avvenuto mediante tale link. In questi caso parliamo di affiliate marketing, ed è un ottimo modo per guadagnare anche da casa.

In sintesi possiamo dire che l’affiliazione commerciale non è altro che il contratto tra due soggetti giuridici che siano economicamente e giuridicamente indipendenti (quindi distinti e separati l’uno dall’altro) in base al quale uno dei due soggetti (affiliante o franchisor) concede all’altro (affiliato o franchisee) la disponibilità di un prodotto e di un marchio.

Franchising e affiliazione commerciale: differenze e uguaglianze

Dunque, l’affiliate marketing (quindi l’affiliazione commerciale) ha in comune con il franchising il fatto che ci sono due soggetti imprenditori indipendenti che stringono un accordo che si fonda sul fatto che uno sfrutta la notorietà dell’altro brand.

Nell’affiliazione commerciale, conosciuta meglio come franchising, l’affiliato sfrutta la notorietà del brand dell’affiliante per evitare di aprire un’attività da zero, con i relativi costi e rischi. Mentre la nascita del franchising ha, dunque, origini più distanti, l’affiliate marketing ha origini molto più recenti. Infatti si tratta di un rapporto che riguarda esclusivamente il marketing online. I soggetti coinvolti sono il merchant, o advertiser, che è il soggetto che mette a disposizione il prodotto da vendere, l’affiliato o publisher che è colui che promuove il prodotto e prende le commissioni sulla vendita, e la piattaforma di affiliazione. In pratica, l’esempio di Amazon di cui sopra.

Come attuare l’ affiliate marketing?

Potremmo suddividere in tre specifici modalità, la possibilità di attuare il proprio piano di affiliazione commerciale:

  1. Il merchant mette a disposizione dell’affiliato la propria merce da vendere. L’affiliato ospita sul proprio sito web (o sulla propria piattaforma, come anche YouTube o i social), i prodotti dell’imprenditore terzo e si occuperà di promuovere il proprio spazio sul web che ospita i prodotti del merchant attraverso le classiche attività di SEO e SEM. O, semplicemente trattando di categorie analoghe che indirizzano implicitamente a quei prodotti. I prodotti del merchant sono normalmente promossi attraverso banner o immagini cliccabili, che avranno un url che porterà al sito web del merchant, su cui si concluderà la vendita.
  2. Nel sistema che prevede la presenza di una piattaforma di affiliazione, invece, il merchant si affida ad un network che si farà carico di creare il programma di affiliazione, mettendo a disposizione il proprio sistema di vendita e know-how. La piattaforma prende una fee dal merchant. All’interno dei network di affiliazione si possono trovare publisher professionisti selezionati dalla piattaforma stessa. I publisher utilizzeranno tutti i mezzi messi a disposizione dall’online marketing per promuovere i prodotti: adv sui social, siti web, blog, e-mail marketing.
  3. Molti titolari di negozi on-line, advertiser, invitano anche i propri clienti, publisher, alla promozione dei prodotti acquistati. O, ancor più semplicemente, grazie ad un ricco seguito social, si possono pubblicizzare e vendere direttamente o indirettamente dei prodotti, prestando la propria immagine come testimonial.

Come stipulare un contratto di affiliate marketing

Non sempre vi è un contratto specifico, legato ad impegni e oneri sulla condivisione, pubblicazione dei prodotti da vendere, per così dire.

Solitamente, nel contratto sono stabilite le seguenti modalità di erogazione per le commissioni:

  • l’erogazione avviene tramite pay per clic: il publisher viene pagato nel momento in cui l’utente atterra sulla piattaforma del merchant
  • l’erogazione avviene per lead generation: il publisher è pagato nel momento in cui il potenziale cliente compila un form di contatto
  • l’erogazione avviene per vendita: quindi il pagamento avverrà a vendita conclusa.

Dunque, questo è quanto vi fosse di più necessario ed utile da sapere in merito alle sostanziali differenze legate alle attività di franchising e a quella di affiliazione commerciale, quindi per attivare un piano di affiliate marketing, anche comodamente online, senza necessitare di un negozio fisico.

Come si prende l’aspettativa dal lavoro

Nella vita di un dipendente pubblico o privato possono verificarsi situazioni che non gli consentono di svolgere regolarmente la propria attività lavorativa per un certo periodo di tempo. In tal caso, il lavoratore subordinato può chiedere l’aspettativa al suo datore, ossia una sospensione del rapporto di lavoro per un determinato lasso temporale che non comporta la perdita dell’impiego. Ma quando può essere concessa e in quali casi il periodo di aspettativa non viene retribuito? In questo articolo cerchiamo di rispondere a queste e ad altre domande in modo esaustivo.

Cos’è l’aspettativa dal lavoro

L’aspettativa dal lavoro è anche chiamata congedo, un periodo di tempo in cui s’interrompe il rapporto di lavoro e il dipendente viene dispensato dalla sua prestazione lavorativa, così come il datore di lavoro viene dispensato da alcuni obblighi contrattuali.

La legge prevede diversi tipi di aspettativa, a seconda delle ragioni per cui è stata chiesta dal lavoratore e concessa dal suo datore. In alcuni casi, è il contratto collettivo di lavoro a stabilire determinate tipologie di congedo. I motivi che inducono un lavoratore subordinato a chiedere un’aspettativa dal lavoro, possono essere di natura personale o familiare, oppure rappresentati da impegni pubblici rilevanti. Solitamente, durante l’arco di tempo in cui il rapporto del lavoro è congelato, al dipendente non spetta alcuna retribuzione. Tuttavia, esistono più casi riconducibili sia al lavoratore che al suo datore di lavoro, nei quali il dipendente percepisce una retribuzione.

Aspettativa per gravi motivi familiari

Per gli impiegati pubblici e privati, la legge prevede la concessione dell’aspettativa per gravi motivi familiari, ma non retribuita, che possono riguardare il coniuge del dipendente, la parte dell’unione civile, i figli, i genitori, i fratelli o le sorelle, i suoceri, i soggetti fino al terzo grado di parentela.

Non esiste una lista scritta di casi, in cui rientrano i gravi motivi familiari. Solitamente, questi possono riguardare il decesso o una grave malattia fisica o psichica di un familiare, ma anche il bisogno di assistenza continuativa dello stesso o ancora il suo stato di abbandono.

Il lavoratore subordinato che richiede l’aspettativa per gravi motivi familiari deve presentare richiesta al suo datore, allegando la documentazione che dimostra la reale sussistenza del grave motivo indicato. Il periodo massimo concesso per il congedo è pari a due anni nell’intera vita lavorativa del dipendente che possono essere anche non continuativi.

Aspettativa per malattia

Al dipendente in malattia, se da egli richiesto, viene concesso un periodo di aspettativa dal lavoro, ma non retribuito, in prossimità del termine del periodo di comporto (lasso temporale massimo), così come stabilito dai contratti collettivi di lavoro. Il lavoratore è quindi esonerato dallo svolgimento della sua prestazione lavorativa, ma conserva il suo impiego.

Questa possibilità, è stata prevista al fine di evitare che al superamento del periodo di comporto, anch’esso fissato dal contratto collettivo, il datore di lavoro possa licenziare il dipendente non rientrato a lavorare. Ciò può verificarsi in caso di malattia di lunga durata, ma attenzione: il lavoratore richiedente l’aspettativa è tenuto ad allegare la documentazione attestante il perdurare dello stato di malattia con adeguata certificazione medica.

Aspettativa per cariche elettive

Quando abbiamo accennato alla possibilità di richiedere un periodo di aspettativa dal lavoro da parte del lavoratore impiegato nel settore pubblico o privato, per impegni di rilevanza pubblica, ci si riferisce ai dipendenti eletti nell’ambito di assemblee elettive come il Parlamento nazionale ed europeo, le giunte comunali e regionali. La stessa cosa vale per i lavoratori chiamati a ricoprire la carica di sindaco o di governatore della Regione.

Nei suddetti casi, l’aspettativa, la cui richiesta è nella facoltà del lavoratore, non prevede alcuna retribuzione ed è concessa fino al termine della carica elettiva. Possono fruire della medesima aspettativa, così come stabilito dallo Statuto dei lavoratori, anche i dipendenti chiamati a ricoprire cariche sindacali.

Inoltre, l’aspettativa a favore degli impiegati pubblici o privati è prevista per motivi personali, per tossicodipendenza, per cure termali, per formazione, per dottorato di ricerca, per assistenza ad un familiare disabile.

Franchising come secondo lavoro, conviene?

Andare alla ricerca di un secondo lavoro è un’azione sempre più praticata. Solitamente, la scelta è dovuta alla necessità di incrementare le proprie entrate, che si tratti di un lavoro autonomo o dipendente. Per alcuni, un secondo lavoro rappresenta anche un’opportunità di cimentarsi in settori diversi.

Franchising come secondo lavoro

Svolgere un secondo lavoro in forma autonoma potrebbe risultare particolarmente interessante e stimolante per un lavoratore dipendente che vuole sperimentare un’attività imprenditoriale. In ogni caso, a prescindere da quale sia la fonte del reddito principale, optare per il franchising come secondo lavoro può costituire una scelta conveniente.

Infatti, avviare e gestire un’attività in franchising offre la possibilità di sostenere bassi costi e richiede un impegno lavorativo ridotto. Inoltre, il rischio imprenditoriale è decisamente basso, per non dire nullo, a differenza di quanto non lo sia qualsiasi altra tipologia di attività imprenditoriale e autonoma.

Il contratto di franchising o affiliazione commerciale è stipulato da due soggetti giuridici che avviano una collaborazione restando indipendenti, anche se vincolati al rispetto dei rispettivi impegni ed oneri di tipo economico e non solo. Qualora l’attività in franchising come secondo lavoro dovesse essere molto redditizia, si può anche pensare di trasformarla in un lavoro a tempo pieno.

Quali sono i settori da scegliere per aprire un franchising come secondo lavoro?

Il franchising offre un’ampia gamma di commercializzazione di beni o servizi. Quando si decide di aprire un’attività in franchising come secondo lavoro è preferibile scegliere qualcosa che preveda una bassa quota d’ingresso e una royalty altrettanto accessibile. Per questo motivo è consigliato puntare su attività online, di servizi, di e-commerce in dropshipping, automatiche e self service.

Per approfondire l’argomento, consigliamo la seguente lettura:

QUI puoi scoprire i franchising online da casa: come vendere con successo

Cosa serve per aprire un franchising come secondo lavoro

Il grande vantaggio di cui gode l’affiliato nel franchising è che non sono richieste particolari conoscenze e competenze, tanto meno esperienza, titoli o licenze. Questo, perché il franchisor offre il know how aziendale che rappresenta l’insieme ampio e variegato di conoscenze e abilità operative necessarie all’avvio e alla gestione dell’attività. Inoltre, con la formazione, la consulenza e l’assistenza messa a disposizione dell’affiliato, permette a questi di non partire da zero, anzi, di tutto ciò che serve per raggiungere il successo.

Il franchising online da casa, in ogni caso è la soluzione migliore per svolgere un’attività come secondo lavoro. Infatti, ciò consente all’affiliato di non dover sostenere i costi di un locale da prendere in affitto e in una determinata zona, usufruendo comunque della notorietà del brand.

Per quanto concerne l’investimento, quando si decide di aprire un’attività in franchising come secondo lavoro conviene non andare oltre i 10.000 euro, valutando la tipologia dell’attività e i servizi offerti dal franchisor, nonché la possibilità di usufruire di un finanziamento o di un pagamento rateizzato.

Franchising come secondo lavoro: vantaggi e svantaggi

Ricapitolando, ma anche integrando quanto detto, vediamo quali sono i pro e contro di un’apertura del franchising come secondo lavoro.

I vantaggi per l’affiliato:

  • acquisizione del know how, formazione, consulenza e supporto costante;
  • brand riconosciuto;
  • format chiavi in mano, collaudato e di successo;
  • gestione semplificata e impegno a tempo parziale;
  • costi ridotti di avvio e gestione;
  • veloce rientro dall’investimento;
  • attività lavorativa online e da casa o monitorabile da remoto;
  • fruizione delle campagne di marketing e comunicazione;
  • sfruttamento di condizione commerciali vantaggiose;
  • basso rischio d’impresa.

I svantaggi per l’affiliato:

  • rispetto delle regole contrattuali che costituiscono anche delle limitazioni;
  • durata media del contratto pari a tre anni;
  • eventuali costi di ingresso, canone periodico, contributi per pubblicità e/o utilizzo di software e altro;
  • osservanza degli standard imposti dal franchisor;
  • libertà d’azione vincolata;
  • limitazione di personalizzazione dell’attività.

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Franchising: come funziona e quale legge regola il contratto

Vorresti metterti in proprio, ma senti di non avere l’idea giusta? In questo caso potresti sfruttare un marchio già di successo per iniziare una tua attività: la soluzione è il franchising. Ecco come funziona.

Che cos’è il franchising

Sicuramente avrai sentito parlare di franchising e in linea di massima si può dire che, nel contratto un soggetto che detiene il marchio, franchisor o affiliante, concede a un altro soggetto, franchisee o affiliato, la possibilità di utilizzare lo stesso marchio per la vendita di beni e servizi. Un esempio classico è il McDonald’s, ma non solo, anche Zara, Intimissimi, Calzedonia e tanti altri marchi conosciuti praticamente in tutto il mondo.  I vantaggi sono per entrambe le parti, infatti il franchisor sa che non può gestire su un territorio vasto, e che spesso comprende anche più continenti, le varie attività di distribuzione, mentre il franchisee può fare affidamento su un marchio consolidato, molto conosciuto, spesso di tendenza, che mette a disposizione il know how, si occupa dell’allestimento dei locali per dare un aspetto uniforme nei vari esercizi, del marketing e di conseguenza fin dall’inizio può avere una buona clientela.

Il franchising ha ad oggetto la commercializzazione di beni e servizi, nella maggior parte dei casi il contratto stabilisce che il franchisee per ottenere la possibilità di utilizzare il marchio, debba versare al franchisor un fee iniziale,  questo in cambio offre la possibilità di utilizzare il marchio e distribuire prodotti o servizi, mette a disposizione il know how aziendale, nella maggior parte dei casi è prevista anche la formazione periodica. Naturalmente il guadagno del franchisor non può essere limitato al versamento iniziale, ma prevede anche una retribuzione periodica, sotto forma di percentuale sulle vendite o in misura fissa.

Legge 129 del 2004

La prima cosa da sottolineare è che i contratti di franchising non sono tutti uguali, anche in questo caso si ritorna al principio di libertà contrattuale di cui si è già parlato in precedenza della joint venture e del leasing auto, quindi siamo di fronte a contratti non tipizzati o atipici e importati dal diritto anglo-americano. Ciò implica che i diritti delle parti possono essere variamente modulati.  Vista però l’ampia diffusione di questo contratto in Italia, il legislatore ha provveduto con la legge 129 del 2004 a dare delle regole comuni, il contratto però è stato chiamato di affiliazione commerciale e per analogia si applica al franchising. La legge può essere considerata essenziale, infatti, contiene solo 9 articoli, in cui più volte viene precisato che le parti devono comportarsi secondo buona fede.

L’articolo 8 stabilisce che se una delle parti ha fornito false informazioni, ciò può essere causa di annullamento del contratto ai sensi dell’articolo 1439 del codice civile. Dal punto di vista temporale, l’articolo 9 stabilisce che le disposizioni della presente normativa si applicano anche ai contratti antecedenti alla sua entrata in vigore e i contratti precedenti devono essere adeguati entro un anno dall’entrata in vigore della disciplina. La ratio di una disciplina così “leggera” è nel tentativo di preservare comunque un ampio margine di libertà contrattuale andando però a regolare i punti più critici di questa tipologia di contratto.

Articolo 1: ambito di applicazione

La descrizione del’affiliazione o franchising è contenuta nell’articolo 1 della legge che abbiamo visto: il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi.

Fin da subito si può notare che l’articolo è una formula ampia, cioè parla di un contratto comunque denominato e ne va a determinare i contenuti, cioè quando un’azienda mette a disposizione di un altro soggetto un insieme di diritti per sfruttare il marchio, comunque si applica questa disciplina, in qualunque modo viene denominato il contratto, quindi affiliazione o franchising. Il secondo aspetto importante riguarda l’indipendenza tra i 2 soggetti, quindi in nessun caso di può parlare di una posizione di subordinazione di un soggetto verso l’altro.  Quando il legislatore sottolinea l’indipendenza dei due soggetti ha lo scopo di proteggere quello economicamente più debole, cioè il franchisee. Questa però non è l’unica norma protettiva, infatti la legge 129 del 2004 prevede al’articolo 3 che il contratto a pena di nullità deve essere stipulato per iscritto.

Obblighi delle parti nel contratto di franchising

Molto importante è anche l’articolo 4, questo stabilisce che l’affiliante deve consegnate al potenziale affiliato almeno 30 giorni prima della data prevista per la stipula del contratto una copia dello stesso. questa norma mira a fare in modo che colui che vuole affiliarsi , possa leggere con particolare attenzione e cautela tutte le norme del contratto e quindi valutare se realmente sono vantaggiose per lui. Non solo, l’articolo 4 alla lettera A stabilisce che l’affiliante, o franchisor, deve consegnare: “principali dati relativi all’affiliante, tra cui ragione e capitale sociale e, previa richiesta dell’aspirante affiliato, copia del suo bilancio degli ultimi tre anni o dalla data di inizio della sua attività, qualora esso sia avvenuto da meno di tre anni”. L’obiettivo è fare in modo che l’affiliato o franchisee possa valutare in modo adeguanto la convenienza e i potenziali guadagni e non sia quindi tratto in inganno.

L’articolo 5 invece si occupa degli obblighi dell’affiliato, o franchisee, e stabilisce che non può trasferire la sede senza il consenso dell’affiliante, se non per causa di forza maggiore, mentre al comma 2 stabilisce i limiti generali dell’obbligo di riservatezza da applicare anche in seguito allo scioglimento del contratto. In questo caso l’affiliato non è responsabile solo delle sue azioni, infatti deve fare in modo che lo stesso obbligo sia rispettato anche dai suoi collaboratori. Per proteggersi l’affiliato deve quindi, a sua volta, avere premura che i collaboratori/dipendenti firmino un contratto in cui si impegnano a rispettare tale obbligo di riservatezza anche alla cessazione del loro rapporto di lavoro.

Auto aziendale: come funziona per gli agenti di commercio?

Gli agenti e i rappresentanti di commercio sono le uniche categorie che non sono state interessate dalle strette sulle auto aziendali del decreto legge numero 262 del 2006. Anche con le modifiche introdotte dal quel decreto, infatti, gli agenti e i rappresentanti di commercio continuano a beneficiare de precedente sistema che accordava la deducibilità fino all’80% delle spese dell’auto aziendale.

Auto agenti: la disciplina dell’articolo 164 del Tuir

La disciplina delle auto aziendali degli agenti e rappresentanti di commercio è contenuta nell’articolo 164 del Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir). Nell’articolo si fa riferimento ai limiti delle deduzioni delle spese e degli altri componenti negativi inerenti ai mezzi di trasporto a motore, per l’esercizio di imprese, arti e professioni.

Auto agenti e rappresentanti di commercio: deducibilità 80% dei costi

In particolare, sia agli agenti e rappresentanti di commercio, che agli agenti di assicurazione e ai promotori finanziari (a esclusione degli agenti immobiliari) si applica il regime favorevole della deducibilità fino all’80% delle spese. La norma mira a stabilire particolari vantaggi in virtù del fatto che l’acquisto e l’uso dell’auto rappresenti il principale strumento per l’esercizio della propria attività.

Veicoli utilizzati da agenti

Dunque, gli agenti beneficiano delle regole più vantaggiose ai fini della deducibilità dei costi previsti dal comma 1, lettera b ultimo periodo, dell’articolo 164 del Tuir. Tali vantaggi si concretizzano nei seguenti tre limiti:

  • nella percentuale di deducibilità che è fissata all’80% anziché al 20% (spettante alle imprese e agli agenti immobiliari);
  • nel costo di acquisto o di leasing delle auto (e degli autocaravan) che è pari a 25.822,84 euro (anziché 18.075,99 euro);
  • nel costo di noleggio all’anno che è pari a 5.164,57 euro (anziché 3.615,20 euro).

Agenti, acquisto, leasing o noleggio di ciclomotori e motocicli

Per l’acquisto di ciclomotori e motocicli, invece, le regole sono identiche a quelle previste per le imprese e i professionisti. Pertanto, il limite dei motocicli è fissato a 4.131,66 euro per la proprietà o il leasing. Per i ciclomotori, invece, è di 2.065,83 euro. Per il noleggio, invece, i limiti sono rispettivamente di 413,17 e 774,69 euro.

Auto agenti: spese deducibili per carburante, pedaggi e manutenzione

Nell’attuale disciplina delle auto agli agenti e rappresentanti non rileva più la distinzione tra auto di lusso e auto non di lusso, come avveniva in passato. Le uniche due variabili ai fini dell’individuazione dei costi deducibili per le auto sono il tetto massimo di spesa e il limite percentuale di deducibilità. Per i costi di impiego delle auto, come ad esempio, i pedaggi, la manutenzione, il carburante, assume rilevanza solo il limite percentuale dell’80%. Non si fa riferimento, invece, ad alcun tetto di importo.

Auto aziendali di agenti e professionisti: il super ammortamento

Le auto delle categorie contenute nell’articolo 164 del Tuir, acquistate in proprietà o in leasing dagli agenti e dai professionisti tra il 15 ottobre 2015 e il 31 dicembre 2016, avevano beneficiato del super ammortamento introdotto dalla legge di Bilancio 2016. La disciplina prevedeva di maggiorare del 40% il costo di acquisto, lasciando inalterata la percentuale di deducibilità. Tuttavia, le successive proroghe del super ammortamento hanno escluso gli agenti e i rappresentanti dal super ammortamento. E nemmeno l’introduzione del credito d’imposta per i beni strumentali ordinari della legge di Bilancio 2020, ha compreso le auto delle categorie dell’articolo 164, tra le quali proprio quelle degli agenti e dei rappresentanti.

Calcolo del super ammortamento auto aziendali

Nella fase dal 15 ottobre 2015 al 31 dicembre 2016 nella quale il super ammortamento era previsto anche per gli agenti e i rappresentanti, è stato possibile applicare l’agevolazione:

  • ai veicoli strumentali (come auto delle società di noleggio) o adibiti all’uso pubblico, come i taxi;
  • ai veicoli non assegnati, come autovetture, autocaravan, ciclomotori e motocicli;
  • auto assegnate per utilizzo promiscuo ai dipendenti.

La legge di Bilancio 2017 esclude gli agenti dal super ammortamento

Tutti questi veicoli hanno beneficiato dell’agevolazione consistente nella maggiorazione del 40% del costo di acquisto e percentuale di deducibilità invariata. Per il 2017 tale agevolazione è stata prevista solo per i veicoli compresi nel comma 1 della lettera a) dell’articolo 164 del Tuir, ovvero:

  • le auto utilizzate solo come beni strumentali, ovvero senza le quali lo svolgimento dell’attività non è neppure configurabile, come le auto per le imprese di autonoleggio o quelle per le autoscuole;
  • le auto adibite a uso pubblico, come i taxi;
  • i veicoli strumentali per natura, come gli autocarri.

Esclusione agenti e rappresentanti dal super ammortamento auto

L’esclusione degli agenti e dei rappresentanti dal super ammortamento è proseguita anche per tutto il 2018 con l’esclusione, operata dalla legge di Bilancio del 2018, di tutte le tipologie di veicoli previste dall’articolo 164. Di conseguenza, restarono in regime agevolato di deducibilità solo i veicoli strumentali per natura, a una maggiorazione più bassa (del 30 anziché del 40%).

Credito d’imposta auto dal 2020: come funziona?

La legge di Bilancio 2020 ha sostituito il super ammortamento con il credito d’imposta per i beni strumentali. Il credito, applicabile agli investimenti fatti dal 1° gennaio al 31 dicembre 2020, con estensione al 30 giugno 2021 per i veicoli prenotati al 31 dicembre 2020, prevede:

  • un credito d’imposta del 6% del costo di acquisto con limite massimo dei costi ammissibili fino a 2 milioni di euro;
  • l’utilizzo del credito d’imposta in cinque quote annuali di pari importo, a partire dall’anno successivo a quello di entrata in funzione del veicolo.

Dall’agevolazione, tuttavia, rimangono esclusi tutti i veicoli compresi nell’articolo 164. Tale esclusione è stata confermata anche dal Dl 34 del 2020, cosiddetto “Decreto Rilancio”. Conseguentemente rimangono agevolabili solo i veicoli strumentali.

Credito d’imposta per le auto aziendali della legge di Bilancio 2021: acquisti fino al 31 dicembre 2022

Da ultima, la legge di Bilancio 2021 ha stabilito la proroga del credito d’imposta, escludendo ancora le auto e i mezzi di trasporto dell’articolo 164 del Tuir dalle agevolazioni. Rimangono, pertanto, confermate le agevolazioni ai soli veicoli strumentali con nuovi limiti e massimali di costi ammissibili. In particolare:

  • il 10% di credito d’imposta del costo per veicoli acquistati tra il 16 novembre 2020 e il 31 dicembre 2021, con estensione al 30 giugno 2022 per i veicoli prenotati entro la fine del 2021;
  • il 6% del costo dei veicoli acquistati dal 1° gennaio 2022 al 31 dicembre 2022, con estensione al 30 giugno 2023 per i veicoli prenotati entro la fine del 2022.

Il credito d’imposta è usufruibile in tre quote annuali di pari importo e per intero per i veicoli acquistati nella prima finestra temporale prevista dalla legge di Bilancio, ovvero dal 16 novembre 2020 al 31 dicembre 2021, purché l’impresa abbia ricavi inferiori a 5 milioni di euro.

 

 

Bilancio d’esercizio: la guida alla corretta redazione

Il bilancio d’esercizio è una sintesi del reddito e del patrimonio di un’azienda. Ecco alcuni consigli per redigerlo correttamente.

Bilancio d’esercizio: cos’è e quando si predispone

Il bilancio d’esercizio è un documento di derivazione contabile avente lo scopo di rappresentare la situazione patrimoniale e finanziaria di un’impresa, al termine del periodo amministrativo e il risultato economico. Quindi questo documento riveste due funzioni importanti:

  • è uno strumento di conoscenza della gestione e dei suoi risultati;
  • è uno strumento di comunicazione che svolge una funzione informativa di grande rilievo nei confronti dei diversi soggetti che a vario titolo sono interessati all’azienda.

L’articolo 2423 del codice civile il bilancio d’esercizio è formato da tre documenti: il conto economico, lo stato patrimoniale e la nota integrativa.

Lo stato patrimoniale di un’azienda

Lo stato patrimoniale è la parte del bilancio che espone, il patrimonio finanziario di un’azienda al termine del periodo amministrativo. Inoltre come indicato dalla legge, lo stato patrimoniale, prevede alcune caratteristiche:

  • è a sezioni contrapposte (Attivo a sinistra o passivo a destra);
  • lo schema è obbligatorio, in quanto le voci vanno indicate nell’ordine previsto dalla norma;
  • le attività sono classificate secondo il criterio del “misto” e rappresentano i valori positivi;
  • le passività sono classificate secondo l’origine delle fonti di finanziamento. Si dividono in capitale proprio e capitale di terzi.

In particolare nelle attività rientrano tutte le immobilizzazioni, l’attivo circolante, rate e risconti attivi. Mentre le passività sono divise in: patrimonio netto, fondi per rischi e oneri, trattamento di fine rapporto, debiti, ratei e riscontri passivi.

Il conto economico aziendale

Il conto economico è la parte di bilancio che dà il risultato economico dell’esercizio, mettendo in evidenza i processi della sua formazione mediante l’individuazione del contributo fornito dalle varie “aree” di gestione. I componenti positivi e negati del reddito sono indicati in uno schema a scalare. Questo permette di individuare dei risultati intermedi che evidenziano:

  • il risultato della gestione ordinaria;
  • la gestione finanziaria;
  • il valore e il costo di produzione.

Tuttavia il risultato economico dell’esercizio si ottiene sommando algebricamente i risultati della gestione ordinaria, finanziaria e straordinaria.

L’importanza della nota integrativa

La nota integrativa ha la funzione di chiarire, completare e analizzare alcuni dati contenuti nei prospetti contabili e di fornire informazioni sui criteri di valutazione, dei movimenti verificatisi in determinati voci. Secondo gli articoli 2427 e seguenti, deve contenere:

  • un commento esplicativo dei dati presentati nello stato patrimoniale e nel conto economico, che per loro natura sono sintetici e quantitativi, e un commento delle variazioni rilevanti intervenute nelle voci tra un esercizio e l’altro (funzione esplicativa);
  • una evidenza delle informazioni di carattere qualitativo che per la loro natura non possono essere fornite dagli schemi di stato patrimoniale e conto economico. La nota integrativa contiene, in forma descrittiva, informazioni ulteriori rispetto a quelle fornite dagli schemi di Bilancio (funzione integrativa).

E’ possibile usare anche degli indici di bilancio, per favorire una corretta valutazione dei dati acquisiti, magari dal parte manageriale.

I principi di redazione del bilancio d’esercizio

Alla base del processo di formazione del bilancio d’esercizio vi è un principio generale. Cioè deve fornire la rappresentazione veritiera della situazione patrimoniale e finanziaria dell’azienda. Ma anche conoscere il risultato economico dell’esercizio. Inoltre devono essere rispettati i seguenti principi di redazione:

  • la valutazione delle voci deve essere fatta secondo prudenza e nella prospettiva della continuazione dell’attività;
  • si possono indicare solo gli utili realizzati alla chiusura dell’esercizio;
  • si deve tenere conto dei proventi e degli oneri di competenza dell’esercizio indipendentemente dalla data dell’incasso o del pagamento;
  • occorre tener conto dei rischi e delle perdite di competenza dell’esercizio, anche se conosciuti dopo che l’esercizio è stato chiuso;
  • gli elementi eterogenei compresi nelle singole voci devono essere valutati separatamente;
  • i criteri di valutazione non possono essere modificati da un esercizio all’altro.

Il caso delle aziende individuali

Nelle aziende individuali la redazione del bilancio è obbligatoria, ma la legge non prevede né una forma specifica per i prospetti contabili, nè una nota integrativa. Pertanto in generale si utilizzano gli schemi previsti per le spa, ma il bilancio è formato solo dallo stato patrimoniale abbreviato ed il conto economico. Infine è bene approfondire anche altri due concetti: il reddito economico e il reddito fiscale. Il reddito economico è il risultato netto che emerge dal conto economico. Esso si ottiene, quindi, con la tenuta delle scritture contabili e applicando i principi del Codice Civile. Mentre il reddito fiscale è determinato, invece, sulla base delle norme tributarie. Pertanto il reddito fiscale si ottiene apportanto al reddito economico, le variazioni dell’applicazione delle norme tributarie. Ad esempio per le impresa individuale sono:

  • l’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef);
  • l’imposta regionale sulle attività produttive (Irap).

Per le imprese individuali le imposte sul reddito non rappresentano un costo in quanto il soggetto d’imposta non è l’impresa, ma l’imprenditore. Se le imposte sul reddito dovute dal titolare sono pagate con denaro aziendale, allora occorre rilevare la variazione in negativo di capitale proprio.