Franchising e negozio online senza partita Iva

Il franchising o affiliazione commerciale è un contratto redatto in forma scritta e firmato da due soggetti imprenditoriali. Uno di loro è denominato franchisor o affiliante che concede l’utilizzo del proprio brand e l’insieme delle competenze, abilità ed esperienze (know how) all’altro soggetto denominato franchisee o affiliato, il quale, attenendosi a delle regole, corrisponde in cambio una somma di denaro periodica (royalty) e spesso una quota d’ingresso. A tal proposito, potrebbe essere interessante leggere anche: Quale franchising conviene aprire nel 2021.

Franchising senza partita IVA

E’ possibile aprire un franchising senza partita IVA? Molte persone si sono poste questa domanda, sperando in una risposta positiva che potesse evitare loro di caricarsi di tutti gli oneri e i costi che l’IVA comporta. Purtroppo, invece, la risposta è “NO”.

Come abbiamo detto poc’anzi, l’affiliato che vuole avviare un’attività in franchising lo fa in qualità di imprenditore e, in quanto tale, non può lavorare senza l’apertura di una partita IVA. In linea di massima, chiunque si metta in proprio opera in regime di partita IVA per regolarizzare la sua posizione nei confronti del Fisco. Tuttavia, la legge prevede alcune deroghe che consentono ad alcune categorie di lavoratori di operare senza partita IVA, ma, come già precisato, non è il caso dei soggetti che lavorano in franchising.

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E’ possibile aprire un negozio online senza partita IVA?

Dopo essere venuto a conoscenza dell’impossibilità di lavorare in franchising senza partita IVA, va da sé, che anche farlo online, è impossibile. A questo punto, in molti si sono chiesti se sia possibile aprire un negozio online senza partita IVA. E’ bene precisare che nemmeno la vendita online professionale si può effettuare senza l’apertura di una partita IVA.

Tuttavia, se la vendita online tramite sito e-commerce prevede l’obbligo di operare con partita IVA, è anche vero che è possibile vendere online al di fuori del regime IVA, seguendo delle regole specifiche. Quali?

Esistono due strade alternative per coloro che vogliono commercializzare qualcosa, evitando di sobbarcarsi gli oneri legati all’apertura di una partita IVA: la vendita in veste di privati e quella occasionale. Vediamo di cosa si tratta e come funzionano.

Vendita online da privato

Si può realizzare la vendita online come soggetto privato, una tantum. Accade quando si vuole vendere un oggetto e ricavarne una piccola somma di denaro, inferiore a quella relativa l’acquisto. Questa modalità di vendita è già molto diffusa, spesso riguarda dispositivi mobili e relativi accessori, ma anche capi di abbigliamento e scarpe, oppure attrezzature sportive, biciclette, libri etc.

E’ quindi possibile effettuare una vendita una tantum da privato, in quanto non prevede lo svolgimento di un’attività commerciale, ma solo la cessione sporadica di un oggetto di cui non ci si serve più. Oltretutto, non è prevista alcuna emissione di ricevuta, pertanto non si è soggetti a tassazione.

Questa tipologia di vendita è realizzabile tramite i marketplace. Ad esempio, magazzini come eBay o Amazon, su cui il venditore metterà un annuncio con foto, descrizione e prezzo dell’oggetto. Anche il marketplace di Facebook offre la possibilità di vendere un oggetto online: utilizzando il social network come vetrina oppure tramite dei gruppi di vendita e di acquisto, solitamente circoscritti in un ambito territoriale che consenta di organizzare un incontro tra le parti che dà modo di visionare direttamente la merce oggetto della compravendita.

Vendita online occasionale

L’altra modalità per vendere online senza avere l’obbligo di aprire una partita IVA, è la vendita occasionale, ossia intermittente o meglio sporadica. Per essere tale, il reddito annuale ricavato dalle vendite non deve superare i 5.000 euro. Inoltre, non è realizzabile tramite e-commerce o un sito che fa da vetrina agli oggetti, con tanto di descrizione o prezzo. Di solito, sono considerate vendite occasionali quelle che hanno come oggetto articoli artigianali, da mercatino, tanto per intendersi.

Tuttavia, anche se non ricorre l’obbligo di aprire una partita IVA, la vendita online occasionale è soggetta ad alcuni adempimenti fiscali. Infatti, per vendere un articolo è necessario emettere una ricevuta all’acquirente dove vengono indicati i nominativi delle due parti, la descrizione della merce venduta, la causale “incasso da vendita occasionale”, data, luogo e firma del venditore. Inoltre, l’apposizione di una marca da bollo per importi superiori a 77,47 euro.

La dichiarazione dei redditi per vendita online occasionale non è obbligatoria se quest’ultima costituisce l’unica fonte di reddito e se i guadagni non superano i 5.000 euro

Auto aziendale: il tragitto casa lavoro quando è ammesso e quando no

Tra i mezzi di trasporto, che possono rientrare nella categoria dei beni strumentali, spicca l’auto aziendale per la quale, tra l’altro, c’è la possibilità di accedere a benefici di natura fiscale. Nel dettaglio, e per definizione, l’auto aziendale è un mezzo di trasporto che è concesso al dipendente, e per il quale è l’impresa ad accollarsi i relativi costi.

Ma detto questo, quando e come il lavoratore può utilizzare l’auto aziendale? Per esempio, è possibile utilizzare il mezzo aziendale per coprire giornalmente il tragitto dalla casa al posto di lavoro e ritorno?

Auto aziendale: il tragitto casa lavoro quando è possibile e quando no

L’uso corretto dell’auto aziendale dipende proprio e strettamente dalla finalità d’uso. In quanto, anche ai fini di un corretto inquadramento ai fini fiscali, l’auto aziendale può essere classificata come mezzo di trasporto strumentale. In tal caso, l’utilizzo dell’auto deve essere sempre correlato all’attività d’impresa, e quindi non finalizzato a soddisfare le esigenze personali del dipendente.

Il discorso cambia, invece, quando l’auto aziendale risulta essere inquadrata come bene ad uso promiscuo. In tal caso, infatti, il lavoratore ai sensi di legge avrà la possibilità di utilizzare l’auto aziendale sia per l’attività d’impresa, sia per uso personale. Potendo così utilizzarla tanto per coprire il tragitto casa-lavoro e ritorno, quanto per altre finalità che possono essere legate anche al tempo libero. Quindi, pure al di fuori dell’orario di lavoro.

Ai sensi di legge, infatti, l’auto aziendale come bene strumentale non può essere utilizzata per coprire il tragitto casa-lavoro. In quanto questo rientra nella sfera personale e privata del dipendente. Anche per questo, per le auto aziendali in Italia, è molto diffuso l’inquadramento come mezzo di trasporto ad uso promiscuo.

Auto aziendale come bene strumentale e ad uso promiscuo, ecco le differenze

L’auto aziendale, come bene ad uso promiscuo, è decisamente più vantaggiosa per il lavoratore, a livello economico, rispetto al possesso di un mezzo di trasporto che è, invece, ad uso esclusivamente personale. Pur tuttavia, come sopra accennato, tra l’auto aziendale come bene strumentale e l’auto aziendale ad uso promiscuo ci sono delle differenze sostanziali a livello fiscale. In quanto per l’auto aziendale ad uso promiscuo non è possibile portare in deduzione i costi al 100%, e lo stesso dicasi per la detrazione dell’IVA. Inoltre, l’auto ad uso promiscuo rientra tra i fringe benefit.

Il tragitto casa lavoro quando l’auto aziendale è ad uso personale

Oltre all’auto come bene strumentale, e come mezzo di trasporto ad uso promiscuo, c’è pure una terza possibilità per il mezzo aziendale concesso al dipendente. Ovverosia, quando l’impresa concede al lavoratore l’auto aziendale come mezzo di trasporto che è totalmente ad uso personale.

Anche in questo caso l’inquadramento a livello fiscale cambia radicalmente. E si rientra, come per l’uso promiscuo, nella casistica del fringe benefit. Ma al pari dell’uso promiscuo, anche in questo caso il tragitto casa lavoro, a maggior ragione, è ammesso. Con l’auto concessa dall’azienda che, inoltre, sarà in tutto e per tutto una voce addizionale sulla retribuzione del dipendente. E questo perché a livello fiscale l’impresa concede al dipendente l’uso del bene.

Come togliere il diritto di passaggio?

La servitù di passaggio è un diritto di cui gode il proprietario di un fondo che per raggiungerlo, può attraversare un fondo appartenente ad altri soggetti. Tuttavia, è possibile togliere il diritto di passaggio: ma come? Prima di scoprirlo, cerchiamo di spiegare cos’è e come funziona il diritto o la servitù di passaggio.

Diritto di passaggio: cos’è

Non è raro essere in possesso di un immobile situato in un fondo che non abbia accesso diretto da una strada pubblica. In tal caso, siamo di fronte a un fondo intercluso. Come si evince dal termine, questa situazione si verifica quando il proprio fondo è circondato da altri fondi di proprietà altrui. Per consentire al titolare del fondo dominante di accedervi, la legge prevede che il proprietario del fondo servente lo renda accessibile.

A tal proposito, esistono diverse tipologie di servitù di passaggio, da quelle volontarie a quelle coattive, passando per le servitù apparenti e non, per le positive e negative, e ancora per quelle continue e discontinue. Non ci resta che andare ad analizzare le varie tipologie.

Servitù di passaggio: tipologie

Si parla di servitù volontarie, quando il titolare del fondo intercluso e il proprietario del fondo servente sottoscrivono un contratto di comune accordo. Diversamente, ossia in mancanza di accordo tra le parti, spetta al giudice decidere le modalità con cui regolare l’accordo.

Le servitù apparenti si materializzano nel caso in cui siano presenti delle strutture funzionali al passaggio della servitù, ad esempio un ponte. Quelle non apparenti esistono quando non c’è la necessità di presenza di opere o manufatti stabili.

Le servitù positive sussistono quando il titolare del fondo servente subisce il passaggio del proprietario del fondo dominante. In quelle negative la situazione è capovolta.

Le servitù continue si materializzano nel caso in cui per esercitare il diritto di passaggio non è necessario l’intervento dell’uomo. In caso contrario, ci si trova di fronte alle servitù discontinue.

In concreto, se il proprietario del fondo vicino ha creato una via privata per accedere al proprio immobile, e questa è anche l’unica percorribile dal titolare del fondo intercluso, tale strada può essere soggetta a diritto di passaggio.

I limiti del diritto di proprietà in presenza di una servitù

Nei casi in cui sussiste una servitù, il titolare del fondo servente è soggetto a una limitazione del suo diritto di proprietà. Infatti, egli non può creare difficoltà al vicino relativamente al passaggio e ancora meno ha la possibilità di vietargli il passaggio. Pertanto, il proprietario del fondo servente non può ostruire il passaggio al vicino tramite un cancello, albero o pianta che sia, o ancora installare strumenti tecnologici di sorveglianza.

Premesso tutto ciò, vediamo quando e come è possibile sopprimere un diritto di passaggio.

Come togliere il diritto di passaggio

Nel caso in cui il passaggio non è necessario per l’accesso al fondo vicino da parte del proprietario, il titolare del fondo servente può inoltrare richiesta a un giudice di intervenire per sopprimere il diritto di passaggio. Spetta proprio al giudice prendere una decisione nel merito.

Privare del diritto di passaggio è anche possibile mediante un accordo volontario tra le due parti, ciò vuol dire che il proprietario del fondo intercluso deve essere consenziente. In caso contrario, ci si dovrà rivolgere alle autorità competenti. Tale scelta sarebbe da prendere in considerazione in casi estremi, in quanto ricorrere per via giudiziaria prevede dei costi che possono anche essere elevati, nonché un’attesa lunga a causa dell’osticità del ricorso.

Per evitare di perdere il diritto di passaggio, il proprietario del fondo dominante deve rammentare, ogni 15 anni, al titolare del fondo servente di avere ancora la necessità di usufruire della servitù.

C’è da mettere in evidenza che si può togliere il diritto di passaggio, qualora il proprietario del fondo dominante non usi la servitù per 20 anni. In tal caso, scatta la prescrizione del diritto. Tuttavia, anche se il titolare del fondo vicino è consapevole della possibilità di non utilizzare la servitù per 20 anni e, quindi, di perderne il diritto di fruizione, potrebbe cautelarsi inviando periodicamente una raccomandata in cui fa presente di essere interessato al mantenimento della servitù di passaggio. In tal caso, è consigliato rivolgersi a un giudice per regolare la controversia.

Esiste anche un’altra possibilità di mettere fine al diritto di passaggio. Ciò si verifica nel momento in cui una delle due parti, ritenendo non più necessario il passaggio, presenta l’istanza inerente. In questo caso, chi ha intenzione di sopprimere il diritto di passaggio deve dimostrare la validità della sua condizione e delle proprie pretese.

Ovviamente, va da sé che se il proprietario del fondo servente acquista il fondo dominante o viceversa, automaticamente decade il diritto di passaggio.

Come si calcola il valore di una servitù di passaggio?

Oggi andremo a vedere di cosa si tratta quando si parla di servitù di passaggio e come si può calcolarne il valore. In questa rapida guida, lo scopriremo assieme.

Cosa vuol dire servitù di passaggio

Dunque, la domanda più frequente che in molti si fanno è che cos’è una servitù di passaggio? La risposta è presto data, la servitù di passaggio è il diritto reale di godimento che consente al titolare di un fondo di passare su un fondo altrui per accedere al proprio. Nello specifico, possiamo dire che il diritto di servitù costituisce un peso a carico del fondo altrui, detto “fondo servente”, per l’utilità del “fondo dominante”.

Che cosa sarebbe il fondo dominante? Questa è un’altra domanda che qui trova risposta. Nel Codice civile, in particolare, si definisce la servitù come il peso imposto sopra un determinato fondo (detto “fondo servente“) per l’utilità di un altro fondo (detto “fondo dominante“), che appartiene ad un proprietario diverso.

Come si calcola il valore di una servitù di passaggio

In maniera molto semplice e diretta possiamo dire che il danno cagionato, dalla proposta costituzione di una servitù di passaggio volontaria, al fondo servente può essere più agevolmente determinato attraverso la differenza tra il più probabile valore di mercato del fondo libero dalla servitù stessa e l’analogo valore di mercato del fondo considerato gravato dalla servitù.

Va, inoltre aggiunto che per determinare tale indennità sarà necessario considerare non soltanto il valore della superficie di terreno assoggettata a servitù, ma si dovrà valutare ogni altro pregiudizio subito dal fondo servente in relazione alla sua destinazione a causa del transito di persone e veicoli.

Dunque, la servitù di passaggio può essere costituita sia volontariamente, magari raggiungendo un accordo con il proprietario del fondo confinante, che ti lascia passare sul suo terreno senza troppe problematiche o chiedendoti un’indennità, quanto coattivamente (servitù legali). Come dicevasi, per definizione la servitù di passaggio deve gravare sul fondo di proprietà di una persona diversa rispetto a quella che beneficerà della servitù. Ciò significa che il diritto di proprietà del titolare del fondo servente sarà inevitabilmente limitato dall’obbligo di consentire il transito al vicino.

Ma, quindi cosa deve fare un proprietario del diritto di passaggio? Il proprietario può chiedere al giudice di disporre la costituzione di una servitù di passaggio su uno dei fondi confinanti. Il passaggio deve arrecare il minor danno possibile al fondo servente. Questa servitù non può essere costituita sulle case, sui giardini, sulle aie.

Ma, quanto può essere larga una servitù di passaggio?

Anche qui, la risposta è presto data. Le misure minime e massime della servitù di passaggio carrabile sono di metri variabili a seconda di strada o altro luogo su cui essa sussiste, perché non c’è una norma specifica in merito, ma la larghezza dovrebbe essere minimo di 2,75 metri

Come si perde la servitù di passaggio?

Una sostanziale ipotesi di cessazione della servitù di passaggio è quella per prescrizione. In pratica, secondo la legge la servitù si estingue per prescrizione quando non se ne fa uso per 20 anni. Il semplice decorso del tempo, quindi, così come può valere a far acquistare la servitù (per usucapione), può anche rilevare ai fini della sua estinzione. in linea definitiva, possiamo asserire che la servitù coattiva di passaggio si estingue per cessazione dell’interclusione, ai sensi dell’articolo 1055 del codice civile, qualora al fondo dominante, già intercluso, sia aggregato in unico lotto, facente capo ad unica proprietà, un altro fondo, con accesso alla pubblica via, in quanto, a norma dell’art. 1051 cod.

Dunque, questo è quanto vi fosse di più strettamente necessario da sapere sul valore della servitù di passaggio in merito alla questione.

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Auto aziendale come benefit, quello che c’è da sapere

La modalità dell’assegnazione dell’auto aziendale ai dipendenti o collaboratori da parte del datore di lavoro per uso promiscuo ha importanti implicazione sulla sfera reddituale del dipendente, soprattutto di natura fiscale. Infatti, la legge di Bilancio 2020 ha modificato l’utilizzo promiscuo delle vetture aziendali, prevedendo, peraltro, anche incentivi fiscali per l’utilizzo delle auto meno inquinanti.

Auto aziendale assegnata al collaboratore per uso promiscuo

Nell’uso promiscuo il dipendente può utilizzare l’auto aziendale sia per esigenze lavorative che personali. L’assegnazione dell’auto aziendale al collaboratore per un utilizzo promiscuo genera pertanto un compenso in natura che necessità di essere valorizzato utilizzando un criterio di tipo forfettario. Tale criterio si basa sul costo a chilometro desumibile dalle tabelle nazionali dell’Aut0mobile Club Italia (Aci). Il calcolo del vantaggio per l’utilizzatore dell’auto, conosciuto come fringe benefit, si può applicare, oltre alle vetture, anche agli autocaravan, ai motocicli e ai ciclomotori.

Benefit auto aziendale prima e dopo la legge di Bilancio 2020

Prima della legge di Bilancio 2020, il benefit era calcolato nella misura fissa del 30% dell’importo corrispondente a una percorrenza convenzionale annua di 15mila chilometri. Il calcolo si basava sui costi chilometri fissati dalle tabelle annuali dell’Aci, al netto degli eventuali importi trattenuti al dipendente come contributo per l’auto stessa. L’eventuale contributo deve essere pattuito tra il datore di lavoro e il collaboratore nel contratto di assegnazione della vettura. In ogni modo, la formula per il calcolo del benefit auto prima della legge di Bilancio 2020 era costituita dal 30% sul costo Aci per 15mila chilometri meno l’eventuale contributo del dipendente.

Le novità della legge di bilancio 2020 sulle auto aziendali

La novità più importante introdotta dalla legge di Bilancio 2020 sulle auto aziendali riguarda la diminuzione della percentuale del 30% per le auto meno inquinanti. Più nel dettaglio, la percentuale è ridotta dal 30 al 25%, con decorrenza dal 1° luglio 2020, per le auto che abbiano una quantità di anidride carbonica (CO2) inferiore o uguale a 60 grammi per chilometro. Si tratta di un vantaggio nel calcolo del benefit che determina anche la revisione dei criteri di scelta dei datori sul parco auto aziendale. Di seguito, la formula per il calcolo del benefit per le auto meno inquinanti diventa: 25% per costo Aci per 15mila chilometri meno l’eventuale contributo del dipendente.

Calcolo benefit a seconda delle emissioni CO2 delle auto aziendali

La percentuale di calcolo del benefit legato alle auto aziendale rimane del 30% per le auto con emissioni da 60 a 160 CO2. Più alte, invece le percentuali per le auto maggiormente inquinanti:

  • percentuale del 40% per emissioni CO2 da 160 g/km a 190 g/km (50% dal 1° gennaio 2021);
  • aumento al 50% per emissioni CO2 maggiori di 190 g/km (60% dal 1° gennaio 2021).

Tabelle Aci per il calcolo dei benefit auto

Tra gli elementi chiave per il calcolo del benefit derivante dall’auto aziendale rientrano le tabelle Aci, pubblicate entro il 31 dicembre di ogni anno nella Gazzetta Ufficiale. Quelle in vigore nel 2021 sono state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale numero 317 del 22 dicembre 2020. Sul sito Aci, le tabelle sono consultabili nella sezione “Servizi”, “Servizi online”, “Fringe benefit”. Le tariffe stabilite dall’Aci comprendono:

  • il carburante;
  • riparazioni, manutenzioni e pneumatici;
  • la quota di ammortamento del capitale;
  • la tassa automobilistica;
  • la quota interessi sul capitale investito;
  • l’assicurazione Rca.

Auto aziendale: il contributo del dipendente riduce il benefit

Un ulteriore fattore di calcolo del benefit legato all’uso dell’auto aziendale è rappresentato dal contributo del dipendente. Il datore di lavoro può addebitare al dipendente un corrispettivo, mediante metodo di pagamento o trattenuta, proprio correlato alla possibilità di utilizzare l’auto anche per le motivazioni personali. Il contributo, da considerarsi al lordo dell’Iva, abbassa il valore forfettario del benefit imponibile.

Caratteristiche del fringe benefit auto

Il fringe benefit sulle auto aziendali ha le caratteristiche riportate di seguito:

  • è forfettario. Cioè si prescinde dai chilometri realmente percorsi, dalle spese effettivamente sostenute e da quelle riaddebitate al collaboratore, come ad esempio quelle della benzina;
  • si calcola su base annua;
  • deve essere riportato sul cedolino della busta paga e assoggettato a tassazione ordinaria ogni mese;
  • rientra nella franchigia dei 258,23 euro prevista dal comma 3 dell’articolo 51,  ultimo periodo, del Tuir.

Esempio di calcolo del fringe benefit auto assegnate prima e dopo il 1° luglio 2020

Utilizzando le relative tabelle Aci per il calcolo del fringe benefit delle auto aziendali, si può considerare un’Audi Q7 4.0 V8 TDI con 435 cavalli ed emissione di CO2 pari a 190 g/km, assegnata prima del 1° luglio 2020. Dalle tabelle emerge un costo di 0,974 euro a chilometro (poco meno di un euro) da moltiplicare per 15mila chilometri annui. Dalla formula di calcolo, applicando la percentuale fissa del 30% valida per fino al 30 giugno 2020,  il benefit imponibile complessivo per il 2021 sarà pari a 4.385 euro circa. Se al dipendente viene addebitato un corrispettivo mensile di 100 euro, pari a 1.200 euro annui, il valore imponibile sarà di 4.385 euro – 1.200 = 3.185 euro. Se la stessa auto venisse assegnata dal 1° luglio 2020, la percentuale sarebbe pari al 40% per classe di emissioni CO2 da 160 g/km a 190 g/km e al 50% dal 1° gennaio 2021.

La concessione di vendita: cos’è e come funziona questo contratto

La concessione di vendita è un contratto atipico. Cioè non è disciplinato da un articolo del codice civile. Tuttavia ecco gli aspetti principali.

La concessione di vendita: cos’è?

Con il contratto di concessione di vendita un industriale o un grossista instaurano un rapporto privilegiato di fornitura con determinati rivenditori. La concessione di vendita è infatti il contratto con il quale una parte (concedente) si obbliga a somministrare a un’altra (concessionario) la qualità di prodotti che questa richiede e il concessionario si impegna ad acquistarne un minimo prefissato e a rivendere i prodotti in una zona determinata.

Il rischio  della mancata vendita e le spese per l’organizzazione della rivendita del prodotto gravano sul cessionario. Tuttavia però spesso vi sono delle clausole contrattuali che assoggettano il concessionario alle direttive del concedente. Quest’ultimo può infatti riservarsi la facoltà di stabilire il prezzo di vendita. Ma anche di controllare l’efficienza dell’impresa del concessionario, di chiedere al concessionario informazioni sull’andamento del mercato.

Ecco quando si ha bisogno della concessione di vendita

Per vendere un prodotto occorre che il produttore riesca a farlo avere al consumatore. L’impresa pertanto ha davanti a se due strade: vendere direttamente al consumatore, oppure venderli a commercianti che provvedono a rivenderli ai vari consumatori.

Questa via viene molto usata dai grandi marchi che operano a livello globale per aumentare la loro presenza sul mercato. I commercianti che acquistano i prodotti, possono a loro volta, venderli al consumatore finale o avvalersi di grossisti che vendono ai dettaglianti. Il produttore può quindi organizzare una rete di distribuzione ricorrendo a imprenditori autonomi professionisti del settore come gli agenti, i commissari, i concessionari e i mediatori professionali.

L’esclusiva in questo tipo di contratto

Il diritto di esclusiva può essere inserito in questo tipo di contratto. La clausola di esclusiva impegna il concedente a non fornire ad altri i propri prodotti nella zona riservata al concessionario. Si ha così il vantaggio di essere l’unico rivenditore del prodotto del concedente nella zona a lui contrattualmente riservata.

Tuttavia possono essere stipulate anche clausole di esclusiva a favore del concedente, che impegnano il concessionario a non vendere nella sua stessa zona prodotti concorrenti con quelli del concedente. Il contratto ha spesso una durata minima di 3-5 anni, per permettere alle parti di raggiungere gli obiettivi economici desiderati. E’ comunque possibile prevedere lo scioglimento automatico nel caso il rivenditore non raggiunga gli obbiettivi di vendita preventivamente concordati o non acquisti quantità minime di prodotto.

Quando si usa questa tipologia contrattuale?

Il contratto di commissione è un contratto atipico, in quanto non esiste un articolo specifico nel nostro ordinamento che lo disciplina. Comunque sia si tratta di un contratto al quale ricorrono le grandi imprese per organizzare la distribuzione di propri prodotti con marchio celebre. Ne sono classici esempi: le concessionarie automobilistiche, le grandi compagnie di bevande analcoliche (ad esempio Coca cola) o di capi di abbigliamento di moda.

Se il produttore è forte economicamente e i suoi prodotti hanno successo sul mercato, egli può anche organizzare una rete distributiva istituendo contrattualmente rapporti privilegiati di fornitura con determinati commercianti. In relazione al tipo di rischio che questi devono sopportare esistono varie tipologie contrattuali, ma la concessione di vendita è, da sempre, molto usata.

Vantaggi e svantaggi di questo tipo di contratto

Con la concessione di vendita l’impresa concedente ha il vantaggio di poter programmare le proprie vendite, grazie all’obbligo dei concessionari di ritirare e pagare il quantitativo minimo dei prodotti concordato. Inoltre si ha il vantaggio di mantenere sotto controllo la distribuzione, più o meno capillare, e la presenza sul mercato.

Lo svantaggio per il concessionario è invece quello di dover sostenere tutte le spese della distribuzione ed il rischio di mancata vendita. Il concessionario è dal punto di vista giuridico un imprenditore che esercita un’attività intermediaria nella circolazione dei beni e se ne assume tutti gli eventuali rischi. Dal canto suo il concessionario consegue il vantaggio di avere nella sua zona il monopolio della vendita di quel prodotto, dal concedente che, per il loro marchio celebre, possono essere molto richiesti dal consumatore.

Come pagare contributi Inps in ritardo?

Per svariati motivi, accade di non pagare i contributi INPS dovuti a seguito di un’attività lavorativa svolta che ne prevede il versamento. A questo punto, cosa succede e come provvedere al loro pagamento in ritardo?

Le conseguenze del mancato pagamento dei contributi INPS

Il mancato versamento dei contributi dovuti all’INPS fa scattare una sanzione pecuniaria, anche se la notifica dell’omesso pagamento non viene notificata in breve tempo, in quanto avviene a seguito di un accertamento che non è immediato.

La notifica da parte dell’INPS che segnala il mancato versamento dei contributi è comprensivo dell’importo dovuto con l’aggiunta di una sanzione e di una percentuale di interessi. Quest’ultimi sono ormai assai ridotti, per cui sul pagamento ritardato inciderà davvero solo la sanzione. Nel caso in cui il contribuente, nonostante l’avviso ricevuto non provveda al pagamento delle somme dovute a titolo contributivo, farà scattare l’emissione di una cartella esattoriale con iscrizione a ruolo.

Al fine di evitare il pagamento di una somma di denaro molto più alta dell’ammontare dei contributi non versati, è preferibile provvedere al loro versamento dopo aver ricevuto la prima notifica.

Se il contribuente ha difficoltà economiche può scegliere e ottenere una rateizzazione del debito da parte dell’Istituto di Previdenza Sociale. In caso l’importo da pagare sia inferiore ai 5.000 euro, è possibile versare il dovuto in sei rate, se la cifra da pagare è superiore ai 5.000 euro è possibile suddividerla in venti rate. A prescindere dal tipo di rateizzazione, ci saranno degli interessi da pagare sui contributi arretrati.

Condoni e prescrizione debito INPS

Se si è fortunati, si può usufruire di eventuali condoni previdenziali, i quali, però, vengono concessi da alcuni governi solo in casi rari e particolari. In presenza di tali sanatorie, il debito verso l’INPS non viene cancellato, ma viene depennata la sanzione oppure si concede al contribuente inadempiente la possibilità di saldare l’intero debito in misura ridotta.

Per quanto concerne la prescrizione per il mancato versamento dei contributi INPS, essa scatta una volta decorsi cinque anni ma solo nel caso non sia stata inviata alcuna notifica. Infatti, in caso di avviso o emissione di cartella esattoriale nel corso dei cinque anni, il termine di prescrizione riparte da zero.

Come pagare i contributi INPS in ritardo

Qualora il contribuente che abbia contratto un debito verso l’INPS voglia provvedere in ritardo al pagamento dei contributi non versati, può inoltrare una comunicazione all’Istituto. Tale operazione prende il nome di ravvedimento operoso e prevede l’accollo di una sanzione minore che viene calcolata in base ai giorni di ritardo e all’ammontare dell’omesso versamento. Ma entriamo nel dettaglio, ricordando che la percentuale della sanzione è giornaliera.

  • Il ricorso al ravvedimento operoso prevede una sanzione pari allo 0,1% dei contributi non versati, ma solo se il pagamento avviene entro 14 giorni dalla scadenza fissata;
  • Se il pagamento dei contributi INPS avviene entro un mese dalla scadenza prevista, la sanzione è pari all’1,5% dell’importo dovuto originariamente;
  • Il pagamento che avviene dopo 30 giorni, ma entro 90 giorni dalla scadenza, deve essere comprensivo di una sanzione pari all’1,67% dei contributi non versati;
  • Se sono passati più di 90 giorni dalla scadenza prevista per il pagamento dei contributi, ma comunque entro un anno, la sanzione applicata al versamento è pari al 3,75%;
  • Se il ravvedimento operoso viene effettuato entro due anni dalla scadenza, la sanzione è pari al 4,29%;
  • Trascorsi oltre due anni dalla scadenza dei contributi INPS dovuti, la sanzione raggiunge il 5% dell’importo originario.

Come accennato in precedenza, alla sanzione prevista vanno aggiunti gli interessi legali che attualmente sono pari allo 0,01%.

Sanzioni in caso di mancato ravvedimento operoso

In caso di mancata esecuzione di un ravvedimento operoso, l’importo della multa al momento dell’avviso bonario (primo avviso inoltrato dall’INPS) ammonta al 10% dell’imposta non versata, ma tale sanzione dovrà essere pagata insieme all’importo omesso entro 30 giorni dalla notifica di pagamento.

Nel caso in cui il contribuente non provveda al pagamento entro 30 giorni o non richieda la rateizzazione del mancato pagamento e della sanzione, riceverà una cartella esattoriale con una sanzione pari al 30% dell’importo dovuto.

Tutti i contribuenti, che siano titolari o meno di partita IVA, per il pagamento dei contributi, ma anche di tributi e premi, devono utilizzare il modello F24.

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Affiliazione commerciale, cos’è e come funziona?

Cos’è l’affiliazione commerciale? Più comunemente conosciuta come franchising, il relativo contratto è stipulato da due soggetti giuridici che decidono di instaurare una collaborazione allo scopo di commercializzare beni o servizi.

I due soggetti sono indipendenti sia giuridicamente che economicamente. Da una parte c’è il franchisor o affiliante che concede all’altra, franchisee o affiliato, dietro il pagamento di un corrispettivo economico, la possibilità di utilizzare una serie di diritti di proprietà industriale e intellettuale: l’uso esclusivo del brand, la denominazione commerciale, l’insegna, l’esclusiva di zona, i diritti d’autore, la formazione, la consulenza e l’assistenza, ma soprattutto il know how che consentono all’affiliato di avviare la propria attività in modo autonomo con ottime probabilità di successo.

Know how: cos’è

Quando si parla di know how, s’intende l’insieme delle conoscenze, competenze, esperienze e abilità operative necessarie allo svolgimento di un’attività di lavoro manuale o intellettuale. E’ proprio questo che in un’affiliazione commerciale, il franchisor mette a disposizione del franchisee che, in questo modo, può partire con l’attività imprenditoriale godendo di un considerevole vantaggio, in quanto, come succede per molte altre attività, non è costretto a partire da zero.

Come funziona l’affiliazione commerciale

Stabilito che l’affiliazione commerciale non è altro che un contratto di franchising, questi ha come oggetto la produzione/vendita di un bene oppure l’offerta di un servizio che avviene tramite una rete estesa in modo capillare su di un territorio.

L’affiliazione commerciale rappresenta un vantaggio per il franchisor che sfrutta la sua esperienza sul mercato e le sue abilità operative che lo hanno portato al successo, ad incassare una quota d’ingresso da parte dell’affiliato che usufruisce del know-how, così come della notorietà del marchio per avviare e gestire con successo la propria attività. Inoltre, l’affiliante potrà introitare un canone periodico fisso o una percentuale calcolata sul fatturato del franchisee e denominata royalty.

Ovviamente, maggiore è l’affermazione del brand sul mercato e più sono i servizi offerti all’affiliato, più alte saranno la fee d’entrata e la royalty incassata.

Il contratto di affiliazione commerciale

L’affiliazione commerciale o franchising si basa su un contratto che deve essere redatto in forma scritta (pena la nullità) e sottoscritto da due soggetti giuridici. In esso, devono essere indicate le seguenti informazioni:

  • l’ammontare degli investimenti e l’importo dei costi di entrata (se presenti) dovuti dall’affiliato al franchisor;
  • le modalità di calcolo e pagamento dei canoni (royalties), ossia le percentuali sul fatturato che il franchisee dovrà versare al franchisor;
  • l’eventuale esclusiva di zona per lo svolgimento dell’attività;
  • caratteristiche e tipologia dei servizi che l’affiliante offre all’affiliato;
  • la descrizione dettagliata del know how messo a disposizione dal franchisor al franchisee per la gestione e l’utilizzo dei beni o servizi oggetto dell’affiliazione commerciale;
  • la commercializzazione da parte dell’affiliato;
  • le condizioni di rinnovo, di risoluzione e (se presente) di cessione a terzi del contratto.

A tutela dell’affiliato, la legge prevede che il contratto di affiliazione commerciale non può avere una durata inferiore ai tre anni.

Affiliante e affiliato: gli obblighi a loro carico

L’affiliazione commerciale prevede diritti ma anche obblighi a carico dei due soggetti imprenditoriali. La forma scritta del contratto è obbligatoria, proprio per consentire a ciascuna delle due parti di poter ricorrere davanti a un giudice contro la parte che è venuta meno ai propri doveri, chiedendo l’annullamento del contratto e l’eventuale risarcimento del danno subito a causa del comportamento scorretto dell’altra parte. In linea generale, ognuno dei soggetti è tenuto ad avere una condotta leale e ad agire sempre in buona fede.

A tal proposito, la legge obbliga il franchisor a consegnare la copia del contratto di affiliazione, la copia del bilancio degli ultimi tre esercizi, la lista degli altri affiliati e la descrizione di eventuali processi a proprio carico che si siano conclusi negli ultimi tre anni.

La legge, invece, obbliga il franchisee a non trasferire la sede della propria attività se è stata indicata nel contratto, salvo causa di forza maggiore. E ad osservare insieme ai propri dipendenti e collaboratori la massima riservatezza relativamente all’attività commerciale. Ciò, vale anche dopo la fine del rapporto.

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Obbligo di fedeltà del dipendente: norme e giurisprudenza

Un’impresa sa quanto è importante salvaguardare il proprio patrimonio, non solo materiale, ma anche immateriale, cioè relativo a processi di produzione e segreti aziendali di varia natura. E’altrettanto consapevole del fatto che non può evitare di rendere edotti i dipendenti, specialmente quelli in posizione dirigenziale. Nonostante questo, ha uno strumento di tutela, cioè l’obbligo di fedeltà del dipendente.

Il contenuto dell’obbligo di fedeltà del dipendente

La fonte dell’obbligo di fedeltà del dipendente deve essere rinvenuta nell’articolo 2105 del codice civile il quale stabilisce che: Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, ne’ divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.

La norma individua tre precisi divieti per il lavoratore, in primo luogo non può trattare affari in concorrenza con l’azienda in cui lavora, in secondo luogo gli è fatto espresso divieto di divulgare i segreti aziendali, ad esempio è fatto divieto di parlare di nuovi prodotti a cui si sta lavorando e su cui ancora non è stato depositato il brevetto, ma anche processi produttivi particolari. Il terzo divieto impone di non far uso dei segreti aziendali per danneggiare l’azienda. Nel caso in cui il lavoratore dipendente violi tali disposizioni, può essere licenziato anche senza obbligo di preavviso e si tratta di un licenziamento per giustificato motivo. La ratio della norma è aiutare l’imprenditore a tutelare la propria attività dalla concorrenza sleale che potrebbe portare via clienti, o vanificare i propri investimenti in ricerca. Non solo, vedremo che la norma viene applicata in modo estensivo.

Quando nasce l’obbligo di fedeltà del dipendente

L’obbligo di fedeltà nasce con la stipula del contratto di lavoro ed è ad esso connaturato, il contratto non deve specificarne il contenuto in modo esplicito. Il dipendente che viola tale norme incorre in responsabilità contrattuale. Tale obbligo deve essere tenuto distinto dal patto di non concorrenza che è indipendente rispetto al contratto di lavoro, si esplica dopo la cessazione del rapporto di lavoro, deve essere remunerato.

Scopri di più sul patto di non concorrenza

 

Giurisprudenza sull’obbligo di fedeltà del dipendente

Naturalmente un lavoratore licenziato senza preavviso cerca di difendersi da tali effetti e la giurisprudenza di sicuro fornisce ottimi spunti per capire la reale portata dell’obbligo di fedeltà del dipendente.

Licenziamento illegittimo

La giurisprudenza non sempre ha adottato un criterio unanime nello stabilire se effettivamente vi erano i presupposti per un licenziamento per giustificato motivo. Ad esempio la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento intimato a un dipendente a tempo parziale che nelle ore rimanenti intratteneva rapporti di lavoro con un’azienda concorrente. In tal caso per potersi verificare l’ipotesi di violazione dell’obbligo di fedeltà occorre che per il datore di lavoro si sia verificato in costanza di rapporto di lavoro un danno, un rischio concreto di essere danneggiato da parte del dipendente e che costui fosse consapevole della rischiosità del suo comportamento, inoltre deve esservi da parte del lavoratore l’animus nocendi.

Interpretazione dell’obbligo

Importante è anche la sentenza della Corte di Cassazione n° 11181 del 23 aprile del 2019, questa infatti è inerente il comportamento tenuto da una cassiera che ha utilizzato la tessera sconti di una cliente, pari a circa 24 euro successivamente riscossi dal coniuge della stessa cassiera. In questo comportamento è stata vista la violazione dell’obbligo di fedeltà perché, secondo la Corte, l’articolo 2105 contiene dei meri esempi, di un più vasto obbligo per i dipendenti di non comportarsi in modo da arrecare danno all’azienda. La sentenza dice che: nel prescrivere un dovere di fedeltà a cui è assoggettato il lavoratore, enuncia solo alcune manifestazioni di obblighi negativi come mere ipotesi esemplificative di più vasta gamma di comportamenti, anche positivi ma pur sempre riconducibili, in senso ampio ed in collegamento ai doveri di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., all’obbligo di fedeltà.

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito tale posizione infatti sottolinea ancora:  l’obbligo di fedeltà [..]deve intendersi non soltanto come mero divieto di abuso di posizione attuato attraverso azioni concorrenziali e/o violazioni di segreti produttivi, ma anche come divieto di condotte che siano in contrasto con i doveri connessi con l’inserimento del dipendente nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o che creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o che siano, comunque, idonee a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto.

Ulteriori sentenze

Di particolare rilevanza è anche la sentenza 7425 del 2018, sempre della Corte di Cassazione, in questo caso si conferma la condanna di un autista in congedo parentale che durante tale periodo aveva svolto, seppur gratuitamente, servizio presso un altro vettore concorrente. La sentenza 7461 del 2019 ha invece ritenuto giustificato il licenziamento di un dipendente in malattia a causa di infortunio che, durante tale periodo aveva prestato servizio presso un’altra azienda. In questo caso i giudici oltre a rilevare che vi è stata violazione del’articolo 2105 del codice civile, hanno sottolineato anche che tale comportamento era idoneo a ritardare il recupero fisico del dipendente in malattia.  Infine, i giudici hanno rilevato violazione dell’obbligo di fedeltà anche nel comportamento del dipendente che era socio al 10% e consigliere di amministrazione in una società concorrente con quella di cui era dipendente con contratto di livello “quadro”(10239 del 2019).

Si evince da questa disamina che le imprese hanno ampio spazio per tutelarsi dal comportamento infedele dei propri dipendenti.

Limiti all’obbligo di fedeltà

La giurisprudenza ha sottolineato che non costituisce violazione dell’obbligo di fedeltà il divulgare notizie inerenti illeciti compiuti dall’azienda, ad esempio evasione fiscale.  Inoltre non costituisce violazione dell’obbligo l’utilizzo delle informazioni nell’ambito della propria attività professionale se queste rappresentano il proprio bagaglio di competenze specifiche, In questo caso dei limiti vi possono essere con il patto di non concorrenza.

Contributi emergenza Covid: quadro RF per contabilità ordinaria e RG per contabilità semplificata

I contributi per la pandemia passano dai quadri RF e RG della dichiarazione dei redditi 2021. Anche se non imponibili, dunque, i contributi che le imprese e i lavoratori autonomi hanno ricevuto per l’emergenza sanitaria nell’anno 2020 vanno riportati nei due quadri della dichiarazione dei redditi. Le erogazioni legate all’emergenza Covid non generano, tuttavia, reddito imponibile anche quando la legge non le detassa in modo esplicito.

Riportare gli aiuti ricevuti nei quadri RF e RG per finalità informative

Nel caso del quadro RF legato agli aiuti alle imprese per l’emergenza Covid l’iscrizione serve a evitare proprio l’imposizione. Nel caso, invece, del quadro RG della dichiarazione dei redditi serve solo a titolo informativo o segnaletico. L’utilizzo dei due quadri deriva dalla risposta del ministero dell’Economia e delle Finanze alla  commissione Finanze della Camera durante il question time del 23 giugno 2021.

Dichiarazione redditi 2021: il chiarimento del ministero dell’Economia

Nella risposta al question time, il ministero dell’Economia ha chiarito che l’indicazione dei contributi Covid ricevuti devono essere inseriti nei quadri per la necessità di evitare che gli aiuti possano essere assoggettati a tassazione. L’indicazione dei contributi ricevuti nei quadri RF e RG, in realtà, hanno diversa destinazione: solo il quadro RF potrebbe presentare il rischio della tassazione, mentre nei quadri RG, ma anche RE, LM, questo problema non sussiste.

Il quadro RF della dichiarazione dei redditi

Nel dettaglio del quadro RF relativo ai soggetti in contabilità ordinaria, il rigo RF 55 relativo alle variazioni in diminuzioni nel 2021 ha due nuovi codici:

  • codice 83 per gli aiuti a fondo perduto previsti dai decreti “Rilancio”, “Agosto” e “Ristori”;
  • codice 84 per l’ammontare delle varie indennità di qualsiasi natura che non concorrono alla formazione del reddito.

I contributi del codice 84 sono stati erogati eccezionalmente per l’emergenza coronavirus e sono diversi dagli aiuti esistenti prima, indipendentemente da chi li ha erogati e dalla modalità di utilizzo e contabilizzazione.

Aiuti Covid alle imprese, cosa dice l’articolo 10 bis del Dl 137 del 2020 sulla detassazione

L’interpretazione della detassazione degli aiuti Covid deriva, altresì, proprio dall’articolo 10 bis del decreto legge numero 137 del 2020. L’articolo sulla detassazione dei contributi, delle indennità e di ogni altra misura in conseguenza dell’emergenza coronavirus, specifica che:

  • i contributi e le indennità di qualsiasi natura erogati in via eccezionale a seguito dell’emergenza Covid-19 non concorrono alla formazione del reddito imponibile ai fini delle imposte sui redditi e del valore della produzione per l’Imposta regionale sulle attività produttive (Irap);
  • tale detassazione spetta ai soggetti esercenti impresa, arte o professione, e ai lavoratori autonomi.

La specifica del Dl 137  si è resa necessaria mancando espressamente una normativa sulla detassazione degli aiuti eccezionali per via del Covid. Proprio in virtù del vuoto legislativo, gli aiuti si ritenevano soggette a imposte sui redditi ed Irap.

Come ottenere la detassazione degli aiuti Covid nella dichiarazione dei redditi 2021

Per ottenere la detassazione dei contributi ottenuti per l’emergenza Covid, le imprese dovranno apportare, in sede di dichiarazione dei redditi 2021, una corrispondente variazione in diminuzione. Per tale variazione, dovranno essere utilizzati i codici 83 e 84, ai quali seguirà l’indicazione a quadro RS.

Quadro RG per la contabilità semplificata sugli aiuti statali Covid

Il quadro RG relativo ai soggetti a contabilità semplificata presenta delle divergenze. Proprio il regime di contabilità semplificata fa in modo che i contribuenti non debbano riportare nei registri Iva l’incasso del contributo. Pertanto, i contributi a fondo perduto dovranno essere simultaneamente indicati nel seguente modo:

  • nel rigo RG 10, corrispondente ad “Altri componenti positivi” è da indicare il codice 27;
  • nel RG 22 riportante “Altri componenti negativi”, si riporta il codice 47.

Pertanto, le istruzioni prevedono l’indicazione delle somme, sia in aumento che in diminuzione, del reddito imponibile.

Quadro RG dichiarazione redditi degli autonomi: altri aiuti diversi dal fondo perduto

Per gli altri aiuti erogati a soggetti in contabilità semplificata diversi dai contributi a fondo perduto si applicano altri codici. In particolare i codici da utilizzare sono il 28 e il 48. Uno dei casi di aiuti non a fondo perduto riguarda, ad esempio, il credito d’imposta sulle locazioni.

Omessa indicazione degli aiuti ricevuti per Covid nella dichiarazione dei redditi

L’indicazione dei codici, in ogni modo, non va a incidere sull’imponibile e, pertanto, sull’imposta. Dunque, la non indicazione degli aiuti stessi nei quadri corrispondenti non dovrebbe portare a delle sanzioni, come spiegato dallo stesso ministero dell’Economia nel question time di fine giugno.