Chiuso per ferie? No, per crisi

In passato si storceva il naso di fronte alle lamentele dei negozianti: quasi nessuno credeva che la crisi potesse toccarli.
Ma ora le cose sono cambiate e, dati alla mano, la situazione, per il commercio al dettaglio, è diventata davvero pesante.

A parlare sono i 20.000 negozi che mancano all’appello rispetto al 2011.
Così tante sarebbero le saracinesche che, nel 2012, si sono chiuse, o presto lo faranno, per non aprirsi più.

Mariano Bella, direttore dell’Ufficio Studi di Confcommercio di fronte a questa realtà, e considerando i numeri, per nulla confortanti, degli anni passati, ha dichiarato che la crisi sta colpendo in modo più duro di quanto ci si aspettasse.

Il “Rapporto sulle Economie Territoriali e il Terziario di Mercato” presentato dall’Ufficio Studi, rivela che nel 2011 il commercio ha registrato un saldo negativo di 30.039 imprese, sintesi di 71.792 iscrizioni e di 105.831 cancellazioni, un risultato decisamente peggiore di quello registrato nel biennio precedente.

E se le cessazioni sono state elevate in tutti i settori, proprio nel comparto del dettaglio hanno raggiunto i massimi livelli, interessando il 60% delle totale delle cancellazioni del settore.
A fronte di 43.829 imprese iscritte ci sono state 62.477 cessazioni con un saldo negativo di 18.648.

Vera MORETTI

Il decreto sviluppo è diventato legge

Il decreto sviluppo è legge: il 3 agosto, dunque, è stata data l’approvazione definitiva ed è stato ufficialmente pubblicato.

Sono state aggiunte modifiche alla Riforma Fornero sul lavoro e riguardano, in particolare un credito di imposta per le nuove assunzioni di profili altamente qualificati, pari al 35% della spesa fino a un massimo di 200 mila euro.
Vengono inoltre modificati i requisiti per le partite Iva, che saranno calcolati su due anni solari.

Importanti sono anche le agevolazioni fiscali, a favore soprattutto di professionisti ed imprese. In particolare, si tratta della possibilità di liquidare l’Iva per la cassa.
Per imprese e professionisti con volumi d’affari fino a 200 mila euro, ad esempio, il limite sale a 2 milioni di euro, e cambia anche la modalità: chi opta per tale sistema dovrà applicare il principio della cassa sia all’Iva a debito che all’Iva a credito e la scelta non influirà sul proprio cliente o fornitore che potrà detrarre l’Iva normalmente.
In questo modo, perde importanza l’indicazione sulla fattura dell’esigibilità differita dell’Iva.

L’Iva differita ha comunque una “scadenza annuale”: trascorso questo lasso di tempo l’Iva sia a debito che a credito dovrà concorrere alla liquidazione dell’imposta e diventare quindi definitiva. L’eccezione riguarderà il cliente assoggettato a procedure concorsuali o esecutive.

Le agevolazioni riguardano anche l’edilizia e il risparmio energetico, con un aumento dal 36% al 50% per i lavori di ristrutturazione edilizia i cui bonifici saranno eseguiti entro il 30 giugno 2013 con aumento del limite di 48.000 euro per immobile a 96.000 euro.
Per quanto riguarda la detrazione del 55% per il risparmio energetico, è stata prorogata, dal 31 dicembre 2012, fino al 30 giugno 2013.

Ad approfittare di questa proroga saranno soprattutto i soggetti Ires, mentre le persone fisiche si avvarranno della detrazione del 50%, che prevede procedure più semplici e snelle.

Alcune modifiche riguardano anche le società a responsabilità semplificata e la possibilità di costituire la srl con un capitale sociale di un euro non solo per i giovani fino a 35 anni, ma anche ai meno giovani, per favorire una ripresa a chiunque si trovi in difficoltà, indipendentemente dall’età.

Novità anche per la deducibilità delle perdite su crediti. L’art. 33 del decreto sviluppo modifica l’art. 101 del Tuir prevedendo la possibilità di dedurre fiscalmente le perdite su crediti di modesto ammontare.
Viene pertanto stabilito che i crediti che non superano 2500 euro elevato a 5 mila per le imprese di grandi dimensioni e che sono scaduti da oltre sei mesi,possono essere considerati certi.

Vera MORETTI

Ecco le modifiche agli studi di settore

Per quanto riguarda gli studi di settore, l’Agenzia delle Entrate ha portato alcune modifiche sulla modulistica.

Ecco quali quadri si presentano con le novità più rilevanti:

  • QUADRO A – “Personale addetto all’attività”: è stato cambiato per adeguarlo alla nuova metodologia di stima dei soci amministratori. In particolare, si introducono: – 2 nuovi righi denominati “Soci amministratori” e “Soci non amministratori” al posto dei precedenti “Soci con occupazione prevalente nell’impresa” e “Soci diversi da quelli di cui al rigo precedente”; – il nuovo rigo “Associati in partecipazione”, che sostituisce quelli presenti in precedenza, ovvero “Associati in partecipazione che apportano lavoro prevalentemente nell’impresa” e “Associati in partecipazione diversi da quelli di cui al rigo precedente”.
  • QUADRO F– “Elementi contabili”: le modifiche riguardano i dati relativi gli amministratori e le royalties. Inoltre, in seguito alle novità introdotte dal DL 70/2011 riguardo la deducibilità delle spese di importo < € 1.000 relativi a contratti a corrispettivi periodici di competenza di 2 periodi d’imposta l’agenzia nella C.M. 30/2012 invita gli Uffici a tener conto del nuovo criterio di deducibilità applicabile dal 2011.
  • QUADRO Z– “dati complementari”: nei modelli di alcuni studi delle attività professionali sono state richieste informazioni più precise riguardo alle prestazioni/incarichi per le quali, nel corso dell’anno, sono stati percepiti solo pagamenti parziali rispetto all’intero compenso pattuito per lo svolgimento della singola prestazione. Per questo motivo, in relazione a ciascuna tipologia di attività, vengono richiesti: – il numero dei soli incarichi/prestazioni per i quali nell’anno 2011 sono stati percepiti solo acconti e/o saldi (pagamenti parziali); – la percentuale dei compensi derivanti dagli incarichi/prestazioni per i quali sono stati percepiti solo pagamenti parziali, in rapporto ai compensi complessivamente percepiti nel 2011.
  • QUADRO X– “altre informazioni ”: ai fini dell’applicazione dei correttivi anti-crisi (DM 13/06/2012), devono essere indicati alcuni dati specifici che permettano a Gerico di rimodulare la stima dei ricavi o compensi sulla base degli stessi correttivi. In particolare, è richiesto di indicare: – i “Ricavi dichiarati ai fini della congruità relativi al periodo di imposta 2010” (per l’applicazione del correttivo relativo all’applicazione della normalità economica); – di compilare alcune voci di costo relative ai periodi 2009 e 2010.
  • QUADRO V– “Ulteriori dati specifici ”: è prevista una apposita casella da barrare qualora i contribuenti nel 2009 o 2010 abbiano cessato di avvalersi del regime dei minimi. In particolare, occorre barrare la casella presente a rigo V04 (per le imprese) ovvero V01 (per i lavoratori autonomi). Al riguardo, l’agenzia precisa che tali soggetti, oltre a barrare la relativa casella del quadro V, dovranno fare attenzione a fornire alcuni dati contabili, da indicare nei quadri F, G e X, senza tenere conto degli effetti derivanti dal principio di cassa, applicato nei periodi di imposta precedenti e correlato al citato regime.

Il prospetto delle “Imprese multiattività” può comunque essere compilato anche se i ricavi derivanti dalle attività non prevalenti non superano il 30% dei ricavi complessivi.

Per i soggetti che sono usciti dal regime dei minimi e che sono esercenti attività d’impresa, si rileva uno sfasamento tra il principio di “cassa” operante nel regime dei minimi e quello di “competenza” del regime ordinario.

Questo sfasamento potrebbe comportare delle distorsioni nei risultati degli studi di settore applicati in termini di congruità dei ricavi e posizionamento rispetto agli indicatori di coerenza e di normalità economica.
Per evitare questi effetti negativi, sono state previste particolari modalità di applicazione degli studi di settore, differenziando a seconda che l’uscita dal regime sia intervenuta nel 2011 ovvero nel 2010 o 2009.

Vera MORETTI

Ma la crisi è andata in ferie?

di Davide PASSONI

C’era una volta, nell’antica Grecia, la cosiddetta “tregua olimpica”: durante i Giochi, tutte le guerre erano sospese, esisteva solo una pace temporanea per poter svolgere le gare in un clima, se non di fratellanza, almeno di momentanea serenità.

In questo agosto olimpico, pare che la tregua interessi le nostre aziende e la crisi che le ha colpite. Ci avete fatto caso? In questo periodo non si sente parlare di fatturati in crollo, chiusure, debiti, suicidi per mancanza di lavoro. Al massimo si tiene un occhio al dio spread dei Btp per il quale, ogni volta che scende sotto i 500 punti rispetto ai Bund tedeschi, pare ci sia da stappare una bottiglia di quello buono, dimenticandosi che uno spread sopra i 450 è sempre una bomba a orologeria per la nostra economia e per il sistema Paese nel suo complesso.

Però, per il resto, nulla. Nonostante la gente vada sempre meno in ferie (lo dicono le statistiche), sembra che in questo agosto la crisi sia andata in vacanza pure lei. Ebbene, noi di Infoiva non ci crediamo e vogliamo lanciare un appello; non per essere gufi, rompiscatole o rovinare quel poco di relax che ci portiamo in spiaggia in questi giorni, ma per essere realistici: settembre è dietro l’angolo, imprese italiane non mollate la presa e tenete alta l’attenzione.

L’autunno che ci aspetta non sarà caldo solo per le manifestazioni di piazza ma anche, e soprattutto, per un’altra piazza, Piazza Affari. Se la speculazione tornerà ad attaccarci, la prima a soffrire sarà l’economia reale, i professionisti, le piccole imprese; che ancora fanno gli scongiuri perché non ci sia il tanto paventato aumento dell’Iva. Il premier Monti continua a predicare tranquillità, ma dovrà fare i conti con gli scenari autunnali che ancora non si sa quale consistenza avranno.

Per cui, imprese, godetevi un po’ di riposo, ricaricatevi, ma occhio: la crisi non è andata in vacanza, le tasse sono ancora lì (l’Imu in primis), i mercati sono quello che sono, sia in Italia che in Europa. Nervi saldi, che l’ultimo sprint per chiudere il 2012 sarà decisivo per la sopravvivenza di tutte voi. Vi auguriamo di cuore di essere come e più di Usain Bolt, in questo sprint. Perché la tregua olimpica finirà, e con essa la tregua (falsa) della crisi.

Ai BRICST piace la ceramica italiana

In tempi di crisi, rivolgersi ai mercati esteri può essere la giusta soluzione. Non fa eccezione la ceramica italiana, che ha registrato vendite in grande crescita in India e Brasile.

Per monitorare l’andamento di questi due mercati, Confindustria Ceramica ha organizzato un meeting a Sassuolo, avvenuto il 24 luglio, durante il quale sono state presentate due indagini conoscitive e di marketing, commissionate per l’India allo Studio Octagona e per il Brasile allo Studio Roncucci & Partners.

Si tratta di due ricerche finanziate da Cersaie Business, una convenzione stipulata dall’Associazione con la Regione Emilia-Romagna e mirano a valutare nuove possibilità di sbocchi commerciali e modalità operative per le aziende ceramiche su questi importanti mercati in fase di grande sviluppo economico.
Anche se, in realtà, gli osservati speciali sono tutti i paesi BRICST (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e Turchia), come ha sottolineato Ruben Sacerdoti, Responsabile del Servizio Sportello regionale per l’Internazionalizzazione delle Imprese della Regione Emilia-Romagna, partner dell’iniziativa.

A presentare la ricerca riguardante l’India è stato Enrico Perego di Octagona, il quale ha illustrato la struttura del mercato edilizio indiano, soffermandosi poi sui principali produttori ceramici locali. Altri aspetti esaminati dall’indagine sono stati i principali distributori nell’industria indiana della ceramica, i cluster produttivi, le fasce di prezzo, i principali importatori e fiere di settore.

La seconda parte della ricerca, relativa al Brasile, è stata illustrata da Andrea Ligabue, Consigliere dell’Associazione, il quale ha spiegato come, nel giro di soli sei anni, la produzione brasiliana sia arrivata, partendo da 594 milioni di mq, a ben 844 milioni. Le esportazioni di ceramica italiana erano pari a 1 milione di dollari nel 2006 e sono diventate 4 milioni di dollari nel 2011. La quota degli italiani sull’import totale era dello 0,6% nel 2006 ed è arrivata all’1,7% nel 2011.

Giovanni Roncucci, infine, della Roncucci & Partners ha illustrato le evidenze della ricerca effettuata sul mercato brasiliano, nella quale ampio risalto viene dato al mercato delle piastrelle di ceramica, sia del punto di vista dei consumi che delle strategie di marketing.
Nell’indagine si illustrano le strategie di penetrazione nel mercato brasiliano e la potenziale evoluzione del consumo di ceramica nel paese sudamericano.

Vera MORETTI

Diventare imprenditori per battere la crisi

Italiani popolo di santi, poeti e navigatori, ma soprattutto di grandi imprenditori. La spinta al successo e alla crescita della propria azienda sembra non trovare freni nemmeno nella crisi economica che ha mutato spazi e possibilità di azione: gli imprenditori italiani non si danno per vinti. Mai.

E’ quanto emerge dall’indagine di Confesercenti : nel secondo trimestre del 2012, infatti, il saldo fra aperture e chiusure di imprese è risultato positivo per quasi 21mila unità, che portano il numero totale a sfiorare i 6,1 milioni di unità, dopo il forte calo registrato a gennaio 2012. Confesercenti sottolinea come il dato “potrebbe essere anche migliore e, se si considerano le circa 10.000 aziende attualmente inattive cancellate d’ufficio dal Registro delle Imprese, il saldo positivo salirebbe a 31mila“.

L’istantanea che fotografa le imprese italiane sparse lungo tutta la penisola mette a fuoco grosse differenze fra i diversi settori: a registrare le performances migliori sono le aziende impegnate nella fornitura di energia (+884), le attività professionali (+314) e noleggio, agenzie di viaggio e servizi alle imprese (+980). Diverso è il discorso se si guarda al commercio (-4.807 aziende), al turismo (-855) e al settore dell’edilizia (-117), che però in compenso, hanno ridotto le perdite: nei primi tre mesi dell’anno i tre settori avevano, infatti, segnato, rispettivamente, -19.583, -4.712 e -12.104.

Ma veniamo alla penisola. Quali sono le regioni che registrano maggior febbre da imprenditoria?

In pole position troviamo gli abitanti di Lecce, provincia che registra un tasso di crescita di imprese dell’1,15%. Seguono in classifica Foggia (+1,02%), Vibo Valentia e Isernia (+1%) e Firenze (+0,89%). Nelle ultime posizioni Ragusa (+0,14%), Imperia (+0,09%), Arezzo (+0,06%) e Vicenza (-0,03%) e Napoli (-0,20%), unici risultati negativi in Italia. Le città con il maggiore numero di imprese totali, invece sono i tre maggiori capoluoghi di regione: Roma al primo posto (456.000), seguita da Milano (382.000) e da Torino (235.000).

Alessia CASIRAGHI

Piccole imprese per una Milano città olimpica dello sport

 

Un tuffo nelle piccole imprese con le Olimpiadi alle prime battute? A Milano non significa solo appassionarsi alle gare oppure godere di momenti di benessere e relax. Si fa questione di vere imprese…. sì, di business.

Secondo gli ultimi studi, infatti, la città del “panetùn” e del Quadrilatero della moda non è da considerarsi esclusivamente come capitale del glamour: oggi, Milano si erige al titolo di provincia più “olimpica” del Belpaese, quella in cui potersi concedere qualunque tipo di attività ginnica.

Non basta che a Roma e a Torino ci siano due stadi dedicati: sotto il cielo della Madonnina ben 30 persone su 100 si dedicano all’attività fisica, e questo anche grazie alla ricca concentrazione di aziende del settore, più presenti sotto la guglia del Duomo che in ogni altra provincia lombarda.

A riferirlo, con tanto di dati alla mano, è la ricerca condotta dalla Camera di Commercio di Milano che spiega come non sia dunque un caso se le piccole imprese dello sport e del fitness meneghino non abbiano praticamente risentito della crisi economica globale.

Altro che numeri in ribasso. La Camera di Commercio riferisce che le imprese che si occupano di sport sono in crescita del + 4,5%, così come sono ben 15 le nuove aziende ad aver aperto con questo core business negli ultimi mesi.

Piccole realtà imprenditoriali che riescono ad accontentare ogni tipo di richiesta e passione: a Milano sono sempre di più le scuole di nuoto, equitazione, vela, sci, scherma, tennis, pattinaggio, football, danza, arti marziali (di ogni genere e tipo), e persino i corsi per imparare a praticare sport estremi, come paracadutismo, deltaplano, bunjee jumping, free climbing, rafting non mancano.

Il totale? 862 le imprese sportive, suddivise tra 413 impianti sportivi, 424 scuole sportive e 25 imprese miste. Solo Brescia e i suoi abitanti si avvicinano ai numeri record del capoluogo.

Parliamo dunque di una fetta del mercato decisamente importante per l’economia della città: a Milano, infatti, risiedono quasi il 19% delle sedi delle imprese sportive italiane che arrivano ad un totale di 2.834 (ben 63 di queste, poi, sono nate solo negli ultimi sei mesi).

Ma se non ci fosse tempo o ancora peggio “cash” per iscriversi in palestra? Per quello c’è sempre il jogging, ma è tutto un altro affare.

 

Paola PERFETTI

La benzina sale, i benzinai protestano. Ma quali le ragioni?

 

Le file ai distributori di benzina per i maxi sconti del weekend si preparano a diventare l’immagine simbolo di questa estate italiana, soffocata tra crisi, spread, agenzie di rating e poche, pochissime vacanze. Per il prossimo fine settimana, il 4 e 5 agosto, quello in cui si concentrerà molto probabilmente l’esodo vacanziero, i distributori di benzina avevano annunciato una serrata di protesta. 

Protesta revocata in seguito, grazie ad  “accordo raggiunto” tra gestori, governo e aziende petrolifere in un incontro, venerdì scorso, al Ministero dello Sviluppo economico. Anche se il verdetto finale è rimandato al prossimo giovedì, giorno nel quale le parti in causa si incontreranno nuovamente per fare il punto sulle decisione del Decreto Liberalizzazioni.

Ma quali sono le vere ragioni della protesta, sottoscritta dalle maggiori associazioni italiane di categoria, aib-Confesercenti, Fegica-Cisl e Figisc-Anisa Confcommercio?

Infoiva lo ha chiesto a Roberto Di Vincenzo, Presidente di Fegica, per cercare davvero di capire come funziona il mercato del petrolio e quali sono le cause reali della continua giostra dei prezzi del carburante, tra aumenti, sconti e rincari, che grava sulle tasche degli italiani.

Se ne è a lungo parlato sui giornali, ma se dovessimo spiegare in poche parole ai consumatori le ragioni dello sciopero delle pompe di benzina che avevate indetto per il 4 e 5 agosto?
E’ presto detto, evitando inutili tecnicismi. Le compagnie petrolifere intendono approfittare del momento di grave crisi del Paese e di “distrazione” della politica per “regolare i conti” con un’intera categoria che per loro rappresenta un costo e soprattutto l’unico possibile e reale elemento di potenziale concorrenza, se e quando dovessero finalmente tradursi nel concreto i contenuti del recente decreto liberalizzazioni che Governo e Parlamento hanno trasformato in legge. A questo scopo, i petrolieri ricorrono ad ogni mezzo, compreso quello di disattendere e violare apertamente anche le leggi che regolano l’attività del settore, rifiutandosi da anni di rinnovare gli accordi collettivi e tagliando unilateralmente fino al 70% i margini già esigui dei gestori. Mi limito a ricordare che i gestori avrebbero diritto ad un margine che mediamente vale meno di 4 centesimi al litro, vale a dire 1 euro ogni 50 che l’automobilista spende per fare rifornimento: una mancia, insomma.

Nonostante gli avvertimenti del Garante, avete continuato a far valere le vostre ragioni, trovando però una mediazione,  rinunciando in un primo momento, prima della revoca di venerdì, alla serrata del 3 agosto. Perché così tanta resistenza? Quali sono i vostri obiettivi?
Il Garante, lungi dal “bacchettare” i benzinai – come qualcuno ha cercato strumentalmente di far credere – ha tenuto a dire due cose importanti: da una parte, aveva confermato la piena legittimità della proclamazione dello sciopero per sabato 4 e domenica 5; dall’altra, ha spiegato che, nell’ambito delle prerogative della Commissione che prevedono un tentativo di “raffreddamento” delle vertenze, intende convocare i petrolieri e persino arrivare a multarli, se dovesse arrivare alla conclusione che lo sciopero fosse da addebitare alla responsabilità diretta di un loro comportamento fuori delle regole. Una vera rivoluzione rispetto al passato, che restituisce un pizzico di equilibrio rispetto ad un luogo comune , sciopero = disagio, che ormai evita qualsiasi approfondimento circa le ragioni vere e le reali responsabilità che portano a conflitti sociali di tale rilevanza. La pretesa di trasferire forzatamente sulla collettività altri 120.000 disoccupati, come sta cercando di fare l’industria petrolifera italiana, Eni in testa, non può essere accolta senza contrasto. E questo è il nostro primo obiettivo.

Quali sono le conseguenze delle sempre più competitive campagne sconto del weekend sul singolo gestore di una pompa di benzina?
La prima è il taglio, come già detto, del suo margine: le compagnie impongono ai gestori di rinunciare fino al 70% di quanto dovrebbero avere, se non vogliono essere tagliati fuori dalle “promozioni”. La seconda è vedere concentrate le vendite della settimana solo nei weekend: il totale dei volumi venduti continua a contrarsi, a causa della crisi e dei continui rialzi dei prezzi dei carburanti decisi dalle compagnie, ma trasferire le vendite nel fine settimana significa ridurre sensibilmente il ricavo unitario del gestore, a vantaggio delle aziende. La terza è rappresentata dalla sostituzione forzata di chi lavora sull’impianto (ad un costo ridicolo per il “sistema”) con la macchinetta del self: le compagnie, dopo aver alzato i prezzi, dicono di praticare gli “sconti” solo alla macchinetta del self, di fatto costringendo i consumatori a servirsi con quell’unica modalità di vendita e creando le condizioni per mandare a casa i lavoratori. Un effetto che si consoliderà soprattutto a settembre, dopo la fine delle iniziative di sconto.

Quali sono le ripercussioni delle campagne aggressive praticate dalle grande compagnie petrolifere sulle più piccole e le pompe no logo?
Sono volate parole grosse in queste settimane: dumping, comportamento predatorio, abuso di posizione dominante. Tutte accuse -lanciate dalle compagnie più piccole, dai retisti indipendenti e dalle stesse pompe bianche all’Eni- almeno credibili e, con ogni probabilità, fondate. Quando un mercato non è dominato, ma letteralmente governato da un unico soggetto -l’Eni- peraltro controllato dallo Stato, con il quale intrattiene innumerevoli occasioni di “scambio” (compresi i contratti all’estero per ragioni geopolitiche) e che gli garantisce il monopolio di mercati ricchissimi (il gas), queste sono conseguenze da mettere in conto. D’altra parte, finché il “leader del mercato” se la prendeva solo con i gestori o i consumatori alzando continuamente i prezzi, tutti gli altri soggetti hanno largamente beneficiato del “sistema Eni”. Ma quando si accetta supinamente che un sistema si muova non in funzione di regole oggettive e uguali per tutti, ma della “liberalità del principe”, si rischia di avere un pizzico meno di credibilità nel denunciare le storture. In ogni caso, benvenuti ai ritardatari.

Scontoni nel weekend e repentini rialzi dei prezzi del carburante in settimana. E’ un po’ come se gli italiani alla fine ‘pagassero’ il proprio sconto?
E’ la triste verità che abbiamo denunciato – allora da soli, oggi potendo contare su qualche “alleato” in più – fin dalla conferenza stampa di Scaroni di presentazione di “Riparti con Eni”. In realtà, il nostro Paese, la collettività, oltreché ciascun singolo cittadino e consumatore, si è già pagato, in anticipo e in mille modi diversi, molto più del valore degli “sconti” di questi weekend. Solo nei primi 3 mesi di quest’anno, le compagnie hanno rialzato 34 volte consecutivamente i prezzi dei carburanti: una volta ogni tre giorni! Il fatto è che siamo nelle mani di pochi soggetti che controllano indisturbati il rubinetto del prezzo dei carburanti, a cui viene consentito di mettere in fila gli italiani alle macchinette del self nei fine settimana -come se stessimo in tempo di guerra, con la tessera del razionamento del pane in mano- facendogli credere di dare loro un vantaggio. Ma la verità è che, se fosse applicato quello che nel decreto liberalizzazioni è solo appena abbozzato, vale a dire se fosse data ai gestori la possibilità di svincolarsi dalle compagnie e di rifornirsi sul libero mercato, gli automobilisti avrebbero immediatamente, su tutti gli impianti, anche sotto casa, tutti i giorni e senza rinunciare al servizio e all’assistenza, un prezzo stabilmente più basso di almeno 10 centesimi.

Esiste un tetto massimo al rialzo dei prezzi del carburante? Lo Stato come interviene in tal senso?
Il regime di “libero mercato” non consente l’imposizione di un tetto massimo alla fissazione dei prezzi. E quindi lo Stato non ha alcuno strumento di intervento diretto sul fenomeno. Può (e dovrebbe) dotare il sistema di regole certe che consentano di ottenere un mercato meno ingessato dalla prepotenza di pochi soggetti e quindi maggiore concorrenza, efficienza e prezzi più contenuti. Ad ogni modo, la nostra categoria, fin dal 2002, ha ottenuti accordi (gli stessi che le compagnie petrolifere non voglio rispettare e rinnovare) che impongono negozialmente un prezzo massimo di rivendita al pubblico. Un esempio virtuoso di contrattazione a cui non è stato dato particolare rilievo dall’informazione e che perciò viene ora aggirato dai petrolieri senza nessuno scandalo.

Veniamo alla questione dei “platts”, quotazione fissata virtualmente dalle agenzie internazionali di rating. Quanto incide sul prezzo finale del carburante?
Al 16 luglio scorso la famigerata quotazione platts, cioè il valore convenzionale dei carburanti finiti, era 0,601 euro al litro per la benzina -il 34,20% sul prezzo medio al pubblico- , e a quota 0,650 euro al litro per il gasolio  -il 39,44% sul prezzo medio al pubblico. Come si evince, se non ci fossero imposizioni fiscali sensibilmente differenti per ragioni politiche, la benzina costerebbe molto meno del gasolio. Ciò detto, però, quel che agli italiani andrebbe detto è che dietro la quotazione platts viene impunemente nascosta la vera e ingentissima rendita dei petrolieri. Mentre la rivista Forbes inserisce ben 8 compagnie petrolifere tra le 10 aziende più ricche del mondo, i petrolieri nostrani denunciano margini industriali da fame e ridicoli: il 5,06% sul prezzo della benzina e addirittura il 3,76% sul gasolio. Ci si può credere? La verità è che i loro veri margini sono proprio dentro la quotazione platts che fissano “virtualmente” loro stessi (sono tutti soci della rivista del gruppo Standard&Poors che fissa la quotazione) e che non un solo litro di carburante viene “scambiato” al prezzo platts. D’altra parte, è assolutamente incontrovertibile che, ancora oggi, il costo (tutto compreso) di estrazione del greggio varia tra i 2 e i 10 dollari al massimo al barile, mentre la quotazione sui mercati internazionali è stabilmente sopra i 100 dollari: nelle tasche di chi va la differenza?

Accise e Iva quanto pesano sul prezzo finale del carburante? Cosa potrebbe fare lo Stato Italiano per andare incontro ai consumatori?
Sempre al 16 luglio, le tasse pesano il 58,57% sul prezzo della benzina ed il 54,56% su quello del gasolio. Non c’è dubbio che sia una imposizione pesantissima e particolarmente odiosa perché pesa indiscriminatamente su tutti i cittadini, indipendentemente dal loro reddito, e perché incide su un bene divenuto ormai essenziale alla vita quo diana di ciascuno. Allo stesso modo, va rilevato che questa imposizione concorre a “finanziare” una parte consistente della cosiddetta “spesa pubblica corrente” e che, se non fosse caricata sui carburanti, la collettività se la vedrebbe trasferita altrove. Fatte queste premesse, quel che appare davvero iniquo è che il Governo italiano, qualunque Governo, non trovi di meglio da fare che aumentare le accise dei carburanti, ogni qual volta abbia la necessità di “fare cassa”. Adoperare un intero settore produttivo e un prodotto essenziale come i carburanti alla stessa stregua di un bancomat, non è serio, oltreché profondamente ingiusto. Anche perché -nell’indifferenza della politica e nonostante lo “scontone”- i consumi continuano a far registrare un -8% abbondante nel primo semestre dell’anno.

La percezione è che ci sia una gran confusione tra i consumatori nel distinguere fra benzinai, petrolieri e compagnie petrolifere. Se volessimo fare un po’ di chiarezza?
Non c’è dubbio che, per tanto tempo, nella percezione comune si è fatto fatica a separare la “posizione” dei gestori da quella delle compagnie petrolifere. Un po’ come se si potesse ritenere che un banchiere e un bancario abbiano il medesimo grado di interesse nell’affare della banca. Una confusione di ruoli che comunque ha consentito proprio alle compagnie di defilarsi e di dissimulare le proprie responsabilità. Per un automobilista, del prezzo alto dei carburanti, è senz’altro più semplice incolpare il benzinaio che sembra sfilargli direttamente i soldi dal portafoglio. Oggi le cose sono un po’ diverse, c’è maggiore consapevolezza e affiora non raramente un certo spirito solidale tra consumatore e gestore, accumunati da uno stesso destino: essere vittima della lobby potente del petrolio.

Alessia CASIRAGHI

Cgia di Mestre: la burocrazia è una ‘tassa occulta’ che grava sempre più

Le piccole e medie imprese sono soffocate dalla burocrazia, una ‘tassa occulta’ che costa al sistema delle Pmi 26,5 miliardi di euro e che pesa su ciascuna azienda 6.000 euro l’anno. Un vero e proprio fardello, insomma. Rispetto a poco più di un anno fa questa ‘tassa occulta’ è aumentata di 3,4 miliardi di euro (+14,7%). Sono questi i drammatici risultati a cui è giunta la Cgia di Mestre che, grazie al lavoro del suo Ufficio studi, ha analizzato il costo della burocrazia che incombe sul mondo delle Pmi italiane, imprese con meno di 250 addetti. I costi sono stati calcolati dalla Cgia su base annua e sono aggiornati al mese di maggio del 2012.

Analizzando i dati della ricerca della Cgia in dettaglio, emerge che il settore che incide di più sui bilanci delle Pmi è quello del lavoro e della previdenza: la tenuta dei libri paga; le comunicazioni legate alle assunzioni o alle cessazioni di lavoro; le denunce mensili dei dati retributivi e contributivi; l’ammontare delle retribuzioni e delle autoliquidazioni costano al sistema delle Pmi complessivamente 9,9 miliardi all’anno (6,9 miliardi in capo al lavoro, 3 miliardi riconducibili alla previdenza e all’assistenza).

La sicurezza nei luoghi di lavoro, rileva ancora la Cgia di Mestre, pesa sul sistema imprenditoriale per un importo complessivo pari a 4,6 miliardi di euro. La valutazione dei rischi, il piano operativo di sicurezza, la formazione obbligatoria del titolare e dei dipendenti sono solo alcune delle voci che compongono i costi di questo settore.

L’area ambientale, invece, pesa sul sistema delle pmi per 3,4 miliardi di euro l’anno. Le autorizzazioni per lo scarico delle acque reflue, la documentazione per l’impatto acustico, la tenuta dei registri dei rifiuti e le autorizzazioni per le emissioni in atmosfera sono le voci che determinano la gran parte degli oneri di questa sezione.

Di rispetto anche il costo amministrativo che le aziende devono ‘sopportare’ per far fronte agli adempimenti in materia fiscale. Le dichiarazioni dei sostituti di imposta, le comunicazioni periodiche ed annuali Iva, etc, costano complessivamente 2,7 mld di euro. Gli altri settori che incidono sui costi amministrativi delle pmi sono la privacy (2,6 mld di euro), la prevenzione incendi (1,4 mld di euro), gli appalti (1,2 mld di euro) e la tutela del paesaggio e dei beni culturali (0,6 miliardi di euro).

Unioncamere Sicilia: “Possiamo farcela, ma non c’è più tempo da perdere”

di Davide PASSONI

Al di là dei luoghi comuni, delle sparate del governatore della Sicilia Raffaele Lombardo, dei giudizi mortali delle agenzie di rating, c’è un’economia fatta di persone, aziende, professionisti, che in Sicilia lotta tutti i giorni per ribattere ai colpi della crisi. Infoiva vuole andare lì, a sentire quelle voci, le voci di chi, più che al default, guarda ai conti della propria impresa. Perché Infoiva vuole capire. E raccontare. Dopo Cna Sicilia, Confesercenti Sicilia e Confcommercio Sicilia, oggi parla con noi il presidente di Unioncamere Sicilia, Giuseppe Pace.

Come vive Unioncamere Sicilia questo paventato allarme default per la regione?
L’attenzione sulla crisi economica è molto alta, ancor di più se a rischiare il crac è la Regione che rappresenta di certo il più importante datore di lavoro della Sicilia. Le conseguenze di un default sarebbero disastrose per la nostra economia, soprattutto perché l’Isola ha ancora tante potenzialità da esprimere e per farlo ha bisogno di istituzioni solidi che promuovano lo sviluppo.

Secondo lei si tratta di allarmismi veri o ingiustificati?
A dirlo saranno i numeri. Naturalmente mi auguro che si tratti di allarmismi ingiustificati, anche se aver provato la paura del rischio default potrebbe aiutare la Sicilia ad essere più cauta e ad ottimizzare spese e investimenti, evitando così che in futuro giornali nazionali e stranieri scrivano della nostra regione in termini negativi.

Qual è l’umore tra i vostri associati, sul territorio? Prevale la preoccupazione o la voglia di reagire?
Entrambe. La preoccupazione c’è. Da un sondaggio condotto da Unioncamere Sicilia, emerge che il clima di incertezza e la crisi diffusa spinge gli imprenditori ad essere prudenti. Molti di loro temono un calo del fatturato e per questo sono prudenti nel fare nuovi investimenti. C’è da segnalare, però, che nell’ultimo trimestre, da aprile a giugno, il numero di iscrizioni al registro delle Camere di commercio siciliane è stato superiore a quello delle cessazioni, con un saldo positivo di oltre 2.000 unità (8.583 iscrizioni e 6.476 cessazioni). Un piccolo segnale positivo che dimostra che c’è ancora voglia di fare impresa.

Fanno più paura gli allarmi sulla tenuta dei conti o la crisi “vera”, quella che morde mezza Europa?
Credo che i fatti contino più delle parole. Ad ogni modo, accendere la tv e sentire parlare di crisi, cassa integrazione, spread e borse che chiudono in negativo non fa bene all’umore di nessuno.

Fiscalità, incentivi, sgravi: con quali misure lo Stato può aiutare le piccole imprese siciliane e “respirare”?
Fiscalità di vantaggio per le aree socio-economicamente svantaggiate. Ma anche potenziare il sistema dei trasporti, dall’asse viario a quello ferroviario, passando per porti e aeroporti. Inoltre, le imprese del Sud hanno bisogno di incentivi per l’innovazione. Senza peccare di presunzione, infine, ritengo che la Sicilia sia tra le più belle – se non la più bella – regioni d’Italia. In quanto tale dovrebbe essere valorizzata e fatta conoscere all’estero. Abbiamo mare, cultura, natura, buon cibo e l’arte dell’accoglienza. Bisognerebbe provare a “vendere” questo patrimonio e il nostro guadagno sarebbe in turismo. Seppur con i suoi problemi, la Spagna – che non è un paese tanto diverso dall’Italia – lo ha fatto e sono certo che lì, crisi o default, i turisti continueranno ad arrivare.

Al di là del default o meno, pensa che la regione abbia i mezzi per risollevarsi da sola dalle secche in cui è finita?
I mezzi, le potenzialità e le intelligenze in Sicilia non mancano. Di sicuro non c’è più tempo da perdere. Per esempio si potrebbe accelerare la spesa dei fondi europei.

La Sicilia ha la classe politica che si merita? Secondo noi no, secondo lei?
È il popolo a scegliere i propri amministratori e questa decisione va rispettata sempre e comunque.