Contributi a fondo perduto al commercio al dettaglio: quanto spetta ai negozi?

Aiuti alle imprese del commercio per il caro prezzi dell’energia e per le perdite dovute alla pandemia da Covid arrivano con i contributi a fondo perduto dei negozi al dettaglio e degli ambulanti. La misura assicurerà benefici per 200 milioni di euro nel 2022. Tra i beneficiari figurano, tra gli altri, i venditori, gli ambulanti, i negozi di abbigliamento e di calzature. È necessario aver subito una perdita del fatturato di almeno il 30% rispetto al 2019.

Contributi a fondo perduto per attività al dettaglio, quali negozi possono beneficiarne?

Per i contributi a fondo perduto alle attività commerciali al dettaglio si va dai negozi che vendono prodotti per utilizzo domestico agli articoli ricreativi e culturali, passando per l’abbigliamento e le calzature. Ma sono inclusi anche il commercio al dettaglio di orologi, di gioielli e di cosmetici. I contributi a fondo perduto sono previsti dall’articolo 2 del decreto legge numero 4 del 2022, cosiddetto “Sostegni ter”. Le attività beneficiarie devono essere identificate tramite specifici codici Ateco.

Contributi a fondo perduto negozi: come calcolare le perdite di fatturato del 2021 rispetto al 2019

La legge di conversione del decreto “Sostegni ter” ha apportato qualche modifica, soprattutto di tipo formale. Le attività beneficiarie dei contributi a fondo perduto della vendita al dettaglio devono aver raggiunto ricavi nel 2019 non eccedenti i due milioni di euro. La riduzione dei guadagni deve essere, invece, maggiore del 30% rispetto al 2019. Per la determinazione della riduzione dei fatturati è necessario far riferimento al comma 1, lettere a) e b) dell’articolo 85, del Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir). Gli anni da rapportare sono il 2021 rispetto al 2019.

Calcolo di quanto spetta come contributo per le attività commerciali al dettaglio e ambulanti

La determinazione del contributo a fondo perduto spettante per le attività di vendita al dettaglio e per gli ambulanti passa per tre fasce di ricavi e di perdite. Lo prevede il decreto che determina il contributo spettante in base a una percentuale variabile che scaturisce dalla differenza tra il totale dei ricavi medi mensili del periodo di imposta 2021 e il totale dei ricavi medi mensili riferiti al periodo 2019.

Le tre fasce per determinare i contributi a fondo perduto delle attività commerciali al dettaglio

Sulla base della percentuale variabile dei contributi a fondo perduto spettanti alle attività commerciali al dettaglio, sono state determinate le tre fasce del:

  • 60% della perdita per le attività che nel 2019 non hanno superato i 400 mila euro di ricavi;
  • 50% per le attività che nel 2019 hanno prodotto ricavi tra i 400 mila euro e un milione di euro;
  • 40% per le attività che nel 2019 hanno prodotto ricavi tra uno e due milioni di euro.

Negozi di commercio al dettaglio e ambulanti, come presentare domanda per i contributi a fondo perduto?

Per la presentazione delle domande dei contributi a fondo perduto a favore delle attività e dei negozi al dettaglio, inclusi gli ambulanti, è necessario attendere il provvedimento in uscita del ministero per lo Sviluppo Economico (Mise). Il decreto ministeriale fisserà le modalità di erogazione dei contributi e gli altri parametri occorrenti per beneficiare degli aiuti. In ogni caso, la domanda dovrà essere presentata on line sul sito del Mise.

Requisiti per la presentazione delle domande dei contributi a fondo perduto per il commercio al dettaglio

Ai fini della presentazione delle domande dei contributi a fondo perduto per le attività commerciali al dettaglio e per gli ambulanti è necessario che l’impresa richiedente:

  • abbia sede legale oppure operativa in Italia;
  • risulti costituita, iscritta e attiva nel Registro delle imprese;
  • non sia incorsa in procedure di liquidazione volontaria, concorsuali e non sia già in difficoltà al 31 dicembre 2019, oltre a non avere sanzioni interdittive.

 

Sottrazioni dati aziendali, cosa rischia il dipendente?

E’ lecito sottrarre dati aziendali, se si è dipendenti con accesso ai computer dell’azienda? Cosa si può rischiare in caso di illecito? Queste sono le principali domande a cui daremo risposta in questa rapida guida.

Dati aziendali: sottrarli è reato?

Spesso si ha accesso ai computer aziendali, per poter lavorare, ma questo non rende lecito poter immagazzinare i dati in essi presenti.

La sottrazione di dati aziendali da parte del dipendente è, pertanto considerato, un reato ed a dichiararlo a gran voce è stata diverse volte la giurisprudenza della Cassazione.

Infatti, una recente sentenza della Corte Suprema si è occupata di un caso simile. Nello specifico, un dirigente con mansioni di direttore commerciale, dopo aver dato le dimissioni, aveva restituito il pc aziendale, non prima di aver asportato e poi cancellato il relativo contenuto: ovvero dati lavorativi contenenti e-mail e numeri di telefono dei clienti, informazioni su prodotti e metodi di produzione.

La società datrice, con un intervento tecnico sull’hard disk del pc, aveva recuperato taluni dati cancellati, tra cui una password personale del dirigente, attraverso la quale aveva potuto poi accedere a messaggi privati del dirigente stesso. Da tale corrispondenza aveva scoperto che quest’ultimo si era appropriato di informazioni riservate contenute nel pc aziendale, per metterle in divulgazione all’esterno. L’ex dipendente ha così dovuto affrontare un lungo processo per difendersi da una domanda di risarcimento danni. 

Cosa rischia il dipendente?

Ma, quindi, appurato che non è lecito immagazzinare dati riservati dai computer aziendali, cosa va a rischiare il dipendente che cade in tentazione e commette tale reato?

Possiamo anche qui ricorrere alla Cassazione.

Difatto, a causa di un precedente, la Cassazione ha stabilito che il dipendente che scarica dei dati contenuti nel pc aziendale, anche se esso è in sua dotazione, e se ne appropri per ottenerne un vantaggio personale commette il reato di appropriazione indebita. 

A parte questo, il dipendente che sia legato da un patto di non concorrenza potrebbe essere citato per il risarcimento del danno conseguente a questo specifico utilizzo qualora finalizzato a costruire una propria rete di clientela. Nel caso in cui il rapporto di lavoro invece è ancora in essere, il divieto di concorrenza non necessita neanche dell’esistenza del patto di non concorrenza e si va ad incorrere nel licenziamento per giusta causa.

Come avere le prove del reato?

Ovviamente, ci resta da chiedere come riesca l’azienda di lavoro a comprendere che c’è stata la cancellazione o il download dei dati dal pc aziendale?

Sempre, secondo la Cassazione, l’azienda per provare la condotta può produrre documenti personali, ad esempio le e-mail e i messaggi recuperati dallo stesso pc in uso al dipendente. Non si tratta di dati coperti da privacy. Si tratta però di controlli difensivi sempre ammessi. Senza considerare che il Jobs Act, ovvero la riforma dello Statuto dei Lavoratori attuata nel 2015, consente al datore di controllare gli strumenti aziendali dati in uso ai dipendenti (come ad esempio tablet, pc, telefoni) a patto che gli stessi ne siano stati informati.

L’informativa non è invece necessaria, nel caso di controlli difensivi, cioè quando l’azienda, avendo dei fondati sospetti di irregolarità della condotta del proprio dipendente, debba procurarsi le prove dell’illecito.

Questo è quanto vi fosse, dunque di più utile ed esaustivo da sapere in merito alla questione annosa che potrebbe, talvolta vedere dipendenti poco disciplinati nel sottrarre dati sensibili alla propria azienda. Una cosa che, dunque, è bene non fare.

 

Superamento periodo di comporto, la malattia può essere sostituita con le ferie?

Quando la malattia può essere sostituita con le ferie? In questa rapida guida andremo a dare risposta a questa domanda e scoprire quali sono i limiti del superamento del periodo di comporto per un lavoratore.

Periodo di comporto, cosa vuol dire

Innanzitutto partiamo con il chiarire l’uso del termine tecnico con la definizione “periodo di comporto”.

Il periodo di comporto  non è altro che il periodo massimo di assenze per malattia che un lavoratore dipendente può fare senza correre rischi. La durata massima di assenza per malattia consentita, questo è il periodo cosiddetto di comporto, superato il quale, il lavoratore subordinato può rischiare il licenziamento.

Andiamo, nei paragrafi successivi a saperne di più sulla questione inerente alla sostituzione di tale periodo con le più canoniche ferie.

Ferie e periodo di comporto: si possono sostituire?

Diciamo subito che il periodo di malattia può essere sostituito. Infatti, per evitare rischi di licenziamento per superamento del periodo di comporto, il lavoratore può chiedere la sostituzione della malattia con le ferie. Tale facoltà è tranquillamente riconosciutagli ormai unanimemente dalla giurisprudenza.

In questa modalità cambierà il conteggio di lontananza dal lavoro del lavoratore.

Va precisato, comunque che spetta al lavoratore presentare la richiesta di ferie, non potendo rimettersi all’iniziativa dell’azienda. Pertanto, se questi si limita a inviare i certificati di malattia senza soluzione di continuità e anche senza chiedere il cambiamento del titolo dell’assenza, dimostrando di voler proseguire lo stato di malattia, allora il licenziamento per superamento del periodo di comporto è decisamente più che legittimo.

Cosa avviene se la malattia è data da un infortunio sul lavoro?

Altra questione scatta nel caso in cui il dipendente finisse ammalato, quindi lontano dal lavoro per infortunio sul posto di lavoro.

Infatti, nel caso in cui la malattia sia stata determinata da un infortunio sul lavoro causato dalla mancata predisposizione, da parte del datore, delle misure di sicurezza, non opera più il comporto e l’assenza non è soggetta a limiti di tempo.

Quindi durante tutto il periodo della malattia, della convalescenza (che non è più periodo di comporto) qualunque sia la sua durata, il lavoratore conserva il diritto al posto di lavoro e non può essere assolutamente licenziato. Anzi, riceverà anche indennizzi assicurativi spettanti.

Si può licenziare un dipendente in malattia?

Una questione molto annosa è legata alla possibilità di licenziare un lavoratore che è in periodo di malattia.

La risposta basica è che non è possibile licenziare un dipendente in malattia a causa della sua assenza. E’ invece possibile farlo però per comportamenti che nulla hanno a che vedere con la patologia certificata dal medico. Per motivi gravi preposti, insomma nel periodo antecedente alla malattia o qualora si stia mettendo in atto una falsa malattia. O, ad esempio perché si comporta in modo da ostacolare la rapida convalescenza (si pensi al dipendente che, nonostante l’influenza, esce di casa o fa sport). 

Di norma, il licenziamento del lavoratore malato non può essere intimato quando l’assenza non supera i limiti di durata fissati nel contratto collettivo. È in questo caso che si definisce periodo di comporto durante il quale il lavoratore ha sacrosanto diritto alla conservazione del posto di lavoro. 

Alla scadenza del periodo di comporto, il datore di lavoro è libero di licenziare il dipendente senza dover fornire una giustificazione o di riammetterlo in azienda al fine di verificare se residua ancora un’utilità nelle sue mansioni. Ovviamente, qualora sussistano motivi seri per cui procedere.

Questo è quanto vi fosse, dunque, di più utile e necessario da sapere e approfondire in merito alla situazione di un lavoratore che si ritrova in malattia e, quindi, a sfruttare il proprio periodo di comporto sul posto di lavoro.

Come si calcola la durata del periodo di comporto?

Oggi andremo ad addentrarci nell’ambito del lavoro, della malattia sul lavoro e quindi a scoprire come si calcola la durata del cosiddetto periodo di comporto.

Periodo di comporto, cosa vuol dire

In un periodo in cui il paese intero è nel pieno di una (rallentata) ripartenza e di un atteso ritorno alla (insperata) normalità, ma soprattutto in cui molti lavoratori sono sospesi ed altri sono volontariamente messisi in malattia, per non aderire all’obbligo di green pass, molti si interrogano su come calcolare il proprio periodo di comporto. Per coloro che hanno ancora un lavoro, al tempo d’oggi, si intende.

Innanzitutto, per iniziare ad avvicinarsi al ragionamento del calcolo, occorre sapere cosa vuol dire il termine periodo di comporto.

In breve possiamo dire che il periodo di comporto non è altro che il periodo massimo di assenze per malattia che un lavoratore dipendente può fare senza correre rischi. La durata massimadi assenza per malattia consentita, questo è il periodo cosiddetto di comporto, una volta superato il quale, il lavoratore subordinato può rischiare il licenziamento.
Ma, come si calcola, dunque tale limite massimo di periodo di comporto? Scopriamolo nei prossimi passi di questa rapida guida in merito.

Periodo di comporto, come calcolare la durata

Andiamo, dunque, nello specifico a scoprire come si calcola la durata massima del proprio periodo di comporto sul posto di lavoro. E, quindi a scoprire come si deve evitare di mettersi in pericolose possibilità di perdere il proprio posto di lavoro.
Possiamo dire che al fine del calcolo del periodo di comporto occorre tener conto anche dei giorni non lavorativi che cadono nel periodo di assenza per malattia, dovendosi presumere la continuità dell’episodio morboso e la presunzione di continuità opera sia per le festività ed i giorni non lavorativi che cadano nel periodo della certificazione, sia nella differente ipotesi di certificati in sequenza, di cui il primo attesti la malattia fino al tempo dell’ultimo giorno lavorativo che va a precedere il riposo domenicale (quindi fino al venerdì) ed il secondo la certifichi a partire dal primo giorno lavorativo successivo alla domenica (ovvero dal lunedì).
Per concludere il discorso, va aggiunto che la base annua cui va rapportato il periodo di comporto si identifica nell’anno solare e cioè dei 365 giorni decorrenti dal primo episodio morboso, dall’inizio della malattia, se continuativa, ovvero, a ritroso, dalla data del licenziamento. In sostanza, nel calcolo dei giorni ai fini del superamento del periodo di comporto la decorrenza non va fatta a partire dall’inizio della malattia, bensì dall’ultimo evento morboso, ovvero dal licenziamento.
Per dirla con un esempio ancora più pratico e tangibile, possiamo dire che il periodo di comporto può essere calcolato prendendo a riferimento un arco temporale pari sia all’ anno di calendario solare, quindi dal 1° gennaio al 31 dicembre sia come anno continuativo, da intendersi come un periodo di 365 giorni decorrenti dal primo evento di malattia.
Questo è quanto vi fosse, dunque, di più necessario e utile da sapere in merito al calcolo del periodo di comporto, alla possibilità di perdurare della malattia e/o dell’inattività dal proprio posto di lavoro, in un periodo sempre più incerto per il mondo del lavoro, oltre che per la salute pubblica.

Calcolo periodo di comporto: come funziona per festivi, giorni non lavorativi e non lavorati?

Il periodo di comporto nel mondo del lavoro è spesso motivo di polemica, di curiosità o di preoccupazione, per il calcolo della sua funzionalità. In questa rapida guida scopriremo come funziona il calcolo in merito ai giorni festivi, giorni non lavorativi e giorni non lavorati.

Periodo di comporto, cosa è e come si calcola

Il periodo di comporto non è altro che il tempo debito per la malattia del dipendente, insomma il periodo in cui il lavoratore è in pausa dal lavoro.

La breve premessa era doverosa, datosi che genericamente viene semplificato come “periodo di malattia”, ed è quella durata di tempo massimo che è consentita preventivamente, già in accordo tra titolare e dipendente e che non può essere superato. Ad esempio, il canonico tetto massimo di 180 giorni di malattia, che talvolta sono di meno. Da non confondere con i canonici 15/25 giorni di ferie in base al proprio lavoro.

Ma come si calcola e come funziona per i festivi e differenziandolo tra giorni non lavorativi e quelli non lavorati, lo scopriamo nei prossimi passaggi della nostra guida.

Come funziona il periodo di comporto per festivi

Innanzitutto, cosa si intende per giorni festivi. In pochi ancora non lo sanno.

Ovviamente, quando si parla di giorni festivi si fa espressamente riferimento a giorni in cui non si lavora, da calendario. Quindi le domeniche (a meno che non siate un’attività di beni primari, come farmacie o bar e ristoranti, per intenderci) e quelle date segnate in rosso sul calendario, come il primo gennaio e il 25 dicembre, per esempio.

In tal senso si parla, quindi, di giorni non lavorativi, nei quali appunto non si può e non si dovrebbe lavorare, da previsione di legislatura.

Nel caso dei giorni non lavorati, invece il riferimento è ai giorni in cui non ha lavorato il dipendente, ma nei quali avrebbe dovuto lavorare. E, quindi, a meno che non abbia usufruiti delle ferie, gli verrà decurtato dalla busta paga.

Ad esempio, in caso di paga mensile, è spesso presente la riga “Ore non lavorate” che ha lo scopo di decurtare dall’importo della paga mensile, indicata alla voce “Ore ordinarie”, le ore in cui il lavoratore é stato assente a causa di festività, maternità, ferie, congedo matrimoniale, malattia e infortunio.

Come si calcola il comporto in tali casi, distinguendo tra giorni festivi, non lavorativi e giorni non lavorati

Quindi, veniamo alla domanda cruciale della nostra guida, ovvero come calcolare il comporto tra festivi, giorni non lavorativi e non lavorati.

In sintesi, possiamo dire che al fine del calcolo del comporto occorre tener conto anche dei giorni non lavorativi cadenti nel periodo di assenza per malattia, dovendosi presumere la continuità dell’episodio morboso e la presunzione di continuità va ad operare sia per le festività ed i giorni non lavorativi che cadano nel periodo della certificazione, sia nella diversa ipotesi di certificati in sequenza di cui il primo attesti la malattia sino all’ultimo giorno lavorativo che precede il riposo domenicale (ossia fino al venerdì) ed il secondo la certifichi a partire dal primo giorno lavorativo successivo alla domenica (ovvero dal lunedì).

Ciò significa, per dirla in breve, che è necessario rientrare al lavoro non appena termina la malattia indicata sul certificato e che non è possibile prorogarla anche ai giorni festivi come il sabato e la domenica: l’interruzione della malattia utile ai fini del comporto si ha dal giorno in cui il lavoratore riprende concretamente servizio

Quanto letto fin qui era, dunque, quanto di più utile, esaustivo e necessario da appurare e scoprire in merito alla questione del calcolo del comporto, tenendo in considerazione il distinguo per i giorni festivi, con quelli non lavorativi e quelli effettivamente non lavorati dal dipendente, per eventuali casi di malattia.

Malattia dipendente e periodo di comporto: come si interrompe con le ferie?

Oggi andremo a scandagliare quella fase di inattività lavorativa, dovuta alla malattia del dipendente, per scoprire come separare le ferie dal comporto quando il lavoratore si ritrova a condividere lo stesso periodo di inattività.

Periodo di comporto, di cosa si tratta

Quando si parla di periodo di comporto ci si riferisce al periodo di tempo massimo concesso al dipendente in malattia per non essere licenziato. Si tratta in sostanza di quel numero massimo dei giorni di assenza accettati prima che possa scattare il licenziamento del dipendente.

Se non viene superato questo tempo limite non si potrà essere licenziati, anche se le assenze del dipendente sono state a macchia di leopardo (come per esempio, un giorno si e due no). Naturalmente, a patto che la malattia sia realmente esistente, ed il dipendente si faccia trovare alle visite fiscali e non ritardi la guarigione con comportamenti colpevoli.

Fatte le dovute eccezioni, ed ulteriori disposizioni in particolari contratti di lavoro, la legge regolamenta la durata del comporto solo per gli impiegati, differenziandola in relazione all’anzianità di servizio del lavoratore

  • 3 mesi, quando l’anzianità di servizio non supera i dieci anni;
  • 6 mesi, quando l’anzianità di servizio supera i dieci anni.

Comporto e ferie, come si interrompe?

La domanda più frequente è se si possono collegare le ferie alla malattia, quindi i giorni di ferie a quelli del comporto.

Secondo la sentenza della Cassazione, la risposta è sì. Difatti il datore di lavoro non può impedire al dipendente di interrompere la malattia con le ferie. 

Ciò va a significare, in termini pratici e sintetici, che il periodo di comporto può essere interrotto dalla richiesta del lavoratore di godere delle ferie già maturate. Quindi, la richiesta dovrà essere scritta, con indicato il momento dal quale si intende convertire l’assenza per malattia in assenza per ferie, ed essere presentata tempestivamente, prima che scada il periodo di comporto.

Avvenuto ciò, il datore di lavoro dovrà tenere in considerazione l’interesse del lavoratore al posto di lavoro, ma non avrà l’obbligo di convertire d’ufficio l’assenza per malattia in ferie. In altre parole, si può ben dire che non è previsto l’automatico prolungamento del periodo di comporto per un tempo corrispondente ai giorni di ferie non goduti se il dipendente non fa una esplicita richiesta e questa non viene accolta. Tuttavia, il rigetto deve essere adeguatamente motivato, cosa non sempre facile per il datore di lavoro.

Ma come si calcolano i giorni di malattia? E cosa accade se si superano?

Premesso che si abbiano 180 giorni di malattia, quindi i tre mesi citati poco sopra, con una anzianità bassa, vediamo come si calcolano.

Il calcolo avviene partendo dal primo giorno di inizio di malattia o comunque cumulando nell’anno solare i periodi di malattia inferiori a 180 giorni. Ai fini del calcolo per la determinazione del periodo di comporto, per anno solare si intende un periodo di 365 giorni partendo a ritroso dell’ultimo evento morboso. Quindi, il calcolo dal primo all’ultimo giorno in cui il dipendente si è dichiarato ammalato (e assente sul lavoro) nell’arco dei 365 giorni dal primo giorno di assenza.

Ma cosa accade, col rischio licenziamento, quando si supera il limite di comporto?

Ecco, tenendo conto dell’alto rischio di licenziamento, la certezza è che scatta l’aspettativa non retribuita.

L’aspettativa non retribuita, detta anche comunemente congedo, non è altro che un periodo di sospensione del rapporto di lavoro durante il quale il datore di lavoro è esonerato dal versamento della retribuzione al dipendente e quest’ultimo non deve recarsi al lavoro. Un periodo in cui il datore può quasi certamente passare alla fase successiva del licenziamento del lavoratore.

Questo, dunque, è quanto di più utile e necessario vi fosse da sapere in merito alla questione del periodo di comporto per un dipendente che si mette in malattia

 

UNILAV: cos’è e a cosa serve questo modello INPS

Unilav è un modello che permette di trasmettere le informazioni di tipo lavorativo. Di seguito quando utilizzarlo e come richiederlo.

Unilav: cos’è questo modello?

Unilav è l’abbreviazione della denominazione completa Comunicazione Obbligatoria Unificato Lav. Il modello Unilav è stato introdotto attraverso il decreto ministeriale del 30 ottobre 2007. Attraverso questo modello il datore di lavoro, o tramite un suo intermediario, assolvono l’obbligo di comunicare alcune informazioni. Riguardano il rapporto di lavoro e possono essere così riassunte:

  • instaurazione di un rapporto di lavoro;
  • proroga di un rapporto di lavoro;
  • distacco;
  • trasformazione di un tipo di contratto di lavoro;
  • cessazione del rapporto di lavoro;
  • trasferimento del lavoratore.

Sono obbligati all’utilizzo del modello non solo i datori di lavoro privati, ma anche tutti gli altri enti e la pubblica amministrazione.

Unilav: come si compone e come si usa

L’Unilav è composto da ben otto sezioni, che vengono chiamati quadri. Tuttavia il quadro decisamente più importante è il primo, proprio perchè al suo interno vi sono indicati i dati del rapporto di lavoro:

  • la data di inizio;
  • la data di fine rapporto (per tutti i contratti diversi da quelli a tempo indeterminato);
  • la tipologia contrattuale;
  • l’orario di lavoro;
  • il contratto collettivo applicato;
  • la retribuzione;
  • l’ente previdenziale al quale vengono versati i contributi previdenziali e a cui deve essere trasferita la comunicazione

Pertanto nella prima sezione occorre inserire i dati relativi sia al datore di lavoro che quelli del lavoratore. Per dati si intende denominazione completa, indirizzo, sede legale, partita IVA, codice Ateco di riferimento e recapiti sia telefonici che pec. Mentre per quanto riguarda il lavoratore si ci riferisce ai dati personali: Cognome, nome, codice fiscale, luogo e data di nascita, domicilio e livello di istruzione.

Come ottenere il modello Unilav

Il modello Unilav è telematico. A presentarlo presso il Centro dell’impiego è il datore di lavoro, anche tramite un terzo soggetto da lui incaricato. E si presenta tutte le volte in cui vi è una nuova assunzione, la cessazione di un rapporto di lavoro già esistente o per qualsiasi altra trasformazione dello stesso. Il modello Unilav è disponibile online. E’ possibile scaricarlo e compilarlo direttamente sul sito della Regione in cui avrà luogo il rapporto di lavoro. Una volta inseriti i dati necessari sarà prodotto un file in formato XML, che dovrà essere ricaricato direttamente sul sito. Il modello Unilav viene utilizzato per molti tipi di contratto, tra cui:

  • rapporto di lavoro dipendente, espressi in qualsiasi forma;
  • tirocinio;
  • Co.co.co.;
  • contratti a domicilio;
  • lavoro socialmente utile;
  • lavoro d’agenzia;
  • autonomi dello spettacolo.

Quando inviare le comunicazioni al centro dell’Impiego?

Le assunzioni devono essere comunicate entro le 24 ore del giorno che precede l’inizio del rapporto lavorativo. Mentre in caso di cessazione la comunicazione deve essere fatta entro 5 giorni dal giorno in cui si è verificato. Come già detto le comunicazioni possono essere fatte sia dal datore di lavoro che dai soggetti abilitati. Rientrano in questa categoria i commercialisti, gli avvocati, le agenzie di somministrazione lavoro, i consulenti ed i periti. Anche se possono inviare le comunicazioni anche i servizi istituiti dalle associazioni di categoria delle imprese artigiane e delle piccole imprese, il soggetto che ospita un tirocinante e il preponente di un contratto di agenzia. Per completezza di informazioni esiste anche il modello Uniurg. Questo viene redatto per l’assunzione di dipendenti nei casi di urgenza. Ma anche nel caso in cui è chiuso lo studio del consulente o intermediario abilitato che si occupa di questi adempimenti.

Come funziona l’auto in fringe benefit?

Molti si chiedono cosa sia il fringe benefit per un dipendente aziendale e come funzioni, ma soprattutto come usarlo nel caso di possesso di auto aziendale. In questa rapida ma esaustiva guida andremo a fornire risposte a tutte queste annose questioni.

Fringe benefit, di cosa si tratta

Uno dei fringe benefit più utilizzati tra i dipendenti italiani è l’auto aziendale a uso promiscuo. Si parla di auto ad uso promiscuo perché questo benefit aziendale “mescola” (quindi dal latino promiscuus) l’uso personale e quello lavorativo dell’auto. Con il termine auto ad uso promiscuo si fa riferimento a quei veicoli che l’azienda ottiene a noleggio a lungo termine o in leasing. L’auto viene, dunque, detta “ad uso promiscuo” quando il dipendente la può utilizzare anche al di fuori dell’orario di lavoro, usandola a tutti gli effetti come propria auto personale.

Ma prima di andare a vedere nello specifico l’utilizzo del benefit sull’uso della auto aziendale per i dipendenti, cerchiamo di capire in breve cosa si intende per fringe benefit.

Il fringe benefit non è altro che un incentivo contributivo che viene corrisposto ad alcune, particolari, categorie di lavoratori dipendenti. Essi hanno lo scopo di quantificare i beni e i servizi di cui il dipendente può usufruire ad uso gratuito, quindi a condizioni più vantaggiose rispetto a chi si rivolge al mercato per acquistarli.

Anche i buoni pasto, ad esempio fanno parte del fringe benefit.

Fringe benefit, come funziona per l’auto

Potremmo dire che come valore di benefit, in media l’auto aziendale “vale” il 2,8% della retribuzione lorda annua del beneficiario.

Una quota non affatto irrilevante, che in rapporto ai livelli retributivi medi può arrivare anche al 3,8% se è un impiegato a disporre del veicolo.

Va detto che quando si fornisce un veicolo aziendale a un dipendente si ha un maggiore controllo sulla situazione rispetto all’affidamento al dipendente della propria auto. Sebbene ci si ritrova ad avere implicazioni fiscali, avere un’auto aziendale è un buon vantaggio per i dipendenti. Disporre di un’auto aziendale farà anche risparmiare al dipendente l’acquisto di un veicolo.

Ma il risparmio consiste anche nei costi di assicurazione, di bollo auto e di manutenzione. Insomma, un vero e proprio “colpo grosso” per gli spostamenti del dipendente.

Come viene tassata l’auto aziendale?

Molti si chiedono quale sia la tassazione che va ad incidere su una autovettura aziendale.

in pratica, il 70% dovrà essere applicato ai costi dell’auto al lordo del fringe benefit tassato in capo al dipendente. Il 70% deducibile significa, ad esempio che fatto 100 euro il costo sostenuto e l’aliquota attualmente vigente pari al 24% l’effettivo risparmio di imposta sarà pari a circa 17 euro (70% x 100 x 24%).

Tuttavia, nel caso di auto ad uso lavorativo, il veicolo è consegnato al dipendente per essere utilizzato esclusivamente durante l’attività lavorativa. In questa modalità non vi è alcun benefit particolare per il dipendente, poiché dovrà restituire il veicolo terminata la giornata lavorativa. Quindi, per spostarsi al di fuori della propria attività, sarà bene che il dipendente abbia comunque una vettura propria.

In ultima istanza, da un’indagine emerge che il costo medio di mantenimento e utilizzo di un automezzo si aggira tra i 3.000 e i 4.000 euro l’anno, per una azienda, tenendo presente che nel conteggio è considerata una percorrenza annua di 10.000 km.

Quanto incide l’auto sulla busta paga?

In ultimo, ma non ultimo ci si chiede, sostanzialmente quanto vada ad incidere l’auto ad uso promiscuo su una busta paga del dipendente.

Ebbene, secondo la tabella Aci sui fringe benefit 2017 il costo per chilometro per auto è di 52,06 centesimi, che moltiplicati per 15 mila chilometri fanno 7.809 euro. Di questi il 30%, cioè 2.342,64 euro, è considerato vero e proprio reddito del dipendente.

Dunque, questo è quanto di più utile e necessario vi fosse da sapere su come funziona un auto come fringe benefit aziendale. Ora, non vi resta indossare guantini da pilota e allacciare le cinture di sicurezza, sempre che il vostro impiego preveda l’uso di un auto aziendale.

 

Come si calcola il fringe benefit in busta paga?

In questa breve ma esaustiva guida ci occuperemo del fringe benefit, scopriremo di cosa si tratta e come lo si calcola nella propria busta paga. E in che modo può influire su di essa.

Fringe benefit, di cosa si tratta

Partiamo col dire che cosa si intende quando si parla di fringe benefit. Dunque, è un tipo di compenso retributivo corrisposto a particolari categorie di lavoratori dipendenti, riportato nella busta paga, che va ad aggiungersi alla retribuzione.

Insomma, il fringe benefit è una voce addizionale che figura ogni mese in busta paga, perché rientra nella cosiddetta categoria dei compensi in natura. E no, con compensi in natura non si sta parlando di qualcosa di piccante e compromettente, come i più maliziosi potrebbero star pensando.

Piuttosto, trattasi di un bonus specifico su attrezzature da lavoro o su beni alimentari, quindi buoni pasto o agevolazioni su tecnologia da ufficio, per intenderci.

Ma come si calcolano sulla propria busta paga e come vanno ad influire e confluire in essa? Scopriamolo nel prossimo paragrafo.

Fringe benefit, come si calcola

E’ necessario specificare che il fringe benefit viene calcolato su base annuale. Nonostante ciò, deve essere indicato nel cedolino e assoggettato alla tassazione mensile. Occorre quindi informarsi bene per adempiere ai propri doveri fiscali e poter organizzare la documentazione nel più agevole dei modi. In questo caso, sarà utile per le aziende tenere conto delle spese e dei benefit per consentire una gestione migliore a livello di cedolini, rimborsi e imposte.

Un fringe benefit di grande diffusione è legato all’auto aziendale.

Nel caso in questione, per calcolare il fringe benefit dell’auto, come detto il più comune in Italia, occorre:

  • ricavare dalle tabelle ACI il costo chilometrico riferito al tipo di automobile usata;
  • moltiplicare il risultato per una percorrenza convenzionale di 15.000 chilometri;
  • dalla somma ottenuta, si calcola il 30%, che va a corrispondere al valore del benefit e su cui verranno calcolati contributi e tasse. L’assunto di base è infatti che il dipendente usi l’auto per il 30% per il lavoro e per il restante 70% per sé;
  • quello ottenuto è il fringe benefit annuale, quindi bisogna dividere questa cifra per 12 (il numero delle mensilità) per ottenere il valore mensile di fringe benefit da inserire nella busta paga.

Calcolato ciò si avrà ottenuto il valore convenzionale auto, che è la voce per antonomasia del fringe benefit.

Come influisce sulla busta paga il fringe benefit?

Abbiamo preso ad esempio il calcolo del valore convenzionale dell’auto aziendale, per misurare il fringe benefit su busta paga. Ma, ovviamente resta la domanda relativa all’influenza di tale calcolo sulla propria busta paga. In tal senso possiamo dire che si tratta di una voce di paga neutra che non ha nessun effetto sul netto ma viene inserita per aumentare l’imponibile contributivo e fiscale.

Va detto che su di essa, di fatto, il dipendente e l’ azienda andranno a pagare i contributi e le ritenute IRPEF solo per i mesi di effettivo uso promiscuo del veicolo. La tassazione dipenderà da vari fattori, tra cui la tipologia di mezzo di trasporto.

L’assunto di base è sostanzialmente che il dipendente usi l’auto per il 30% per il lavoro e per il restante 70% per uso proprio; quello ottenuto è il fringe benefit annuale, quindi bisogna dividere questa cifra per 12 (il numero delle mensilità) per ottenere il valore mensile di fringe benefit da inserire nella busta paga

Il caso va a variare, invece, se il datore di lavoro, come accade in molte realtà, addebita già al dipendente un corrispettivo per l’utilizzo dell’auto aziendale. Ovviamente qui, per stabilire correttamente il benefit imponibile, bisognerà sottrarre alla tariffa di tassazione il corrispettivo richiesto, Iva inclusa.

Va in ultimo, ma non ultimo, specificato che sulla carta non c’è un limite all’erogazione di fringe benefit, anche se ovviamente bisogna fare i conti con la tassazione.

Dunque, ora che abbiamo saputo di più sul mondo del fringe benefit e sulla loro incidenza esigua sulla propria busta paga non vi resta che tornare al lavoro e attendere di beneficiare anche degli eventuali fringe benefit previsti dalla vostra azienda.

Noleggio a lungo termine, che fine fa l’anticipo?

Molti si chiedono, si interrogano, si arrovellano in merito alla questione del noleggio auto e le sue funzionalità. Oggi, andremo a vedere nello specifico cosa accade nel caso di noleggio a lungo termine e che fine fa l’anticipo che si versa.

Cos’è e come funziona l’anticipo per il noleggio a lungo termine?

Dunque, veniamo rapidamente a dire che l’anticipo per il noleggio può essere un’opportunità per abbassare il canone mensile, sia per quanto riguarda i privati sia per partite IVA. Come possiamo capire se dare un anticipo è la scelta più conveniente per noleggiare un auto? Vediamo tutto ciò che c’è da sapere in merito.

Molti si chiedono se prima di procedere ad un noleggio, sia obbligatorio dare un anticipo. Ebbene, partiamo col dire che l’anticipo non è obbligatorio. Come detto poco sopra, l’anticipo serve per abbassare la rata mensile ed è una quota di denaro che viene versata preventivamente, con l’obiettivo di ammortizzare parte del canone.

Tuttavia, trattasi di un aspetto completamente facoltativo, di fatto al momento del calcolo del preventivo del noleggio a lungo termine, si avrà una proposta con anticipo per un canone più basso e una proposta senza anticipo, in cui andremo a pagare un canone mensile più alto.

Come si calcola il valore dell’anticipo per il noleggio a lungo termine?

Andiamo a vedere come si stabilisce l’ammontare del valore dell’anticipo sul noleggio a lungo termine. Dunque, tale ammontare dipenderà da diversi fattori. I principali fattori del caso saranno:

  • La scelta dell’auto. Quindi, il valore commerciale dell’auto e il costo del noleggio a lungo termine andranno ad influire sulla valutazione della quota di anticipo;
  • La durata del contratto di noleggio;
  • Il chilometraggio previsto;
  • I servizi extra inclusi nel noleggio stesso.

Andiamo in breve a vedere anche quali sono i servizi inclusi in un noleggio a lungo termine.

Quando ci apprestiamo ad un canone mensile del noleggio a lungo termine troveremo inevitabilmente una serie di servizi inclusi. Questi servizi costituiscono il vero e proprio punto di forza di questa formula. Il noleggio, infatti è un’opzione scelta, in un unico canone, perché si ha a disposizione tutto quello che serve per guidare.

I servizi che troveremo sempre inclusi in un noleggio a lungo termine sono i seguenti:

  • Utilizzo dell’auto (ovviamente)
  • Gestione dei sinistri e uso del soccorso stradale
  • Assicurazione auto
  • Tasse incluse
  • Manutenzione ordinaria
  • Manutenzione straordinaria

C’è modo di veder restituito l’anticipo?

Quindi, una volta appurati i vantaggi di un noleggio a lungo termine della nostra auto e quindi appurato che l’anticipo non è obbligatorio, vediamo se c’è possibilità di aver restituito il nostro esborso preventivo. La risposta alla domanda se ci verrà restituito o meno il nostro anticipo versato è No. Ciò perché non si tratta di una “caparra”, ma di un pagamento anticipato di un servizio dovuto. Avremo già beneficiato e quindi “scalato” il nostro anticipo sulla paga del canone mensile. E quindi, trattasi di una somma di denaro che andrà ad ammortizzare il valore del canone, “spalmandosi” su tutta la durata contrattuale del nostro noleggio a lungo termine.

In ultimo andiamo a vedere altri piccoli dettagli e curiosità in merito alla questione.

Noleggio a lungo termine con l’anticipo conviene?

Possiamo dire che formula con anticipo è quella probabilmente più “antica”. Di fatto, inizialmente era previsto sempre un anticipo, poiché il noleggio di qualche anno fa era pensato quasi esclusivamente per le aziende. Oggi non è più così, infatti questa soluzione di mobilità a noleggio si adatta sia ai privati che alle aziende ed è estremamente flessibile dal punto di vista dei pagamenti.

In breve, quindi possiamo dire che l’anticipo è una scelta conveniente nei seguenti casi:

  • Se possiedi una quota a disposizione da immobilizzare e preferisci evitare di pagare nel tempo una rata mensile più alta
  • Se vuoi contenere il canone mensile anche del 10-20%, senza gravare troppo sul tuo stipendio o sulla pensione pensione che percepisci

Tuttavia, l’opzione senza anticipo potrebbe essere conveniente nei seguenti casi

  • Se si è un privato che non possiede un capitale da immobilizzare e che preferisce sottoscrivere una rata un po’ più alta per diluire la quota nel tempo
  • Alle aziende che desiderano una flotta aziendale e non vogliono intaccare troppo la liquidità

Dunque, ora che avete letto il necessario, non vi resta che sceglie la vostra opzione preferibile, in caso vogliate eseguire un noleggio a lungo termine per ottenere un automobile.