Bonus 600 euro datori di lavoro: a chi spetta e come inoltrare la domanda

E’ in arrivo un nuovo bonus ai datori di lavoro che hanno avuto i dipendenti in quarantena causa Covid-19 e che non hanno avuto la possibilità di svolgere il proprio lavoro in smart working. Il contributo verrà erogato dall’INPS ma non coinvolgerà tutta la platea dei datori. Vediamo, dunque, a chi spetta e come richiederlo.

Bonus 600 euro: a chi spetta

La misura di sostegno ai datori di lavoro pari a 600 euro è contenuta nel DL Fisco e Lavoro pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 22 ottobre 2021.

Il nuovo bonus da 600 euro sarà erogato una tantum dall’INPS e riguarderà quei datori di lavoro del settore privato con obbligo previdenziale presso le Gestioni dell’INPS. Di fatto, ciò esclude dai beneficiari i datori di lavoro domestico, la misura ha lo scopo di coprire gli oneri sostenuti relativi ai propri dipendenti non aventi diritto all’assicurazione economica di malattia presso l’INPS e obbligati a rimanere a casa in quarantena causa Covid-19.

Il bonus di 600 euro sarà riconosciuto dal 31 gennaio 2020 al 31 dicembre 2021 per ogni anno solare e per ogni dipendente andato in quarantena per Covid  e riguarda i soggetti il cui lavoro non può essere svolto in modalità agile. La priorità sarà data agli eventi cronologicamente anteriori.

Come richiedere il bonus

I datori di lavoro interessati a ricevere il bonus da 600 euro devono inoltrare all’INPS l’apposita domanda in via telematica, corredata di una dichiarazione attestante i periodi riferiti alla tutela della malattia che si vuole ottenere.

La richiesta va trasmessa nelle modalità ed entro i termini che verranno a breve diffusi dall’INPS, il quale si riserverà di verificare la veridicità delle domande ricevute, così come indicato all’articolo 8 del decreto Fisco e Lavoro, in cui si legge:

“L’INPS, nell’effettuare i controlli a campione, ai sensi dell’articolo 71 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, sulle dichiarazioni prodotte dai datori di lavoro, è autorizzato all’acquisizione e al trattamento dei dati sensibili contenuti nelle certificazioni mediche e nella documentazione sanitaria dei lavoratori interessati. Il beneficio di cui al presente comma è riconosciuto nel limite massimo di spesa complessivo pari a 188,3 milioni di euro per l’anno 2021, dando priorità agli eventi cronologicamente anteriori.”

Diritto Camerale: cos’è, come e quando si paga

Parliamo di Diritto Camerale, ma cos’è? E’ un pagamento annuale che tutte le imprese iscritte all’omonimo Registro o comunque annotate, che viene corrisposto in un’unica soluzione alla Camera di Commercio che deve essere versato entro il 30 giugno.

A ricevere il pagamento del Diritto Camerale sono le sedi delle Camere di Commercio presso cui le società che lo erogano hanno sede legale, ma anche le sedi secondarie o gli uffici di rappresentanza.

Diritto Camerale: chi lo paga?

Sono diversi i soggetti tenuti al pagamento del Diritto Camerale che non è altro che un’imposta dovuta. Come si evince dalla denominazione “Registro delle Imprese”, in primi luogo sono le imprese individuali, poi le società di capitali e di persone, tutti i consorzi, i coltivatori diretti e gli imprenditori agricoli, le unità locali e sedi secondarie di imprese con principale sede all’estero, infine, i soggetti iscritti al repertorio economico amministrativo, più noto con l’acronimo R.E.A.

C’è da sottolineare che le imprese che si iscrivono alla Camera di Commercio, a prescindere dal periodo dell’anno in cui lo fanno, devono effettuare il versamento del Diritto Camerale al momento della presentazione della domanda. Stesso discorso per quanto concerne eventuali unità locali.

Se l’iscrizione avviene per via telematica, l’addebito è automatico. Diversamente, il pagamento del Diritto Camerale può essere compiuto mediante modello F24 utilizzando il codice tributo 3850 entro e non oltre 30 giorni dalla prima iscrizione. Il modello deve essere compilato alla sezione “IMU ed altri tributi locali” prestando attenzione al codice del Comune in cui è ubicata la sede legale dell’impresa.

Quando si paga

Per chi non lo sapesse o non ci avesse fatto caso, la scadenza per il pagamento del diritto annuale che spetta a tutti gli iscritti alla Camera di Commercio (CCIAA), è lo stesso al termine del saldo e del primo acconto delle imposte sui redditi. Per l’anno 2021 questa data corrisponde al 30 giugno. E’ pur vero, che il versamento può essere effettuato anche il 30 luglio, ma in tal caso, scatta una maggiorazione dello 0,4% sull’importo dovuto.

A quanto ammonta il Diritto Camerale 2021? L’imposta è stata definita e confermata dal Ministero dello Sviluppo Economico il 22 dicembre 2020. La predetta specifica ha riguardato sia i soggetti che pagano l’imposta in misura fissa, sia i soggetti che pagano l’imposta in relazione al fatturato.

Quali sono gli importi del Diritto Camerale?

I soggetti che pagano in misura fissa questa imposta (Diritto Camerale 2021) sono i seguenti:

  • Imprese individuali iscritte o annotate nella sezione speciale (piccoli imprenditori, artigiani, coltivatori diretti e imprenditori agricoli) pagano 44 euro per la sede e 8,80 euro per l’unità locale;
  • Imprese individuali iscritte nella sezione ordinaria pagano 100 euro per la sede e 20 euro per l’unità locale.

Poi ci sono delle imprese che pagano in misura fissa ma transitoria:

  • Società semplici non agricole pagano 100 euro per la sede e 20 euro per l’unità locale;
  • Società semplici agricole pagano 50 euro per la sede e 10 euro per l’unità locale;
  • Società tra avvocati previste dal D.Lgs. n. 96/2001 pagano 100 euro la sede e 20 euro per l’unità locale;
  • Soggetti iscritti al REA pagano 15 euro per la sede.

Le imprese che hanno sede principale all’estero, pagano per ogni unità locale o sede secondaria un importo di 55 euro.

Passiamo agli importi del Diritto Camerale 2021 in base al fatturato, vediamo come è impostato il calcolo:

  • Scaglioni di fatturato da 0 euro a 100.000 euro, l’importo da pagare è di 200 euro;
  • Scaglioni di fatturato da 100.000,01 euro a 250.000 euro, l’importo da pagare è pari a 200 euro a cui aggiungere un’aliquota dello 0,015%;
  • Scaglioni di fatturato da 250.000,01 euro a 500.000 euro, la somma da versare è di 222,50 euro a cui aggiungere un’aliquota dello 0,013% della parte eccedente 250.000 euro;
  • Scaglioni di fatturato da 500.000,01 euro a 1.000.000 euro, la somma da versare è di 255 euro a cui aggiungere un’aliquota dello 0,10% della parte eccedente 500.000 euro;
  • Scaglioni di fatturato da 1.000.000,01 euro a 10.000.000 euro, l’importo da versare è di 305,00 euro a cui aggiungere un’aliquota dello 0,009% della parte eccedente 1.000.000 euro;
  • Scaglioni di fatturato da 10.000.000,01 euro a 35.000.000 euro, l’importo da versare è di 1.115,00 euro a cui aggiungere un’aliquota dello 0,005% della parte eccedente 10.000.000 euro;
  • Scaglioni di fatturato da 35.000.000,01 euro a 50.000.000 euro, la somma da pagare è di 2.365 euro a cui aggiungere un’aliquota dello 0,003% della parte eccedente 35.000.000 euro;
  • Scaglioni di fatturato oltre 50.000.000 euro, la somma da versare è di 2.815 euro a cui aggiungere un’aliquota dello 0,001% della parte eccedente 50.000.000 euro (fino a una soglia massima di 40.000 euro).

Le sanzioni

In caso di omesso o ritardo versamento della somma dovuta, la sanzione corrisponde a un importo compreso tra il 10% e il 100% del totale dovuto. In ogni caso, è prevista la riduzione di sanzione con riferimento al ravvedimento operoso, entro e non oltre un anno dalla scadenza.

Nello specifico, sul modello F24 sarà necessario utilizzare i seguenti codici tributo:

  • 3850 per il diritto camerale
  • 3851 per gli interessi moratori
  • 3852 per la sanzione ridotta

Fattura proforma: cos’è, quando si emette e perché

La fattura Proforma non è altro che un preavviso di fattura molto utilizzato dai professionisti. Si tratta di un documento che anticipa l’onorario di chi la emette, ha puramente valore di messa a conoscenza del costo che il cliente deve affrontare, ma non ha alcun valore fiscale.

Differenza tra fattura e proforma

Tanto per essere chiari, i due documenti sono molto simili, ma è l’utilizzo che se ne fa a fare la differenza. Una fattura proforma comprende tutti i dati di una fattura ordinaria, ma la numerazione è a se stante e come già anticipato, priva di valore fiscale. Anzi, nella proforma deve essere indicato che si tratta di un documento senza alcun valore fiscale. A questo punto, ci si chiede perché venga emessa da molti professionisti.

Emissione fattura proforma: quando?

La fattura proforma è comunque un documento contabile, pur privo di valore fiscale. Ovviamente, essa viene emessa prima della fattura ordinaria che, invece ha valore fiscale a tutti gli effetti.
La proforma può essere emessa in formato cartaceo ma anche elettronico. L’unico obiettivo è informare il cliente di quali sono i riferimenti delle prestazioni che saranno oggetto di pagamento, ma senza anticipo dell’IVA, proprio per questo la fattura proforma differisce e non poco dalla fattura vera e propria.

Ai fini IVA, infatti, per le prestazioni rese l’emissione della fattura avviene al momento di effettuazione di un’operazione che per i professionisti coincide con il pagamento del corrispettivo.
Per evitare di emettere una fattura prima del pagamento e il versamento dell’IVA prima dell’incasso, il professionista emette una proforma. In questo modo, esso richiede il pagamento al cliente tramite un documento riassuntivo che non ha alcun valore fiscale.

Perché usare la fattura proforma?

La fattura proforma non deve essere usata per evadere il fisco facendosi pagare sulla sua emissione, ma deve costituire solo un mezzo che fornisce al cliente le informazioni necessarie che lo mettono a conoscenza delle prestazioni che dovrà pagare all’emissione della fattura ordinaria. Quest’ultima viene emessa e rilasciata al contribuente solo dopo il pagamento avvenuto e con le voci comprensive di IVA.

Emettere fattura dopo aver incassato è obbligatorio, diversamente, si è soggetti a sanzioni, in quanto si tratta di qualcosa che non potrà essere dichiarato al momento della presentazione dei redditi all’Agenzia delle Entrate.

I vantaggi di una fattura proforma

Esistono anche altre ragioni per cui un professionista decide di emettere una fattura proforma:

• Ritardare la fatturazione elettronica che deve essere emessa solo dopo aver ricevuto il pagamento per le prestazioni in essa indicate;
• Non esso un documento fiscale, la fattura proforma può essere anche modificata in caso di errori o correzioni sugli importi. Cosa che non può accadere dopo l’emissione di una fattura valida ai fini fiscali, in quanto, ad esempio, ridurre l’importo di una prestazione esige l’emissione di una nota di credito che ha altrettanto valore fiscale;
• Nessun anticipo di tasse prima di aver ricevuto il pagamento;
• La fattura definitiva si emette solo a pagamento avvenuto da parte del cliente per le prestazioni ricevute.

Con l’introduzione della fattura elettronica nulla è cambiato rispetto alla proforma. Infatti, la fattura elettronica ha valenza ai fini fiscali e viene emessa, come d’altronde la fattura ordinaria, solo in seguito al pagamento ottenuto.

Registrazione e compilazione della fattura proforma

Pur definendolo un documento contabile, può tranquillamente non essere registrato in contabilità, in quanto costituisce semplicemente una specie di preventivo. Il cliente potrà visionare in anticipo quali prestazioni e quanto dovrà pagare per essere, il professionista lo mette semplicemente al corrente, nel frattempo non avendo incassato non sarà tenuto nemmeno a versare l’IVA.
La fattura proforma si compila come una fattura ordinaria, ma verrà indicato che si tratta solo di un avviso di parcella. La numerazione è diversa da quella della fattura vera e propria.
Inoltre, nella fattura proforma va indicata la seguente dicitura
“Il presente documento non costituisce fattura valida ai fini del DPR 633 26/10/1972 e successive modifiche. La fattura definitiva verrà emessa all’atto del pagamento del corrispettivo (articolo 6, c. 3, DPR 633/72”.

Arma dei Carabinieri: 90 assunzioni straordinarie nel 2022

Il nuovo Decreto Fiscale ha dato il via libera all’Arma dei Carabinieri per procedere con l’assunzione di 90 unità di personale nel 2022. Quindi, sarà possibile reclutare delle risorse in più rispetto a quelle già programmate. Il reclutamento avverrà tramite concorso? Quali sono i profili richiesti? Brevemente, cerchiamo di capire cosa prevede a tal proposito il Decreto Fisco.

Assunzioni Carabinieri 2022

L’art. 13 del DL Fisco ha messo in campo diverse iniziative per aumentare la sicurezza e intervenire in materia di salute nei luoghi di lavoro, tra cui un aumento del personale che si deve occupare di controllare e vigilare. Tra le misure previste, c’è anche la possibilità concessa all’Arma dei Carabinieri di reclutare 90 unità del personale e proveniente dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, al fine di controllare con attenzione sull’applicazione delle norme in materia di diritto del lavoro, legislazione sociale e sicurezza dei luoghi di lavoro.

Per questo motivo, il Decreto Fisco ha previsto, tra l’altro, nuove assunzione nell’Arma dei Carabinieri, in deroga alle assunzioni già programmate. A partire dal 1° gennaio 2022 potranno essere occupati gli ulteriori 90 posti.

I profili richiesti

Il Decreto Fisco ha anche previsto quale tipologia di personale deve essere reclutata dall’Arma dei Carabinieri. Infatti, le 90 nuove assunzioni che riguarderanno il 2022 saranno così suddivise:

  • 45 Appuntati e Carabinieri
  • 45 Ispettori

Il reclutamento avverrà tramite concorso?

E’ troppo presto per dire quale sarà la modalità adottata che scegliere il Ministero del lavoro e delle politiche agricole. Potrebbe essere indetto un concorso per queste assunzioni straordinarie, ma è anche vero che per ora non si parla di alcun bando: troppo precoce o non ci sarà affatto? In realtà, al momento nessuno può dirlo, ma esiste la possibilità che si possa fare ricorso allo scorrimento delle graduatorie.

Il ruolo di Ispettore e quanto guadagna

Nell’Arma dei Carabinieri il ruolo di Ispettore è equiparato al ruolo ricoperto dai Marescialli di altre forze armate. A seconda del grado, cambia lo stipendio. Un ispettore maresciallo guadagna circa 1.554 euro al mese, se maresciallo ordinario lo stipendio aumenta a 1.596 euro mensili. Un ispettore con i gradi di maresciallo capo porta a casa una busta paga netta di circa 1.648 euro al mese, quindi, siamo a quasi 20.000 euro annui. Ammontare superato da un ispettore con il grado di Maresciallo Aiutante che arriva a 20.394 euro all’anno, che corrispondono a circa 1.744 euro al mese. Questi importi, però, sono riferiti ad una retribuzione base che non tiene conto di straordinari, festivi e superfestivi come Natale e Pasqua, il cui trattamento economico è più alto.

Solitamente, il grado di maresciallo del ruolo ispettori si consegue tramite concorso pubblico il 70% delle volte, solo il 20% delle volte con concorso interno ma riservato ai sovraintendenti e per il 10% delle volte sempre tramite concorso interno ma riservato al ruolo di appuntati e carabinieri.

Non ci resta che attendere nuove indicazioni dal Ministero del Lavoro e delle politiche agricole per capire se queste 90 assunzioni straordinarie volte all’Arma dei Carabinieri (45 Appuntati e Carabinieri e 45 ispettori) previste in deroga alle assunzioni ordinarie, prevederà lo svolgimento di un concorso pubblico. Ricordiamo che l’incremento dell’organico dovrà avere inizio a partire dal 1° gennaio 2022.

 

Cos’è il Tripware Marketing e come utilizzarlo

Cos’è il tripwire? E’ la messa in atto di una strategia di marketing che serve per dare valore all’offerta di servizi o prodotti della tua azienda e per mettere in fiducia i tuoi clienti. Quindi, convincere il tuo target ad acquistare da te, riprendere dei clienti che hanno sottoscritto un abbonamento ma non l’hanno più rinnovato, oppure clienti che erano abituali ma che non acquistano più prodotti o servizi dalla tua azienda.

I modi di fare Tripware marketing sono diversi, lo scopo è di cominciare a farli acquistare con delle offerte a basso costo ma con un pacchetto di buona qualità, per fare in modo di convincerli della bontà del prodotto o servizio, che li possa portare in un secondo momento ad alzare il livello dell’acquisto, in quanto la loro fiducia nell’azienda è cresciuta. Ma facciamo un esempio.

Social proof

La tua azienda vuole lanciarsi sul mercato per la prima volta con un prodotto costoso, ma non è ancora riconoscibile e, quindi non gode ancora della fiducia dei potenziali clienti. Conquistarli non è facile, anche perché è probabile che effettuino i loro acquisti altrove, presso un’azienda con un brand più conosciuto e, a questo punto, portarli dalla tua parte per effettuare acquisti presso di te diventa un’ardua impresa.

Una delle strategie migliori per convincere l’utenza a testare i propri prodotti o servizi offerti, nonostante si siano affidati già alla concorrenza, è creare una base di utenti che utilizza già i tuoi prodotti o servizi che funga da social proof, facendoti in un certo senso pubblicità positiva. Ciò potrebbe destare la curiosità di nuovi potenziali cliente ma non convincerli del tutto ad acquistare i tuoi prodotti.

Strategie di tripwire marketing

Ed ecco, che allora subentra il tripwire marketing, che consiste nel mettere a disposizione delle interessanti offerte a costi contenuti, tenendo sempre presente che i prodotti o i servizi debbano raggiungere un certo standard qualitativo. Attenzione, però, perchè la tu azienda deve inserire anche la strategia degli incentivi all’interno di una mappatura ben più ampia e congegnata, secondo la quale, una volta fidelizzato il cliente con prodotti o servizi a basso costo, il passo successivo automatico è che la stessa utenza si convinca della qualità di ciò che ha acquistato, per passare allo step successivo, ossia comprare anche servizi o prodotti a prezzi più alti e proporzionati alla qualità.

Questo disegno, permette alla tua azienda di avere a disposizione anche una vasta gamma di prodotti o servizi, che possa soddisfare le esigenze di chi non può spendere più di tanto, ma anche di chi, avendo acquisito fiducia in ciò che proponi, è disposto a spendere di più.

Riacquisire clienti

Un’altra buona strategia di tripware merketing riguarda i clienti che non hanno più rinnovato la sottoscrizione di un abbonamento o per quelli che, ancora iscritti, non comprano più. Per loro, è possibile anche abbinare ad un certo tipo di offerta, qualcosa in regalo che possa incentivarli.

Tuttavia, non si deve mai cadere nella trappola dei regali. Offrire gratuitamente dei prodotti o dei servizi significa anche azzerarne il valore. Così facendo, il cliente penserà che ciò che gli viene offerto a costo zero, abbia poco o nessun valore, con la conseguenza che non sarà nemmeno curioso di appurarne la validità.

Tutto ciò che è gratis, solitamente vale quel prezzo zero, è questo quello che pensa l’utenza, per questo motivo non si deve mai cadere in questa strategia autolesionista.

Un altro tipo di tripwer marketing è quello di scrivere via email ai consumatori che hanno deciso di disdire un abbonamento o di non acquistare più prodotti o servizi venduti dalla tua azienda, chiedendo il motivo della loro scelta, nonché chiedendo cosa può fare l’azienda per migliorare i propri servizi o prodotti.

Detto questo, gli si può proporre in via del tutto eccezionale, ad esempio un abbonamento a costo molto basso per un tempo limitato e che può disdire il qualsiasi momento. Se ciò che si offre è un servizio di ottima qualità, non ci sono dubbi sul fatto che il cliente tornerà a servirsi dall’azienda anche pagando il normale costo e per lungo tempo.

Restare in contatto e coinvolgere il cliente

Ad ogni modo, con tutti i clienti abituali, acquisiti o riacquisiti, è bene restare sempre in contatto, magari inviando via email le nuove offerte o dei nuovi prodotti e servizi di cui si dispone. Se il cliente è fidelizzato, sarà sempre più portato a spendere di più o comunque a restare fedele alla tua azienda.

Può essere interessante anche chiedere un feedback ogni qualvolta abbiano acquistato un tuo prodotto o servizio.

Nuovo limite utilizzo contanti dal 1 gennaio 2022: cambiano anche le sanzioni

Il governo Draghi prosegue nella politica dell’uso limitato del contante a favore dei pagamenti rintracciabili. Dal 1° gennaio 2022 cambiano nuovamente le regole sull’utilizzo del denaro che deve essere sempre meno presente, nuovo limite massimo e nuove sanzioni per i trasgressori, l’obiettivo è di limitare le operazioni in nero.

In realtà, non si tratta di una novità l’abbassamento della soglia limite di uso del contante che era già stata fissata quando era in carica il governo Conte, ma solo di una conferma da parte del ministero dell’Economia e delle Finanze. Infatti, dal 1° gennaio 2022 l’utilizzo dal cash passa da 1.999,99 euro a 999,99 euro senza arrotondamenti di sorta. Anzi, chi effettuerà una transazione di 1.000,00 euro sarà sanzionato.

I pagamenti vietati

Qualsiasi tipo di pagamento in contanti che intercorra tra persone fisiche e persone giuridiche che superi il limite massimo di 999,99 euro sarà vietato. Ciò vuol dire che un genitore non potrà regalare o prestare 1.000 euro al proprio figlio in contanti, il passaggio dovrà avvenire in forma di pagamento tracciabile. Figuriamoci per la parcella o l’onorario di un professionista o ancora per l’acquisto di un bene: tutto ciò che supera la soglia di 999,99 euro dovrà essere tracciato dal 1° gennaio 2022.

Attenzione, però, per quanto concerne le transazioni che riguardano una sola persona, questa regola non vale. Ossia, se pensiamo a un prelievo presso un ufficio postale o in banca, la cifra potrà essere superiore al limite imposto. Tuttavia, non sarà, poi, possibile effettuare un unico pagamento con quella cifra in forma contante. E’ prevista la possibilità di tenere più soldi in casa in contanti di quanto non prevede il limite, ma resta bene inteso che per spenderli si dovrà rispettare la soglia dei 999,99 euro.

In caso di versament0 sul proprio conto corrente postale o bancario, l’operazione funzione come per il prelievo, si possono depositare anche 2.000 euro in un’unica soluzione, magari è il caso di chi ha ricevuto più pagamenti per la propria attività inferiori, singolarmente, a 1.000 euro.

Qualora si debba pagare un meccanico per la riparazione dell’auto per 1.500 euro, il cliente potrà versarne una parte in contanti fino a un massimo di 999,99 euro, mentre il resto tramite un pagamento tracciabile (assegno, carta di credito, bonifico bancario/postale).

Le sanzioni

Cosa succede a chi non rispetta la nuove regola sull’utilizzo del contante imposto a 999,99 euro dal 1° gennaio 2022? Per prima cosa, precisiamo che la sanzione riguarda sia chi paga quanto chi riceve il pagamento oltre la soglia prevista, essa sarà almeno pari a 1.000 euro.

Tuttavia, questa regola non vale per i professionisti o per qualsiasi soggetto che non segnali l’irregolarità, in questo caso, la sanzione resta fissata tra 3.000 euro e 15.000 euro, quindi con una sanzione minima pari al triplo della soglia limite.

Va detto, però, che sia chi trasgredisce la regola sull’uso dei contanti, sia chi non comunica l’irregolarità essendo tenuto a farlo può beneficiare dell’oblazione, anche se in modo diverso. Per chi commette l’infrazione, la sanzione passerà da un minimo di 4.000 euro a 2.000 euro. Invece, chi deve comunicare un’irregolarità, sulla base delle attuali e future disposizioni, continuerà a pagare un minimo di 5.000 euro, quindi pari a un terzo del massimo.

Imprese innovative: requisiti e agevolazioni fiscali

Complice la transizione ecologica e tecnologica, lo sviluppo delle imprese innovative è sempre più importante. Quindi, per premiare gli imprenditori che puntano verso questa direzione, il governo a sua volta lo fa su di loro e in più in generale sulle cosiddette PMI che possono realizzare o che lo hanno già fatto pianificazioni d’investimento per innovare i propri processi.

Prima di scoprire quali incentivi e aiuti l’esecutivo italiano ha messo in atto per le imprese innovative, vediamo come sono classificate tali.

Cos’è un’impresa innovativa?

E’ un’impresa innovativa quella riconosciuta dal MISE e dalla legge tramite un’apposita lista alla quale ci si può registrare sulla base di tre requisiti:

  • aver effettuato una spesa in Ricerca e Sviluppo pari ad almeno il 3% del più alto tra costo di produzione e fatturato;
  • la forza lavoro deve essere altamente qualificata, ecco come e quanto: il 20% deve essere rappresentato da dottori di ricerca, ricercatori o dottorandi; oppure il 33% deve possedere una laurea magistrale;
  • essere titolari, aver depositato o licenziato un software o un brevetto.

PMI innovativa e startup innovativa: differenza

Le startup sono quelle imprese che rientrano ancora nei primi cinque anni di vita, le PMI sono lo stadio successivo di una startup. Entrambe le categorie, possedendone i requisiti, possono essere registrate nell’elenco delle imprese innovative, ma ognuna nel proprio.

La prima differenza sostanziale consiste nel fatto che alla startup basta il possesso di uno dei tre requisiti, mentre alle PMI ne servono due.

Un’altra differenza sta nelle dimensioni, la startup può avere un valore non superiore ai cinque milioni di euro; la PMI deve avere un fatturato che non supera i 50 milioni di euro di fatturato o i 43 di attivo patrimoniale in bilancio e, in ogni caso possono avere massimo 250 dipendenti.

Un’ultima differenza riguarda la ragione sociale: la startup è vincolata allo sviluppo, alla produzione e alla commercializzazione di prodotti o servizi altamente tecnologici; la piccola e media impresa non ha questa tipologia di vincoli.

Come ottenere lo status di impresa innovativa:

  • avere la sede o una filiale in Italia;
  • aver certificato l’ultimo bilancio;
  • non essere quotata in borsa;
  • (per le PMI) non essere già iscritta al registro delle startup innovative.

L’iscrizione al registro si ottiene inviando un’autocertificazione (modello reperibile sul sito del MISE) che affermi che l’impresa possiede i requisiti richiesti dall’autorità; quest’ultima è incaricata di verificarne la veridicità. Superati i controlli, avverrà la registrazione.

Agevolazioni fiscali per le imprese innovative

Le imprese innovative godono di una serie di agevolazioni fiscali e finanziarie, di cui possono fruire dopo l’iscrizione al registro delle imprese innovative. Le misure in comune tra startup e PMI sono:

  • incentivi per acquistare di azioni: detrazioni per persone fisiche e deduzioni per quelle giuridiche per il 30% dell’importo versato;
  • l’accesso gratuito ai prestiti pubblici garantiti (fino all’80%) del Fondo di garanzia;
  • l’esenzione per registrazione e qualsiasi atto successivo dal pagamento dell’imposta di bollo;
  • campagne di acquisto diffuso di azioni;
  • uno sconto del 30% sul listino dei servizi dell’Agenzia ICE, che aiuta nell’internazionalizzazione;
  • una serie di deroghe alla disciplina societaria ordinaria, come la possibilità di vendere pacchetti di azioni particolari (ad esempio senza diritto di voto), o di effettuare operazioni sui propri;
  • l’esenzione dalle penalizzazioni per una serie di esercizi in perdita o per inattività stabilite dalla disciplina per le società di comodo e in perdita sistematica;
  • la possibilità di pagare dipendenti e collaboratori con pacchetti di azioni (o stock option).

Le PMI hanno in più rispetto alle startup la possibilità di diminuire le perdite non più uno ma due esercizi dopo la registrazione. Le startup, invece, vantano altre misure aggiuntive:

  • la possibilità di costituirsi per via telematica e senza pagare nulla;
  • con l’incentivo Smart&Start Italia, hanno l’accesso a un finanziamento a tasso zero, garantito per alcune spese di investimento fino al 90%, da restituire entro 11 anni a partire dal ricevimento dell’ultima quota;
  • dal punto di vista del lavoro, viene concessa la possibilità di utilizzare contratti a tempo determinato, anche con più rinnovi;
  • dal punto di vista fiscale viene snellita la burocrazia (visto di conformità) per la compensazione IVA;
  • viene garantita la possibilità di trasformarsi in PMI, senza perdere i vantaggi precedenti, o, in caso l’attività non vada in porto, con il cosiddetto Fail Fast, vengono loro evitate le procedure di fallimento, i concordati preventivi e le liquidazioni coatte.

Internazionalizzazione delle imprese: cos’è e come funziona

Il processo di globalizzazione è continuo e se le azione vogliono crescere hanno bisogno di perseguire lo scopo dell’internalizzazione. Il cosiddetto Made in Italy va esportato non solo dalle grandi imprese ma anche dalle aziende di dimensioni minori, d’altronde, il tessuto imprenditoriale del nostro Paese è composta per la stragrande maggioranza da piccole e medie imprese.

Cos’è l’internalizzazione?

Come si può evincere dal termine, l’internalizzazione è un processo per cui un’impresa crea rapporti con i mercati esteri, che si tratti di semplice vendita o delocalizzazione della produzione, cambia poco. Infatti, vediamo quali sono i casi in cui un’impresa si internazionalizza:

  • si accorda con imprese estere;
  • produce, esporta o vende i propri prodotti all’estero;
  • importa capitale provenienti dall’estero;
  • delocalizza anche in parte delle unità di produzione al di fuori dai confini del territorio nazionale.

Perché un’impresa internazionalizza?

L’impresa che decide di aprirsi ai mercati internazionali è spinta prevalentemente da motivi economici, di cui due spiccano su tutti gli altri:

  • Aumento delle entrate: entrare in un mercato estero per piazzare i propri prodotti vuol dire maggiori ricavi per l’impresa che la effettua. Si allarga il bacino d’utenza dei potenziali clienti, aumentano potenzialmente le vendite. Oltreché che per ambizione e notorietà, per alcune imprese, internazionalizzare può essere dovuta alla saturazione del mercato interno, quindi una necessità.
  • Abbattere i costi: il termine delocalizzazione è sempre più utilizzato, soprattutto per le imprese dell’Italia settentrionale. Con questa azione si sposta parte, o l’intera produzione in uno Stato estero dove il costo del lavoro è molto più basso. Ciò significa diventare più concorrenziali, in quanto con una sede fiscale oltre confine si ha la possibilità di pagare tasse nettamente minori senza nulla togliere alla produzione o comunque in modo talmente minimo da apparire qualcosa di trascurabile.

Operare in un mondo globale, significa poter produrre in un Paese, ma pagando le tasse in un altro, ed effettuare la vendita dei propri prodotti in un altro Stato ancora. In questo modo, la globalizzazione permette ad un imprenditore di organizzare l’assetto della propria azienda come ritiene più opportuno in modo da ottimizzare i guadagni.

Come fare ad internazionalizzare la propria azienda?

No0nostante quanto sopra indicati, internazionalizzare un’azienda non è un’operazione possibile per tutti gli imprenditori. Ad esempio, ci sono dei costi da affrontare e un’impresa che non dispone di una stabilità economico-finanziaria non riesce a farlo. Al contrario, e con dei prodotti di alta qualità e che si adeguano ai mercati internazionali è consigliato allargare i propri orizzonti.

L’impresa che vuole internazionalizzare deve avere un rete di conoscenze e informazioni con la nazione in cui ci si vuole allargare. Si devono prendere o creare contatti con il Paese estero e magari avere dei partner commerciali. Inoltre è fondamentale conoscere la condizione sociale e la situazione economica dell’altro Stato, ovvero studiarne per prendere in considerazione la situazione demografica e ambientale, così come la distribuzione del reddito.

L’azienda che vuole aprirsi ai mercati esteri può fare riferimento all’Agenzia ICE che opera insieme alla Farnesina e il MEF. Se si tratta di una piccola o media impresa deve essere aperta alla creazione di consorzi o reti d’impresa, dal punto di vista organizzativo ma anche fiscale. Inoltre, può far leva sui finanziamente agevolati messi a disposizione dall’Italia e dall’Unione Europea.

Come può avvenire l’internalizzazione?

L’internalizzazione di un’impresa può avvenire attraverso diverse modalità:

  • semplice esportazione, vendita diretta dei propri prodotti sul mercato estero;
  • retailing, vendita dei propri prodotti tramite rivenditori locali;
  • self sale, aprire una propria base di vendita nel paese di approdo;
  • base development, creazione di una società di diritto estero, autonoma ma legata alla principale che si trova nel paese di provenienza;
  • direct offshore investment, il grado più alto d’internazionalizzazione, che si verifica quando l’azienda non si limita a vendere all’estero, ma decide di delocalizzare la propria produzione.

Firma elettronica: cos’è, tipologie, differenze con firma digitale

Sentiamo sempre più spesso parlare di firma digitale, ma esiste anche la firma elettronica. Scopriamo di cosa si tratta, come funziona e quali sono le differenze tra di esse.

Innanzitutto, la firma è ciò che ci rende unici, ognuno s’identifica con la propria. Ancora oggi, riveste una certa importanza e ha ancora un utilizzo frequente, la firma apposta di proprio pugno. Tuttavia, l’avvento della tecnologia e della digitalizzazione ha portato all’esigenza di un tipo di identificazione diversa rappresentata dalla firma elettronica. Il suo uso non ha sostituito la firma a mano come la conosciamo, ma l’ha solo integrata attraverso nuova tecnologie di stampa e scansione di documenti. Attenzione a non confonderla con la firma digitale.

Firma elettronica, cos’è e tipologie

La firma elettronica è una specie di PIN, credenziale d’accesso o password, ad ogni modo costituisce una forma di autenticazione di uno specifico soggetto. A volte, la sua validità può essee sottoposta alla valutazione di un giudice, intanto, possiamo dire che esistono tre tipologie di firma elettronica che hanno un grado di validità diverso:

  • firma elettronica semplice: la sua valenza è minima, tanto da non avere nemmeno valore probatorio, solo un giudice potrebbe stabilirne la validità, sulla base della qualità, sicurezza, integrità e non modificabilità;
  • firma elettronica avanzata: essa è più affidabile, in quanto al momento dell’apposizione richiede un’identificazione di chi firma e non consente modifiche successive al documento firmato;
  • firma elettronica qualificata: si tratta della tipologia più sicura, poiché presuppone l’uso di un hardware come un token USB. Anche in questo caso viene garantita l’autenticità di chi firma e l’impossibilità di modificare il documento.

Firma elettronica e firma digitale: differenze

Spesso, nel gergo comune si pensa erroneamente che firma elettronica sia sinonimo di firma digitale, ma in realtà non è così. Intanto, abbiamo avuto modo di vedere come esistano tre tipologie di firma elettronica, ciascuna con il suo grado di validità. Mentre, la firma digitale è utilizzata solo in Italia e corrisponde a un tipo particolare di firma elettronica avanzata.

Dietro l’affidabilità della firma digitale c’è un sistema di crittografia che si basa su una doppia chiave: pubblica o privata. Nel primo caso, il destinatario riconosce il mittente, nel secondo caso, invece, per il mittente che n’è unico possessore, è possibile garantire in partenza la provenienza. Tale meccanismo è denominato “sistema di chiavi asimmetriche”.

La cosa in comune che hanno le due firme, è che la firma elettronica avanzata e qualificata, e la firma digitale hanno identico valore di prova, rendendo efficaci giuridicamente i documenti firmati a condizione che non vengano apportate modifiche successive alla firma.

A cosa serve e come avere la firma elettronica

La firma elettronica risparmia spazio e tempo, ma anche la carta, nonché i soldi spesi per l’archiviazione dei documenti. Tutto ciò che prima si poteva fare con la carta, oggi si fa senza.

La firma elettronica è anche obbligatoria quando si devono autenticare delle fatture emesse da un’azienda verso la Pubblica Amministrazione, o dei tesseramenti per le società affiliate alla F.I.G.C.

Per ottenere la firma elettronica qualificata serve il kit per l’identità digitale che si può acquistare online. Dopodiché bisogna autenticare la propria firma presso uno degli certificatori qualificati che vengono riconosciuti dall’Agenzia per l’Italia digitale. Dopo essersi iscritti al sito del certificatore, bisogna identificarsi, ma come?

  • Recarsi in comune, davanti a un pubblico ufficiale, o alle Poste;
  • a domicilio, quando si riceve il kit;
  • via webcam. Dopo l’identificazione basta attivare sul sito del certificatore il kit acquistato.

Mobbing: cos’è, cosa rischia il datore di lavoro e cosa deve fare per evitarlo

Passa il tempo, ma non passano le brutte abitudini, ammesso che si possa definirle tali.

Gli atti di mobbing ricorrono non in modo infrequente sul posto di lavoro e se gli viene mossa tale accusa, il datore di lavoro rischia di subire una richiesta di risarcimento e in casi gravi specifici, addirittura la reclusione.

Cos’è il mobbing

Per mobbing s’intende una serie di comportamenti vessatori che si ripetono nel tempo ed effettuati nei confronti di un lavoratore, da parte di un datore di lavoro o di un suo superiore, ma talvolta anche da colleghi nel contesto lavorativo.

Il codice civile stabilisce, in relazione al contratto di lavoro, l’obbligo del datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e psicologica del dipendente e la sua corresponsabilità per le condotte tenute dai propri dipendenti.

La Cassazione, pertanto, definisce il mobbing come una violazione dell’obbligo di sicurezza del datore di lavoro. Poiché si tratta di un’ipotesi di responsabilità contrattuale, il Giudice cometenete è quello del lavoro.

Responsabilità del datore di lavoro

Per quanto detto sino ad ora, il datore di lavoro è ritenuto responsabile non solo di un suo comportamento lesivo nei confronti di un lavoratore, ma anche dell’eventuale condotta illecita posta in essere da uno dei suoi dipendenti in quanto non ne ha rimosso il fatto lesivo. Inoltre, non si può escludere la responsabilità del datore di lavoro quando i fatti lesivi siano effettuati da un dipendente che ricopre il ruolo di superiore rispetto alla vittima di mobbing.

Pertanto, il datore di lavoro ha il dovere di vigilare sul comportamento dei dipendenti e adottare azioni necessarie per far cessare tali condotte in modo concreto ed efficace, in quanto un intervento pacificatore non lo esonera dalla responsabilità a risarcire i danni.

La Giurisprudenza attribuisce rilevanza al mobbing quando ravvisa il protrarsi nel tempo del comportamento lesivo. Ossia, quando la natura vessatoria è svelata da una serie di elementi quali frequenza, sistematicità, durata nel tempo, progressiva intensità, coscienza e volontà di aggredire, disturbare, perseguitare, svilire la vittima.

Secondo la Giurisprudenza, è necessario individuare la linea di confine del mobbing e normali conflitti d’ufficio rientranti nella fisiologica prassi quotidiana della generalità dei luoghi di lavoro.

Il datore di lavoro evita il reato di mobbing se…

Le lesioni personali che stabiliscono la sussistenza del mobbing, vengono meno se le azioni ostili sono sporadiche e non riguardano attacchi alla reputazione della persona, violenze o minacce delle stesse, che non abbiano carattere persecutorio e discriminatorio, che non portino all’isolamento, al demansionamento, a minacce di licenziamento, all’abuso nei controlli datoriali e l’imposizione di comportamenti non rilevanti ai fini della prestazione lavorativa.

Il mobbing è rappresentato da una situazione di lavoro di conflittualità sistematica, persistente e in costante progresso in cui una o più persone vengano fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e qualità.

Invece, se lo stato ansioso-depressivo della presunta vittima di mobbing è riconducibile all’apporto di modifiche all’organizzazione del lavoro, dunque, un’azione legittima da parte del datore di lavoro, non sussiste una responsabilità risarcitoria del datore di lavoro.

L’atto di mobbing va dimostrato dal ricorrente

Stabilire se si è subito un atto di mobbing non è affatto semplice. La vittima ricorrente deve dimostrare l’abuso del superiore o del datore di lavoro oltre i limiti del suo ruolo. Messaggi, telefonate e testimonianze, possono costituire prove dell’accaduto. Pertanto, ogni caso singolo è da analizzare e il compito del Giudice del lavoro nel condannare o meno il datore del lavoro è qualcosa di delicato quanto complesso.

Le conseguenze sull’azienda

Un caso conclamato di mobbing è lesivo per l’azienda, non solo perché il datore di lavoro dovrà rispondere del risarcimento del danno in forma economica, ma perché l’accaduto può creare un clima di mancata serenità aziendale con un conseguente rendimento minore da parte dei dipendenti e, quindi, meno produttività e un ulteriore danno economico per l’azienda.

Oltre alle questioni legate ai costi, per le aziende ci sono gravi conseguenze anche sul piano sociale: se i dipendenti si dimostrano scontenti delle condizioni di lavoro a cui sono sottoposti e ne parlano al di fuori delle mura aziendali, l’immagine della stessa ne risente inevitabilmente e la concorrenza può approfittarne.

Mobbing come reato

Oltre al pagamento del risarcimento del danno, il datore di lavoro che viene condannato per lesioni personali da mobbing rischia di subire un procedimento penale ed essere condannato ad una pena. La legge stabilisce che chi procura ad altri, con la propria condotta, delle lesioni personali è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni.